Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita Ristretti Orizzonti, 7 ottobre 2016 20 gennaio 2017, Casa di reclusione di Padova. Giornata di dialogo con ergastolani, detenuti con lunghe pene, e con i loro figli, mogli, genitori, fratelli, sorelle. Da tempo la redazione di Ristretti Orizzonti pensava a una giornata di dialogo sull’ergastolo, ma anche sulle pene lunghe che uccidono perfino i sogni di una vita libera, una giornata che avesse per protagonisti anche figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle di persone detenute, perché solo loro sono in grado di far capire davvero che una condanna a tanti anni di galera o all’ergastolo non si abbatte unicamente sulla persona punita, ma annienta tutta la famiglia. Per anni siamo rimasti intrappolati in questa logica che "i tempi non sono maturi" per parlare di abolizione dell’ergastolo, e quindi non ci abbiamo creduto abbastanza, non abbiamo avuto abbastanza coraggio. Ma poi un pensiero fisso ce l’abbiamo, ed è quello che ci spinge a fare comunque qualcosa: non vogliamo abbandonare quelle famiglie, non vogliamo far perdere loro la speranza. Allora il 20 gennaio 2017 invitiamo a dialogare, con le persone condannate a lunghe pene e all’ergastolo e i loro figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle: - parlamentari che si facciano promotori di un disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo e che si attivino per farlo calendarizzare, o che comunque abbiano voglia di confrontarsi su questi temi; - uomini e donne di chiese e di fedi religiose diverse, perché ascoltino le parole del Papa, che ha definito l’ergastolo per quello che è veramente: una pena di morte nascosta; - uomini e donne delle istituzioni, della magistratura, dell’università, dell’avvocatura, intellettuali, esponenti del mondo dello spettacolo, della scuola, cittadini e cittadine interessati. Non vogliamo aver paura di parlare apertamente di abolizione dell’ergastolo, di quello ostativo ma anche di quello "normale", perché il fine pena mai non può in nessun caso essere considerato "normale". Ma non vogliamo neppure avere solo obiettivi alti, e poi dimenticarci di come vivono le persone condannate all’ergastolo o a pene lunghe che pesano quanto un ergastolo. È per questo che proponiamo di dar vita a un Osservatorio, su modello di quello sui suicidi: - per vigilare sui trasferimenti da un carcere all’altro nei circuiti di Alta Sicurezza; - per mettere sotto controllo le continue limitazioni ai percorsi rieducativi che avvengono nelle sezioni AS (poche attività, carceri in cui non viene concesso l’uso del computer, sintesi che non vengono fatte per anni); - per monitorare la concessione delle declassificazioni, che dovrebbe essere, appunto, non vincolata a relazioni sulla pericolosità sociale che risultano spesso stereotipate, con formule sempre uguali e nessuna possibilità, per la persona detenuta, di difendersi da accuse generiche e spesso prive di qualsiasi riscontro. Nessuno sottovaluta il problema della criminalità organizzata nel nostro Paese, e il ruolo delle Direzioni Antimafia, ma qui parliamo di persone in carcere da decenni, già declassificate dal 41 bis perché "non hanno più collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza", e parliamo di trasferirle da un circuito di Alta Sicurezza a uno di Media Sicurezza, non di rimetterle in libertà; - per accogliere le testimonianze e le segnalazioni dei famigliari delle persone detenute, che non trovano da nessuna parte ascolto: - per raccogliere sentenze e altri materiali, fondamentali per non farsi stritolare da anni di isolamento nei circuiti di Alta Sicurezza e per spingere la Politica a occuparsi di questi temi con interrogazioni e inchieste; - per cominciare a mettere in discussione, finalmente, il regime del 41 bis con tutta la sua carica di disumanità; - per rendere tutto il sistema dei circuiti di Alta Sicurezza e del regime del 41 bis davvero TRASPARENTE. Di tutto questo parleremo il 20 gennaio 2017 a Padova, vi aspettiamo. La redazione di Ristretti Orizzonti Sento di avere fatto poco per la vera battaglia, che è quella di far abolire l’ergastolo di Angelo Morabito, carcere di San Gimignano Ristretti Orizzonti, 7 ottobre 2016 Sono Angelo Morabito, detenuto ergastolano (non ostativo), è dal 1996 che mi trovo in carcere, in regime di Alta Sorveglianza. Ho letto la richiesta di contributi scritti rivolta ai condannati all’ergastolo e ai loro familiari. Condivido ogni ragionamento scritto e pensato da voi tutti. Se non saremo noi ergastolani in primis a credere nell’abolizione dell’ergastolo, sarà mi duole dirlo, una battaglia persa. Oltre ad avere tantissimi amici e paesani condannati all’ergastolo, ho anche un fratello, si trova in regime AS1, presso la Casa di Reclusione di Voghera. Siamo stati arrestati insieme, ma condannati all’ergastolo da due diverse procure, (io a Milano, mio fratello Francesco a Reggio Calabria). Anche mio fratello non è ostativo, ma il sistema non funziona assolutamente quando si tratta di applicare quanto previsto dalle leggi e dai vari codici a nostro favore, è da più di un decennio che ci dovremmo trovare in Media Sicurezza. Comunque, non intendo polemizzare o strumentalizzare attraverso questa mia lettera, bensì cercare di dare il mio piccolo contributo che unito a tanti altri, magari riuscirà a scuotere le coscienze dei nostri governanti. Prima di cominciare, vorrei mettervi a conoscenza che finalmente, dopo vent’anni di detenzione, sono uscito in permesso. I miei primi diciotto anni di carcere li avevo trascorsi interamente presso le carceri milanesi, e proprio lì a Milano, dove sono stato condannato all’ergastolo, proprio nell’ottobre 2014 ero riuscito ad ottenere il primo permesso premio. Purtroppo non ho potuto usufruirne poiché nel mese di settembre, dello stesso anno, sono stato trasferito per sfollamento presso San Gimignano, e ho dovuto aspettare quasi due anni per acquisire nuovamente il beneficio. Sono di Reggio Calabria, ho appena compiuto cinquant’anni. Per fortuna o sfortuna non sono sposato, né tantomeno legato sentimentalmente con qualcuna. Oggi però posso dire che mi manca tanto una donna con cui condividere la mia vita e i miei sentimenti. Sono fortunato però, perché siamo una famiglia numerosa, dodici figli, otto femmine e quattro maschi. In questi vent’anni trascorsi dietro le sbarre, devo dire grazie a loro se oggi sono ancora una persona che crede alla libertà, a quella luce che è rimasta sempre accesa dentro di me, credendoci sempre a un futuro libero. Non hanno mai smesso di sostenere me e mio fratello, a volte penso a tutti quei compagni che per vari motivi non hanno avuto questo sostegno, non è facile convivere con l’ergastolo. Sicuramente, il sistema penitenziario è molto carente dal punto di vista di quello di cui ogni famiglia di noi altri detenuti ergastolani ha bisogno. Andrebbe migliorato questo sistema, purtroppo si tende sempre a penalizzare e a reprimere, piuttosto che a dare veramente quel sostegno e contributo che può alleviare di gran lunga persino le sofferenze patite dai nostri familiari, che sicuramente anche loro si trovano a scontare un ergastolo quotidiano, per via delle tantissime cose sbagliate nel sistema penitenziario. Quando sono stato condannato all’ergastolo, mi è proprio cascato un grattacielo addosso, immaginate poi i familiari cosa hanno provato e sentito. Di certo non mi è stato fatto un giusto processo, ovviamente detto da me è come dire oltre che di parte, scontato. A mio favore c’è un’assoluzione in primo grado che ancora grida vendetta. All’ergastolo sono stato condannato in Appello, senza riapertura di dibattimento, ma soprattutto senza nuove prove. Ancora oggi non me ne sono fatto una ragione, non riesco a capire il perché di questa condanna che ritengo ingiusta. Pensando poi a quanto ti segna la galera, ci sarebbe tanto da dire. A mio avviso è un tempo di vita, pur se si tratta di una vita caratterizzata da tanti fattori negativi, credo che un’arma che ti aiuta molto sia la lettura. Leggere, informarsi, studiare, lavorare se esiste la possibilità, sono attività che ti aiutano tantissimo specialmente ad affrontare le lunghe nottate, si deve avere e sentire dentro sempre speranza e fiducia. Sono dello stesso parere vostro, siamo nati liberi, e ritorneremo a esserlo. Non c’è dubbio che la carcerazione ti segna moltissimo, trovandosi ristretti per molti anni, il corpo, i sensi, ne risentono tantissimo. Soffro di diversi disturbi, esempio banale, non vedere più bene, è fuor di dubbio che sia stata la carcerazione a causare questi problemi, sappiamo bene gli impianti d’illuminazione come sono in tutte le carceri italiane, ho perso una buona percentuale di udito, ho problemi seri alla schiena, problemi di pressione, e come la maggior parte di noi detenuti, sono ansioso, stressato, con problemi gastrointestinali. Anche su questo capitolo potremmo davvero dedicare tantissime pagine. C’è una domanda scritta da voi, che fa riflettere almeno a me tantissimo: preferisci la pena di morte o l’ergastolo? Si dovrebbe analizzare attentamente, la mia coscienza mi porta obbligatoriamente a dire "meglio l’ergastolo". Forse ciò scaturisce dal fatto che oltre ad essere contrario alla pena di morte, credo fermamente che l’uomo non abbia nessun diritto di decidere sulla vita o morte di un’altra persona. È ovvio che ritorniamo alla questione principale che interessa tutti noi altri in questa condizione da reclusi a vita, e cioè quanta pena, condanna, si dovrebbe scontare avendo commesso un omicidio, o essendo stati condannati all’ergastolo pur non avendo commesso alcun omicidio. Per mia esperienza, se le autorità preposte, e cioè l’area rieducativa-pedagogica, le direzioni di ogni Istituto Penitenziario, la Sorveglianza interna, e la Sorveglianza esterna, funzionassero ma veramente, monitorando una persona sin dal principio della carcerazione, attraverso un vero percorso di recupero, sono certo che dopo un massimo di dieci anni, il reo potrebbe avere un inizio di percorso extra-murario. Capisco bene che quanto ho detto potrà sembrare esagerato, anche perché bisognerebbe vedere i tempi che ci mettono per processare una persona, sento di affermare però questo mio pensiero perché una persona può cambiare, e non necessariamente bisogna aspettare trenta o quarant’anni, o addirittura farlo morire in carcere. Credo fortemente che noi tutti che viviamo questa condizione da reclusi a vita, dovremmo avere più stimoli e prendere varie iniziative, non si può vivere in questa situazione aspettando che sia sempre l’altro a lottare per te. In prima persona mi ci metto io, si ho sempre avuto contatti con varie associazioni di volontariato, ho cercato nel mio piccolo di mandare sempre qualche contributo, ma sento di avere fatto poco o nulla per la vera battaglia, fare abolire l’ergastolo. Spero tanto che il convegno che si terrà a Padova sia veramente la via maestra affinché si riesca a sensibilizzare l’opinione pubblica e soprattutto i nostri parlamentari, sì è giusto che chi ha sbagliato deve pagare, ma non bisogna vendicarsi. Buon convegno, tanti saluti. Il Direttore generale dei detenuti e del trattamento nella redazione di "Ristretti Orizzonti" di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 7 ottobre 2016 Ho notato, durante l’ora d’aria, che gli ergastolani si muovono più lentamente degli altri detenuti. Sembra che non hanno fretta. Chissà perché? Forse perché ormai vivono fuori dal tempo e non si aspettano più nulla di buono dalla vita. (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com) In questo quarto di secolo di carcere duro, ho visto cose che voi umani del mondo libero non vi potete immaginare. E pensavo di averle viste tutte. Mi sbagliavo. Oggi, il direttore generale dei detenuti e del trattamento presso il Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria, dott. Roberto Piscitello insieme al dott. Carlo Villani, sono venuti nella redazione di "Ristretti Orizzonti". Si sono seduti intorno a un tavolo a confrontarsi e a discutere con ergastolani e detenuti di "Alta Sicurezza" e "Media Sicurezza". Loro hanno parlato poco, ma la cosa più importante è che hanno ascoltato molto. Si è parlato di tante cose e noi della redazione abbiamo toccato vari argomenti: "Il carcere così com’è produce e fabbrica carcerati e criminali. Il regime del 41 bis e i circuiti di Alta Sicurezza ne producono molto di più." "In noi c’è il bene e il male e a volte sta anche alla società (e al carcere) tirare fuori l’uno o l’altro. La cultura criminale viene appresa, non è innata nell’uomo. Non esiste alcuna forma di eredità culturale di questo tipo. Il libero arbitrio non può fare nulla quando sei già diventato culturalmente criminale. Poi è troppo tardi. E al massimo riesci a decidere solo di diventare un criminale senza perdere la tua umanità". "Nelle sezioni di Alta Sicurezza, nella maggioranza dei casi si dorme solo per svegliarsi e poi dormire di nuovo distaccati ed estraniati dal resto del mondo." Siamo come cadaveri in attesa di essere sepolti. A differenza di loro abbiamo la vita, ma che vita? "La pena dovrebbe essere una medicina e dovrebbe tirare fuori a chi la sconta il senso di colpa. In tutti i casi la giusta pena dovrebbe essere quella necessaria, mai un giorno in più piuttosto uno in meno." "Come fa una pena che non finisce mai a rieducare qualcuno? E se anche lo fosse, mi rieducano per portarmi rieducato alla tomba? Io andrei a spazzare le strade della città dove ho commesso reati, nei pronto soccorso ad aiutare la gente, insomma vorrei fare qualcosa che dimostri ai ragazzi che l’illegalità non paga e qualcosa di socialmente utile che dia un senso alla pena e alla vita." "È molto difficile fare una revisione critica quando pensi che i tuoi educatori, guardiani e governanti sono peggiori di te. Ho studiato giurisprudenza per dare uno scopo alla mia pena, difendere i miei diritti e quelli dei miei compagni. L’altra faccia della medaglia è constatare la grande differenza che c’è fra diritti dichiarati e quelli applicati." "Spesso i detenuti imbrattano le pareti delle loro celle di frasi d’amore e di affetto probabilmente perché la cosa che manca di più in carcere è l’amore sociale e familiare. Ci si abitua a farlo con il pensiero, ma non è la stessa cosa che farlo fisicamente." "Muoversi tra le mura di un carcere è sempre un intrigo assurdo e surreale e spesso sembra di trovarsi in un labirinto perché non riesci mai a trovare una via d’uscita per risolvere il problema più semplice." "La redazione di Ristretti Orizzonti, con i suoi componenti diversi, detenuti di Alta Sicurezza e Media Sicurezza con i loro scritti e le loro testimonianze, forse in questo momento è una delle poche realtà che stanno lottando per sconfiggere la cultura criminale, perché questo fenomeno non si sconfigge solo militarmente." Per noi detenuti ed ergastolani è stata una giornata importante e indimenticabile, in cui poter guardare negli occhi chi da anni governa le loro vite, e per la prima volta alcuni di noi si sono sentiti persone. Dottor Piscitello e Dottor Villani, buon lavoro. Un sorriso fra le sbarre. Carceri sovraffollate: maglia nera a Italia e Ungheria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 ottobre 2016 Libro Bianco presentato al Comitato dei ministri del consiglio d’Europa. Il sovraffollamento delle carceri è un problema ricorrente per molte amministrazioni penitenziarie in Europa. È quello che emerge dal libro bianco sul sovraffollamento delle carceri, redatto dallo European Committee on Crime Problems (Cdpc) e presentato al comitato dei ministri del consiglio d’Europa. La relazione, nel paragrafo 23 relativo al capitolo sulla situazione attuale - bacchetta in particolar modo l’Italia e Ungheria. Ha ricordato che la Corte europea ha più volte evidenziato questo problema strutturale nei due Stati. Ha ribadito che in questo contesto la soluzione più appropriata per il problema sarebbe l’applicazione di più misure alternative ai condannati e ridurre al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Ha comunque riconosciuto che l’Italia - soprattutto dopo la sentenza Torreggiani - ha avviato delle riforme che vanno nella giusta direzione. In generale il libro bianco denuncia che, malgrado i numerosi interventi sul piano internazionale, nel 2014 la durata della detenzione è aumentata dell’1% raggiungendo la percentuale, in alcuni Paesi, del 5%. Aumentati del 2,1% i detenuti chiamati a scontare una pena superiore ai 10 anni. Nel libro bianco, inoltre, è ricordata l’importanza di adottare misure in grado di assicurare il pieno rispetto dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta trattamenti inumani e degradanti come interpretati dalla stessa Corte di Strasburgo, anche in ragione di un dato comune a molti Stati ossia un allungamento delle pene che crea maggiori problemi di reinserimento nella società. Le principali sfide - si evince sempre dal libro bianco - oggi sono quelle di garantire il rispetto dei diritti umani e la gestione efficiente degli istituti di pena. Come già accennato, vi è un rischio di violazione dell’articolo 3 della Cedu a causa delle condizioni di sovraffollamento e carceri degradanti. Questo è il motivo per cui la Corte europea dei diritti dell’uomo raccomanda la sostituzione di vecchi e usurati edifici carcerari con nuove prigioni moderne offrendo condizioni umane di detenzione: secondo la relazione, i nuovi istituti penitenziari sostitutivi possono costare meno ed essere più adeguati alle esigenze dei detenuti per la risocializzazione e reinserimento nella società. Giustizia. Meno riforme, più misure mirate di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2016 Uno scorcio di legislatura che, sulle politiche della giustizia, deve essere all’insegna del pragmatismo. Abbandonando velleità di riforme di struttura per scommettere invece su una serie di misure che all’avvocatura stanno molto a cuore. Quelle che ha indicato Andrea Mascherin nella relazione che ha aperto i lavori del XXXIII Congresso nazionale forense in corso a Rimini. Il presidente del Cnf (Consiglio nazionale forense) ha messo l’accento sull’impegno del Consiglio che ha ormai messo a punto un disegno di legge per garantire un compenso equo agli avvocati nei rapporti con i grandi clienti (banche, imprese) cancellando il rischio di clausole vessatorie. Di più, dal ministero della Giustizia il Cnf si aspetta anche un cambio di passo sulla presenza degli avvocati nei consigli giudiziari. Presenza che, a dire dello stesso ministro Andrea Orlando, dovrà contemplare anche una possibilità di giudizio dei legali nella valutazione dei magistrati. Una previsione che è già inserita nell’articolato messo a punto dalla commissione Vietti sul nuovo ordinamento giudiziario, ma che potrebbe e, per il Cnf, dovrebbe essere stralciata per essere inserita in un provvedimento da presentare subito in Parlamento. Parlamento dove dovrebbe marciare, tra l’altro, in maniera ora abbastanza spedita il disegno di legge Falanga (in discussione al Senato) per rivedere la disciplina delle elezioni forensi, dove la "quadra" potrebbe essere rappresentata dalla regola dei due terzi, con liste cioè presentate per il massimo dei due terzi dei posti di consigliere disponibile con rispetto della rappresentanza di genere. Ma anche su questo serve un chiarimento da parte del ministero. Da Mascherin arriva poi un’ampia apertura per forme di soluzione stragiudiziale delle controversie sul modello della negoziazione assistita. Con una forte presenza degli avvocati, cioè. Senza però che a questa disponibilità anche per una loro espansione si accompagnino da parte della politica nuove improvvisazioni sul processo civile. No, per esempio, da Mascherin, alle ricorrenti tentazioni di un allargamento drastico del rito sommario di cognizione, come pure all’estensione delle competenze dei giudici di pace. Consenso pieno, invece, di Mascherin per gli sforzi del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sul piano dell’organizzazione, troppo spesso trascurato. Dal processo telematico alle recenti assunzioni di personale di cancelleria allo sblocco dei concorsi in magistratura. La disponibilità dell’avvocatura per un salto di qualità nell’efficienza del sistema giustizia è stato forse l’unico punto di convergenza tra Mascherin e Mirella Casiello, presidente dell’Oua, ai ferri corti sul tema della rappresentanza politica. Casiello ha sottolineato come tocca innanzitutto all’avvocatura modificare radicalmente il proprio atteggiamento, muovendo dalla considerazione che nel giudizio civile si parte sempre da una richiesta di parte indirizzata alla tutela di diritti soggettivi. Richiamando quell’"etica delle convenienza", messa in evidenza dal presidente dell’Ordine di Milano, Remo Danovi, Casiello ha ricordato che per i cittadini è fondamentale puntare a una massimizzazione del vantaggio che può arrivare da un accordo raggiunto velocemente e con le garanzie di competenza che gli avvocati assicurano. E su questo punto Casiello mette in risalto la necessità di percorsi di formazione all’altezza dei nuovi compiti. Al via il congresso forense. "L’avvocatura è una forza della democrazia" di Errico Novi Il Dubbio, 7 ottobre 2016 Quasi mille delegati, altri mille partecipanti e un Palacongressi di Rimini gremito e persino vibrante. Ieri è ufficialmente iniziato il ventitreesimo Congresso nazionale forense. I lavori sono stati aperti dal presidente del Cnf, Andrea Mascherin che nel suo discorso ha affrontato i temi più importanti dell’avvocatura italiana e della giustizia. E l’idea di una fase nuova, in cui l’avvocatura è promotore sociale come mai in passato, e che trova un suggello anche nel messaggio di saluto del Capo dello Stato Sergio Mattarella: "I temi del congresso confermano la centralità del vostro ruolo nell’amministrazione della giustizia". A leggere alla platea della sala grande le parole del presidente della Repubblica è Giovanna Olla, presidente dell’Ordine di Rimini. È un momento chiave e gli avvocati lo avvertono. Lo si legge nei dati di un congresso che fa impressione fin dai numeri: 929 delegati che diventano quasi il doppio se vi si aggiungono tutti i partecipanti. Un Palacongressi di Rimini gremito e persino vibrante, in cui si impongono due pilastri: da una parte "il ruolo dell’avvocatura destinata a diventare sempre più centrale nella democrazia", di cui parla il presidente del Cnf Andrea Mascherin, dall’altra le forme di rappresentanza con cui questo maggiore peso deve esprimersi. E il tutto si intreccia con la necessità di rispondere al disagio economico di cui soffre anche la classe forense. Soprattutto su questo alzano i toni dell’intervento di Mirella Casiello, presidente dell’Oua: la sopravvivenza stessa dell’Organismo è nodo tra i più difficili da sciogliere e che non a caso attrae gran parte degli interventi del pomeriggio. La prima giornata del ventitreesimo Congresso nazionale forense è dunque tesa e partecipata allo stesso tempo: Mascherin e Casiello intervengono a inizio lavori, insieme con il presidente di Cassa Forense Nunzio Luciano. L’idea di una fase nuova, in cui l’avvocatura è promotore sociale come mai in passato, trova un suggello anche nel messaggio di saluto del Capo dello Stato Sergio Mattarella: "I temi del congresso confermano la centralità del vostro ruolo nell’amministrazione della giustizia". A leggere alla platea della sala grande le parole di Mattarella è Giovanna Ollà, presidente dell’Ordine di Rimini. Che poi offre una chiave anche severa, all’uditorio, sulle condizioni della professione: "Come diceva Darwin, non sopravvive la specie più forte ma quella che sa reagire in modo più rapido al cambiamento". E però il cambiamento, per il vertice del Consiglio nazionale forense Mascherin, è da cogliere come una svolta del tutto positiva: "L’avvocatura è il vento della democrazia, e quel vento sarà inarrestabile se avrà la forza di tutta l’avvocatura unita". Inizia così un intervento che poi non si ferma sul tema della rappresentanza ma soprattutto sulla "contingenza favorevole per una affermazione di un ruolo della classe forense come forza centrale di un sistema sociale solidale". Tutto sta, secondo il vertice del Cnf, a non sottovalutare alcuni passaggi qualificanti per la professione: "Le misure alternative al processo", innanzitutto, "perché su di esse si può costruire la rinnovata fiducia dei cittadini nei confronti degli avvocati, come certificatori della volontà delle parti e dunque dei diritti". In questo si realizza, dice Mascherin, "anche l’obiettivo di porci come fattore di equilibrio in un sistema ancora gravato da molti squilibri". E in proposito cita "la riforma del processo penale: il presidente dell’Anm Davigo ha assunto una posizione critica sull’intero ddl, ma soprattutto sul fatto che i processi possano essere non eterni e che i pubblici ministeri debbano essere chiamati a prendere decisioni sull’esercizio dell’azione penale entro un tempo ragionevole". Forzature che non tollerano cedimenti da parte della politica. D’altronde "al ministro della Giustizia Orlando va riconosciuta l’apertura a un dialogo costruttivo con l’avvocatura, che era stato di fatto negato dai suoi predecessori: ha compiuto uno sforzo di equilibrio sulla riforma penale, di fronte al quale anche noi siamo chiamati a compiere un atto di realismo e a guardare agli obiettivi ragionevolmente raggiungibili". Tra questi però c’è la definizione di "una legge sull’equo compenso". In proposito Mascherin auspica che Orlando "dia buone notizie" nel suo intervento, previsto per domani mattina. L’aspettativa diffusa è che il guardasigilli annunci definitivamente di "voler presentare in materia un proprio disegno di legge". Ma altre risposte "sono attese innanzitutto sulla definizione del legittimo impedimento per le avvocate in gravidanza, mentre toccherà probabilmente a noi farci carico di gestire il cambiamento in tema di avvocati mono committenti: l’esistenza di questa condizione è un fatto e sarà meglio se nel regolarla ci faremo parte attiva". Mascherin infine ricorda la necessità di mettere fine alla "spettacolarizzazione televisiva del processo penale: una distorsione che condiziona le Corti di Assise soprattutto, e i gip che decidono sulle misure cautelari". Resta chiara l’idea che il presidente del Cnf vede nel futuro della avvocatura: "Essere riconosciuta come punto di riferimento più solido di altri, nel frattempo messi in discussione". Ma per la presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura, Casiello, resta irrisolto il nodo delle forme di rappresentanza: "Il Congresso non può essere compresso, resta il luogo in cui si esprime la nostra libertà". Dalle assise di Rimini per Casiello "dovrebbe anche muovere una protesta, perché la condizione economica degli avvocati urge risposte non rinviabili". Si impegna ad assicurarle, per quello che gli compete, il presidente della Cassa forense Nunzio Luciano, che ricorda "i nuovi campi di intervento della nostra previdenza, a cominciare dal sostegno alle famiglie". Non lasciare "mai indietro alcuno" è d’altronde per Mascherin il pilastro su cui dovrà fondarsi non solo il cammino dell’avvocatura ma quello dell’intera società italiana. Che nel suo cuore, aggiunge, "troverà sempre più negli avvocati la forza irrinunciabile per uno Stato solidale e mai più illuso dalla falsa infallibilità del mercato". Cantone: "Più intercettazioni contro la corruzione, la privacy non vale per chi ruba" di Alberto Berlini today.it, 7 ottobre 2016 Il Magistrato Raffele Cantone, presidente dell’autorità anticorruzione tratteggia il dipinto di un paese che non sa indignarsi davanti alla corruzione, un fenomeno che viene visto come "normale". "È normale, lo fanno tutti", la corruzione in Italia è ancora oggi un fenomeno percepito come una illegalità con cui convivere. "Un comodo alibi che abbiamo constatato anche ad Expo dove era considerato normale lavorare per chi aveva condanne passate in giudicato". Il grido di rabbia è quello di Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anticorruzione, che Today ha incontrato nel corso della presentazione del libro del commissario dell’Anac Michele Corradino in cui vengono riportati ampi stralci di intercettazioni riportate in inchieste giudiziari che rivelano giornalmente il livello di assuefazione alla corruzione del Bel Paese dove si assiste anche al dialogo surreale in cui una madre consola il figlio che non riesce ad essere corrotto quanto il padre. Un chiaro intento: "Provocare la rabbia contro chi si arrende". "Devo essere chiaro - spiega Cantone - non bastano le norme ma occorre un cambio di cultura: è necessario ribaltare l’assunto che senza corruzione non si possa vivere. Non deve essere un alibi. Lo stesso Papa Francesco ha parlato di corruzione come peccato mortale ricordando come un corrotto non ha bisogno di chiedere perdono perché nasce come un patto che porta benefici anche al corruttore". "Dobbiamo ribaltare il pensiero comune, l’informazione è essenziale mentre non si contano gli attacchi contro i giornalisti che vengono accusati di sporcare l’immagine del paese. L’informazione è essenziale, e la privacy non vale per chi ruba. La corruzione è legata alla salute di un paese e alla sua economia: più alta è la corruzione meno ricerca si fa e più le persone capaci fuggono all’estero". "Anche in Mafia Capitale la corruzione diventa un reato secondario per gli imputati che invece impostano la loro difesa solo per smarcarsi dal reato di associazione mafiosa. Deve esserci certezza della pena per i corrotti che devono essere esclusi dal sistema. La corruzione va equiparata alla mafia poiché usa strumenti di omertà molto simili. Sarebbe bene il sequestro dei beni frutto da illeciti". Come nel caso Balducci. "Il suo il primo caso di sequestro, ma non sempre percorribile secondo la norma. È il caso dei tre vigili infedeli di Napoli, il cui reato è stato prescritto e sono rimasti al lavoro nonostante le gravi accuse di corruzione. Ancora nelle scuole si assiste all’idea della corruzione come un normale scambio di favori. Dai dati che abbiamo emerge con chiarezza l’importanza di un istituto come quello delle intercettazioni telefoniche: nel 90% dei casi è proprio tramite dei dialoghi intercettati che vengono alla luce episodi di corruttele. È quanto mai indispensabile ampliare le modalità di accertamento tramite intercettazioni, prevedendo l’uso di questo strumento non per gravi ma anche per sufficienti indizi". Quali gli strumenti? "Si è molto parlato dell’istituto della Vedetta Civica sul modello della whistle-blowing anglosassone. La Camera ha approvato le norme che introducono tutele per chi denuncia i colleghi corrotti sperando che servano a superare la reticenza italica a segnalare illeciti, ma il disegno di legge che aumenta della metà i tempi della prescrizione per la corruzione, approvato nel marzo 2015 alla Camera, è impantanato al Senato. C’è anche un problema di cultura come si evince anche dall’uso delle parole: in italiano la traduzione dell’inglese whistleblowing finisce con il ricadere in termini con significato negativo come delatore, spia, pentito, collaboratore di giustizia. Inoltre il Parlamento deve adoperarsi per estendere la tutela anche ai dipendenti privati e non come ora ai soli dipendenti pubblici. Senza arrivare al concetto anglosassone della "taglia" e della ricompensa, il concetto che deve passare è quello che chi gira la testa è complice". In Italia si finisce dietro le sbarre per lo più per fatti legati alla droga. Nel 2014 solo 228 sui 54.252 detenuti era in carcere per sentenze definitive per riciclaggio, insider trading, falso in bilancio, aggiotaggio, fondi neri e corruzione. In Germania il dato è dell’11%, in Spagna del 3,1. I detenuti con alle spalle una sentenza definitiva per corruzione sono 126, per peculato 26, per concussione appena 11. Succede perché, spesso, chi commette un illecito di questo tipo si salva con la prescrizione, una nobile garanzia per l’imputato divenuta una scappatoia che garantisce una sorta di impunità per tutta una serie di reati. La classifica annuale di Transparency International sulla percezione dei reati commessi nella pubblica amministrazione pone l’Italia al 61° posto in compagnia di Senegal e Sud Africa, in Europa solo la Bulgaria fa peggio. Nel 2015 per la prima volta nella storia repubblicana un leader politico è stato riconosciuto colpevole di essersi comprato un senatore per far cadere il governo avversario. Mafia capitale. Il pm: "Buzzi mente". Richiesta di archiviazione per 116 imputati Il Dubbio, 7 ottobre 2016 La procura di Roma ha chiesto al gip l’archiviazione per 116 indagati nell’ambito dell’inchiesta "Mafia Capitale" non riscontrando elementi per proseguire le indagini. Nella lista dei "salvati" ci sono politici, imprenditori e professionisti. Oltre al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, la Procura ha chiesto di archiviare la posizione di Vincenzo Piso, parlamentare, ex Popolo della Libertà e ora iscritto al gruppo Misto. "Le dichiarazioni di Salvatore Buzzi sono apparse sospette e ancorate a una precisa strategia difensiva, proiettata a dimostrare la propria estraneità all’associazione di tipo mafioso contestatagli e ad accreditarsi davanti agli inquirenti quale collaboratore dell’autorità giudiziaria, effettuando talune ammissioni di responsabilità in relazione a fatti per i quali sussiste una sovrabbondanza probatoria e rivolgendo accuse nei confronti di altri soggetti indicati come partecipi a reati contro la pubblica amministrazione". Se non è un anticipo di requisitoria, poco ci manca. Nel sollecitare al gip Flavia Costantini la richiesta di archiviazione per 116 nomi finiti tra gli indagati in "Mafia capitale" la Procura ieri si è soffermata a lungo proprio sulla figura di Buzzi e Massimo Carminati. Buona parte dei 116 indagati, sui quali la procura ha chiesto l’archiviazione, è stata tirata in ballo proprio da Buzzi nei numerosi interrogatori resi in carcere la scorsa estate. Verbali zeppi di nomi, date e circostanze su cui gli inquirenti hanno dovuto fare un delicatissimo lavoro di verifica per poi concludere che "le parole di Buzzi sono state spesso il frutto di notizie raccolte de relato oppure non sono risultate corroborate o suffragabili da idonei riscontri. La reticenza di Buzzi sui fatti da lui commessi e su alcuni soggetti - hanno osservato i pm nel documento inviato al gip - incide negativamente sulla sua attendibilità intrinseca, per cui le sue dichiarazioni vanno vagliate con particolare attenzione e prudenza". L’elenco, su cui dovrà a breve pronunciarsi il giudice Flavia Costantini, contempla politici, amministratori, imprenditori, vecchi esponenti della destra eversiva, alcuni dei quali sono stati semplicemente iscritti sul registro degli indagati a seguito di dichiarazioni accusatorie di altre persone (Salvatore Buzzi "in primis"). L’elenco degli "archiviandi" per l’associazione di stampo mafioso contempla anche i nominativi di Riccardo Mancini, ex ad di Ente Eur spa, dell’ex sindaco Gianni Alemanno e del suo ex capo della segreteria personale Antonio Lucarelli. È di ieri l’altro la notizia della richiesta di archiviazione anche per il Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. Caso Cucchi: "Se fosse sopravvissuto pestaggio, sarebbe rimasto invalido" di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 7 ottobre 2016 La perizia commissionata dal Tribunale porta alla luce nuove fratture nel corpo del ragazzo. E giudica gravissime le lesioni recenti riportate. Tumefazioni al volto, fra le tempie e le labbra. Tracce di emorragia fra lombi e inguine. Fratture in due punti della colonna vertebrale. Se nei confronti di Stefano Cucchi si fosse potuto procedere a un regolare referto, se anziché morire a sette giorni dal suo arresto e dal pestaggio violento a cui fu sottoposto si fossero esaminate le lesioni riportate, allora, secondo gli esperti, il ragazzo non avrebbe potuto cavarsela con meno di sei mesi di prognosi. E se anziché morire fosse sopravvissuto comunque avrebbe riportato un’invalidità permanente. Tra le certezze raggiunte dall’ultima perizia della procura c’è anche questa. Si tratta di una conclusione che aiuta a pesare l’intensità delle percosse alle quali fu sottoposto Cucchi. Scrive infatti il professor Francesco Introna (con alcune riserve, spiega, "indotte dal dover effettuare considerazioni e valutazioni solo su immagini fotografiche a colori delle lesioni") che "se le lesioni traumatiche dovessero essere considerate tutte riconducibili ad un unico momento lesivo occorso nelle concitate fasi di una colluttazione allora riteniamo che la durata della malattia possa complessivamente essere considerata di almeno 180 giorni". Lesioni trascurate dalla prima indagine vengono ora valorizzate dall’inchiesta bis. Una volta ottenuta una mappatura di lividi e fratture, Introna e i suoi collaboratori provano a ipotizzare una degenza per il ragazzo. E concludono che "le lesioni riportate dal signor Stefano Cucchi, dominate dalla frattura discosomativa postero superiore di L3 e dalla frattura di S4 (la vera scoperta di questa perizia che, da questa lesione fa dipendere complicazioni alla vescica e una possibile aritmia mortale, ndr) ben avrebbero potuto, a guarigione avvenuta, reliquare con postumi permanenti responsabili di un danno biologico permanente del 32, 35%". In altre parole il medico legale stima che il pestaggio nei confronti di Cucchi fu talmente violento da produrre - una volta superato - un’invalidità permanente al 35%. Ancora su questa linea, sempre ipotizzando una degenza che invece non vi fu (Stefano non ebbe neppure un referto e per paura d peggiorare la sua situazione neppure denunciò il pestaggio dei carabinieri) Introna arriva a prevedere che le botte sarebbero state così forti da causare "una inabilità temporanea di 60 giorni" con l’obbligo di portare il busto. Oggi gli indagati per le lesioni - che dunque potrebbero essere accusati di lesioni gravissime oppure omicidio preterintenzionale - sono tre. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffele D’Alessandro e Francesco Tedesco, mentre per un altro, Roberto Mandolini e il collega Vincenzo Nicolardi il pubblico ministero Giovanni Musarò ipotizza la falsa testimonianza e le false dichiarazioni al pm. L’inchiesta bis ha preso il via dalle dichiarazioni di un detenuto, L.L. che all’epoca divise la cella con Cucchi e che aveva deciso di parlare in seguito al primo processo. L. ha anche fornito una traccia sul possibile movente delle violenze inferte in seguito alla perquisizione condotta a casa dei genitori, la notte dell’ arresto: secondo il compagno di cella furono la reazione al rifiuto di Stefano Cucchi di collaborare. Tolto il figlio alla "coppia dell’acido". Il bambino dichiarato adottabile di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci Corriere della Sera, 7 ottobre 2016 Secondo il Tribunale, deve essere data la possibilità al piccolo di vivere la sua vita libero da così pesanti ipoteche, lontano da genitori e nonni. I genitori di Martina Levato hanno già annunciato il ricorso, diversamente dalla madre di Boettcher. La coppia ha vissuto dentro una "tensione perversa", il legame è stato "fondamentalmente malefico", la relazione "distruttiva", tra pulsioni di sopraffazione e dominio. All’interno di questa coppia, la donna (Martina Levato) che aveva tradito il proprio uomo (Alexander Boettcher) doveva espiare le proprie colpe punendo i suoi ex amanti "per essere degna di avere un figlio" da lui: così hanno concepito un bambino nell’intervallo tra due aggressioni con l’acido, che hanno sfigurato due ragazzi. Non è stata dunque una coincidenza di tempo, in qualche modo casuale, ma la Levato ha "subordinato il suo progetto di diventare madre al programma criminale", senza curarsi delle conseguenze, di un possibile arresto, dei pericoli anche per il piccolo, che portava già con sé mentre con Boettcher si appostava nelle notti di Milano per "colpire i suoi obiettivi". Quel pomeriggio di dicembre - Ecco, è a partire da quell’orrore originario che i giudici del Tribunale per i minorenni sviluppano la sentenza depositata giovedì: il bambino della coppia dell’acido dovrà essere dato in adozione a una famiglia estranea, i nonni non sono in alcun modo adeguati a prendersene cura, e va così immediatamente sospeso ogni rapporto (pur nella forma di incontri "vigilati" in carcere) dell’intera cerchia familiare con il piccolo, nato nell’agosto 2015. Il pubblico ministero Annamaria Fiorillo aveva chiesto questa soluzione d’urgenza già l’anno scorso, a pochi giorni dalla nascita. C’è voluto invece oltre un anno di approfondimenti per arrivare, alla fine, allo stesso risultato: oggi però sostenuto da una corposa perizia. Pagine che raccontano di due ragazzi (lei ha una condanna totale a 30 anni, lui oltre 40 - non ancora definitive) che non hanno mai mostrato alcun vero senso di colpa, senza alcuna capacità critica di rileggere il proprio passato. Martina scarica sempre la propria responsabilità su Boettcher che l’ha ispirata e plagiata, "ma - dice in un’audizione - non mi sento di giudicarlo come padre". Secondo i periti, Martina vive "un vuoto" nel suo rapporto col bambino, non riesce a pensare al piccolo "come distinto dai propri interessi", è legata a un "bambino immaginario". Non è però in astratto che i giudici valutano e definiscono i profili psicologici, lo fanno invece per accertare se Martina e Alexander possano fare i genitori: la risposta è un no senza alternative, anche per la "totale assenza di empatia del padre". Il bambino va subito allontanato, altrimenti si troverebbe "a subire traumatismi, lutti non elaborati, segreti, non detti". Di fatto, in mesi e mesi di colloqui con Martina, Alexander e i loro genitori, e di osservazioni della relazione col bambino, le perite Simona Taccani e Cecilia Ragaini sono arrivate a un giudizio di "inadeguatezza". Perché nessuno ha fatto un lavoro di elaborazione o critica del passato che possa far pensare a un cambiamento a breve, così l’adozione resta, secondo il collegio, l’unica soluzione. Nessuno ha provato ad "ascoltare" il bambino, a mettersi in sintonia con lui, né ha accettato i consigli delle educatrici. E dunque, vicino ai suoi familiari, il piccolo è spesso caduto nel torpore, "ha usato massicciamente l’addormentamento come difesa", per riprendere poi a sorridere e a interagire con le educatrici subito dopo la fine degli incontri. Martina Levato farà probabilmente ricorso contro questa sentenza. Cassazione, si riprova la stretta di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2016 La Camera ha approvato ieri in prima lettura la conversione del decreto legge 168 del 31 agosto scorso, sulle misure urgenti per la definizione del contenzioso in Cassazione, per l’efficienza degli uffici giudiziari e per la giustizia amministrativa. Il provvedimento, passato con 242 sì, 107 no e 15 astenuti, va ora all’esame del Senato. Il passaggio alla Camera tiene ferme le norme "salva apicali" della giurisdizione, dalla proroga in servizio al 31 dicembre 2017 per le toghe della Cassazione non ancora 72enni, alla proroga per gli apicali delle altre giurisdizioni - Consiglio di Stato, Avvocatura dello Stato e Corte dei conti - il cui trattenimento in servizio riguarderà però solo la classe del 1947. Per la riduzione dell’arretrato in Cassazione, viene confermato il soccorso dei giudici del Massimario, che - nonostante siano magistrati "di merito" - potranno essere aggregati alle Sezioni, massimo uno per collegio se hanno almeno 2 anni di anzianità nel servizio, per smaltire i processi pendenti. La misura è temporanea (non oltre tre anni) e non è rinnovabile. Cambiano anche le regole per i trasferimenti di sede dei magistrati ordinari: il periodo di "ferma" minima viene allungato a 4 anni per evitare la fuga dalle destinazioni poco gradite. Scatta poi il blocco dei distacchi degli uffici di sorveglianza (esecuzione penale), salvo nulla osta del presidente della Sorveglianza, ma lo stop ai transiti vale anche per tutto il personale in servizio alla Giustizia. Magistrati - soprattutto - o amministrativi potranno essere chiamati solo da organi costituzionali (per esempio il Csm). Quanto alle misure per colmare i vuoti di organico, il ministro potrà chiedere al Csm di aumentare del 10% la platea dei posti disponibili a concorso o che si renderanno disponibili nei sei mesi successivi. Il Csm dovrà rispondere entro un mese dalla richiesta. Per le nuove immissioni in ruolo il decreto stanzia una quarantina di milioni aggiuntivi sul bilancio della Giustizia, da spalmare fino al 2026. La trattazione dei processi di legittimità viene semplificata con l’ampliamento del giudizio camerale davanti alle sezioni semplici civili. Le parti interloquiranno solo per iscritto e la Corte giudicherà sulla base delle carte depositate. Resta ferma la possibilità di trattare in udienza pubblica (su iniziativa d’ufficio o sollecitazione delle parti) questioni di diritto di particolare rilevanza. Altre misure estendono i casi di definizione del procedimento mediante ordinanza, incentivando così forme sintetiche di motivazione e affidano direttamente al presidente, eliminando il rito camerale, l’ordine di integrazione del contraddittorio o il rinnovo delle notifiche. Il filtro in Cassazione (inammissibilità e manifesta fondatezza o infondatezza) prevedrà, sul modello della cassazione penale, che sia il presidente della sezione con decreto, in sede di fissazione dell’adunanza, a indicare eventuali ipotesi filtro. Viene cioè eliminata l’attuale relazione del consigliere e i difensori potranno depositare memorie scritte. Meno formalità poi per rimettere gli atti alla sezione se il ricorso supera il filtro preliminare. Per la gestione dell’organico, in armonia con la riforma della geografia giudiziaria, vengono ridotte di 52 unità le funzioni direttive di primo grado e in misura corrispondente aumenta invece la pianta organica dei magistrati di sorveglianza. Aumenta anche l’organico del personale amministrativo e tecnico di Consiglio di Stato e Tar. Via libera, infine, all’ufficio per il processo amministrativo a supporto dell’attività dei magistrati amministrativi. In vista dell’avvio del processo telematico, è istituita una commissione di monitoraggio che riferirà mensilmente al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Nuove regole sul domicilio digitale, poche deroghe al deposito telematico e corredo di norme di attuazione del codice e per la sinteticità e la chiarezza degli atti. Ancora, obbligatorietà della registrazione telematica dei ricorsi, degli atti processuali e delle sentenze, e limiti dimensionali ai ricorsi, fissati dal presidente del Consiglio di Stato. Niente "tenuità" per il locale della movida di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 42063/2016. Niente particolare tenuità del fatto per il legale rappresentante di un locale nel quale la musica viene "sparata" a tutto volume, in modo da impedire il sonno di chi abita nelle vicinanze. La Corte di cassazione, con la sentenza 42063 depositata ieri, respinge un ricorso contro la condanna per il reato previsto dall’articolo 659 del Codice penale, che tutela le occupazioni o il riposo delle persone. Al ricorrente (un locale della movida dell’hinterland milanese) era contestata la violazione del comma che punisce indistintamente chi con gli schiamazzi o con la musica, nell’ambito di uno spettacolo o di un luogo di ritrovo o nel corso di un intrattenimento pubblico, turba la "quiete" del vicinato. Secondo il ricorrente, al più la sua condotta poteva essere inquadrata come illecito amministrativo che scatta quando i limiti di emissione sonori vengono superati esercitando un’attività o un mestiere rumoroso (articolo 10, comma 2 legge 447/1995). Per la Cassazione però non è così. I giudici pur consapevoli di indirizzi contrastanti sul tema, affermano che è configurabile la violazione sanzionata dal comma 1 dell’articolo 659 del Codice penale, quando l’attività viene svolta andando oltre le normali modalità di esercizio, tanto da turbare la pubblica quiete. E che questo sia avvenuto nel caso esaminato emerge da una fitta serie di testimonianze e di esposti alle autorità. Atti dai quali risulta addirittura che alcuni abitanti esasperati avevano venduto la casa pur di trovare un pò di pace. Inutile per il ricorrente affermare il diritto alla non punibilità, previsto dall’articolo 131-bis. Per la Cassazione correttamente il giudice di merito ha escluso l’accesso alla norma "di favore", in virtù dell’intensità del dolo e della gravità dell’offesa. La Suprema corte precisa che il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione "complessiva e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto della modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e del danno o del pericolo". Nel caso esaminato a "deporre" contro il ricorrente c’erano la negazione delle circostanze attenuanti e l’applicazione di una pena molto vicina al massimo edittale, proprio in considerazione della gravità del reato (articolo 133, comma 1 del Codice penale). Per i giudici della Terza sezione penale, l’articolo 131-bis può essere applicato solo quando, in virtù del principio di proporzionalità, "la pena in concreto applicabile risulterebbe inferiore al minimo edittale, determinato tenendo conto delle eventuali circostanze attenuanti". Per le vecchie sanzioni disciplinari ad avvocati si applica il favor rei del nuovo codice Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2016 Arti e professioni - Avvocati - Sanzioni disciplinari - Nuovo codice deontologico - Principio del favor rei - Applicazione. Nel fissare il momento di transizione dall’operatività del vecchio a quella del nuovo codice deontologico la legge professionale sancisce esplicitamente che la successione nel tempo delle norme dell’allora vigente e di quelle dell’allora emanando nuovo codice deontologico (e delle ipotesi d’illecito e delle sanzioni da esse rispettivamente contemplate) deve essere improntata al criterio del favor rei, così prevenendo le incertezze interpretative manifestatesi in occasione di precedenti successioni di norme deontologiche. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 20 settembre 2016 n. 18395. Avvocato e procuratore - Giudizi disciplinari - Sanzioni disciplinari - Art. 22 del nuovo codice disciplinare - Regime di maggior favore - Applicabilità - Conseguenze. L’art. 22 del nuovo codice deontologico forense non prevede più la sanzione disciplinare della cancellazione dall’albo, sicché la decisione del Consiglio nazionale forense che l’abbia confermata, respingendo la richiesta di applicazione di tale normativa di maggior favore, può essere sospesa ex art. 36, comma 7, della L. 247/2012. • Corte di cassazione, sezioni Unite, ordinanza 27 ottobre 2015, n. 21829. Avvocato e procuratore - Giudizi disciplinari - Azione disciplinare - Prescrizione - Regime favorevole della nuova legge professionale - Prescrizione - Applicabilità. L’art. 65, comma 5, della L. 247/2012, laddove sancisce che le norme del nuovo codice deontologico forense si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli, spiega i propri effetti anche con riguardo al regime della prescrizione. • Corte di cassazione, sezioni Unite, ordinanza 27 ottobre 2015 n. 21829. Avvocato e procuratore - Giudizi disciplinari - In genere - Codice deontologico del 2014 - Applicazione ai procedimenti in corso - Condizioni - Fondamento. In tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, avendo l’art. 65, comma 5, della L. 247/2012, recepito il criterio del "favor rei", in luogo del criterio del "tempus regit actum". • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 16 febbraio 2015 n. 3023. Arti e professioni intellettuali - Avvocato - Avvocato (in genere) - Sanzioni disciplinari - L. 247/2012 art. 65 comma 5 - Professione forense - Procedimenti disciplinari - Codice deontologico - Prescrizione. In materia di sanzioni disciplinari a carico degli avvocati, la Legge 31 dicembre 2012, n. 247, articolo 65, comma 5, nel prevedere, con riferimento alla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, che le norme contenute nel nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, riguarda esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico. Ne consegue che per l’istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio generale dell’irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative, sicché’ è inapplicabile lo jus superveniens introdotto con la Legge n. 247, articolo 56, comma 3. • Corte di cassazione, sezioni Unite, ordinanza 14 luglio 2014 n. 16068 Avvocato e procuratore - Giudizi disciplinari - Sanzioni disciplinari - Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense introdotta con la legge n. 247/2012 - Disciplina transitoria di cui all’art. 65, c. 5 - Portata - Riferibilità alla sola successione nel tempo delle norme del codice deontologico - Conseguenze - Prescrizione - "Jus superveniens" di cui all’art. 56, comma 3, legge n. 257/2012 - Inapplicabilità - Fondamento. In materia di sanzioni disciplinari a carico degli avvocati, l’art. 65, c. 5, della L 247/2012, nel prevedere, con riferimento alla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, che le norme contenute nel nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, riguarda esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico. Ne consegue che per l’istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio generale dell’irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative, sicché è inapplicabile lo "jus superveniens" introdotto con l’art. 56, comma 3, della legge n. 247 cit. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 20 maggio 2014 n. 11025. Il furore improvviso degli "orfani" dentro di Antonio Mattone Il Mattino, 7 ottobre 2016 Frequentavano la stessa scuola di Emanuele Sibillo i due ragazzini protagonisti della lite. Frequentavano la stessa scuola, cioè, del baby boss che comandava la "paranza dei bambini". G., 14 anni, armato di coltello ha ferito in modo grave M. di un anno più grande, colpendolo due volte tra il polmone e lo stomaco. Un litigio forse dovuto a uno sguardo di troppo a una ragazzina o al fatto che M. ha preso la le difese di un compagno insultato da G.; litigio poi proseguito nella strada adiacente alla scuola dove il minorenne dopo essere stato accoltellato è stato soccorso sanguinante e portato in ospedale da un passante. C’era un vecchio rancore tra i due che erano già venuti alle mani lo scorso anno. L’adolescente ferito è un ragazzone enorme, che ha ripetuto più volte la scuola e pur non essendo di animo cattivo usava spesso le mani per discutere e farsi valere. Da grande vorrebbe fare il barbiere, certo di non riuscire a proseguire più di tanto gli studi. Come il fratello più grande, stessa stazza fisica che ora lavora in un bar dei decumani. Anche G., l’aggressore, ha un curriculum scolastico non brillante, vive a Forcella ed è imparentato con uno degli autori del ferimento di un immigrato, colpito al petto alla vigilia di Capodanno del 2013 per testare l’efficacia di una pistola. Un ragazzo difficile e irrequieto fuori scuola ma molto educato in classe. Mai avuto una sospensione, era molto legato ai compagni di classe e riusciva a farsi volere bene. Negli ultimi tempi sembrava diverso dal solito, c’erano dei segnali che facevano capire che qualcosa stava cambiando. Sembra che andava dicendo in giro che doveva pensare a "fare i soldi". Tuttavia i suoi insegnanti non si aspettavano che potesse rendersi protagonista di un fatto così grave. Anche Emanuele Sibillo in fondo a scuola si comportava in modo educato e rispettoso. La "Teresa Confalonieri" non è una scuola di frontiera. Qui convivono diversi ceti sociali del centro storico cittadino. Dalle famiglie borghesi a quelle più popolari fino a nuclei che provengono da Forcella. Sono solo una decina i ragazzi più difficili. L’accoltellamento del 15enne non è il primo episodio di violenza che avviene tra gli adolescenti napoletani. Già in passato sono accaduti fatti simili che hanno avuto per protagonisti perfino delle ragazzine. Dei minori che entrano a scuola con un coltello in tasca da usare all’occorrenza per farsi rispettare sono un fatto preoccupante, che ha una risonanza soltanto nell’immediato, ma che dopo qualche giorno finisce nel dimenticatoio. Spesso tutto nasce da un motivo futile per poi passare a conseguenze drammatiche. Chi sono questi ragazzini dall’apparenza gentile e mite che poi diventavano capaci di piccole e grandi violenze? È una domanda che dovremmo porci tutti e che non ha risposte semplici. Sono sicuramente "orfani" che crescono in famiglie e ambienti sociali degradati, che hanno una grande rabbia dentro e mancano di punti di riferimento solidi. Chi cammina per le strade del Centro Storico spesso si imbatte in queste crocchie di ragazzini (talvolta bambini) urlanti che sfrecciano sui motorini, prendono in giro anziani e stranieri e sembrano sfidare il mondo. C’è una grande emergenza educativa a Napoli da cui se ne può venire fuori soltanto con una grande sinergia tra gli educatori e soprattutto con la determinazione a volere risolvere il problema. Ma la scuola sembra impotente, gli assistenti sociali assenti, la città indifferente. Agli insegnanti di G. il destino del ragazzo non sembrava segnato, speravano che potesse avere un futuro felice ma "adesso tutto cambia" dicono. Il primo giorno di scuola G. aveva detto: "sognare ad occhi aperti è fantastico ma quando torni alla realtà tutto è triste". Tuttavia abbiamo il dovere di ripartire da questa sconfitta per cercare di rendere meno brutta e meno violenta la realtà dei giovani della nostra città. Sardegna: Caligaris (Sdr); 212 detenuti in attesa di primo giudizio, 90 solo a Cagliari-Uta Ristretti Orizzonti, 7 ottobre 2016 "Sono in progressivo aumento nelle 10 carceri della Sardegna i detenuti in attesa di giudizio. Il dato più eclatante è quello dei ristretti che non hanno ancora affrontato un processo. Tre mesi fa, al 31 giugno, i reclusi in attesa di primo giudizio erano complessivamente 185 mentre al 30 settembre risultano 212 (74 stranieri). Un numero particolarmente significativo è però quello della Casa Circondariale di Cagliari-Uta dove sono addirittura 90. Il dato è ancora più elevato considerando i ristretti non definitivi, cioè coloro che non hanno concluso l’iter giudiziario in quanto appellanti o ricorrenti o misti. Sono passati complessivamente da 1716 a 1766. A Cagliari-Uta occorre aggiungerne 44". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", analizzando i dati elaborati dagli Uffici statistici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, pubblicati nel sito del Ministero della Giustizia. "In pratica il 21% dei detenuti nelle strutture sarde (441 su 2127) - osserva Caligaris - attende un giudizio definitivo. Non è cambiata invece la distribuzione dei reclusi all’interno delle strutture penitenziarie. Risultano in sofferenza, avendo superato la capienza regolamentare, gli Istituti "Ettore Scalas" di Cagliari-Uta con 588 ristretti (21 donne) per 567 posti, "Salvatore Soro" di Oristano-Massama con 284 ospiti per 260, "Paolo Pittalis" di Tempio Pausania 178 per 167 nonché "San Daniele" di Lanusei 33 per 38. Le tre Case di Reclusione all’aperto sono invece ancora sottodimensionate. Meno della metà dei posti disponibili sono occupati ad Arbus-Is Arenas (82 detenuti per 176) e addirittura un terzo a Mamone-Lodé (125 per 392). Va meglio a Isili con 113 per 155. Accettabile la situazione nel "Giuseppe Tommasiello" di Alghero 126 per 156 posti e nel "Giovanni Bacchiddu" di Sassari (431 per 455), dove però ci sono i detenuti in 41bis. Non è quindi veritiero il dato complessivo che in Sardegna con 2633 posti letto non c’è sovraffollamento". "La realtà detentiva italiana che emerge dalla fotografia - conclude la presidente di Sdr - purtroppo non è incoraggiante neppure a livello nazionale. Nei 193 Istituti con una disponibilità di 49.796 vivono ristretti 54.465 cittadini privati della libertà (2.310 sono donne e 18.462 stranieri. 9.630 persone sono in attesa di primo giudizio e i condannati definitivi 34.896. Lazio: Fns-Cisl; gravi carenze nell’organico degli agenti, serve ricambio generazionale Corriere della Sera, 7 ottobre 2016 Sovraffollamento e scarsezza di personale i problemi delle carceri del Lazio. Il segretario generale Fns-Cisl: "Nonostante le nuove normative in tema di esecuzione penale i risultati tardano ad arrivare. E l’età degli uomini in servizio è troppo alta. "Sulla questione dei telefonini fatti entrare in carcere serve purtroppo una legge ad hoc. Infatti, in mancanza di reati connessi all’utilizzo del cellulare fra le mura di un istituto di pena, al detenuto trovato in possesso di un apparecchio per comunicare con l’esterno si può applicare solo una sanzione amministrativa". Così Massimo Costantino, segretario generale aggiunto dell’Fns Cisl Lazio. Ma i problemi legati alla questione carceri sono parecchi. E anche molto urgenti. A cominciare dalle carenze di organico che affliggono i reparti della Penitenziaria e mettono in difficoltà gli stessi agenti durante i turni di servizio. Secondo il sindacalista non servono solo nuove forze ma anche "un ricambio generazionale considerato che il personale ha un’età medio alta". Sul fronte del sovraffollamento, che negli ultimi mesi è tornato caldo come non succedeva da tempo, Costantino sottolinea invece come "pur apprezzando le nuove normative in tema di esecuzione penale, istituendo il nuovo Dipartimento giustizia minorile e comunità, i risultati concreti tardano ad arrivare". Ma c’è altro e riguarda soprattutto i minorenni. Secondo il sindacato, nell’ultimo anno ci sono state "una trentina di risse con un allargamento delle problematiche detentive non solo all’estate ma a tutti i periodi. Solo a Casal del Marmo la Penitenziaria è intervenuta salvando sei ragazzi ma fino a oggi sono stati feriti ben 23 agenti solo nel 2016. La realtà - aggiunge Costantino - è che in questo istituto bisogna prevedere una nuova gestione, previo modifica legislativa, affidandolo a un direttore penitenziario poiché vi è anche un problema organizzativo interno. È poi impensabile che un solo agente possa espletare il proprio servizio da solo in una palazzina, dove addirittura mancano sistemi di allarme". Ma il sindacalista chiede anche "corsi di formazione, per tutti, poiché non si è pronti nel gestire detenuti maggiorenni sino ai 25 anni rispetto al passato" e di "incrementare il personale di guardia femminile". Un quadro preoccupante nel quale si inserisce anche il rischio radicalizzazione all’interno delle carceri, già sottolineato dal Viminale e dal ministero della Giustizia, che anche l’Fns Cisl considera tuttora "alto". Roma: detenuto muore a Regina Coeli. Il pm: cure interrotte troppo presto di Giulio De Santis Corriere della Sera, 7 ottobre 2016 Elvio Durante, finito in manette il 23 settembre, è stato rimandato in cella dal centro clinico del carcere dopo quattro giorni di Tso: il dubbio degli inquirenti è che il suo stato psicofisico consigliasse un monitoraggio più accurato da parte dei medici. Mandato in cella dopo (soli) quattro giorni di trattamento sanitario obbligatorio. Si concentra sui tempi molto brevi del ricovero l’inchiesta della procura sulla morte di Elvio Durante, deceduto a Regina Coeli al dodicesimo giorno di detenzione per una crisi respiratoria improvvisa avvenuta mercoledì mattina. Il dubbio degli inquirenti è che il detenuto - finito in manette lo scorso 23 settembre con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale - sia stato dimesso troppo presto, quando invece il suo stato psicofisico avrebbe consigliato un monitoraggio più accurato. Il pubblico ministero Sabina Calabretta, che indaga con l’accusa di omicidio colposo senza ancora aver iscritto nessuno nel registro degli indagati, ha disposto l’autopsia affidandola al medico legale de La Sapienza, il dottor Giorgio Bolino. È vero che Durante, assuntore saltuario di cocaina come ammesso da lui stesso una volta entrato in carcere, aveva fornito il consenso all’interruzione del ricovero. Tuttavia il sospetto è che l’uomo, residente a Guidonia, avrebbe dovuto essere trattenuto più a lungo, anche per via della tendenza chiaramente manifestata di perdere la pazienza per un nonnulla. Infatti nel corso dell’udienza di convalida, l’indagato, arrestato per aver reagito con violenza a un controllo della polizia, aveva dato in escandescenze, insultando il giudice prima ancora dell’inizio dell’istruttoria. A quel punto il magistrato non aveva potuto fare altro che allontanarlo dall’aula e poi disporne il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) in carcere. La cartella clinica, comunque, non aveva evidenziato alcuna patologia allarmante, ma i facili scatti d’ira avrebbero dovuto preoccupare i medici perché potevano essere il segnale di una profonda alterazione psichica. Dopo essere stato trasferito in cella, nessuno dei compagni di detenzione si era lamentato dei comportamenti di Durante, nei cui confronti risulta solo qualche precedente penale di lieve entità. Sassari: il boss di Gomorra denuncia "qui a Bancali non mi curano" di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 7 ottobre 2016 Raffaele Amato, capo clan camorrista sottoposto al 41bis, si rivolge alla procura perché a suo avviso gli sarebbero negati assistenza medica e un intervento chirurgico dovuto a "gravi patologie". Aperto un fascicolo. Un "quadro sanitario preoccupante" al quale non sarebbero seguiti i necessari "accertamenti né da parte di medici di fiducia né presso una struttura esterna, né tantomeno da parte dei medici dell’area sanitaria dell’istituto penitenziario (di Bancali ndr), del tutto inadeguati nel gestire situazioni patologiche gravi. E le visite specialistiche mi vengono puntualmente rigettate". Non è lo sfogo di un detenuto qualsiasi. A denunciare nero su bianco una situazione "per la quale rischio la vita" è Raffaele Amato in persona, considerato uno dei camorristi più pericolosi in Italia e in Europa, il capo del clan degli Scissionisti di Secondigliano che ha dato vita nel 2004 alla faida di Scampia. Amato denuncia e la Procura di Sassari decide di indagare. Oggi Raffaele Amato è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Bancali e proprio dalla sua cella ha dato mandato all’avvocato di fiducia Sara Luiu perché depositasse la querela negli uffici della Procura della Repubblica di Sassari. Il magistrato Emanuela Greco ha aperto un’inchiesta - al momento contro ignoti - per verificare se esistano responsabilità ed eventualmente a carico di chi. Una denuncia dettagliata, quella consegnata all’avvocato Luiu, nella quale Amato - accusato tra l’altro di essere importatore di tonnellate di droga dalla Spagna in Italia - come prima cosa evidenzia "la necessità di essere sottoposto a un immediato intervento chirurgico (peraltro già in programma all’ospedale dell’Aquila prima del mio trasferimento a Sassari) per la rimozione di una "lesione aneurismatica sacciforme della vena gemellare mediale di destra", come risulta dalle perizie contenute nel diario clinico". Una patologia che lo costringe a seguire una terapia antitrombotica con eparina "per evitare l’elevato rischio di trombosi venosa profonda e conseguente embolia polmonare. In attesa dell’intervento, dal 3 luglio del 2015 a oggi mi viene fatta un’iniezione di eparina. Per 12 giorni mi è stata somministrata nell’addome attraverso le sbarre della cella!". L’elenco delle patologie di Raffaele Amato è lungo: "Sto male anche per via di un intervento di resezione dell’intestino tenue in seguito a una ferita d’arma da fuoco. Ho violente coliche addominali ricorrenti con rischio di occlusione intestinale". Ed è per questo motivo che il boss che ha ispirato in "Gomorra" il personaggio di don Salvatore Conte, rivale di Pietro Savastano, sostiene di dover seguire "un particolare regime dietetico che a oggi non mi viene ancora somministrato". E poi i problemi dentari con un bite andato smarrito: "Ho dato la disponibilità ad acquistarlo a mie spese ma mi è stato risposto che non è consentito". E ancora le tante malattie dermatologiche: "Mi è stato prescritto l’uso di coperte e lenzuola anallergiche, il dirigente sanitario ha dato l’autorizzazione un anno fa e a tutt’oggi non mi sono ancora state concesse, così come il materasso ortopedico. Mi hanno diagnosticato varie discopatie e mi hanno negato quel tipo di materasso, neppure a mie spese". Da qui la denuncia e la conseguente apertura di un’inchiesta. Modena: al carcere di Sant’Anna 20 risarcimenti per detenzione inumana tvqui.it, 7 ottobre 2016 I detenuti avevano lamentato condizioni degradanti nelle celle, con uno spazio vitale inferiore a 3 metri. Metà di loro hanno ricevuto 8-10 euro al giorno, gli altri hanno ottenuto uno sconto di pena di un giorno ogni 10. Trecento i ricorsi presentati. Venti carcerati del Sant’Anna sono stati risarciti dallo Stato perché la detenzione è stata giudicata inumana e degradante. Sono arrivate le prime pronunce degli organi giudiziari dopo che ben 300 persone hanno contestato il loro periodo di reclusione a Modena. Le vicende oggetto di discussione risalgono a qualche anno fa, quando l’istituto penitenziario cittadino era sovraffollato e il nuovo padiglione doveva ancora aprire. Allora la capienza era superata di decine di unità e per accogliere tutte le persone le camera di sicurezza erano diventate evidentemente affollate, tanto da superare i 3 metri quadrati a testa previsti da diverse normative come la Convenzione Europea dei diritti umani. Accusando che il trattamento non rispettasse le leggi, i detenuti si sono così rivolti agli organi giudiziari e ad alcuni di loro, come detto una ventina, è stata data ragione. Metà degli indennizzati ha ricevuto un risarcimento di 8-10 euro per ogni giorno di reclusione sofferto in condizioni inadeguate; l’altra metà ha ottenuto uno sconto sulla pena ancora da scontare, circa un giorno ogni 10. Numeri significativi che, una volta divenuti noti tra la popolazione carceraria di Sant’Anna, attuale ed ex, hanno fatto moltiplicare i ricorsi. Le 300 istanze sarebbero infatti destinate a salite. Roma: notizie dall’interno (di Rebibbia), la buona scuola è alla frutta di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2016 La scuola, come sappiamo tutti in quanto padri, figli e operatori, è un disastro. E non da ieri. Quel poco che ne restava è crollato sotto i colpi delle varie "riforme" Moratti, Gelmini, etc, passando per i Berlinguer. Quest’ultimo si distinse soprattutto nel campo universitario, ma uno per uno tutti i settori sono stati colpiti, con le varie eccellenze: materne, elementari, licei, nulla è stato risparmiato. Fu persino eliminato fisicamente l’aggettivo "pubblica", con un atto di rara coerenza essendo l’obiettivo quello di favorire l’istruzione privata, in particolare cattolica. Era molto difficile peggiorare una situazione già così pesantemente compromessa. Eppure, basta sentire una qualunque persona del mondo della scuola - docenti, dirigenti, amministrativi, ausiliari o anche semplicemente gli studenti, come utenti - per capire che si stanno toccando vette inesplorate di inefficienza. Che si cominciassero le lezioni con dei buchi di organico, in attesa delle nomine, è sempre successo. Ma quest’anno si è superato ogni limite: interi corsi non sono potuti partire prima di due - tre settimane. A Rebibbia, realtà che conosco da vicino, il "professionale" era ridotto a due soli insegnanti e le nomine tardano ad arrivare; l’agrario sta cominciando le prime presentazioni agli studenti solo ora, col mese di ottobre, come ai bei tempi. Nel "tecnico economico" siamo tuttora a orario ridotto, con noi pochi presenti ad affannarci qua e là per coprire tutte le classi nei diversi settori del carcere. Il bello è che tutto ciò avviene mentre dall’alto vengono sbandierate le tante assunzioni della "buona scuola". Il meccanismo perverso che (dis)orienta i nuovi assunti in ruolo mi è stato ben illustrato da una persona esterna alla scuola, quindi in perfetta buona fede: un agente di polizia penitenziaria proveniente dal profondo Sud. Sua sorella è stata chiamata a fine agosto per prendere immediatamente servizio a Torino. Giunta in città con il primo aereo, il suo posto non c’era ed è stata spedita a Milano, col treno ad alta velocità per fare in fretta. Anche lì nessuno sapeva nulla della sua posizione; quindi, per non affrontare ulteriori spese di albergo, particolarmente onerose, è venuta ad "appoggiarsi" a Roma dal fratello. Questi, non sapendo nulla della scuola, le ha potuto al massimo indicare la scuoletta dove va sua figlia. Non era il solo, evidentemente: il primo giorno, all’apertura dei cancelli, di fronte a uno sparuto gruppetto di scolaretti, si presentava una agguerrita mandria di 47 insegnanti, per due soli posti disponibili. Intanto la segreteria ha provveduto a metterli tutti "in ruolo" almeno formalmente, per garantirgli lo stipendio. Poi, in pochi giorni, tutti hanno trovato la propria utilizzazione o assegnazione provvisoria da qualche parte, magari vicino casa, e oggi sono rimasti in tre ad alternarsi nelle lezioni. Il tutto in completa assenza di regole e di certezze, per sé e per gli studenti. Al punto che l’agente, che di inefficienza suo malgrado ne sa qualcosa, mi ha detto: "Certo, state messi male voi della scuola". Non è un caso isolato, purtroppo. Sento e leggo una quantità di racconti dell’orrore di questo tenore. Particolarmente penosi, quello degli insegnanti di sostegno continuamente sballottati a discapito tra l’altro dei bambini bisognosi. È la logica che non trova posto in questo disastrato mondo della scuola. Se almeno si ottenessero dei risparmi, potremmo trovare un senso (anche ammesso che sia lecito risparmiare sul futuro rappresentato dalle nuove generazioni). Ma con gli assunti del "potenziamento" non si ottiene neanche quell’obiettivo. Com’è successo lo scorso anno scolastico, può capitare che si mette in malattia l’insegnante di una materia "di indirizzo", quelle importanti da portare agli esami di maturità. Anche la sua supplente si ammala. Il posto viene coperto da un neo assunto del potenziamento che a sua volta è in malattia. Alla fine, dopo mesi, alla fine dell’anno arriva la supplente fresca di nomina, piena di entusiasmo. Un solo problema: insegna storia dell’arte, materia che non ha mai trovato luogo negli organici di Rebibbia. Ma forse qui sbaglio, una logica sottesa c’è: si è voluto sopperire a una grave mancanza della scuola in carcere. È un bene che gli studenti detenuti sappiano qualcosa di arte, in un Paese che detiene i due terzi del patrimonio culturale del mondo. A sua insaputa. Asti: successo per il primo incontro pubblico del ciclo "L’altra chiave" Gazzetta di Asti, 7 ottobre 2016 Si tratta di un progetto corale, ideato e realizzato dalla Direzione del Carcere di Asti, Comune di Asti, Libera, Garante per i diritti dei detenuti, Sindacati Polizia Penitenziaria, Università di Torino Dipartimento di Giurisprudenza, Comune di Asti, Cooperativa Dike, Gol-C.P.I Asti, Associazione di Volontariato Penitenziario Effatà, Università del perdono, Abele Lavoro. Elena Lombardi Vallauri, Direttrice del Carcere ha sottolineato come la trasformazione da Casa circondariale a Casa di Reclusione Alta sicurezza, abbia determinato l’esigenza per il personale di compiere un percorso formativo. Un percorso che in quattro incontri pubblici si apre alla cittadinanza per toccare argomenti che interessano tutti. Soprattutto gli educatori e gli insegnanti a cui, grazie a Libera, ente formatore accreditato al Miur, viene rilasciato regolare attestato di partecipazione. "Noi viviamo fisicamente distanti dalla collettività, ma abbiamo l’esigenza di farne parte. Di lasciarci conoscere. Avere destato l’interesse con questi incontri è già un obiettivo raggiunto". È con queste parole che la direttrice Vallauri ha iniziato il suo intervento. Dopo il saluto del Garante dei diritti dei detenuti, Anna Cellamaro, L’incontro è entrato nel vivo con gli interventi del Criminologo Adolfo Ceretti e dell’Avvocato Federica Brunelli, che coordinati dal giornalista Carlo Cerrato hanno affrontato il tema della mediazione dei conflitti in carcere. Chi lavora in carcere è quotidianamente a confronto con il male. Cercheremo il modo di accogliere la complessità della trasformazione in Casa di Reclusione alta sicurezza, partendo dall’ascolto" ha detto il criminologo Ceretti. Ascolto: veicolo attraverso cui si proverà a progettare soluzioni. Si impareranno le tecniche di mediazione a partire dai conflitti più semplici per avere uno sguardo diverso sulla loro gestione, fino ad arrivare a quelli più complessi. Questo il percorso formativo che la polizia penitenziaria e i volontari affronteranno. Molti e diversi poi i temi affrontati con il pubblico. Stimolato dalla domanda su quanto la pena possa essere un deterrente, Ceretti ha concluso la serata ricordando un dato. Il 70% delle persone che escono dal carcere è recidiva, il dato si riduce in modo consistente se si può beneficiare di una misura alternativa. "Non penso che la Giustizia riparativa si possa sostituire alla giustizia penale però prima di Beccaria era normale torturare. Oggi arriva la riparativa e finalmente ci fa "vedere" le vittime, di cui si parla troppo poco". Mercoledì 12 ottobre alle 17 in Sala Pastrone, il Capo della Squadra Mobile di Torino, Marco Martino sarà protagonista del secondo incontro pubblico del ciclo l’Altra chiave. Martino affronterà il tema dell’evoluzione della criminalità organizzata in Piemonte. Tutti gli incontri sono validi per i crediti formativi degli iscritti all’Ordine dei giornalisti. Tutti gli incontri sono accreditati al Miur, si rilascerà regolare attestato di partecipazione agli insegnanti. Venezia: "Abitare Ristretti, Economie Solidali", workshop dedicato alle carceri di Maria Tomaseo greenplanner.it, 7 ottobre 2016 In occasione di Gang City, evento collaterale della XV Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, verrà organizzato il workshop internazionale di progettazione Abitare Ristretti - Economie Solidali. Cinque giorni da dedicare allo studio e al progetto del carcere, luogo non solo di reclusione, ma anche luogo di lavoro e spazio dell’abitare. Il workshop ha l’obiettivo di guardare più da vicino la vita all’interno delle carceri, con gli occhi dei detenuti, degli operatori e degli agenti. Affinché questo focus diventi possibile, all’interno del workshop è prevista una giornata di visita all’interno del Penitenziario di Padova: in questa giornata i partecipanti si confronteranno con chi abita all’interno del penitenziario e si prenderanno l’incarico di raccontare all’esterno le idee raccolte. La naturale propensione alla modifica degli spazi in cui si vive, coincide con l’umano desiderio di sopravvivenza. Il workshop Abitare Ristretti indaga le molte forme di sopravvivenza che si possono avviare all’interno di carceri e di luoghi ghetto in generale, aiutando le popolazioni disagiate a trovare una dimensione lavorativa in una prospettiva di costruzione della propria emancipazione e della propria libertà esterna e interiore. Si propone quindi un’esperienza che liberi anche i progettisti dalle sovrastrutture sociali, per partecipare a un miglioramento della qualità della vita di persone in condizioni di fragilità tramite azioni pratiche. Introducendo un’architettura come narrazione e partecipazione, si indagheranno le pratiche adeguate per la riqualificazione delle carceri esistenti, finalizzate all’introduzione di una cultura dello spazio (dell’abitare lo spazio e del costruirlo e mantenerlo) all’interno del carcere e dei luoghi di reclusione e di esclusione sociale. In risposta alla marginalizzazione dell’architettura e degli architetti si presenta la possibilità di affrontare il progetto come strumento di ridistribuzione di diritti e risorse, mettendo al centro la sua dimensione politica (come capacità di risolvere problemi insieme) e considerando come in contesti di maggiore scarsità vi sia un maggior bisogno di progetto. Abitare Ristretti propone quindi un cammino evolutivo multidisciplinare, per affrontare a 360° il tema degli spazi carcerari, tramite l’indagine diretta e coinvolgendo coloro che quotidianamente abitano il carcere: detenuti, operatori sociali e agenti. Architetti, giuristi e sociologi sono chiamati a progettare insieme ad abitanti e fruitori. L’obiettivo è permettere l’autodeterminazione dei propri spazi di vita. Le idee comuni saranno poi formalizzate e raccontate all’esterno. Il workshop Abitare Ristretti, a cura di Fabio Armao, Paolo Mellano, Marella Santangelo e Claudio Sarzotti, si svolgerà dal 29 ottobre al 2 novembre presso lo Spazio Thetis (Arsenale Nord, f. Calle Donà Castello 2737) a Venezia. Iscrizioni aperte fino al 14 ottobre. Padova: mercoledì 26 ottobre Tv2000 presenta il documentario "Mai dire mai" agensir.it, 7 ottobre 2016 Sarà proiettato in anteprima nazionale nel carcere Due Palazzi di Padova mercoledì 26 ottobre alle ore 9 il docufilm "Mai dire mai" di Andrea Salvadore, promosso da Tv2000 e diocesi di Padova. Il documentario - si legge in una nota, presentato in occasione della 73a Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia "è un viaggio attraverso i volti e le storie di chi ha commesso un reato e non solo": dieci persone detenute (otto uomini e due donne) nel carcere "Due Palazzi" di Padova e alla "Giudecca" di Venezia. Le loro esperienze sono narrate in due puntate che saranno trasmesse da Tv2000 in seconda serata, il 6 e 13 novembre, in occasione del Giubileo dei carcerati, nell’anno straordinario della Misericordia voluto da Papa Francesco. Alternano le narrazioni dei detenuti l’intervista al vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla, le esperienze dei cappellani del carcere di Padova, don Marco Pozza, e di Venezia, fra Nilo Trevisanato, il dialogo con i direttori delle case di reclusione Ottavio Casarano (Padova) e Gabriella Straffi (Venezia) e la voce di operatori di altre realtà che operano nelle due "case di pena". All’anteprima saranno presenti i detenuti del carcere ‘Due Palazzì, il vescovo di Padova, mons. Cipolla, il direttore di Rete di Tv2000, Paolo Ruffini, il regista, Andrea Salvadore, il direttore della Casa di reclusione, Ottavio Casarano, e alcuni rappresentanti istituzionali locali e nazionali. "Mai dire mai" è stato realizzato con la collaborazione della redazione di "Ristretti Orizzonti" e il consorzio "Officina Giotto" e grazie alla disponibilità di: Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria; Corpo di polizia penitenziaria, Casa di reclusione "Due Palazzi" di Padova, Casa di reclusione femminile della Giudecca (VE), Diocesi di Padova, Patriarcato di Venezia, cooperativa sociale "AltraCittà", ASD Polisportiva Pallalpiede, cooperativa sociale "Rio Terà dei Pensieri", associazione "Il granello di senape". Migranti. Rapporto dei Radicali italiani: "utili alla nostra economia" di Irene Mossa Il Manifesto, 7 ottobre 2016 Bonino: valgono l’8 per cento del Pil, ne servirebbero 157mila l"anno per compensare la riduzione della popolazione in età lavorativa e garantire il sistema previdenziale. "Non siamo di fronte a un’invasione, come una politica intollerante e nazionalista vuol far credere. Certo l’immigrazione è un problema complesso. E si può risolvere con strategie complesse, considerandola non un’emergenza, ma un’opportunità". Le parole di Emma Bonino sono la sintesi perfetta del rapporto "Governance delle politiche migratorie" presentato ieri in Senato dai Radicali italiani. Obiettivo: sconfiggere la "grande bugia" del racconto sull’immigrazione vista solo come una minaccia, dando una fotografia più realistica di un fenomeno sì drammatico, ma che per i radicali è possibile affrontare con politiche adeguate. Il rapporto analizza la situazione degli ultimi anni nell’Unione europea. I dati che emergono sono diversi da quelli che ci si potrebbe aspettare. Negli ultimi anni in Italia il flusso di immigrati è diminuito, dai 515mila del 2007 ai 250mila del 2015. Gli stranieri sono l’8,2% della popolazione e nell’ultimo decennio hanno controbilanciato la flessione delle nascite. Inoltre hanno contribuito alla crescita della ricchezza, aumentando dell’8% il nostro Pil con il loro lavoro. Risultano quindi una risorsa per il Paese: senza di loro il nostro welfare sarebbe insostenibile a causa del rapido invecchiamento della popolazione. Tanto che, avvertono i Radicali, all’Italia servirebbero 157.000 immigrati l’anno "per compensare la riduzione della popolazione in età lavorativa e garantire il sistema previdenziale". Accanto a questi dati positivi, si evidenziano anche i problemi. Il più grave: l’alto numero di migranti (il 60%) che non riesce ad ottenere asilo in Italia, e va ad aumentare gli irregolari che restano nel Paese. Per evitare questo rischio i radicali propongono di eliminare le quote di ingresso introducendo un permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione. E, ancora, la "regolarizzazione su base individuale degli irregolari con lavori e legami familiari stabili, secondo il modello spagnolo". Fondamentale poi il miglioramento dei centri di protezione e accoglienza. Il modello in questo caso è quello tedesco, con l’obiettivo di fornire agli immigrati formazione professionale e avviamento lavorativo. Per i rifugiati, infine, bisognerebbe poi "creare canali legali d’arrivo e corridoi umanitari, permettendo ai migranti in aree di crisi di accedere alla protezione internazionale". "Una sfida che richiede un’enorme mobilitazione ai cittadini italiani ed europei", sottolinea Riccardo Magi, segretario dei Radicali italiani. Una sfida epocale, ma irrinunciabile, su cui si gioca il futuro del progetto europeo. Afghanistan 2001-2016, la guerra infinita di Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi Corriere della Sera, 7 ottobre 2016 Iniziava quindici anni fa l’operazione militare "Enduring Freedom", l’attacco anglo-americano al regime dei talebani, in Afghanistan, alla ricerca dei colpevoli dell’11 settembre e del nemico numero uno Osama bin Laden. "La nuova guerra americana comincia al mattino presto, cinque ore prima dell’attacco all’Afghanistan. Con una serie di riunioni al Pentagono, nella quali gli ospiti fissi sono il viceministro della Difesa Paul Wolfowitz, il generale Richard Myers, capo delle operazioni militari, il suo numero due, Peter Pace. Briefing domenicali, giudicati "inusuali". Sono il segnale che qualcosa sta per accadere. Nessuna smentita, anzi". Inizia così, sul Corriere della Sera di lunedì 8 ottobre 2001, l’articolo dell’inviato a Washington Marco Imarisio sull’inizio dell’attacco al regime dei talebani in Afghanistan. La macchina bellica americana era pronta per l’attacco al "Paese canaglia", accusato di ospitare il nemico pubblico Osama bin Laden e altri protagonisti del terribile attentato dell’11 settembre. Il mondo se ne renderà conto poco dopo: "Alle 12.40, ora di Washington, le televisioni interrompono i programmi per mostrare le immagini dei missili sopra la notte di Kabul. Un alto ufficiale si limita a "dare conferma" di quello che è già chiaro a tutto il mondo". La guerra globale ad Al Qaeda, emblema del terrorismo di matrice islamica, avviene sotto l’onda emotiva degli attentati che solo un mese prima avevano colpito al cuore gli Usa, con i voli di linea dirottati e lanciati contro le Twin Towers di New York, il Pentagono e il suolo della Pennsylvania - ma l’obiettivo avrebbe dovuto essere Washington, se non fosse stato per l’intervento dei passeggeri. La rivendicazione successiva di Al Qaeda e lo scadere dell’ultimatum americano al governo afghano per la consegna di Osama bin Laden e dei suoi complici innescano la reazione dell’Occidente, in testa gli Usa di George Bush e la Gran Bretagna di Tony Blair, contro un Afghanistan allora in mano al regime talebano, ritenuto la base operativa e il nascondiglio dei terroristi. L’ennesima prova di resistenza per un Paese che dal 1979 non conosce pace, prima per l’invasione sovietica, poi per l’avvento al potere dei talebani. L’ennesima battaglia anche per l’Alleanza del Nord, in prima linea contro l’integralismo del regime talebano come anni prima contro i sovietici, e ora in appoggio ad americani e britannici, con la speranza di riportare alla libertà un Afghanistan dilaniato da più di vent’anni di guerre. Il grande rimpasto" - Per le grandi potenze della Terra sarà l’occasione di mettere da parte conflitti, divergenze e pregiudizi ideologici, unendosi in un’alleanza internazionale contro il terrore a guida americana, dopo lo shock dell’11 settembre. Il "grande rimpasto", come scriverà Sergio Romano in un editoriale di Corriere, appena qualche giorno prima dell’attacco: "La Russia e il Pakistan offrono agli Stati Uniti il loro spazio aereo. Il sindaco di Teheran manda un telegramma di condoglianze al sindaco di New York. Il ministro degli Esteri britannico visita l’Iran e trasmette agli ayatollah, verosimilmente, un messaggio amichevole di Bush. [...] L’alleanza è nata sulla scia di una forte reazione emotiva, ma resterà in vita se riuscirà a passare due esami. Dovrà dare un colpo mortale al terrorismo e dimostrare che ogni socio può trovare in essa il suo tornaconto". Enduring Freedom - La prima fase dell’operazione militare anglo-americana si sviluppa con intensi bombardamenti aerei contro i campi d’addestramento delle milizie integraliste, nonché posti di comando e comunicazione dei talebani, mentre in parallelo si sostiene l’avanzata di terra dell’Alleanza del Nord. Ma, nonostante l’intensità degli attacchi, dopo due settimane il fronte talebano si mostra ancora compatto, grazie anche all’arrivo di milizie amiche dal Pakistan. E a pagare il prezzo più alto sono ancora una volta i civili, come riporta l’inviato Massimo Alberizzi: "[...] i primi risultati sono un Afghanistan che conta troppi morti e un Pakistan, di fatto, sotto legge marziale. Dal fumo e dalle immagini lontane del quinto giorno di bombardamenti, dalle notizie poco verificabili sull’emirato talebano, una sensazione fra tutte: i civili muoiono come mosche. Più di 300 vittime finora, dice Kabul. Oltre 500, stimano i militari pakistani". I talebani in fuga, da Mazar-i-Sharif a Kabul - La potenza del fuoco anglo-americano fiacca però i talebani e, a un mese dall’inizio dell’attacco, apre la strada all’avanzata dell’Alleanza del Nord, prima a Mazar-i-Sharif e poi a Kabul, abbandonata dalle forze governative la notte del 12 novembre. I successi militari spingono la Difesa americana a una svolta strategica: non servirà più il contributo di terra di francesi, tedeschi e italiani, e neppure l’invio dei caschi blu dell’Onu per facilitare gli aiuti umanitari, e la Difesa statunitense, per bocca del ministro Donald Rumsfeld, dichiarerà di esser pronta a lasciare l’Afghanistan non appena Al Qaeda e il regime talebano saranno distrutti e catturati i loro leader, tra cui, naturalmente Osama bin Laden e il mullah Omar. Scrive il corrispondente Ennio Caretto a fine novembre: "Soltanto un rovescio improvviso dell’Alleanza del Nord o lo scoppio di un conflitto civile potrebbe rilanciare il piano originario americano di fare dell’Afghanistan un altro Kosovo". Un nemico chiamato bin Laden - Ai successi militari dell’inverno 2001, che si conclude con la cacciata dei talebani anche da Kunduz e Kandahar, non fa seguito, però, la cattura del ricercato numero uno Osama bin Laden e dei suoi luogotenenti, sui quali pende una taglia lanciata dal governo americano di 25 milioni di dollari. Svanita l’occasione di fermarli durante la battaglia sui monti di Tora Bora, per bin Laden e gli altri capi di Al Qaeda si aprirà la via fuga verso il Pakistan, mentre viene ritrovato un nuovo video in cui il miliardario saudita, insieme al braccio destro al-Zawahiri, mostra "soddisfazione per il traguardo prefisso", interpretato dall’intelligence come un riferimento agli attentati dell’11 settembre. L’uccisione ad Abbottabad - Nel mirino dell’Fbi e dei servizi segreti di mezzo mondo, bin Laden riuscirà a nascondersi per un decennio, tra falsi annunci sulla sua cattura e sulla sua morte, fino alla mattina del 2 maggio 2011, quando un plotone di Navy Seal e forze della Cia riesce a localizzarlo ad Abbottabad, nei pressi di Islamabad, e lo uccide nel corso di uno scontro a fuoco seguito in diretta dal Presidente americano Barack Obama. Un’operazione controversa, che aumenterà ulteriormente l’alone di mistero sul terrorista saudita, nel mirino della giustizia americana e dell’Interpol fin dal 1998, ma in grado di svanire nel nulla vagando indisturbato dai paesi del Golfo Persico alle montagne dell’Afghanistan con il suo esercito di fedelissimi. "La capacità santa e satanica" - Un personaggio difficile da afferrare, almeno agli occhi del mondo occidentale, come scrisse Gian Antonio Stella poco dopo gli attentati dell’11 settembre: "Ed è lì la complessità di Osama bin Laden. Quella che spinge noi occidentali a inorridire davanti alla sua scelta di raccogliersi in preghiera per "ringraziare Dio e i responsabili degli attentati di New York" [...]. È in quella capacità santa e satanica, a seconda di chi lo guarda, di mischiare tutto: la guerra al cuore finanziario di Manhattan e quella a Goffredo di Buglione, le immense ricchezze e l’umile tenda nera da beduino...". Un regime piegato, non sconfitto - L’anno si chiuderà con l’avallo ufficiale dell’Onu all’intervento militare e con la creazione della missione Isaf, in cui convergono, oltre agli Usa e alla Gran Bretagna, i Paesi europei, insieme alla Turchia, all’Australia e al Canada. Ma, nel frattempo, i talebani respinti nelle aree al confine con il Pakistan riusciranno a riorganizzarsi con l’aiuto di volontari pachistani, provocando un’escalation degli scontri bellici, mentre l’Afghanistan fatica a darsi una nuova organizzazione politica e amministrativa. E per gli anglo-americani inizia presto l’estenuante conta delle vittime sul campo: "Nove morti e trentasei feriti statunitensi nella più feroce battaglia di terra dalla guerra del Vietnam. [...] Per l’America, che credeva una facile vittoria, è uno sviluppo traumatico. Il generale Tommy Franks, capo delle operazioni, ha parlato di guerra del Vietnam anziché dell’Afghanistan: si è subito corretto". Mentre Bush cerca di mantenere dalla sua il popolo americano: "Dobbiamo essere pazienti e disposti a subire delle perdite. Presto il nemico non avrà dove nascondersi, il nostro trionfo è certo". Il popolo americano e i "falchi" - Nel primo anniversario dell’11 settembre, con le notizie dello stallo militare sul terreno afghano e la minaccia di un nuovo conflitto in Iraq, gli americani iniziano a dubitare della missione Enduring Freedom, mentre tra i media internazionali si alzano voci fortemente critiche contro l’amministrazione Bush. Scrive Ennio Caretto: "Un anno dopo, la voragine di Ground Zero è sgombra, New York riposa, l’America e gli americani non sono più gli stessi. La catastrofe li ha in parte cambiati. Li ha resi migliori, verrebbe da dire, rispetto agli sfrenati anni Ottanta e Novanta: più introspettivi e uniti, meno scettici e aggressivi. [...] In Europa è polemica sull’unilateralismo e l’arroganza della Superpotenza nell’età del terrore e sulla sua impazienza verso gli alleati. Ma conviene distinguere tra la maggioranza degli americani e l’amministrazione Bush con i suoi falchi". La rabbia di Oriana Fallaci - L’antiamericanismo urlato di una parte dell’opinione pubblica internazionale, dopo gli sviluppi imprevisti della guerra, era stato anticipato dalle riflessioni critiche e consapevoli di osservatori come Tiziano Terzani, autore nell’ottobre del 2001 di un dialogo a distanza sulle pagine di Corriere con Oriana Fallaci - dopo la pubblicazione dell’articolo "La rabbia e l’orgoglio" - nel quale l’inviato fiorentino si interrogava sulle ragioni nascoste del conflitto. Le domande di Terzani - In particolare, Terzani si interrogava sull’importanza dell’Afghanistan quale passaggio obbligato di ogni conduttura per le immense risorse energetiche dell’Asia Centrale: "Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere le libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti". Primo voto a Kabul: il miracolo della libertà - Preso il controllo della missione nel 2003, la Nato favorisce la ricostruzione del Paese, addestra le forze di polizia locali e aiuta a preparare le prime elezioni democratiche dell’Afghanistan, che porteranno alla conferma di Hamid Karzai quale presidente, diffondendo una ventata di ottimismo tra la popolazione. Lorenzo Cremonesi è testimone diretto del giorno del voto e della speranza che suscita soprattutto tra i giovani afghani: "Le elezioni? Sono un miracolo, un vero miracolo. E chi non lo comprende non ha capito nulla dell’Afghanistan. Fino a tre anni fa noi uomini eravamo costretti a farci crescere la barba. Chi l’aveva troppo corta poteva venire arrestato dalle cosiddette pattuglie della moralità. I talebani bruciavano pubblicamente le cassette con voci femminili..." (L’articolo completo sfiorando l’icona blu). Ma l’entusiasmo non basterà a riportare la nazione alla pace, e anzi, il governo eletto dovrà tentare la strada dell’accordo con le forze talebane sopravvissute e intenzionate ad avere una propria rappresentanza, mentre le operazioni militari continuano in tutto il Paese, tra l’escalation di attentati e la perdita di posizioni delle forze occidentali, complice l’apertura del nuovo fronte di guerra in Iraq. Un nuovo presidente alla Casa Bianca - Finita l’era Bush, sette anni dopo l’11 settembre e l’attacco all’Afghanistan, a guidare gli Stati Uniti arriva il giovane senatore afro-americano dell’Illinois Barack Obama, scettico della prima ora riguardo l’operazione militare contro l’Iraq di Saddam Hussein, ma convinto sostenitore della necessità di proseguire la guerra al terrore tra le montagne dell’Asia Centrale, come osserva Giovanni Sartori: "Nel suo primo messaggio sullo stato dell’Unione il presidente Obama ha lasciato la politica estera in sordina ma ha ribadito, a proposito dell’Afghanistan, il progetto che sappiamo: nuove truppe oggi ma inizio del loro ritiro a metà del 2011". "Non mi piacciono le guerre senza fine" - Una decisione che Obama dovrà rivedere ancora nel 2015, rimandando la partenza delle truppe americane di qualche anno, alla luce del nuovo quadro internazionale, delle conseguenze delle primavere arabe, del conflitto siriano e di una nuova forza del terrore chiamata Isis, protagonista come Al Qaeda di un terrorismo micidiale e globale, che può trovare in democrazie fragilissime come l’Afghanistan un terreno fertile o una base operativa: "Non mi piacciono le guerra senza fine, ma non posso consentire che l’Afghanistan torni a essere un rifugio sicuro per i terroristi che minacciano anche la nostra sicurezza: la missione di combattimento è finita ma alcune migliaia di soldati americani dovranno restare nel Paese anche oltre il 2016 perché l’esercito afghano ha fatto passi avanti, ma non è ancora in grado di farcela da solo". Stati Uniti. In Alabama settimo appuntamento con la morte per un detenuto 74enne di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 ottobre 2016 2001, 2007, ancora 2007, 2008, 2012 e 2015. Sono gli anni in cui Tommy Arthur è arrivato a un passo dalla morte, in alcuni casi letteralmente a un passo, con la sospensione dell’esecuzione arrivata in extremis. Il 3 novembre, superato il 74esimo anno di età, Arthur avrà il settimo appuntamento col boia, che nello stato Usa degli Alabama è rappresentato da una nuova combinazione di farmaci dopo che quelli del protocollo tradizionale dell’iniezione letale sono andati esauriti e nessun’azienda europea è più disposta a fornirli. Arthur è stato condannato a morte nel 1983 con l’accusa di aver ucciso un uomo, l’anno prima, su commissione della moglie della vittima. Arthur ha sempre riconosciuto di aver ucciso un’altra persona, nel 1977, reato per il quale era stato già condannato (nel 1983 era stato rilasciato in prova) ma ha costantemente negato di aver compiuto il secondo omicidio, confessato da un’altra persona. Per 33 anni, i suoi legali hanno cercato di convincere praticamente tutti i tribunali dell’Alabama e quelli federali d’appello che Arthur è innocente dell’omicidio per il quale è stato condannato a morte. Una delle ultime carte da giocare è quella di contestare il metodo d’esecuzione in quanto la nuova miscela di farmaci (sperimentata una sola volta in Alabama, nell’esecuzione di Christopher Brooks) potrebbe dar luogo a una morte crudele, come già successo in passato in altri stati degli Usa. Recentemente, la Corte suprema federale ha esaminato una serie di ricorsi contro i nuovi protocolli dell’iniezione letale stabilendo che spetta al condannato a morte indicare un metodo alternativo che sia "praticabile e attuabile in tempi rapidi" e riduca significativamente il rischio di infliggere grave dolore fisico alla persona che sta per essere messa a morte. Gli avvocati di Arthur hanno allora proposto il plotone d’esecuzione: si tratta evidentemente di una strategia legale, giacché l’obiettivo è che il loro cliente non venga messo a morte in alcun modo. Insomma, manca meno di un mese al settimo appuntamento di Arthur con la morte, ma c’è ancora tempo per giocare le ultime carte, compreso un nuovo appello alla Corte suprema federale. Stati Uniti. Condannato a morte ma stanco di aspettare chiede iniezione letale anticipata di Luisa De Montis Il Giornale, 7 ottobre 2016 "Non voglio più vivere in questo buco di inferno. Sono pronto a procedere". Secondo dati ufficiali negli Usa143 detenuti nel braccio della morte hanno chiesto la pena di morte anticipata. In Texas un uomo colpevole di omicidio è stato giustiziato, dopo che aver disposto ai suoi avvocati di smettere di appellarsi in tribunale, poiché avrebbe preferito morire piuttosto che "continuare a vivere in questo inferno". Barney Fuller, 58 anni del Taxas, che era stato condannato per aver assassinato nel 2003 i suoi vicini di casa sotto gli occhi dei due figli, è così morto lo scorso mercoledì in seguito all’iniezione letale. E nemmeno sul punto di morte il pluriomicida ha avuto un momento di esitazione: "Non ho niente da dire, si può procedere", ha dichiarato prima di esalare l’ultimo respiro. La condanna a morte di Fuller è la settima quest’anno in Texas e la 16 in tutti gli altri Stati, a dimostrazione del fatto che in Texas le procedure che regolano la pena di morte sono tra le più rigide degli Stati Uniti. Stando a dati ufficiali, inoltre, Fueller è stato il 143 esimo carcerato che avrebbe presentato richiesta di morte, senza attendere la normale tempistica e procedura. Fuller nel 2003 si era introdotto in casa dei vicini Annette Copland e Nathan Copeland, a seguito di alcuni litigi precedenti che avevano portato anche ad una convocazione in tribunale, e con un fucile automatico aveva aperto il fuoco, lasciandoli senza vita. L’uomo sparò anche ad uno dei due figli, di soli 14 anni, che rimase in vita, mentre la figlia più piccola di 10 anni, riuscì a nascondersi. Stati Uniti. "Non respiro": detenuto chiede aiuto agli agenti, loro lo aggrediscono. Morto fanpage.it, 7 ottobre 2016 Un nuovo video riapre le polemiche negli Stati Uniti sulla violenza da parte delle forze di polizia contro i cittadini afroamericani. In un carcere al confine fra Texas e Arkansas Michael Sabbie, un detenuto 35enne, è stato aggredito da diversi agenti penitenziari mentre chiedeva aiuto. Lui chiede disperatamente aiuto ripetendo continuamente "Non riesco a respirare", ma loro lo bloccano a terra e gli spruzzano contro anche uno spray urticante prima di riportarlo nella sua cella. Dove lui, il trentacinquenne afroamericano Michael Sabbie, muore qualche ora dopo. Arriva da un carcere al confine tra Texas e Arkansas un video che riapre le polemiche negli Stati Uniti da parte delle forze di polizia contro la comunità afroamericana. Nel video si vede il detenuto, un uomo di trentacinque anni padre di quattro figli, in difficoltà mentre cammina nei corridoi del penitenziario - è affaticato e sembra avere problemi respiratori - ma si vedono anche gli agenti che, invece di aiutarlo, lo aggrediscono. Più volte l’uomo ripete di non riuscire a respirare, di avere la polmonite, ma da parte delle guardie non riceve alcun aiuto. Sabbie era in carcere da tre giorni con l’accusa di violenza domestica e stava rientrando in cella dopo l’udienza. L’episodio di Michael Sabbie ricorda quello di Eric Garner, morto nel 2014 - Le immagini diffuse in queste ore (la morte di Sabbie risale al luglio 2015) mostrano inizialmente un agente penitenziario che lo scaraventa a terra e poi altri colleghi che lo lasciano seminudo e gli si buttano addosso spruzzando lo spray al peperoncino nonostante le richieste d’aiuto del detenuto, già in evidente difficoltà. Dopo la sua morte, il medico legale aveva parlato di "cause naturali" sostenendo che l’uomo era obeso e soffriva di disturbi cardiaci. Ma ora il video diffuso dai parenti di Sabbie mostra quantomeno la violenza degli agenti penitenziari nei confronti dell’uomo. L’episodio è già stato ribattezzato dai media americani come "un nuovo caso Eric Garner", l’afroamericano di New York ucciso due anni fa da un agente nonostante implorasse di mollare la stretta alla gola che lo stava soffocando. Messico. Narcotraffico e giovani vittime di Lucia Capuzzi Avvenire, 7 ottobre 2016 Porky Pig. Il pasticcio di carne, mais dolce e qualche ingrediente segreto è la specialità del ristorante La Leche di Puerto Vallarta. Il jet set nazionale si dà appuntamento nel locale vip per assaggiare il celebre piatto: artisti, manager, perfino l’ex presidente Felipe Calderón. Ovvio, dunque, che anche loro, i rampolli dei più potenti clan di ‘signori del narcotrafficò lo frequentino. Fin qui niente di strano. I narco-juniors - figli e nipoti di boss - sono parte integrante dell’alta società messicana. Nemmeno troppo strano è quanto accaduto la notte tra il 14 e il 15 agosto: un commando armato ha fatto irruzione a La Leche, si è diretto verso il tavolo di una comitiva di ragazzi rumorosi, intenti a celebrare un addio al nubilato. Ne ha scelti sei - altre fonti dicono sette - e li ha portati via. Scene di violenza quotidiana nel Messico della narco-guerra. Con almeno 27mila desaparecidos, nessuno si stupisce troppo per un sequestro, o "levantón" come dicono da queste parti. E, invece, stavolta il fatto era del tutto inedito. Per l’identità di una delle vittime: Alfredo Guzmán, figlio - nonché collaboratore - di Joaquín El Chapo Guzmán, capo del cartello di Sinaloa, la più potente multinazionale del crimine, con ramificazioni nei cinque Continenti, Europa e Italia incluse. Immediatamente il rapimento è diventato un affare di Stato, anzi globale data la rete di consociate e succursali di Sinaloa sparse in 69 Paesi. Una questione aperta a quasi due mesi di distanza e dai risvolti inquietanti, nonostante il rilascio di Alfredo, a sei giorni dalla cattura. Chi e soprattutto perché l’ha preso? Per quale ragione o in cambio di cosa l’ha lasciato andare vivo e incolume? È l’inizio della fine dell’impero di El Chapo? Siamo di fronte a una nuova tappa della narco-guerra? Interrogativi cruciali, non solo per gli appassionati di ‘saghe mafiosè, come quelle raccontate, in modo un pò naif, in popolarissime serie tv. I clan hanno conquistato brandelli, a volte consistenti, di istituzioni. E, forti di tale appoggio, controllano territori e pezzi importanti di economia. Un mutamento nell’equilibrio criminale non ha solo enormi ripercussioni nell’organizzazione del narcotraffico internazionale. Incide direttamente nella vita delle persone. Il conflitto invisibile in corso in Messico da dieci anni ha ucciso oltre 250mila cittadini, in gran parte civili. Negli ultimi mesi, c’è stata una recrudescenza degli scontri anche in zone - come Ciudad Juárez, il Colima e il Michoacan - in cui la violenza si era attenuata. Il risultato è un bagno di sangue. Luglio ha raggiunto il record di 1.051 omicidi: oltre 30 messicani assassinati al giorno. Settembre non è stato da meno: 1.041 delitti. Nell’ultimo mese inoltre sono stati massacrati tre sacerdoti in un’ennesima offensiva per zittire le voci ‘scomodè per il crimine. L’affaire Alfredo è molto più, dunque, di un ‘regolamento di contì fra narcos. È un pasticcio dai molti ingredienti segreti. ‘Porky Pig’, l’ha ribattezzato qualche messicano. Senza pretendere di svelarne la ricetta - per riprendere la metafora culinaria -, possiamo quantomeno provare a individuarne i principali componenti. A cominciare dai più evidenti. Primo. El Chapo è di nuovo in prigione, nel Cereso di Ciudad Juárez, dopo il terzo arresto a Los Mochis, l’8 gennaio scorso. "A differenza delle altre volte, si tratta di un carcere duro - spiega ad Avvenire Anabel Hernández, giornalista nota per i suoi reportage sul narcotraffico e autrice di ‘La terra dei narcos’ (Mondadori) -. La moglie, Ema Coronel, mi ha ripetuto più volte in un’intervista di essere molto preoccupata. E la sua versione è stata confermata da fonti indipendenti". Il più potente dei narcos - in grado di trasformare i penitenziari in hotel a cinque stelle - dunque, attraversa un momento di crisi. E qui veniamo al secondo elemento. "Ancor prima del rapimento di Alfredo, l’11 giugno scorso c’è un precedente inquietante. La casa della madre di El Chapo, a La Tuna, è stata saccheggiata. È stata un’aggressione dal forte valore simbolico: il boss è stato attaccato nella sua stessa terra, nel paesino dov’è nato e oltretutto da un nipote, Alfredo Beltrán Guzmán. Il clan, da sempre unito, inizia a spaccarsi". Ai nemici interni si sommano quelli esterni. In primis il cartello di Jalisco Nueva Generación, una sorta di ‘new entry’ nell’Olimpo del narcotraffico. Un tempo affiliato a Sinaloa, si è messo in proprio nel 2009-2010. Pian piano ha cominciato a espandersi nella zona di Jalisco e Colima, reclutando i superstiti delle organizzazioni fagocitate dai clan più grandi. Ora, però, vuole di più. Autorità ed esperti concordano nell’attribuire al cartello di Jalisco e al suo capo, Nemesio Oseguera Cervantes alias El Mencho, la responsabilità del sequestro di Alfredo e il sostegno logistico nell’aggressione alla madre di El Chapo. Dopo quest’ultima, Sinaloa ha reagito con ferocia: l’intero stato è stato messo a ferro e fuoco, con tanto di villaggi bruciati, persone squartate e 4.500 sfollati in poche settimane. Perché una nuova provocazione? El Mencho ha davvero la forza per sfidare il potere di El Chapo? E, se sì, perché poi ha liberato Alfredo? "C’è un dettaglio importante. Il figlio di El Mencho è rinchiuso nel penitenziario del Altiplano - afferma Ismael Borórquez, direttore della rivista Rio Doce, specializzata in inchieste sul crimine -. Da dove El Chapo è scappato dopo il secondo arresto. Se fosse accaduto qualcosa ad Alfredo, quest’ultimo si sarebbe vendicato sul rampollo di El Mencho". Ovvio, nei negoziati sono entrate in ballo molte questioni. "Non sappiamo ancora niente di certo. Ma potrebbero essere accordati sul controllo di rotte per il trasporto della droga o territori", prosegue Borórquez. E "segreti da custodire", aggiunge Hernández. "Ricordate l’intervista con Sean Penn? Beh le mie fonti hanno confermato che il boss di Sinaloa voleva davvero far fare un film su se stesso. E sarebbe questa l’origine del suo presunto declino. Tanti pezzi grossi - politici, giudici, imprenditori - non vogliono vedere i loro nomi comparire sullo schermo...". Qualcuno sta cercando di tappare la bocca a El Chapo prima che dica una parola di troppo, specie ora che l’estradizione verso gli Usa si avvicina - l’avvocato ha anticipato che la prima decisione sarà a fine mese - potrebbe essere tentato di spifferare qualche particolare ghiotto in cambio di uno sconto di pena? O è forse Washington a voler che il super capo dica o non dica qualcosa? "Secondo le nostre fonti, la Drug Enforcement Administration (Dea) ha fatto pressioni sul cartello di Jalisco perché non uccidesse Alfredo e il fratello Iván che, per alcuni, era fra i rapiti - sottolinea il direttore di Rio Doce -. Certo, né agli Stati Uniti né al governo messicano conviene la guerra che l’assassinio di uno o due figli di El Chapo avrebbe provocato. Non so se, però, si riuscirà ad evitarla. Qualche giorno fa, è stato assassinato un nipote di Ismael El Mayo Zambada, numero due di Sinaloa". Mentre i boss affilano le armi, la violenza continua ad aumentare. Il problema è strutturale. "E si riassume in un concetto: l’assenza dello Stato - spiega Edgardo Buscaglia, tra i più noti esperti di sicurezza internazionale, autore di Vacios de poder en México e Lavado de dinero y corrupción política. La corruzione è cronica. Per le organizzazioni criminali è estremamente economico comprare un funzionario. L’80 per cento degli appalti pubblici sono finanziati con denaro dei narcos. Il che è preoccupante. Perché così lo Stato si trasforma in mafiocrazia. All’interesse generale viene sostituito quello dei diversi gruppi criminali". Finora, secondo gli esperti, la politica avrebbe privilegiato quelli di Sinaloa. Ora sembra che il vento stia cambiando. "Anche se è tutto da vedere. Sinaloa è una multinazionale criminale, guidata da una sorta di consiglio di amministrazione con esponenti dei vari Continenti. El Chapo è importante, ma non è l’unico". Un bel pasticcio, insomma. Porky Pig. Honduras. Bertita alla ricerca di giustizia di Francesco Martone Il Manifesto, 7 ottobre 2016 La figlia dell’attivista honduregna Bertha Caceres continua a chiedere verità sull’omicidio della madre e soprattutto la difesa dei diritti dei popoli indigeni dell’America Latina. L’Italia deve fare la sua parte. "Credo che di fronte alla richiesta di giustizia proveniente da ogni parte del mondo per l’assassinio di mia madre Bertha, sia importante per me essere in Italia per raccontare in prima persona quello che stiamo vivendo in Honduras, rafforzare i vincoli di solidarietà e collaborazione per far sì che alla richiesta di giustizia seguano azioni concrete", Bertita parla con voce sottile, lo sguardo penetrante e profondo incorniciato da capelli neri. Studia storia e cultura dell’America Latina in Messico, dopo aver passato cinque anni di studi a Cuba. Ormai però la stragrande maggioranza del suo tempo la passa in giro per il mondo, per rappresentare il proprio popolo, il popolo Lenca e l’organizzazione di cui fa parte, il Copinh (Consejo Civico de Organizaciones Populares e Indigenas de Honduras), di cui la mamma Bertha era co-fondatrice e leader riconosciuta. Sette mesi sono passati da quando Bertha ha trovato la morte sotto i proiettili di qualche sicario mandato da chi voleva mettere a tacere la sua voce e quella di chi si oppone al progetto della diga Agua Zarca, a Rio Blanco. La storia di Bertha, dell’impunità e della mancata collaborazione del governo honduregno nell’accertare le responsabilità e punire i mandanti ed esecutori materiali del delitto, è la storia di tanti attivisti. Bertita porta sulle sue forti spalle un’importante eredità. È in giro per l’Italia da una decina di giorni. Dopo il Festival di Internazionale a Ferrara, la incontriamo a Roma in occasione della tappa organizzata con il sostegno del Cica, Collettivo Italia-Centro America. Ha voluto visitare la tomba di Antonio Gramsci, come fece a suo tempo la mamma quando venne a Roma per incontrare Papa Francesco in occasione del primo incontro da lui convocato con i movimenti indigeni e sociali di mezzo mondo. E ha finalmente avuto occasione di parlare faccia a faccia con Vicky Tauli Corpuz, la tenace e combattiva relatrice speciale Onu sui Diritti dei Popoli Indigeni, donna indigena Igorot delle Filippine. Era tempo che si rincorrevano. Vicky aveva visitato il sito della diga assieme a Bertha madre, attivandosi fin da subito. Immediatamente dopo il suo omicidio, si è mossa con tutti gli strumenti a sua disposizione, contrapponendo i suoi dossier a quelli menzogneri e inaffidabili prodotti dal governo dell’Honduras, dall’impresa e dagli organismi finanziari che sostengono il progetto: Fmo olandese, FinnFund finlandese e la Banca centramericana di integrazione economica (Bcie). È dei giorni scorsi la pubblicazione di un suo rapporto sull’Honduras e il progetto di Agua Zarca al centro delle denunce del Copinh, stilato dopo una missione sul campo, che le ha permesso di constatarne in prima persona la veridicità. Bertita ha incontrato nuovamente Inka Artjeff rappresentante del Parlamento Sami che vive a Roma e che si è attivata da tempo - dopo essersi conosciute ad Helsinki - per convincere il governo finlandese a recedere dal finanziamento della diga. All’inizio il progetto era sostenuto dalla Banca Mondiale e da Sinohydro, che decisero di ritirarsi in seguito all’indignazione internazionale conseguente l’assassinio di un attivista della comunità Lenca. In Italia da tempo esiste una rete di solidarietà con il Copinh che si è immediatamente attivata per accogliere Bertita. In molti si sono spontaneamente mobilitati. Da Un Ponte Per alla Fondazione Lelio Basso e il Tribunale Permanente dei Popoli, che anni or sono convocò Berta tra i testimoni di una sua sessione sulle imprese europee e sui diritti umani in America Latina. A loro ha chiesto sostegno: "Vogliamo una commissione indipendente di inchiesta sull’omicidio di mia madre, che venga immediatamente cancellato il progetto, e che si ponga fine al clima di impunità che il mio popolo e tutti i popoli indigeni stanno soffrendo nel nostro paese". Ha anche incontrato gli attivisti di Amnesty International, che ha rilanciato una campagna nazionale per chiedere giustizia per Berta e pubblicato un importante dossier sui crimini contro i difensori della terra in America Centrale. Greenpeace si è attivata da tempo con i suoi uffici nella regione andina e in Italia, mettendo a disposizione anche la Rainbow Warrior. Tutto questo per offrire uno spazio di protezione e informazione sulla situazione di un popolo e di un paese che, dall’indomani del golpe che depose l’allora Presidente Zelaya, vive una ulteriore drammatica escalation della repressione e l’aumento esponenziale di omicidi contro i difensori della terra e dei diritti umani. Non che la situazione fosse migliore prima, anzi. "Esiste da sempre un forte nesso tra la spirale di violazioni, la criminalizzazione dei movimenti sociali ed indigeni, l’avanzata della frontiera estrattiva e la costruzione di grandi infrastrutture destinate a produrre elettricità per la trasformazione delle risorse minerarie. A maggior ragione in un contesto di illegalità e illegittimità come quello dell’Honduras del dopo Golpe" accusa Bertita. È evidente che quella dei diritti è questione essenzialmente politica, con migliaia di storie di resistenza. Se ne è parlato a Berlino, in occasione di un recente incontro promosso dal Transnational Institute, in concomitanza con il "summit" dei movimenti pacifisti e dell’International Peace Bureau, dedicato al disarmo. Lo sanno bene gli attivisti che, a breve, si riuniranno a Ginevra in occasione del secondo incontro del gruppo di lavoro open ended del Consiglio ONU sui Diritti Umani, incaricato di discutere gli elementi essenziali di un Trattato vincolante per le imprese transnazionali e altri attori economici. Una sfida importante, necessaria, che attualmente non viene sostenuta da importanti attori economico-commerciali, quali l’Ue. Bertita ha parlato anche all’Onu a Roma, di fronte a delegati indigeni, della società civile e delle agenzie Onu in occasione di un evento organizzato da Fao, Ifad e International Land Coalition. Con il suo linguaggio semplice e diretto ha puntato il dito contro il governo honduregno, l’impresa Desa ed i finanziatori europei. Una catena di corresponsabilità che va messa a nudo e perseguita attraverso la solidarietà internazionale, la costruzione di reti e vertenze comuni. Va rotto il recinto dell’impunità - è di qualche giorno la notizia del trafugamento in Honduras dei fascicoli dell’inchiesta sull’omicidio di Bertha - e dell’oblio, unendo le forze, entrando ovunque, fin dentro le aule della camera. Invitata in audizione dalla presidente del Comitato diritti umani della commissione Esteri della camera Pia Locatelli, Bertita ha chiesto "un impegno chiaro" nei confronti del governo dell’Honduras (con il quale l’Italia ha un accordo per la promozione degli investimenti, ndr), e "verità e giustizia e il rispetto dei diritti umani e dei popoli indigeni. Sarebbe anche importante sollecitare i Parlamenti finlandese e olandese affinché si interrompano i finanziamenti a Agua Zarca". Bertita esorta il parlamento italiano a seguire l’esempio di altri paesi, come gli Stati Uniti, dove è al vaglio un progetto di legge, il Bertha Caceres and Human Rights Act, che prevede l’interruzione di ogni forma di aiuto militare all’Honduras fintantoché non si risolva il caso di Bertha, e si persegua questo e gli altri crimini contro difensori di diritti umani nel paese, e si indaghino casi di corruzione che vedono coinvolte le sfere militari. "Prima di tornare in Messico e poi in Chiapas, chiudo il mio viaggio italiano a Mondeggi, luogo di un’importante operazione di recupero e autogestione dove mi incontrerò con i movimenti italiani per condividere la mia esperienza e conoscere le loro lotte". Saluta con un sorriso, Bertita, e riparte con il suo zaino in spalla.