Lettera aperta di un uomo Ombra a Piero Angela di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 6 ottobre 2016 In questi giorni mi sento stanco di lottare per avere un fine pena che non avrò mai, perché penso che sia da sciocchi agire solo sulle speranze. (Diario di un ergastolano: www.carmelomusumeci.com). Innanzitutto mi presento, sono un "uomo ombra" (così si chiamano fra di loro in Italia gli ergastolani)detenuto nel carcere di Padova. Sono condannato alla "Pena di Morte Viva" o come la chiama papa Francesco, alla "Pena di Morte nascosta". Mi creda, questa condanna è peggiore, più dolorosa e più lunga, della pena di morte, perché è una pena di morte al rallentatore, che ti ammazza lasciandoti vivo o facendoti diventare un cadavere vivente. Molti detenuti seguono da anni le sue trasmissioni, alcuni ergastolani da più di un quarto di secolo, sia perché lei spiega benissimo anche i concetti più difficili, sia perché ci descrive il mondo che molti di noi non vedranno mai più. I suoi programmi sono sempre molto educativi e trattano le più diverse tematiche,scientifiche, economiche, sociopolitiche. I mass media dovrebbero servire a stimolare la coscienza di un popolo, ma il diritto all’informazione non sempre viene rispettato, e per esempio non si fa mai approfondimento sulle conseguenze psicologiche e fisiche che comporta una pena che non ti dà nessuna certezza un giorno di poterla finire. Per questoho pensato di scriverle, per invitarla a pensare di fare una trasmissione, con un’impronta scientifica e sociologica, sulla pena dell’ergastolo e su uomini che sono murati vivi da più di un quarto di secolo. Poi le scrivo anche per informarla che la redazione di "Ristretti Orizzonti", una rivista realizzata da detenuti e volontari da quasi vent’anni, ha pensato di organizzare un convegno nel carcere di Padova per il 20 gennaio 2017 per l’abolizione dell’ergastolo, dal titolo Contro la Pena di Morte Viva. Peril diritto a un fine pena che non uccida la vita. E ho pensato di invitarla perché credo che la sua presenza sarebbe importante, dato che la pena dell’ergastolo è sempre una punizione che va oltre la ragionevolezza e l’abolizione della "Pena di Morte Viva" è una battaglia di civiltà che, più che dagli uomini ombra, dovrebbe essere fatta dalle persone migliori del nostro Paese. Se vuole sapere qualcosa di più di questo argomento potrà visitare il sito www.carmelomusumeci.com e www.ristretti.org o contattare la Segreteria del convegno Contro la Pena di Morte Viva tramite indirizzo informatico redazione@ristretti.it. Un sorriso fra le sbarre. Nelle carceri 42mila detenuti con disturbi mentali di Gabriella Meroni Vita, 6 ottobre 2016 Oltre un detenuto su tre soffre di problemi quali psicosi, depressione, disturbi della personalità. Una percentuale che supera anche di tredici volte quella di chi sta "fuori" e viene alimentata dalla segregazione. Contro questo circolo vizioso parte un progetto integrato per nuovo approccio che sia efficace. Più di 42 mila detenuti italiani - il 77% degli oltre 54 mila totali - convivono con un disagio mentale: dai disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi. Problemi gravi che possono portare a conseguenze estreme come l’autolesionismo (circa 7 mila episodi in un anno) o il suicidio (43 casi e oltre 900 tentativi solo nel 2014). Il carcere - avvertono gli esperti della Società Italiana di Medicina e Salute Penitenziaria - diventa così un amplificatore dei disturbi mentali: l’isolamento insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un problema psichico, a volte latente. Il panorama delle malattie mentali nelle carceri italiane è molto variegato, con una prevalenza nettamente più alta rispetto a quella che si registra nella popolazione generale. Se fuori dal carcere, ad esempio, i disturbi psicotici si riscontrano nell’1% delle persone, dietro le sbarre la percentuale sale al 4%. Più alti sono anche i numeri della depressione: nei detenuti la prevalenza si attesta intorno al 10% contro il 2-4% della popolazione generale. Inoltre più della metà dei reclusi, il 65%, convive con un disturbo della personalità, una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra normalmente (5-10%). Al disagio mentale, infine, si sommano spesso i disturbi da sostanze stupefacenti, che tra i detenuti hanno una frequenza 12 volte maggiore rispetto a quella della popolazione generale (48% contro 4%). Constatando questa situazione è nato il progetto "INSIEME - La Salute mentale in carcere". promosso dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, dalla Società Italiana di Psichiatria e dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze con il supporto di Otsuka. Obiettivi dell’iniziativa sono spezzare il circolo vizioso della sofferenza psichica e introdurre un approccio integrato nella gestione dei disturbi mentali in carcere, sviluppando un percorso applicabile in tutti gli istituti penitenziari italiani. Lunedì 10 ottobre, Giornata Mondiale della Salute Mentale, il progetto INSIEME presenta un nuovo Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale che si propone di integrare le diverse figure professionali che lavorano all’interno delle prigioni e di assicurare una continuità terapeutica-assistenziale anche dopo la scarcerazione. Si tratta di un progetto multidisciplinare che, puntando sull’integrazione delle diverse figure professionali che lavorano all’interno delle prigioni, propone schemi unitari per la gestione del detenuto psichiatrico sia durante la detenzione, sia al momento del suo rilascio, assicurando così una continuità terapeutica-assistenziale anche dopo la scarcerazione. Psichiatria: 3 detenuti su 4 con disturbi mente, al via progetto ad hoc Adnkronos, 6 ottobre 2016 Un amplificatore dei disturbi mentali. Il carcere può alimentare una sorta di circolo vizioso della sofferenza psichica: l’isolamento e la mancanza di contatto con l’esterno, insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un disagio psichico che può essere già diagnosticato o ancora latente. I numeri sono allarmanti: più di 42 mila detenuti italiani - il 77% degli oltre 54 mila totali - convivono con un disturbo mentale: dai disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi. Disagi che possono portare a conseguenze estreme come l’autolesionismo (circa 7 mila episodi in un anno) o il suicidio (43 casi e oltre 900 tentativi solo nel 2014). Mettere un freno al circolo vizioso della sofferenza psichica e introdurre un nuovo approccio integrato nella gestione dei disturbi mentali in carcere, sviluppando un percorso applicabile in tutti gli istituti penitenziari italiani, sono gli obiettivi principali del progetto "Insieme - La Salute mentale in carcere": l’iniziativa è promossa dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, dalla Società italiana di psichiatria e dalla Società italiana di psichiatria delle dipendenze con il supporto incondizionato di Otsuka. In occasione della Giornata mondiale della salute mentale, che si celebra in tutto il mondo lunedì 10 ottobre, gli esperti lanciano l’allarme sulla gestione dei disturbi mentali nelle carceri italiane e indicano la strada per permettere ai detenuti di avere le stesse opportunità di cura e di assistenza di cui godono i pazienti al di fuori dei penitenziari. Il progetto Insieme individua così un nuovo Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta), si propone di integrare le diverse figure professionali che lavorano all’interno delle prigioni e di assicurare una continuità terapeutica-assistenziale anche dopo la scarcerazione. Dalla depressione alla psicosi, passando per i disturbi della personalità. Il panorama delle malattie mentali nelle carceri italiane è molto variegato, con una prevalenza nettamente più alta rispetto a quella che si registra nella popolazione generale. Se fuori dal carcere, ad esempio, i disturbi psicotici si riscontrano nell’1% delle persone, dietro le sbarre la percentuale sale al 4%. Più alti sono anche i numeri della depressione: nei detenuti la prevalenza si attesta intorno al 10% contro il 2-4% della popolazione generale. Inoltre più della metà dei reclusi, il 65%, convive con un disturbo della personalità, una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra normalmente (5-10%). Al disagio mentale, infine, si sommano spesso i disturbi da sostanze stupefacenti, che tra i detenuti hanno una frequenza 12 volte maggiore rispetto a quella della popolazione generale (48% contro 4%). L’isolamento e la mancanza di contatti verso l’esterno possono favorire la comparsa o l’aggravarsi delle malattie mentali. "La perdita improvvisa di libertà e lo shock derivante dalla detenzione - commenta Luciano Lucanìa, presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria - sono tutti traumi che incidono sulla psiche dei detenuti, che non sempre hanno la forza interiore di reagire. Da non sottovalutare poi l’impossibilità di comunicare con l’esterno: si passa da un "fuori" che oggi è caratterizzato da comunicazione immediata e social, a un "dentro" il carcere, dove la persona si trova improvvisamente tagliata fuori dal mondo, senza possibilità di parlare con amici e parenti, senza cellulare o internet. Così i suoi contatti sono limitati ai colloqui con il proprio avvocato, con la famiglia e a qualche programma televisivo. Si tratta di esperienze che a livello psichico possono lasciare segni molto forti, trasformando il carcere in luogo dove possono nascere ed esplodere problematiche di tipo psichiatrico". "Un armamentario terapeutico spesso obsoleto, carenza di percorsi di assistenza e di riabilitazione, collegamenti non adeguati con il territorio, che non facilitano il reinserimento dopo la reclusione: oggi sono forse questi - afferma Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria - gli ostacoli più ingombranti nella gestione dei disturbi mentali in carcere. Problematiche che derivano da diversi fattori, come ad esempio la scarsa integrazione delle figure professionali e la mancanza di dati epidemiologici precisi relativi al disagio mentale tra i detenuti. È quindi cruciale dare vita a una nuova visione della psichiatria penitenziaria ed è proprio questo l’obiettivo che si pone l’iniziativa "Insieme - Salute mentale in carcere". Si tratta di un progetto multidisciplinare che, puntando sull’integrazione delle diverse figure professionali che lavorano all’interno delle prigioni, propone schemi e algoritmi unitari per la gestione del detenuto psichiatrico sia durante la detenzione, sia al momento del suo rilascio. Assicura così una continuità terapeutica-assistenziale anche dopo la scarcerazione. L’iniziativa prevede, inoltre, l’organizzazione di corsi di formazione in alcuni istituti penitenziari italiani, destinati a chi opera nel carcere, ma anche agli operatori sanitari che lavorano sul territorio. Dopo le tappe nel carcere di Civitavecchia (26 settembre) e di Milano Opera (4 ottobre), si arriverà a Monza (il 12 dicembre), Genova e Rossano Calabro (nel 2017). "Il progetto punta anche a sensibilizzare gli italiani sul tema delle problematiche della salute mentale in carcere - commenta Massimo Clerici, presidente della Società italiana di psichiatria delle dipendenze - persiste ancora infatti uno spiacevole luogo comune che vede i detenuti come persone che, in quanto colpevoli, non sono meritevoli di cure. È invece fondamentale garantire loro una diagnosi precisa e un trattamento adeguato e integrato grazie a un nuovo Pdta. Il progetto Insieme punta sulla formazione, non limitandola solo agli operatori penitenziari, ma estendendola a tutti i soggetti coinvolti nel circuito assistenziale, nell’ottica di una piena integrazione carcere-territorio. In questo senso, pensiamo che gli incontri formativi dentro alcune carceri italiane possano essere di aiuto nel migliorare la gestione delle malattie mentali". La "nuova" supplenza della magistratura invocata dalla politica di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2016 Anche la battaglia politica sul referendum fa tappa nelle aule del tribunale. Ieri i 5 Stelle e Sinistra italiana hanno presentato un ricorso al Tar del Lazio sul testo del quesito per la sua presunta illegittimità e, a questo punto, saranno i magistrati a dirimere uno dei tanti duelli tra i sostenitori del "sì" e del "no". Vedremo come finirà ma quello che colpisce è che questo è l’ennesimo episodio di una storia nuova tra politica e toghe. In cui la politica appare decisamente soccombente. Non tanto per le decisioni che ha assunto e assumeranno i giudici ma per la facilità con cui i partiti vanno a bussare dalla magistratura. Come se non avessero abbastanza legittimità e forza per portare avanti le loro battaglie. Per renderle credibili. Scorrendo queste ultime settimane sono tanti gli esempi. Lo scambio di querele tra la Raggi e Renzi su "Mafia Capitale", la ricerca spasmodica di un assessore al Bilancio di Roma tra gli ex magistrati della Corte dei Conti, il ricorso a Raffaele Cantone come l’oracolo definitivo di mille controversie, le più diverse. E pure la riforma della giustizia su cui il Governo e il Parlamento si fermano in attesa del via libera dell’Anm. Insomma, un lungo elenco di supplenza invocata, addirittura rincorsa dalle stesse forze politiche. Molti anni fa, ai tempi di Tangentopoli, si parlò di una supplenza di fatto della magistratura provocato dal crollo del sistema dei partiti per le inchieste sulla corruzione e il malaffare. Era più di vent’anni fa e in quella stagione finì la storia di alcuni partiti e si aprì quella di Silvio Berlusconi. Il cui punto forte del programma era proprio il braccio di ferro con la magistratura. Sono seguite legislature di leggi ad personam e di riforme tentate sulla giustizia, di scontri continui. Oggi si apre un nuovo capitolo. Che non sempre è dovuto alle inchieste giudiziarie, che non nasce dallo scontro di due poteri dello Stato ma che viene sollecitato dalla stessa politica che non ce la fa a compiere il suo dovere. Non ce la fa nella selezione della classe dirigente e sfoglia curricula di magistrati a riposo. Non ce la fa nelle scelte finali sulle leggi o le riforme e chiede soccorso ai giudici. E ne ha bisogno perfino per mettere il timbro di validità sui contratti della pubblica amministrazione. Si avventura invece con liste di impresentabili in alcuni casi smentite dalle sentenze. Renzi ha sbandato tra giustizialismo e garantismo ed è passato dall’attacco sulle ferie dei magistrati all’invocazione del consenso del presidente dell’Anm Davigo sulla riforma della giustizia penale. Perfino i 5 Stelle che hanno proposto l’immagine più cristallina del rapporto con la magistratura oggi, nella vicenda Muraro, si dividono sul dilemma se l’avviso di garanzia pesi o no nella fiducia dell’assessore di Roma. La destra insiste nella sua battaglia: Salvini ha definito qualche mese fa la magistratura italiana una "schifezza" salvo poi invitare i suoi elettori a votare i grillini che hanno una posizione opposta sulla giustizia. A distanza di anni resta l’ambiguità. Non c’è ancora una linea di equilibrio perché la politica non ce la fa a riprendersi il suo ruolo per intero. E le sue responsabilità. Cassazione, cause veloci di Claudia Morelli Italia Oggi, 6 ottobre 2016 L’aula della Camera ha approvato ieri, dopo una giornata di acceso dibattito, le norme del disegno di legge di conversione del decreto legge 168/2016 - Efficienza degli uffici giudiziari. Oggi ci saranno le dichiarazioni di voto e il voto finale. L’Anm, contraria alle norme di natura ordinamentale, ha chiesto di essere ricevuta dal premier Renzi e dal ministro Orlando prima dell’approvazione. Il provvedimento riforma il giudizio di Cassazione, tramite la trattazione in camera di consiglio e la semplificazione del "filtro" di ammissibilità dei ricorsi; disciplina l’applicazione dei magistrati del Massimario ai collegi di legittimità; riduce i tempi di copertura dell’organico della magistratura ordinaria; prevede un maggiore periodo di permanenza del magistrato nella sede assegnata e riducendo i casi di assegnazione, comando o distacco del personale amministrativo presso altre pubbliche amministrazioni per assicurare la funzionalità degli uffici giudiziaria; assicura, attraverso disposizioni processuali sulla sinteticità degli atti, l’aumento dell’organico del personale amministrativo,la conversione telematica e la istituzione dell’ufficio del processo, l’efficienza del processo amministrativo. Montecitorio ha votato e respinto 106 emendamenti (approvandone due in tema di giustizia amministrativa, molto discussi- si veda oltre) in un clima arroventato, con le opposizioni impegnate a contestare, oltre la scelta della decretazione d’urgenza per materie processuali e ordinamentali, anche il testo articolo per articolo e le decisioni della presidenza della Camera in merito alla inammissibilità degli emendamenti. Molto si è discusso della applicazione dei giudici del Massimario ai collegi di legittimità della Cassazione, che avverrà in via temporanea, e tantissimo dell’articolo 5 che dispone la proroga del pensionamento dei soli vertici della Cassazione e delle altre giurisdizioni superiori, che è valso al decreto l’appellativo di "ad personam". Qualche distinguo così è arrivato dallo stesso Pd: la presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi aveva presentato un emendamento, respinto, per stemperarne l’impatto almeno dal punto di vista formale. A difesa dell’articolo sono intervenuti sia la presidente della commissione giustizia Donatella Ferranti che il relatore Ermini, per rivendicare al Parlamento l’autonomia di legiferare per assicurare il funzionamento della giurisdizione di legittimità, in relazione alla sua "peculiarità", nonostante il parere del Csm, che aveva messo in guardia sul rischio di ricorsi di incostituzionalità da parte degli altri magistrati. Il M5s ha contestato ieri un’altra norma "ad personam", che aumenta di due unità la composizione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa: "Serve a nominare l’ex ministro Patroni Griffi e del presidente del Tar della Toscana Pozzi", ha denunciato la relatrice di minoranza Giulia Sarti, chiedendo al governo di smentire la conseguenza. L’Aula ha comunque approvato un emendamento che ha limitato tale integrazione "alle sedute del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa nelle quali possono essere adottate misure finalizzate ad assicurare la migliore funzionalità del processo amministrativo telematico partecipano, con diritto di voto in relazione all’adozione di tali misure". Dirigenti dei tribunali valutati con criteri di efficienza di Gabriele Ventura Italia Oggi, 6 ottobre 2016 Qualificazione del personale, valutazione dei dirigenti dei tribunali in base all’efficienza, investimenti per la riqualificazione dei palazzi di giustizia. Lo chiede l’Organismo unitario dell’avvocatura al ministro della giustizia, Andrea Orlando, atteso al XXXIII Congresso nazionale forense, al via oggi a Rimini. Temi centrali dell’assise saranno: il ruolo dell’avvocato nelle nuove misure extragiudiziali, la modernizzazione e gli interventi legislativi sul processo civile e penale, la difesa di ufficio, le questioni relative alla previdenza e all’assistenza, ma anche quelle legate alla rappresentanza dell’avvocatura. Già, perché "gli avvocati ce la stanno mettendo tutta", afferma la presidente Oua, Mirella Casiello, "ma finché il sistema giustizia non funziona, tutti gli sforzi saranno vani". Domanda. Quali sono le richieste che avanzerete al ministro? Risposta. Serve un intervento concreto sul sistema giustizia, speriamo che le nuove assunzioni lanciate da Orlando diano presto i primi risultati. Posso testimoniare che al momento la situazione, all’interno della categoria, è molto tesa. D. Da parte sua, il ministro sembra spingere molto sulla riduzione dell’arretrato e nuovo personale. In concreto, cosa non funziona della linea che sta seguendo e cosa andrebbe fatto? R. Chiediamo una maggiore qualificazione del personale giudiziario: per fare un esempio, gli avvocati si sono impegnati a pieno per far funzionare il processo civile telematico, ma se il personale non è adeguatamente qualificato gli sforzi restano vani. Altro punto per noi fondamentale è l’intervento sui dirigenti dei tribunali perché è da lì che deriva l’efficienza della giustizia. A parità di carico di domanda di giustizia, infatti, non è ammissibile che alcuni tribunali siano più efficienti di altri. D. Quali sono invece le richieste per incentivare l’utilizzo della giustizia alternativa? R. Noi avvocati siamo pronti a fare il nostro, però riteniamo necessario potenziare lo strumento della negoziazione assistita consentendo l’accesso anche a chi ha diritto al patrocinio a spese dello stato. Oggi, infatti, qualsiasi cittadino ammesso al gratuito patrocinio non proverà mai la strada della negoziazione perché non sarebbe gratuita, mentre andando in giudizio ha diritto ad essere assistito senza sostenere spese. Dato che di avvocati a costo zero non ce ne sono, gli strumenti alternativi non possono decollare a spese dei legali. Bisogna prevedere un compenso anche per gli avvocati che assistono i clienti ammessi al gratuito patrocinio in fase di negoziazione. D. Specializzazioni ed elezioni, quale posizione porterà l’Oua al ministro? R. Partendo dal presupposto che non possiamo fermare il ministro, sulle specializzazioni nei mesi scorsi c’era stata una apertura rispetto alle ipotesi di modifica del regolamento. Mi chiedo perché non valutarle sedendosi attorno a un tavolo anziché aspettare la decisione del Consiglio di stato. Sarebbe opportuno tentare di avviare un percorso condiviso. Sulle elezioni, invece, chiediamo di fare presto, rispettando il principio della formazione di una maggioranza stabile, condizione necessaria per qualunque presidente di ordine per poter governare. D. Cosa si aspetta invece dal dibattito sulla rappresentanza politica della categoria? R. È in atto un tentativo di riportare la rappresentanza politica all’interno delle istituzioni, attraverso un percorso contrario rispetto a quello seguito finora dalla nostra categoria. Sarebbe un passo indietro enorme: istituzione, Cassa e politica sono le tre anime dell’avvocatura e non ci devono essere travasi. I voti raccolti sul territorio devono essere utilizzati per amministrare, non per fare politica. Un omicidio chiamato "epilessia" di Ilaria Cucchi e Luigi Manconi Il Manifesto, 6 ottobre 2016 Stefano Cucchi. Non è il perito Introna a dover definire il nesso causale tra violenze subite e morte. Saranno i magistrati a farlo. Dal canto nostro, pensiamo che sia possibile arrivare a un processo per omicidio preterintenzionale. Per parlare dell’ultimo capitolo del cosiddetto "caso Cucchi", è forse utile partire dall’ultimo capitolo del cosiddetto "caso Uva". Una settimana fa la Procura generale di Milano ha impugnato la sentenza con la quale i giudici della Corte d’assise di Varese avevano assolto due carabinieri e sei poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale ai danni di Giuseppe Uva. La notizia, ampiamente trascurata da tutti i media, è clamorosa: e sottrae a quello che sembrava un oblio fatale una vicenda che ha conosciuto un particolare "accanimento giudiziario", destinato a mortificare la verità, da parte di procuratori poi moralmente e disciplinarmente sanzionati. Il primo responsabile di questo scempio è un pubblico ministero, Agostino Abate, che, infine, è stato trasferito - ma è tuttora titolare di un ufficio - per aver trattenuto per 26 anni il fascicolo relativo all’omicidio di una giovane donna, Lidia Macchi. Non troppo diversamente Abate si è comportato col fascicolo relativo alla morte di Uva. E ha trovato altri magistrati disposti a tenergli bordone. Ma ecco, finalmente, l’appello della Procura generale di Milano. La quale, senza mezzi termini, parla di una sentenza di primo grado motivata "in modo estremamente sommario" e non condivisibile su una serie di punti essenziali. I giudici di Varese avevano escluso la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale per insussistenza di atti diretti a percuotere o ledere, ma - secondo il procuratore di Milano - anche solo l’ammanettamento e la costrizione fisica integrano "certamente una manomissione" della persona di Uva. Inoltre, devono ritenersi provati anche "gli atti diretti a commettere il delitto di lesioni personali", in quanto ben tre testimoni li hanno confermati e sarebbero l’unica spiegazione plausibile di una serie di ferite riscontrate sul corpo di Uva (mentre, di esse, nella sentenza di primo grado non era stata data alcuna spiegazione). Infine, il tribunale di Varese aveva accertato la sussistenza del sequestro di persona, ma i due carabinieri erano stati assolti perché incorsi in un "errore scusabile": non sapevano di stare commettendo un reato trattenendo Uva in caserma per oltre due ore senza alcun fondamento. La procura generale di Milano, al contrario, ritiene che gli imputati "limitarono illegittimamente la libertà personale di Uva", in maniera deliberata e con la consapevolezza di infliggere una illegittima privazione della sua libertà personale. Come non pensare a tutto ciò mentre la gran parte dei media ci racconta che sette anni fa, Stefano Cucchi - picchiato recluso abbandonato umiliato per sei lunghissimi giorni e notti - è morto "di epilessia"? In questo tempo che ci separa dal 22 ottobre del 2009, ogni scadenza prevista per sciogliere i dubbi enormi che gravano su quella morte si è esaurita, senza che le tante indagini, i diversi gradi di processo, la mobilitazione dell’opinione pubblica e l’impegno dei familiari trovassero un’adeguata risposta, almeno un qualche sollievo e un po’ di pace. Fino all’altro ieri. Quando sono state depositate le 205 pagine della perizia di ufficio firmata dal collegio presieduto da Francesco Introna e richiesta dal giudice per le indagini preliminari nell’ambito dell’incidente probatorio per il processo bis. È un documento che si dipana lungo un labirinto di ipotesi affermate e negate insieme, di proposizioni enigmatiche, di dinieghi complici e accortamente predisposti, ma proviamo qui a evidenziarne i passaggi fondamentali. Dopo tanti conflitti a colpi di consulenze tecniche, finalmente questa perizia riconosce senza dubbio alcuno la frattura della vertebra L3. Questo accertamento è, tuttavia, oscurato, attraverso l’indicazione di due possibili cause di morte: ed è proprio qui cha fa il suo ingresso in scena l’incredibile ipotesi dell’epilessia. In questi sette anni, ne abbiamo sentite - alla lettera - di tutti i colori: Stefano Cucchi è morto di fame e di sete, ma anche forse in quanto "anoressico", e perché si drogava. Leggere adesso che la causa di decesso più probabile sia l’epilessia - pur concludendosi che la stessa ipotesi è "priva di riscontri oggettivi" - induce a chiedersi quale sia la competenza professionale cui hanno fatto ricorso tali mirabili esperti. La seconda ipotesi, d’altro canto, riconosce tutte le risultanze cliniche già evidenziate dai medici legali della parte civile, la più importante delle quali riguarda il ruolo del globo vescicale come causa di morte in conseguenza delle fratture. Il nesso causale si sostanzierebbe nei seguenti passaggi: frattura che provoca la ritenzione urinaria, la quale provoca il globo vescicale, il quale determina "un’intensa stimolazione vagale"; e questa, a sua volta, cagiona la brachicardia che porta Stefano Cucchi alla morte. Si dovrebbe esser soddisfatti per questo esito, se non fosse che il presidente del collegio dei periti, piuttosto che limitarsi al ruolo di medico legale, finisce con l’auto-investirsi di una funzione giudicante e tira le sue conclusioni: "Chi ha picchiato selvaggiamente Stefano Cucchi non è responsabile della sua morte". Perché tanto zelo? Forse perché se, per esempio, gli infermieri avessero semplicemente fatto, loro sì, il proprio lavoro, il decesso non sarebbe sopraggiunto. In altre parole, non è il perito Introna così come non siamo noi, a dover definire il nesso causale tra violenze subite e morte. Saranno i magistrati della procura di Roma e i giudici a farlo. Dal canto nostro, pensiamo che con questa perizia sia possibile arrivare a un processo per omicidio preterintenzionale. In questo scenario drammatico cerca di trovare un suo spazio la figura grottesca del parlamentare Carlo Giovanardi: uomo che appare desolatamente infelice, affetto da una pulsione necrofila che lo induce a inseguire le morti più tragiche per diffamare le vittime e sfregiarne la memoria. Si immagina come tutore dell’onore delle forze di polizia e ne risulta il principale nemico. L’effetto delle sue sgangherate parole è, infallibilmente, quello di omologare interi corpi come quello dei carabinieri, della polizia di stato e di quella penitenziaria, al comportamento illegale di quei pochi, pochissimi, che si sono resi responsabili di crimini. Detenuto assolto dopo 2.090 giorni di carcere, ecco la sua storia di Roberta Verdolino blastingnews.com, 6 ottobre 2016 Era stato definito un mafioso, un delinquente legato agli affari di quella sua famiglia ritenuta mafiosa e ndraghetista. Era stato accusato di svolgere un ruolo all’interno di quel sodalizio criminale ed è per questo che era stato arrestato per un ordine di custodia cautelare. Dopo i processi di rito però, viene fuori la verità, lui non ha nulla a che fare con gli interessi della sua famiglia e viene assolto dopo ben 2090 giorni di carcere. In carcere da innocente, e quel pesante cognome da portare. Si tratta di Carmelo Gallico, oramai 54enne e familiare di alcuni affiliati di una cosca della ndrangheta, ed è per questo che ha dovuto fare i conti con la legge e con i pregiudizi che la circondano. Carmelo racconta a Repubblica: "amo scrivere ed ora, dopo aver subito un’incredibile ingiustizia durata anni, potrò farlo, mi sento rinato e voglio vivere la mia vita". Calabrese di nascita e bresciano di adozione, Carmelo ha dovuto affrontare un vero e proprio calvario per dimostrare la sua innocenza e come da lui stesso raccontato, per questa impresa ci sono voluti ben 2090 giorni di detenzione, di cui 1754 in custodia cautelare e pertanto, senza che vi fosse un’accusa precisa e provata per i reati di mafia che gli venivano contestati dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Solo lo scorso marzo, la Corte d’appello gli rende giustizia mettendolo in libertà in quanto pienamente assolto. Innocente o meno, va in carcere con l’accusa di Mafia tenta il suicidio. Gli avevano assegnato ingiustamente l’appellativo di uomo d’onore e lui, calabrese dalla nascita ma cresciuto a Brescia, dove aveva la sua vita, non riusciva più a sostenere il peso di un calvario giudiziario così pesante, tant’è che Carmelo tentò invano il suicidio in carcere per mettere fine alla sua ingiusta sofferenza. Ora che la sua ingiusta pena è stata accertata, insieme al suo avvocato sta intraprendendo una causa di risarcimento danni nei confronti dello Stato Italiano, che non gli riporteranno indietro i 2090 giorni di prigionia, ma che potrà comunque sfruttare per rifarsi una vita. Assegno di mantenimento: il detenuto non è esonerato dal versamento di Lucia Izzo studiocataldi.it, 6 ottobre 2016 Cass., VI sez. pen., sent. n. 41697/2016. Per la Cassazione l’indigenza vale come scriminante solo se incolpevole ed estesa a tutto il periodo nel quale si sono verificate le inadempienze. Lo stato di detenzione non giustifica l’obbligato a versare il mantenimento nei confronti dei figli: l’indigenza dell’onerato, infatti, vale come scriminante solo se si è estesa a tutto il periodo di tempo nel quale si sono verificate le inadempienze e se consiste in una condizione "incolpevole" di indisponibilità di somme sufficienti. In caso contrario si incorre nel reato previsto dall’art. 570 c.p. (Violazione degli obblighi di assistenza familiare). Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, nella sentenza n. 41697/2016 (qui sotto allegata). I giudici di merito avevano confermato la condanna (mesi 8 di reclusione e 400,00 euro di multa) oltre al risarcimento danni in favore della parte civile, a un uomo responsabile del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. L’imputato aveva, infatti, fatto mancare i mezzi di sussistenza alle due figlie minori, non versando l’assegno di mantenimento mensile posto a suo carico, pari a 600,00 euro, corrispondendo, invece, somme modeste e in modo del tutto saltuario per il mantenimento delle bambine di cui si era poi occupata la madre, lavoratrice part-time, anche contraendo debiti. A nulla serve all’imputato chiedere il riconoscimento della causa di giustificazione di cui all’art. 45 c.p., in quanto versava in disastrose condizioni economiche e successivamente si era trovato anche in stato di detenzione. La Corte d’Appello ha esaminato tale giustificazione ritenendo di escludere che le difficoltà economiche allegate fossero tali da configurare una situazione di assoluta e incolpevole incapacità e, pertanto, idonee a integrare una causa di forza maggiore che aveva incolpevolmente precluso all’imputato l’assolvimento dell’obbligo di mantenimento al quale era tenuto verso le fglie minori. Inoltre, precisano gli Ermellini, la condizione di impossibilità economica dell’obbligato vale come scriminante soltanto se essa si estende a tutto il periodo di tempo nel quale si sono reiterate le inadempienze e se consiste in una situazione incolpevole di indisponibilità di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze minime di vita degli aventi diritto. La responsabilità per omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, inoltre, non è esclusa dall’incapacità di adempiere, ogni qual volta questa sia dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’agente, colpa ritenuta configurabile anche in relazione allo stato di prolungata detenzione, potendo tale stato ritenersi sicuramente colpevole, poiché, attraverso la commissione di reati, il soggetto obbligato si mette nella condizione di non poter adempiere. Inoltre, tale assunto è inconferente anche dal punto di vista soggettivo, poiché lo stato di detenzione si e protratto solo per alcuni mesi, mentre l’inadempimento è durato oltre 5 anni. Sul punto, pertanto, il ricorso va rigettato. Il concorso esterno "semplice" va alle Sezioni unite di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2016 Ordinanza di rimessione n° 42043 della Prima sezione penale. Saranno le Sezioni Unite della Cassazione a stabilire la legittimità del concorso esterno nella associazione per delinquere "semplice". La Prima sezione - ordinanza 42043/16, depositata ieri - ha deciso di rimettere al collegio più alto della giurisdizione l’applicabilità, anche alla fattispecie prevista dall’articolo 416 del codice penale, quanto ormai è assodato per l’associazione di stampo mafioso. A innescare il ricorso è la difesa di un docente universitario, condannato in primo grado per aver "attestato", e cioè coperto, l’attività truffaldina di un’associazione per delinquere finalizzata alla sofisticazione alimentare. L’imputato aveva rinunciato alla prescrizione, nel frattempo abbondantemente maturata - i fatti sono di oltre dieci anni fa - per contestare nel merito le conclusioni dell’accusa, soprattutto per quanto riguarda la configurabilità stessa della "estensione" della associazione per delinquere "semplice" al concorrente esterno. Secondo il collegio rimettente ci sarebbero non poche difficoltà ad equiparare, almeno sotto questo aspetto, i due tipi di associazione. Se in quella mafiosa, per la sua natura, l’imputazione può essere svincolata dalla commissione diretta di fatti illeciti - per esempio l’ acquisizione di appalti, classico ambito di azione del concorrente esterno - la associazione semplice è strutturata e finalizzata sempre alla commissione di delitti, eseguiti i quali la associazione si "scioglie". E tra l’altro, sempre in relazione alla associazione semplice, il codice già prevede la punibilità di chi fornisce "assistenza agli associati"per chi, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, "dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione". Il relatore sottolinea pertanto che, a suo giudizio, "nel reato all’articolo 416 cp non è configurabile responsabilità a titolo di concorso esterno giacché o il presunto concorrente (esterno), nel porre in essere la condotta oggettivamente vantaggiosa per l’associazione, è animato dal dolo specifico proprio di chi voglia consapevolmente contribuire a realizzare i fini per i quali il sodalizio è stato costituito ed opera, ed allora egli non potrà in alcun modo distinguersi dal partecipante a pieno titolo; ovvero mancando nell’agente il dolo specifico detto, la condotta dal medesimo posta in essere, favoreggiatrice ovvero agevolatrice, dovrà essere necessariamente riguardata come strutturalmente e concettualmente distinta e separata dal reato associativo semplice". Decreto Severino, la sospensione dalla carica non è incostituzionale di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2016 Il decreto Severino è salvo. Secondo la Corte costituzionale, infatti, la sospensione dalle cariche di consigliere regionale, di presidente della regione e di consigliere comunale non è incostituzionale. Anzitutto perché la sospensione non è una sanzione in senso stretto e quindi il problema della sua irretroattività non si pone. Inoltre, il diverso "status" e le diverse "funzioni" tra i parlamentari e i consiglieri e amministratori degli enti locali ben giustifica una diversità di trattamento. Anche se la pronuncia della Corte - anticipata ieri con una nota stampa - non inciderà più nella vicenda del governatore della Campania Vincenzo De Luca - assolto in appello dai reati di abuso d’ufficio e peculato -, la decisione conserva un’importanza anche politica, con riferimento sia alle scelte a suo tempo fatte dal governo Monti e a quelle future del governo Renzi sia alle conseguenze che ne sono derivate nei confronti dell’ex premier Silvio Berlusconi, decaduto dalla carica di senatore proprio in virtù del decreto Severino. Sebbene la norma impugnata non sia la stessa, quel che accomuna la sospensione e la decadenza sembra essere, a questo punto, la loro natura "non sanzionatoria" che, quindi, esclude il divieto di un’applicazione retroattiva (cioè per reati commessi prima che il decreto fosse entrato in vigore). Peraltro, sulla questione decadenza (sollevata da Berlusconi) ancora non si è pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. La domanda alla quale ha risposto la Corte era se sia costituzionalmente legittima la sospensione dalla carica degli eletti agli enti locali in seguito ad una sentenza di condanna non definitiva, e nonostante il reato sia stato commesso prima della norma sulla sospensione. Gli articoli impugnati erano l’1 e l’8 del decreto legislativo n. 235 del 2012 (di attuazione della legge anticorruzione dello stesso anno). A sollevare la questione era stato il Tribunale di Napoli il 17 luglio 2015, sotto vari profili, compreso quello dell’"eccesso di delega", anch’esso giudicato infondato dalla Consulta. Ma sul tavolo c’era anche un’analoga questione sollevata dalla Corte d’appello di Bari con riferimento a un consigliere regionale del Pd, Fabiano Amati. Quest’ultimo era stato sospeso dalla carica per una condanna a un anno e otto mesi, con pena sospesa per abuso d’ufficio e falso, e la sospensione era stata impugnata fino in Corte d’appello, che l’ha congelata in attesa della Consulta. De Luca, invece, era stato condannato a un anno - con sospensione della pena - per abuso d’ufficio in relazione alla nomina di un project manager per la realizzazione di un termovalorizzatore di Salerno ma in appello la condanna si era trasformata in un’assoluzione "perché il fatto non sussiste". Peraltro, la Consulta aveva già esaminato la Severino il 20 ottobre dell’anno scorso a seguito di un ricorso riguardante il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e lo aveva rigettato. Come ha fatto anche stavolta, dichiarando "infondate" le questioni sollevate da Bari e da Napoli, chiudendo così anche la strada a modifiche legislative (più volte annunciate dal governo Renzi) basate su motivazioni esclusivamente di carattere costituzionale. Sempre che, ovviamente, la Corte di Strasburgo non disponga diversamente, costringendo in tal caso il governo italiano a correggere la normativa. La simulazione resta reato di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2016 Corte di Cassazione, Terza sezione penale, sentenza 41755/16. Un’operazione meramente simulata, priva di qualsivoglia contenuto effettivo, non può ritenersi elusiva e pertanto continua a essere perseguita anche penalmente non rientrando nella scriminante prevista dalla nuova norma per l’abuso del diritto. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione, sezione terza penale, con la sentenza 41755 depositata ieri. Ma ecco i fatti. Una Procura si vedeva rigettare prima dal Gip e poi dal tribunale del riesame il sequestro nei confronti di una persona indagata per dichiarazione infedele. All’indagato si contestava, in estrema sintesi, l’omessa dichiarazione di una plusvalenza derivante, secondo l’accusa, da ripetute cessioni tra società aventi il solo fino di utilizzare in compensazione una perdita e non corrispondere le imposte. Il tribunale del riesame rilevava che non sussistevano elementi per ritenere che l’operazione fosse priva di ragioni imprenditoriali apprezzabili sotto il profilo economico gestionale, così escludendo la finalità puramente elusiva della stessa. La Procura si rivolgeva allora in Cassazione. I giudici di legittimità hanno dichiarato inammissibile il ricorso. Tuttavia, traendo spunto dalla vicenda, hanno fornito un’interpretazione sulla rilevanza penale della nuova normativa sull’abuso del diritto. La Corte ha innanzitutto ricordato che, secondo il nuovo articolo 10 bis della legge 212/2000, le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili in base alle leggi penali tributarie. I giudici di legittimità al riguardo chiariscono che, in linea di principio, può definirsi elusiva, e pertanto penalmente irrilevante, solo un’operazione che, pur principalmente finalizzata al conseguimento di un vantaggio tributario, sia caratterizzata da un’effettiva e reale funzione economica sociale meritevole di tutela per l’ordinamento. Si tratta, cioè, di situazioni in cui l’utilizzo di strumenti, ancorché soggettivamente finalizzati a effetti diversi da quelli tipici dei negozi realizzati, siano giuridicamente validi e abbiano una loro meritevole causa giuridica ulteriore rispetto alla mera elusione fiscale. È estranea, invece, a tale contesto un’operazione meramente simulata. Quest’ultima ipotesi ricorrerebbe allorquando l’operazione costituisca un "mero simulacro" privo di qualsivoglia effettivo contenuto. Infatti non si è in presenza di un abuso di un pur sussistente e valido negozio giuridico, ma di una vera e propria macchinazione, priva di sostanza economica, il cui unico scopo, anche attraverso il sapiente utilizzo di strumenti negoziali fra loro collegati, sarebbe quello di raggiungere un indebito vantaggio fiscale. Ne consegue che non può trovare applicazione il nuovo articolo 10 bis, nei confronti di chi, per conseguire un vantaggio fiscale, realizzi solo negozi simulati o comunque affetti da nullità dal punto di vista civilistico. L’interpretazione della Corte pare consolidare quanto già evidenziato in passato dagli stessi giudici (sentenza 26060/2015), secondo cui devono ritenersi escluse dalla nozione di abuso del diritto le condotte illecite fraudolente o simulatorie in quanto il fenomeno abusivo deve iscriversi nell’ambito delle sole condotte lecite. Tuttavia sotto un profilo più concreto, una simile interpretazione potrebbe porre alcune questioni pratiche. I giudici, infatti, sembrano voler far rientrare nell’abuso del diritto (e quindi penalmente irrilevante) solo i comportamenti che, comunque, hanno una giustificazione meritevole, oltre al risparmio fiscale. In realtà in questi casi, secondo il legislatore fiscale, non si configura una condotta censurabile, in quanto è proprio l’assenza di altre valide ragioni extra fiscali che potrebbe configurare l’abuso. In altre parole la Cassazione sembra ritenere penalmente irrilevanti non le condotte abusive (come vorrebbe la nuova norma) ma solo quelle che hanno giustificazioni che, a ben vedere, sono perfettamente lecite anche sotto il profilo fiscale. Il rischio, quindi, è che vengano ritenute operazioni simulate (penalmente rilevanti), comportamenti che, in passato, sarebbero stati censurati come abusivi o elusivi. Riconoscimento dello status di rifugiato alla vittima di persecuzione perché omosessuale di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 4 agosto 2016 n. 16361. Per ottenere il beneficio della protezione internazionale a causa della propria condizione omosessuale, il richiedente non può limitarsi ad esibire un racconto contraddistinto da genericità e stereotipia dovendo offrire allegazioni specifiche, concrete e chiare anche per consentire al giudice di attivare i propri poteri officiosi. La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16361 resa il 4 agosto 2016, torna ad occuparsi di onere della prova che il richiedente deve soddisfare al fine di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato poiché persona vittima di persecuzione a causa del proprio orientamento sessuale. Giova ricordare che, nell’accertamento della condizione di omosessualità, il giudice nazionale deve attenersi ai principi enunciati dalla Corte di Giustizia UE (Corte Giust. UE, Grande Sezione, sentenza 2 dicembre 2014, A (C-148/13), B (C-149/13), C (C-150/13) c/ Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie) e, dunque: a) le dichiarazioni del richiedente in merito al suo orientamento sessuale costituiscono solo il punto di partenza nel processo di esame dei fatti e delle circostanze previsto ai fini della concessione della misura protettiva internazionale; b) tuttavia, la valutazione delle domande di concessione dello status di rifugiato sulla sola base di nozioni stereotipate associate agli omosessuali non risponde ai requisiti posti dalle disposizioni UE in quanto non consente di tener conto della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente asilo considerato: pertanto, il fatto che un richiedente asilo non sia in grado di rispondere a interrogatori vertenti su nozioni stereotipate non può costituire, di per sé, un motivo sufficiente per concludere che il ricorrente non sia credibile; c) gli interrogatori concernenti i dettagli delle pratiche sessuali del richiedente sono contrari ai diritti fondamentali garantiti dalla Carta e, segnatamente, al diritto al rispetto della vita privata e familiare, come sancito dall’articolo 7 della medesima; stesso dicasi per la richiesta di "test" diretti ad appurare il compimento di atti omosessuali. Con la sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce, però, che l’esame a cui chiamato il giudice deve essere reso possibile da un contributo collaborativo del richiedente, teso a offrire elementi concreti, specifici, chiari e non anche mere allegazioni generiche o stereotipate. Come appurare la condizione omosessuale ove questo contributo sia assolto? Per effetto delle indicazioni delle Corte UE, l’esame diretto ad accertare la condizione di omosessualità del richiedente può condursi attraverso almeno quattro principali elementi fattuali, senza pregiudizio per la dignità dello straniero. 1) Prove di tipo documentale come, ad esempio: iscrizioni ad associazioni o circuiti che veicolino la comunicazione o gli incontri tra persone omosessuali, non escluso il tesseramento a gruppi associati o l’impegno in campagne a tema; documentazione attestante spese o costi che direttamente o indirettamente siano riferibili a una persona omosessuale come prodotti specifici, l’acquisto di biglietti per l’ingresso in club riservati a persone omosessuali; documenti che attestino l’iscrizione a siti o App tematiche; scambi epistolari (messaggi, emails, sms, etc.) che rivelino rapporti affettivi con persone dello stesso sesso o contenuti di discussione in cui emerga l’orientamento sessuale. Si tratta di elementi che, per la loro durata nel tempo e la loro univocità possono ben dimostrare l’orientamento sessuale e che il richiedente può certamente produrre (invero che solo il richiedente può produrre). 2) Prove di tipo relazionale come, ad esempio, l’esistenza di una relazione affettiva, anche se conclusa oppure la sussistenza di un forte legame amicale nell’ambito del quale il richiedente abbia condiviso il proprio orientamento sessuale (in ciò si può pensare a informazioni acquisite a mezzo di dichiarazioni scritte dei terzi o escussioni testimoniali). 3) Presunzioni come, ad esempio, la sussistenza di pregresse vicende in cui il richiedente sia stato oggetto di discriminazioni o vessazioni, finanche emarginazioni, debitamente documentate e allegate. 4) Dichiarazioni del richiedente rese su domande dirette ad accertare non già i contenuti della vita sessuale ma la maturità personale in merito alla condizione di omosessuale, così verificando se lo straniero offra risposte stereotipate tipiche di chi abbia solo osservato dall’esterno l’omosessualità o, al contrario, specifiche, puntuali, intimamente soggettive, da cui si possa indurre che l’interlocutore è osservatore "interno" alla omosessualità. Castrovillari (Cs): stanziato 1 milione di euro per lavori alla Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 6 ottobre 2016 Quintieri (Radicali): attendiamo solo conferma ufficiale. Probabilmente, dopo 17 anni, verranno adeguati i Reparti detentivi della Casa Circondariale di Castrovillari agli obblighi del "nuovo" Regolamento di Esecuzione Penitenziaria del 2000. Attendiamo solo la conferma ufficiale dal Dipartimento. Lo annuncia con soddisfazione Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani e capo della delegazione visitante autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia che, lo scorso 22 settembre, ha ispezionato l’Istituto di contrada Petrosa. La Delegazione Radicale, stante l’assenza del Direttore Maria Luisa Mendicino, è stata ricevuta dal Commissario Leonardo Gagliardi, Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria e dalla Funzionaria Giuridico Pedagogica Maria Pia Barbaro, Responsabile dell’Area Trattamentale, era composta anche da Valentina Moretti, Manuel Pisani, dalla criminologa Maria Ferraro e da Shyama Bokkory, Presidente dell’Associazione Alone Cosenza Onlus. Dopo un breve colloquio con gli Educatori che hanno informato la Delegazione illustrando, nel dettaglio, tutte le attività svolte nell’Istituto, sono stati visitati i locali per le attività trattamentali (aule scolastiche, biblioteca, cappella, cucina, sale colloquio, etc.) nonché tutti gli spazi detentivi maschili e femminili. Al momento della visita i detenuti presenti erano 124 a fronte di una capienza di 122 posti (80 italiani, 44 stranieri, 18 donne). C’era anche un detenuto sottoposto, all’interno della sua camera detentiva, al regime della sorveglianza particolare previsto dall’Art. 14 bis dell’Ordinamento Penitenziario che impone varie limitazioni e restrizioni alcune delle quali (come quella relativa al divieto di possedere la televisione o il fornello) sono ritenute illegittime dalla Delegazione poiché non strettamente necessarie per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza interna. Inoltre, tra la popolazione detenuta, vi sono da segnalare: 20 tossicodipendenti, seguiti dal Sert dell’Asp di Castrovillari, 20 detenuti con patologie psichiatriche ed 1 con disabilità motoria. Vi sono anche 21 lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria (manutenzione fabbricati, portavitto, spesino, scopino, etc.), 2 lavoranti assunti dall’Asp di Castrovillari per la pulizia dei vari Reparti dell’Area Sanitaria (1 nell’Area Sanitaria e negli Ambulatori del Padiglione maschile ed una nel Padiglione femminile), 2 semiliberi che lavorano alle dipendenze di datori di lavoro esterni ed altri 10 lavoranti in Art. 21 (3 dei quali all’interno degli spazi detentivi e 7 all’esterno dell’intercinta). L’attività di vigilanza sull’Istituto che è dedicato alla Vigilatrice penitenziaria calabrese Rosetta Sisca, morta coraggiosamente nel 1989 nella Casa Circondariale "Le Vallette" di Torino nel disperato tentativo di mettere in salvo alcune detenute da un vasto incendio sviluppatosi nella Sezione Femminile, è assicurata dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Silvana Ferriero. Nonostante vi siano numerosi detenuti stranieri (44), molti dei quali provenienti dalla Romania, dal Senegal, dal Marocco, dall’Egitto e dall’Albania, nell’Istituto non vi è un Mediatore Culturale. Ma anche tale problematica dovrebbe essere risolta a breve. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, come sostenuto dall’esponente radicale Quintieri, avrebbe assegnato alla Direzione Generale del Personale e delle Risorse del Dap 1 milione di euro per l’adeguamento dei Reparti detentivi della Casa Circondariale di Castrovillari ai dettami del Decreto del Presidente della Repubblica n. 230/2000. Con questo finanziamento, proveniente dai Fondi per l’Edilizia Penitenziaria, Programma Annuale 2017, Capitolo di Bilancio 7300, 5 Piano Gestionale, verranno ristrutturate le Sezioni e, più precisamente, le 119 camere detentive sistemandovi all’interno la doccia che, attualmente, si trova in locali comuni fatiscenti ed indecorosi, più volte denunciati dai Radicali nell’ambito delle visite ispettive effettuate negli ultimi tempi. Nei prossimi giorni, come preventivato, saranno effettuate ulteriori ispezioni nella Casa Circondariale di Locri e nella Casa di Reclusione "Luigi Daga" di Laureana di Borrello, entrambe in Provincia di Reggio Calabria. Modena: carcere a rischio collasso, su una capienza di 372 detenuti ne ospita 449 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 ottobre 2016 Situazione ancora tesa all’interno del carcere modenese di Sant’Anna. Da mesi - come già denunciato da Il Dubbio - è un continuo susseguirsi di risse, gesti autolesionisti, botte tra guardie penitenziarie e detenuti. Il Sappe ha reso noto che lunedì al Sant’Anna di Modena, un detenuto si è procurato gravi lesioni sul corpo con una lametta, e mentre gli agenti cercavano di calmarlo ha tentato di aggredire un poliziotto con un bastone. Sempre ieri un detenuto tunisino, già responsabile di altri fatti, nel carcere di Modena ha aggredito un agente con schiaffi e calci. Inviato al pronto soccorso l’agente ha avuto due giorni di prognosi. La struttura ad oggi è un luogo ad altissimo rischio, sia per la salute degli agenti di polizia penitenziaria, sia per l’incolumità stessa dei detenuti. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione del Dap, su una capienza massima di 372 detenuti, ve ne sono ristretti 449: rispetto al mese precedente il numero dei detenuti continua a salire. Ma non è quello il fattore scatenante. Il sindacato della polizia Alsippe aveva emanato un comunicato dove ha spiegato i veri problemi. Non solo denuncia alcuni aspetti critici nella gestione amministrativa del carcere, ma parla di "problematiche di carattere sanitario dovute principalmente all’assenza di consapevolezza da parte del servizio sanitario preposto all’attività carceraria, che continua a effettuare interventi di cura non adeguati soprattutto per quei detenuti con gravi problemi di tossicodipendenza". Poi il sindacato spiega che il carcere modenese ormai "viene utilizzato ciclicamente per ospitare detenuti particolarmente violenti e che vengono trasferiti da altri istituti penitenziari per ragioni di sicurezza". Ma c’è anche un altro grave problema che contribuisce al disagio che provano i detenuti e che poi riversano in atti di violenza. A luglio è stata denunciata l’assenza totale del magistrato di sorveglianza il quale da più di otto mesi non va al carcere di Sant’Anna per ricevere i detenuti. Una situazione stigmatizzata anche dalla garante regionale dei detenuti Desi Bruno. Sono tanti i detenuti che hanno avuto gravi problemi per i ritardi delle pratiche che permettevano loro di uscire dal carcere con pene alternative. E nascono anche storie tragiche. Come quella di un uomo con problemi di salute mentale che si i è impiccato in cella poche ore prima che gli fosse notificata l’idoneità per scontare la pena ai domiciliari in una casa di accoglienza. O come un carcerato che aveva chiesto la libertà anticipata ma che per ottenere udienza la Tribunale del magistrato di sorveglianza ha dovuto aspettare e quando ha ottenuto ragione aveva già scontato due mesi in più di quanto doveva. Le contestazioni dei sindacati della Polizia Penitenziaria si sono estese più recentemente anche alle carceri di Reggio Emilia e Piacenza. I sindacalisti Giovanni Battista Durante e Francesco Campobasso hanno segnalato: "Le responsabilità gestionali appaiono evidenti, soprattutto se si considera quanto ci è stato riferito dai colleghi di Reggio Emilia. Sembrerebbe, infatti, che, come già avvenuto altre volte, la scorsa settimana direttore e comandante (di Reggio Emilia) si siano assentati entrambi, quando una precisa disposizione ministeriale stabilisce che, almeno uno dei due, debba sempre rimanere in servizio. Chiediamo, quindi, all’amministrazione Regionale e centrale di verificare se quanto denunciato corrisponde al vero e, in caso affermativo, di adottare le iniziative opportune". Avellino: la Casa circondariale di Lauro diventa Icam giustizia.it, 6 ottobre 2016 Il ministro della giustizia Andrea Orlando ha firmato il decreto che prevede la trasformazione della Casa circondariale di Lauro in Istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam), sezione distaccata della Casa circondariale di Avellino. Il provvedimento segue la via di quegli interventi sostenuti con forza dal guardasigilli e previsti dalla legge 21 aprile 2011, n.62, volti alla tutela dell’interesse superiore del minore favorendo e garantendo il rapporto tra figli minori e detenute madri e riconoscendo a queste ultime il diritto/dovere di esercitare il proprio ruolo genitoriale. Il decreto si inserisce in quel progetto di riorganizzazione dei circuiti penitenziari operato attraverso la definizione, a livello regionale, di un sistema integrato di istitu Roma: Partito Radicale "il 6 novembre Marcia per l’amnistia da Regina Coeli al Vaticano" vocedinapoli.it, 6 ottobre 2016 Il Partito Radicale, in seguito al 40 Congresso Straordinario tenuto a Rebibbia, ha organizzato una marcia a Roma il 6 novembre: dal carcere di Regina Coeli fino a piazza San Pietro. L’obiettivo è promuovere i temi da sempre sostenuti da Marco Pannella e condivisi da Papa Francesco (che li ha attuati per lo Stato Vaticano): amnistia, abolizione dell’ergastolo, introduzione del reato di tortura. All’ultimo congresso del Partito Radicale è stata votata a maggioranza la mozione dei "Pannelliani" che afferma i seguenti obiettivi: 3mila iscritti al partito entro il 2017 e altrettanti entro il 2018. Le battaglie politiche, nel frattempo da vincere, sono divise su due piani (che poi sono collegati tra loro), quello transnazionale e quello locale. Per quanto riguarda il primo: la nascita degli Stati Uniti d’Europa, la transazione verso lo stato di diritto, il riconoscimento del diritto umano alla conoscenza. In casa nostra, invece, il tema su cui l’unica forza davvero liberale d’Italia si batte da sempre, è quella per una riforma della giustizia. In particolare: l’affermazione dello stato di diritto, l’introduzione del reato di tortura, l’abolizione dell’ergastolo, una riforma strutturale del sistema penale e civile, l’amnistia. Quest’ultima, nello specifico, non va intesa semplicemente e in modo banale, come la procedura che metterà in libertà dei carcerati. L’amnistia è quel provvedimento utile a far uscire la Repubblica italiana dal suo stato di flagranza di reato. È questo che denunciano i Radicali. Da anni urlano, cercano di far comprendere nella totale indifferenza, come continuamente lo Stato italiano viola le regole costituzionali, attentando in modo costante alle fondamenta dello Stato di Diritto. Ciò che non manca ai Radicali è l’ostinazione con la quale portano avanti le loro iniziative politiche. Alla guida del partito, durante questa fase transitoria, c’è una Presidenza legittimata dal voto degli iscritti durante il congresso. Il 40 Congresso Straordinario del Partito Radicale a Rebibbia - Il rapporto tra Marco Pannella e Papa Francesco - Papa Francesco ha telefonato a Marco Pannella il 25 aprile del 2014. Il leader Radicale stava conducendo uno sciopero della fame e della sete per attirare l’attenzione sul tema delle carceri. Nello stupore di tutti, il Papa non chiese a Pannella di mettere fine allo sciopero, semplicemente gli disse "Caro Marco continua con coraggio la tua battaglia, io ti aiuterò. Sai quanto parlerò di questa ingiustizia. Parlerò sempre di carceri e detenuti". Ma Papa Francesco non si è mosso soltanto "spiritualmente". Le sue prime iniziative politiche, da capo dello Stato Vaticano, sono state: l’abolizione dell’ergastolo, l’abolizione della pena di morte e l’introduzione del reato di tortura. In pratica l’agenda politica di Francesco è stata quella di Marco Pannella. Ecco cosa ha unito in una profonda amicizia il capo della Chiesa al leader del partito anticlericale per eccellenza: la condivisione di un idea e di una visione. Laicamente significa il rispetto, la difesa e l’affermazione del diritto e della libertà. Dal punto di vista religioso vuol dire la messa in pratica di ciò che afferma il Vangelo. "Caro Papa Francesco, ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano - vicino al cielo - per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa. Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano", questo è l’inizio della lettera scritta da Marco Pannella a Papa Francesco circa un mese prima della sua scomparsa. Il Leone Abbruzzese ce l’aveva fatta un’altra volta. Il Diavolo non ha convertito l’Angelo, è riuscito a con-vincerlo. Convincere è diverso da convertire. Convincere significa condividere. Vuol dire agire insieme e dar vita ad un qualcosa di unico che però nasce da due punti di vista diversi, se non opposti. Pannella lo ha detto circa 40 anni fa: "Non credo al fucile: ci sono troppe splendide cose che potremmo/potremo fare anche con il "nemico", per pensare di eliminarlo". Lo diceva quando in Italia ci si ammazzava durante gli anni di piombo e lo ha sempre detto e professato fino alla fine. Da vero Gandhiano. Marco Pannella è riuscito ad essere speranza, anche quando essa non c’è mai stata. Spes contra Spem. La marcia - Il 6 novembre 2016 il Partito Radicale ha organizzato una marcia a Roma. Il punto di partenza è il carcere di Regina Coeli, quello d’arrivo è Piazza San Pietro. In questa data, nella capitale, si tiene anche il Giubileo delle Carceri. Il giorno perfetto dove si uniranno il messaggio di Papa Francesco e la lotta radicale. Il Papa e la Chiesa si sono spesi e si spendono molto per i detenuti. La messa in pratica di Papa Francesco del messaggio professato dal Vangelo ha avvicinato il clero al Partito Radicale. Il sostegno della Chiesa per la difesa dei diritti degli ultimi e in questo caso dei detenuti, ha reso amici il Papa e Marco Pannella. I Radicali sono consapevoli che se Bergoglio si pronunciasse in qualche modo a favore delle questioni politiche portate avanti dai nonviolenti, transnazionali, transpartitici, laci, antiproibizionisti, ecologisti, anticlericali, si potrebbe verificare una scossa all’interno del sistema politico e d’informazione italiano. I media dovrebbero iniziare a parlare di stato di diritto, abolizione dell’ergastolo, introduzione del reato di tortura e di amnistia. E perché no, anche di riforma della giustizia. La politica non farebbe finta di nulla e si occuperebbe di queste tematiche. Anche se bisogna ammettere che se il Parlamento è stato così efficiente nell’ignorare il messaggio dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in merito al black out del sistema carcerario e della necessità di un provvedimento di amnistia e indulto, non ci sarebbe da meravigliarsi se anche il Papa restasse inascoltato. La marcia è dedicata a Papa Francesco e Marco Pannella, due uomini uniti nella battaglia per l’affermazione dei diritti umani. Tra i tanti, questo già basterebbe come motivazione per trascorrere una bella domenica a Roma. L’impegno dell’associazione di Napoli "Pennabianca" - L’associazione napoletana del Partito Radicale "Pennabianca", per poter sostenere gli obiettivi del partito e contribuire al loro raggiungimento, ha deciso di mobilitarsi in questo modo: sviluppare un piano di comunicazione sul web per promuovere le tematiche radicali, mobilitazioni per incentivare le iscrizioni al partito, messa a disposizione da alcuni militanti di spazi in radio e in tv. L’associazione sarà in prima fila a Roma in occasione della marcia. Già in occasione del 40 Congresso l’attività dell’associazione napoletana è stata protagonista. Infatti, Pennabianca ha contribuito all’organizzazione della manifestazione Straordinaria e la sua presentazione è stata fatta proprio a Napoli, presso l’Hotel Palazzo Alabardieri. Radio Carcere: marcia per l’amnistia del 6 novembre, le nuove adesioni Ristretti Orizzonti, 6 ottobre 2016 Le adesioni dell’Aiga, dell’organizzazione Giustizia della Funzione Pubblica Cgil, dell’associazione Il Carcere Possibile Onlus e dell’associazione Bambini senza sbarre. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/488050/radio-carcere-marcia-del-6-novembre-le-adesioni-dellaiga-dellorganizzazione-giustizia Migranti. Pronto il piano di distribuzione, i piccoli comuni già fanno resistenza di Luca Fazio Il Manifesto, 6 ottobre 2016 I 160mila profughi già presenti in Italia che rientrano nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), saranno ricollocati. I Comuni disposti a fare volontariamente la loro parte usufruiranno di incentivi e agevolazioni. Oggi il ministro Angelino Alfano è ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, per aggiornarsi sul "contrasto dell’estremismo violento", poi, entro la fine della settimana, dovrebbe tornare con i piedi per terra e spiegare al presidente del Consiglio Matteo Renzi in cosa consiste il nuovo Piano di ripartizione dei richiedenti asilo nei Comuni italiani. E soprattutto come reperire il miliardo di euro all’anno che serve per renderlo operativo al di là delle buone intenzioni. Il piano punta a distribuire più razionalmente sul territorio i profughi già presenti in Italia che rientrano nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), con l’obiettivo di rendere meno complicata alle grandi città la gestione dell’accoglienza di 160 mila persone. I Comuni disposti a fare volontariamente la loro parte usufruiranno di incentivi e agevolazioni, come la possibilità di assumere personale superando il blocco delle assunzioni in vigore. A Piero Fassino, presidente dell’Anci a fine mandato, è stato affidato il ruolo di coordinatore di una partita molto complessa. I criteri di assegnazione sono stati fissati in base al numero di abitanti dei Comuni: 2,5 profughi ogni mille abitanti. Ai Comuni fino a 2 mila abitanti, per esempio, verranno assegnati non più di 5 migranti, mentre le grandi città dovranno accogliere 1,5 profughi ogni mille abitanti. L’adesione su base "volontaria" per i Comuni significa solo stabilire un canale privilegiato di collaborazione con il Viminale per concordare l’accoglienza, detto questo chi non aderisce al piano potrebbe comunque vedersi assegnare una quota di migranti sul territorio, "stabilito a livello centrale sulla base di un piano nazionale". Le prevedibili resistenze - e le agitazioni strumentali di comitati veri o presunti - saranno cronaca dei prossimi mesi. Basta leggere la lettera che la presidente dell’Associazione nazionale piccoli comuni d’Italia (Anpci), Franca Biglio, ha scritto ieri al ministro degli Interni: "Diciamo no ad accordi sulla pelle della nostra comunità, fatti con un’associazione, l’Anci, che non ci rappresenta più ormai da anni". Gli accordi vengono definiti "pasticciati, inutili, privi di ogni visione a medio e lungo termine e con risorse finanziarie risibili" (al suo comune, Marsaglia, Cuneo, 300 abitanti, al massimo verrebbe assegnato un solo profugo). Come da copione, invece, sono già operative le strumentalizzazioni leghiste e (post) fasciste laddove sono state localizzate nuove strutture di accoglienza. È di ieri l’alzata di scudi dell’assessore alla Sicurezza leghista della Regione Lombardia che vuole impedire la sistemazione di 300 profughi su una ex base dell’aeronautica di Peschiera Borromeo (Mi). Mentre l’altro giorno, a Milano, è stata organizzata la prima manifestazione razzista davanti alla caserma Montello destinata ad accogliere temporaneamente alcuni profughi (con il benestare del sindaco Beppe Sala). Lo ha confermato ieri il prefetto Alessandro Marangoni in una nota, la caserma "sarà resa disponibile per l’accoglienza dei migranti in misura non superiore a 300 persone fino al 31 dicembre 2017". Con vigilanza fissa 24 ore al giorno. Certe resistenze, volendo, si superano. Forse, per Alfano, l’emergenza è un’altra e ha a che fare con le risorse necessarie per far funzionare il piano di ripartizione dei migranti. Il rischio è che salti prima di cominciare se è vero che, come ha scritto il Corriere della Sera, su un miliardo necessario ogni anno mancherebbero 600 milioni. Già oggi ci sono cooperative che gestiscono strutture di accoglienza che da mesi non vengono pagate. Migranti. Accordo Ue-Kabul: aiuti in cambio di rimpatri forzati di Emanuele Giordana Il Manifesto, 6 ottobre 2016 Afghanistan. La Conferenza di Bruxelles promette 4 miliardi di dollari l’anno sino al 2020 ma li vincola al ritorno degli afgani indesiderati. E nella capitale si prevede un nuovo scalo solo per loro. Dalla Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan, dopo le buone notizie arriva la doccia fredda. E se la borsa è piena per circa 4 miliardi di dollari l’anno sino al 2020 che consentiranno al malridotto governo di Ashraf Ghani di tirare il fiato, gli aiuti sono stati condizionati all’accettazione di un piano segreto che riguarda i migranti afgani costato sei mesi di trattative. Si chiama Joint Way Forward e se n’era parlato già mesi fa quando un memo segreto della Ue aveva delineato una strategia per il rimpatrio di almeno 80mila afgani. Della cosa però non si era più saputo nulla e, addirittura, si era detto che la questione migranti non sarebbe stata vincolata agli aiuti di Bruxelles. Ma la vicenda invece è saltata fuori proprio a Bruxelles che è stata la cornice dell’accettazione del piano da parte di Kabul: un piano che prevede che chiunque si veda rifiutato il diritto di asilo, una volta verificato che non vi siano altre possibilità di accettazione in un Paese membro, venga rispedito a casa. Lo voglia o no. In altre parole una deportazione concordata. A che ritmo? Per i prossimi sei mesi almeno 50 persone per aereo su voli diretti a Kabul o ad altro aeroporto afgano anche se il numero dei voli non viene quantificato. Si capisce però che non saranno pochi, tanto che le parti si sono accordate per un eventuale nuovo terminal dedicato agli espulsi nell’aeroporto della capitale dell’Afghanistan che accetta di riceverli e integrarli, ossia farli semplicemente rientrare nel Paese. Sino ad ora solo 5mila migranti afgani hanno fatto ritorno volontario a casa su 178mila che, nel 2015, hanno inoltrato richiesta d’asilo nella Ue: quattro volte di più che nel 2014 e arrivando a costituire il secondo gruppo di migranti dopo i siriani. Kabul deve fare buon viso a cattivo gioco con oltre un milione di sfollati interni e la minaccia di Islamabad di rimandare a casa entro marzo un milione di afgani, un terzo dei quali è già stato espulso dal Pakistan. E benché i funzionari di Bruxelles neghino che sia sia utilizzata la leva degli aiuti per far deglutire a Kabul l’amaro calice, è davvero difficile pensare che non sia stato così: Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, è stato chiaro quando ha spiegato che la Ue sosterrà Kabul con denaro e programmi per nuovi posti di lavoro in Afghanistan. Già da giorni i tedeschi erano stati ancora più chiari: o l’Afghanistan si riprende i migranti o si chiude la borsa. L’Europa non tratti i profughi come merce di scambio di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 6 ottobre 2016 È senza dubbio una buona notizia che la comunità internazionale abbia deciso di stanziare 13 miliardi di dollari di aiuti per sostenere lo sviluppo dell’Afghanistan e il difficile processo di pacificazione in quel Paese. Ed è una notizia ancora migliore che a guidare gli sforzi ci sia l’Unione Europea, che mette così la sua autorità morale al sevizio di una causa meritoria. Ma è proprio per questo che tale impegno non dovrebbe essere macchiato dall’ombra del sospetto: poiché in concomitanza la Ue e l’Afghanistan hanno siglato un accordo sui rimpatri dei profughi, che prevede addirittura la costruzione di un terminal apposito all’aeroporto di Kabul. Certo, l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, ha sottolineato che "non c’è collegamento fra gli aiuti allo sviluppo e quello che facciamo sulla migrazione. È stato un processo parallelo, ma non c’è condizionalità". Ma allora perché un ministro afghano ha descritto l’accordo come "una coppa avvelenata che il governo è stato costretto a bere?". E ha forse completamente sbagliato i toni Amnesty International, che ha definito "un’assoluta vergogna scambiare l’assenso del governo afghano per i rimpatri dei propri cittadini con aiuti umanitari e allo sviluppo"? Certo, è comprensibile che i governi europei, sotto la pressione delle opinioni pubbliche e soprattutto dei montanti partiti populisti, cerchino strade per regolare i flussi migratori. Ma affannarsi a dire, come è stato fatto, che ormai molte parti dell’Afghanistan, inclusa Kabul, sono sicure, è cosa che sfida la logica e il buon senso. Trattare chi fugge da guerre e persecuzioni come merce di scambio non fa onore a chi propone quel tipo di accordi: prima di ogni considerazione politica o elettorale, non va dimenticato che siamo di fronte a persone che lasciano le loro case e tutto quello che hanno per salvare l’unica cosa rimasta, la nuda vita. Di fonte a cui il diritto all’asilo dovrebbe avere precedenza. Droghe. Cannabis, l’Abruzzo adotta il decreto "contra personam" di Laura Arconti* Il Dubbio, 6 ottobre 2016 Fabrizio Pellegrini, 47 anni, pianista, attore e pittore: un noto artista ed un tranquillo cittadino, prima d’esser rinchiuso nel carcere di Chieti perché coltivava in casa cinque piantine di Cannabis. Ne usava le foglie per lenire dolori e crampi - così forti da non lasciarlo neppure dormire di notte - dovuti ad una malattia insidiosa, la fibromialgia, la cui natura è stata chiarita da pochi anni. Solo una decina di anni fa era ritenuta una patologia di natura psicogena, non curabile e neppure diagnosticabile: oggi è documentato che la fibromialgia deriva da alterazioni dei neurotrasmettitori a livello del sistema nervoso centrale, provoca una quantità di disturbi gravi e invalidanti, ed è curabile. Una delle possibili terapie è rappresentata dalla canapa indiana e dai cannabinoidi, oggi ammessi in Italia e distribuiti dalle farmacie su prescrizione medica. Addirittura il laboratorio farmacologico militare sta coltivando cannabis a Firenze, ma la sua produzione non ha ancora raggiunto i pazienti: tuttora i prodotti a base di cannabis vengono importati dall’Olanda, e i pazienti debbono pagarla a prezzi esorbitanti. Ecco dove Fabrizio Pellegrini sale alla ribalta della cronaca, perché non ha denaro ? si sa, "carmina non dant panem" e gli artisti minori sono quasi tutti poveri ? sicché l’unica soluzione, per lui, è quella di coltivare personalmente il suo fabbisogno, e finire in carcere a causa della sua decisione. Pellegrini è abruzzese, e la Regione Abruzzo, antesignana rispetto a tutto il resto d’Italia, nel 2014 ha approvato una legge per l’erogazione dei cannabinoidi con finalità terapeutiche. La legge 4 gennaio 2014 n° 4, all’art. 2 - comma secondo, recita esattamente così: "I medicinali cannabinoidi possono essere prescritti, con oneri a carico del Servizio sanitario regionale, da medici specialisti del Servizio sanitario regionale e da medici di medicina generale del Servizio sanitario regionale, sulla base di un piano terapeutico redatto dal medico specialista". La Giunta regionale avrebbe dovuto adottare tutti i provvedimenti necessari all’attivazione della legge, entro novanta giorni dalla sua entrata in vigore, dunque entro il 4 aprile 2014. I ritardi nell’attivazione delle leggi non sono una novità, in Regione Abruzzo: la Legge n. 35 del 23/08/2011, istitutiva del Garante regionale dei diritti dei detenuti in custodia dello Stato non ha ancora avuto attuazione a tutt’oggi, dopo ben cinque anni. Più rapida è stata l’approvazione di un decreto attuativo della legge n°4 del 4/01/2014 sui cannabinoidi: ne è stato data comunicazione il 4 ottobre 2016, dopo "solo" poco meno di tre anni in luogo dei novanta giorni prescritti. Fabrizio Pellegrini nel frattempo è diventato celebre, perché del suo caso hanno parlato i giornali (anche Il Dubbio lo ha seguito con attenzione): è stato arrestato, rinchiuso nel carcere di Chieti, e solo per il lavoro assiduo del suo avvocato difensore ha ottenuto dal magistrato di Sorveglianza di Pescara il trasferimento della sua detenzione domiciliare in provincia di Bologna, dove spera di curarsi. Cittadino della terra d’Abruzzo, è stato obbligato in esilio fuori dalla sua regione di residenza perché la legge c’era, anzi era un vanto della regione, ma non la si poteva applicare. Il difensore di Fabrizio Pellegrini è l’avvocato Vincenzo Di Nanna, del Foro di Teramo, che è anche Segretario di una Associazione radicale: "Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi" da lui fondata con Marco Pannella. L’avvocato Di Nanna rileva con indignazione che la Giunta regionale ha adottato un decreto il cui testo, diffuso dalla Regione, introduce una vera e propria deroga alla legge: infatti limita ad un numero chiuso di patologie l’erogazione gratuita dei farmaci a base di cannabis, e ne esclude espressamente la gratuità per la cura della fibromialgia, proprio quella patologia da cui è affetto Fabrizio Pellegrini. L’avvocato Di Nanna dice: "Resta da comprendere come una Giunta regionale, nell’attuare una legge, possa modificarne il testo al punto da restringerne, in maniera illogica e arbitraria, l’ambito d’applicazione, violando altresì l’art. 32 della Costituzione sul diritto alla salute". Fabrizio Pellegrini, dal canto suo, scrive al suo avvocato difensore: "Hanno violato il quadro normativo nazionale, è un abuso da perseguire giuridicamente con ferocia. Il riferimento specifico personale mi offende: sono uno straniero nella mia regione! " Negli anni abbiamo assistito a deprecabili "decreti ad personam", in questo caso vediamo un decreto "contra personam": è la peggiore degenerazione del sistema partitocratico contro il quale invochiamo il ripristino della legalità. Anche per questo motivo numerose Istituzioni, Associazioni e semplici cittadini cammineranno insieme, il prossimo 6 novembre, dal carcere di Regina Coeli a piazza San Pietro, chiedendo amnistia e giustizia nel ricordo di Marco Pannella e nel nome del Pontefice romano. *Militante Radicale e presidente di "Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi" Stati Uniti. In Texas giustiziato il detenuto che aveva rinunciato agli appelli Ansa, 6 ottobre 2016 È stato giustiziato Barney Fuller, il 58enne condannato a morte per l’omicidio dei suoi vicini di casa, avvenuto nella zona di Houston (Texas) due anni fa. Il detenuto, rinchiuso a Huntsville, nei mesi scorsi non aveva più voluto continuare gli appelli per fermare l’esecuzione, desiderando invece che venissero accelerati i tempi. Per il giudice, Fuller aveva preso la decisione nel pieno delle sue facoltà mentali. Mozambico. Concerto improvvisato? No, la banda delle carceri di Chiara Conti unimondo.org, 6 ottobre 2016 All’interno delle carceri di Beira, seconda città del Mozambico dopo la capitale Maputo, che conta circa 500.000 abitanti, c’è un gruppo musicale molto attivo. L’abbiamo scoperto durante la feira da nutriçao, cioè la fiera della nutrizione, una giornata svoltasi alla fine di luglio 2016 a Beira a conclusione di una ricerca del Segretariato Tecnico di Sicurezza Alimentare e Nutrizionale (Setsan, Ministero dell’Agricoltura). I risultati di questa ricerca, usciti nel mese di settembre 2016, hanno rivelato che circa un milione e mezzo di persone, in diverse province del Mozambico, sono in una situazione di insicurezza alimentare acuta. La causa principale è la forte siccità che tra il 2015 e il 2016 ha colpito il Paese, oltre all’aumento vertiginoso del prezzo dei prodotti alimentari di base. Le previsioni per il semestre tra ottobre 2016 e marzo 2017 sono di peggioramento a causa degli scarsi raccolti dei mesi passati. Durante la giornata di fiera è stato organizzato un mercato. Numerosi erano i banchetti che mostravano e vendevano gli ingredienti locali per una corretta e varia alimentazione come farina di miglio, arachidi, banane, cavolo, cocco. Alcune associazioni hanno preparato delle combinazioni di alimenti ultranutritive da offrire e assaggiare per promuoverne la preparazione in casa. Il clima di festa era accompagnato in sottofondo da una musica continua e ritmata e un gruppo di persone ballava, molte con una maglietta gialla, unico segno di identificazione dei detenuti del carcere. Un evento che ha messo dunque insieme diverse realtà, fin troppo spesso demonizzate, finalmente mostrate alla luce del sole, come quella dei carcerati,. Nonostante le previsioni non siano delle più positive, nonostante le prospettive future sulla malnutrizione non facciano essere ottimisti, la voglia di cambiamento e di miglioramento c’è, è presente, perlomeno lo era durante la feira da nutriçao.