Ma la giustizia non può accontentarsi della sola carcerazione di Giovanni Fiandaca La Repubblica, 5 ottobre 2016 Il tema della pena, per quanto marginale nel dibattito pubblico, è venuto alla ribalta in più occasioni. Per ordine di importanza, e rilievo simbolico, va per primo richiamato un intervento di papa Francesco dell’ottobre di due anni fa, assai critico nei confronti del populismo repressivo e tendente a sollecitare un ricorso il più ampio possibile a sanzioni di tipo extracarcerario. In linea di continuità ideale poi si colloca l’attenzione che, negli ultimi tempi del suo mandato, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rivolto alle condizioni di vita negli istituti di pena, invitando le forze politiche a farsene carico a tutela della inviolabile dignità umana degli stessi detenuti. Per fortuna, questi autorevoli moniti non sono rimasti del tutto inascoltati. A parte i provvedimenti normativi emanati in via d’urgenza per rispondere ai rimproveri mossi dalla Corte di Strasburgo a causa del sovraffollamento delle carceri italiane e della eccessiva ristrettezza degli spazi a disposizione nelle celle, è indubbio merito dell’attuale guardasigilli Andrea Orlando l’avere inserito la questione-carcere nella sua agenda di lavoro, promuovendo lo scorso anno gli "Stati generali dell’esecuzione penale" con questo preciso obiettivo: innovare l’ordinamento penitenziario all’insegna di un recupero e rilancio della prospettiva della rieducazione (sull’iniziativa e sul Documento finale in cui è sfociata cfr. www.giustizia.it). Una prospettiva che, sebbene abbia seguitato a rimanere inscritta nell’articolo 27 della Costituzione, ormai da qualche decennio era quasi del tutto sparita dall’orizzonte - per dir così - della costituzione penale "materiale". Ciò per un insieme di fattori, in larga parte noti, che non è consentito esplicitare nello spazio di questo articolo. A dispetto di questo apprezzabile risveglio di attenzione politico- governativa, il tema della pena rimane però difficile e divisivo come pochi altri. È per questo che esso continua ad apparire politicamente impopolare e, dunque, poco redditizio (se non addirittura controproducente) in termini di consenso elettorale. Per renderlo meno ostico in sede politica, occorrerebbe svolgere una grande e capillare missione di pedagogia collettiva in seno alla società. Spiegando per quali ragioni la pena detentiva, oltre a essere assai costosa nella sua gestione economica, produce spesso effetti più simili a quelli di un veleno che non di una medicina. E cercando di far maturare nelle persone, al di là di ogni pulsione punitiva sprigionata da pur comprensibili istanze retributive o da ricorrenti paure securitarie, la presa di consapevolezza razionale che, per curare e prevenire davvero i mali sociali, sono necessari strumenti di intervento ben più sofisticati e impegnativi della fin troppo inflazionata, e spesso inefficace, risposta repressiva. Ma vi è di più. Anche a volere restare sul terreno della giustizia, quel che in teoria sarebbe necessario - se la tormentata e confusa epoca nostra lo permettesse - è una sorta di nuovo "illuminismo" penale: cioè un profondo rinnovamento culturale per ricostruire dalle fondamenta non solo l’armamentario sanzionatorio, ma - prima ancora - il catalogo dei reati. Che cosa oggi merita, e necessita davvero, di essere qualificato dal legislatore come reato? Questo interrogativo è giustificato, oltre che dalla persistente elefantiasi di illeciti penali, dalla tendenziale corrispondenza che dovrebbe esistere tra il senso attribuibile in questo momento storico alla punizione e le ragioni sostanziali per cui possiamo ritenere che almeno alcuni fatti, percepibili come particolarmente gravi alla stregua della sensibilità odierna, necessitino a tutt’oggi di essere immancabilmente stigmatizzati come crimini. In attesa di questo auspicabile, ma in atto improbabile ripensamento culturale, siamo costretti a fare i conti col diritto penale esistente, e dunque con la sua invasività opprimente, il suo disordine, la sua obsolescenza e il suo carattere largamente discriminatorio. E, soprattutto, col fatto che esso è prevalentemente ancora imperniato sulla detenzione quale pena principale. Ne derivano indicazioni intuibili, che vale tuttavia la pena esplicitare. Primo: elaborare proposte di riforma volte ad estendere il ventaglio delle sanzioni ispirate al paradigma della "riparazione" a favore delle vittime in carne ed ossa o della società (si pensi ad esempio, ne secondo caso, alle prestazioni di pubblica utilità); in modo che, in tutti i casi in cui sia possibile, la reazione sanzionatoria, piuttosto che "raddoppiare" il male insito nel reato con la (spesso inutile) sofferenza insita nel carcere, esprima una valenza costruttiva in un senso concretamente o simbolicamente riparatorio. Secondo: sfuggire, rispetto all’area della carcerazione irrinunciabile, alla indeterminatezza e alla retorica declamatoria della rieducazione, rimettendo in campo risorse economiche e mezzi adeguati sia per garantire una più ricca dotazione di educatori e psicologi del trattamento, sia per incrementare in ogni istituto penitenziario l’istruzione, i corsi formativi e il lavoro anche intramurario. Lascerebbe ben sperare, in proposito, l’ampia sintonia riscontrabile con le linee ispiratrici del programma di azione di Santi Consolo, attuale capo dell’amministrazione penitenziaria (cfr. l’intervista rilasciata al Foglio del 18 settembre). Ma la credibilità del rilancio dell’ideale rieducativo ha in ogni caso, come presupposto indefettibile, la capacità dello Stato punitore di mostrarsi realmente rispettoso della dignità di ciascun detenuto, cominciando col rendere più umano e vivibile l’ambiente carcerario. Questo nesso tra plausibilità dell’offerta rieducativa e tutela effettiva dei diritti fondamentali dei detenuti è esplicitamente tematizzato in un convegno nazionale (previsto per il 7 ottobre presso il carcere palermitano Pagliarelli), che sembra promettente per la pluralità delle competenze anche istituzionali interpellate e la qualità degli esperti coinvolti. È auspicabile che si moltiplichino occasioni di riflessione di tenore analogo. La strada da percorrere è ancora lunga e, per di più, tutta in salita. Carceri. Fp-Cgil: da risorse a contratto, via per riforma sistema esecuzione penale jobsnews.it, 5 ottobre 2016 Un pesante deficit di personale impegnato nelle carceri, tra assistenti sociali, educatori e poliziotti penitenziari, di risorse adeguate e di mancata innovazione che rende al momento difficile la riforma organizzativa del sistema dell’esecuzione penale, promossa dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e che soprattutto disegna un sistema sul rischio del collasso. A denunciarlo è la Funzione Pubblica Cgil che promuove oggi un’iniziativa dal titolo ‘Dentro a metà - Cambiare la Pena dentro e fuori dal carcerè, alla presenza tra gli altri del titolare di via Arenula, per accendere un faro sull’esecuzione penale e sulla sua prospettata riforma con al centro il rafforzamento del ruolo delle misure alternative. Pur riconoscendo al guardasigilli Orlando l’avvio di un percorso riformatore, la Fp Cgil rilancia le sue proposte nella consapevolezza che, spiega la segretaria generale, Serena Sorrentino, "non si possa avviare nessuna azione riformatrice senza tener conto degli operatori e senza prevedere adeguati investimenti che, ad oggi, ci sembrano del tutto insufficienti, insieme alla mancanza di processi di cambiamento, fondati su innovazione e formazione". La riforma organizzativa del sistema dell’esecuzione penale, che rafforza il ruolo delle misure alternative disegnando un nuovo Dipartimento dedicato prevalentemente all’esecuzione penale esterna per adulti e minori, è per Sorrentino "ad oggi in stallo e non potrà decollare senza investimenti adeguati destinati soprattutto a nuove assunzioni di personale: non si possono fare cambiamenti epocali senza tener conto delle gravi carenze di organico del sistema dell’esecuzione penale". Richieste che vanno di pari passo, aggiunge Sorrentino, "con un cruciale processo di innovazione da avviare al più presto, che per noi deve essere tema del rinnovo contrattuale, ma che si sostanzia anche in nuove tecnologie, formazione e nuove modalità di lavoro che possano effettivamente permettere un cambiamento del sistema". Quanto invece alla carenza di personale, questa si palesa nei numeri forniti dalla categoria dei servizi pubblici della Cgil nel corso dell’iniziativa. "I funzionari di servizio sociale (assistenti sociali) sono solo 971 su una dotazione organica di 1.734 unità, e devono affrontare, a numeri immutati, la sfida del rilancio delle misure alternative e dalle nuove sanzioni sostitutive come la messa alla prova. Non diversa la situazione dei funzionari di servizio sociale per i minori: 355 a fronte di una pianta organica di 522. I funzionari di servizio pedagogico (educatori) sono invece 909 su 1.376, così come i numeri della Polizia penitenziaria non sono confortanti: su 45.325 unità ce ne sono solo 37.963". La popolazione detenuta, infine, "pur in diminuzione, registra tuttora numeri consistenti pari a 54.514 unità. Di questi solo circa il 4% è rappresentato da donne, delle quali ad oggi 43 sono detenute madri con prole al seguito". I numeri degli operatori, precisa la segretaria generale della Fp Cgil, "testimoniano una situazione al limite dello stallo: se non si cambia registro, sarà difficile far funzionare un serio intervento riformatore". Ragioni per le quali, conclude Sorrentino, "dal Governo e dai nostri interlocutori ci aspettiamo risposte precise perché se anche le riforme vanno nel verso giusto, ad oggi, il sistema è ancora sul rischio del collasso e farne le spese sono i lavoratori che noi rappresentiamo, il servizio offerto all’utenza e l’attuazione dei diritti stabiliti nella Costituzione". Contro la corruzione la solita ricetta: più carcere per tutti di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 5 ottobre 2016 Stretta sui delitti contro la pubblica amministrazione. Ancora modifiche in vista per i delitti contro la pubblica amministrazione, da tempo argomento di dibattito pressoché quotidiano. Due i disegni di legge in discussione al Senato in questi giorni. La risposta del legislatore, fortemente condizionato dal comune sentire, è stata in questi anni una sola. Più carcere. Invece di affrontare in radice il problema, e cioè eliminare una burocrazia che strangola la vita del Paese e che molte volte impedisce il sereno svolgimento di qualsiasi tipo di attività, si è pensato di risolvere la questione semplicemente aumentando a dismisura le pene e rendendo questi reati, di fatto, imprescrittibili. Per la corruzione in atti giudiziari, il 319-ter, con le ultime modifiche proposte, il termine di prescrizione è dopo 33 anni. Una vita. Sul punto si segnalano, nell’ultimo periodo, gli interventi del 2012, la riforma Severino, e le modifiche contenute nella legge 69 del 2015. Nonostante ciò, come detto, oltre al dibattito sull’ulteriore riforma del codice penale e di procedura penale, il ddl 2067 che ha infiammato l’Associazione nazionale magistrati e di cui Il Dubbio ha dato ieri ampio risalto, una segnalazione la merita anche la discussione in commissione Giustizia al Senato del ddl 2291, a firma Palma, Caliendo e Cardiello, e del ddl 2370, a firma Buemi e Longo. Il primo andrebbe a modificare gli articoli 317 (concussione), 319-ter (corruzione in atti giudiziari) 346 (millantato credito) e 346 bis (traffico di influenze illecite), introducendo aggravanti di pena, fino alla metà, per i casi in cui la commissione dei suddetti reati avvenga da parte degli avvocati e dei magistrati. Ciò in ragione della particolare funzione svolta dai predetti nel contesto sociale. Il secondo, invece, creerebbe un nuovo tipo di associazione a delinquere, "l’associazione con finalità di controllo e gestione della pubblica amministrazione", all’articolo 421-bis. Con pene fino a 9 anni per coloro i quali "acquisiscono, in modo diretto o indiretto, la gestione o il controllo di attività amministrative o economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi, di procedure volte ad assunzioni o allo svolgimento di concorsi pubblici". Riforma della prescrizione, la chiede l’Europa di Claudia Morelli Italia Oggi, 5 ottobre 2016 La riforma della prescrizione la chiede l’Europa. E anche se il premier Renzi dichiara di non volersi fare "dettare l’agenda" dalla Ue, nella Nota di aggiornamento al Def 2016, in questi giorni all’esame del Parlamento (ieri è stato audito il ministro dell’economia Padoan), il governo non può omettere "quella" raccomandazione avanzata dal Consiglio europeo del 28 giugno scorso, la ii) dal titolo "Efficienza della pubblica amministrazione, processo civile e prescrizione". In realtà il Consiglio ne chiedeva la riforma entro la metà del 2015; poi ha dovuto ri-fissare la data alla fi ne del 2016. Ma quale riforma? Il Consiglio europeo lega la richiesta al "potenziamento" della lotta alla corruzione; ed è anche per questo che il ministro della giustizia Andrea Orlando ha specificato che i reati contro la pubblica amministrazione sono praticamente "imprescrittibili" (da ultimo lo ha ribadito domenica scorsa), anche alla luce delle norme in corso di approvazione in Senato nella più ampia (e contestata) riforma del processo penale. Ed è per questo che il Guardasigilli considera un buon compromesso la norma che dispone la sospensione del decorso del termine per un anno e mezzo dopo il primo grado e altrettanto dopo il secondo grado. Sul ddl, bloccato in Aula, si attende in questi giorni un incontro di chiarimento tra Guardasigilli e Associazione nazionale magistrati, che ha dichiarato "non accettabili" la norma che impone al pm di esercitare azione penale o chiedere l’archiviazione entro tre mesi dal termine dell’indagine, pena l’avocazione della indagine alla procura generale; e quella che minaccia sanzione disciplinare per il pm che non iscriva "immediatamente" una notizia di reato. Ma anche sulla prescrizione il presidente Davigo è tetragono: "i magistrati chiedono di non veder vanificato il loro lavoro per il semplice passaggio del tempo, soprattutto quando c’è una condanna di primo grado". Tornando al Def, la Nota di aggiornamento è anche occasione per illustrare il Cronoprogramma per le prossime riforme (in modo da sostenere le previsioni di crescita dell’1% di pil) e fare un punto su quelle già fatte. Così anche per il settore della Giustizia. Così il governo si impegna, per il 2017, a varare tre nuove riforme. Entro novembre prossimo, dovrebbe vedere la luce la conversione in legge del dl 168, quello che interviene sul processo di Cassazione e su misure organizzative negli uffici giudiziari che preoccupano Anm. La camera lo sta approvando in questi giorni. Entro marzo, ancora, il governo promette l’approvazione del disegno di legge cosiddetto "processo civile" (approvato dalla Camera e all’esame del senato, ma ancora in commissione - AS 2284) che in realtà contiene norme di potenziamento sul tribunale delle imprese, istituisce i tribunali per la famiglia, rivede la disciplina della trattazione e della rimessione in decisione delle cause civili. La istituzione del Tribunale delle imprese, peraltro, segnala il governo, ha già dato ottimi risultati: l’80% del contenzioso viene deciso entro l’anno. Buona performance anche quella garantita dal Processo civile telematico, che ha permesso una riduzione a 367 giorni della trattazione delle cause in primo grado. Queste misure servono per recuperare l’ampio gap dell’Italia nel recupero dei crediti, unitamente alle nuove previsioni del pegno possessorio (mantenimento a fi ni produttivi del possesso del bene a garanzia di un prestito), del patto cd Marciano (cessione di un bene a garanzia di un prestito), e le agevolazioni alle vendite immobiliari all’asta. Entro giugno 2017, pronostica il governo, dovrebbe essere comunque varata la delega per la riforma organica della disciplina della crisi di impresa e della insolvenza (AC 3671). In realtà il consiglio dei ministri l’aveva approvata a febbraio scorso ma è ancora "al palo". Stessa dead line per le misure di contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti (AS 1687), all’esame della commissione giustizia del senato). "Soddisfazioni" giungono dalla giustizia tributaria: nel periodo aprile-giugno 2016, le controversie pendenti si sono ridotte del 9,5% rispetto al 2015 e il processo tributario telematico, ora in Toscana e Umbria, si estenderà entro il 2016 ad Abruzzo, Molise, Liguria, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto, se pur ancora su base facoltativa. Pensioni dei giudici, la proroga resta solo per la Cassazione di Errico Novi Il Dubbio, 5 ottobre 2016 Il relatore, il senatore Cucca, ha al momento rinviato la discussione. La Camera non cambia il punto contestato del decreto, oggi in Aula. Ci sarà anche stato un riavvicinamento tra Renzi e l’Associazione magistrati. Ma questo non basta a far cambiare idea al governo, e al Pd, su una questione: il trattenimento in servizio dei giudici. Il decreto che proroga i termini per il pensionamento dei vertici della Cassazione non sarà modificato dalla Camera. Non sul nodo della proroga, che resta solo per la Suprema corte e per le figure apicali di tutte le alte magistrature. Sono state respinte in commissione Giustizia le modifiche che prevedevano di innalzare di nuovo, e per tutti i giudici, l’età della pensione: da 70 a, almeno, 72 anni. Sul punto non ci sono più dubbi: ieri il provvedimento di conversione è approdato nell’Aula di Montecitorio, oggi si dovrebbe passare alle votazioni. A sciogliere le ultime incertezze è stato il parere favorevole al decreto emesso dalla commissione Affari costituzionali. Sono stati ritenuti implausibili i dubbi di costituzionalità avanzati dall’Anm e dallo stesso Consiglio superiore della magistratura. Il parere della prima Commissione - Nel documento la prima commissione fa propria la relazione illustrativa del provvedimento: in particolare nel passaggio in cui segnala "l’esigenza di assicurare la continuità degli incarichi apicali direttivi superiori e direttivi presso la Corte di Cassazione e la Procura generale". Sempre la Prima commissione della Camera sposa le tesi del relatore a proposito del contestato articolo 5, teso a "salvaguardare la funzionalità degli uffici giudiziari superiori, con particolare riguardo agli apicali, che si renderebbero vacanti nell’anno 2017". La continuità, si conviene nel via libera della commissione Affari costituzionali, "è necessaria in ragione delle molteplici iniziative di riforma intraprese per la definizione dell’elevato contenzioso pendente" presso la Suprema Corte. Ferranti: difficile il dietrofront - Un via libera che mette definitivamente fine alle discussioni in commissione Giustizia. Ieri sera dunque il provvedimento è stato illustrato in Aula dal relatore. Che non è un deputato qualsiasi: si tratta di David Ermini, responsabile Giustizia del Pd. Il fatto stesso di avergli affidato l’incarico dimostra quanto Renzi considerasse delicata la questione. Anche a Montecitorio ha vinto la tesi secondo cui la necessità del decreto trova ragione proprio nella peculiarità dell’emergenza in Cassazione. I problemi di costituzionalità sarebbero sorti proprio qualora, in sede di conversione, la misura fosse stata estesa a una platea più ampia di magistrati. "Si trattava di compiere un ripensamento rispetto alla riforma della pubblica amministrazione firmata dal ministro Madia", nota la presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti. "Con quella misura si è passati dal limite dei 75 anni a quello dei 70 non solo per i magistrati, ma anche per altre categorie apicali come i professori universitari, i primari e i presidi. Evidentemente non poteva essere un decreto lo strumento per compiere una simile inversione, né la si poteva limitare ai magistrati". D’altronde Ferranti non è convinta che ritardare di nuovo il pensionamento di tutte le toghe sia la soluzione per rimediare alle scoperture negli uffici giudiziari. "All’Anm ho detto che a mio parere sarebbe preferibile ripensare i tempi di accesso alla magistratura ordinaria. E fare in modo che si arrivi a indossare la toga a un’età almeno un po’ più bassa rispetto alla media attuale". Con la riforma Castelli del 2006, ricorda la presidente della commissione Giustizia, "si è stravolto il principio stesso del concorso in magistratura. Che non diventa un concorso di secondo grado, ma che in realtà deve essere preceduto dai due anni delle specializzazioni legali, o dall’esercizio della professione forense, e che si combina con l’accresciuta durata del percorso universitario, che ora è di 5 anni". In questo modo "non capita più quanto avvenuto a me", spiega Ferranti, che prima di entrare in Parlamento è stata magistrato inquirente, "io a 24 anni ho vinto il concorso e sono entrata in magistratura, oggi prima dei 35 anni non se ne parla. Adesso che in pensione si va a 70 anni, è chiaro che per un giudice diventerà impossibile mettere insieme 40 anni di servizio". La scelta di ridurre il tirocinio - La strada però non è quella di ritardare di nuovo il congedo dei giudici ma appunto di anticipare l’ingresso in magistratura per i giovani. Sarebbe questa la strada per venire incontro alle lamentele dell’Anm: non lo pensa solo Ferranti ma la maggior parte dei dem impegnati sulla giustizia. In attesa di correggere la riforma Castelli, con il decreto Cassazione si è ridotto il tirocinio dei giudici di prima nomina da 18 a 12 mesi. "Proprio per farli entrare il prima possibile nel pieno delle funzioni", spiega la presidente della commissione. "In questo modo entro la fine del prossimo anno avremo 700 magistrati in servizio a pieno titolo". Ma è difficile che l’Anm accolga con entusiasmo le scelte del governo e della maggioranza. Stefano Cucchi, la perizia del tribunale scagiona solo le forze di polizia di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 ottobre 2016 Giustizia. Per il collegio di esperti nominati dal Gip, sconosciute le cause della morte, forse "epilessia". Nessuna relazione con le fratture. Secondo la sorella della vittima, Ilaria, il testo è confuso: "Ora processo per omicidio". Quale sia la causa esatta della morte di Stefano Cucchi non sa dirlo nemmeno il collegio peritale nominato dal Gip dell’inchiesta bis che indaga sui cinque carabinieri coinvolti nell’arresto del giovane, nella notte del 15 ottobre 2009. Solo due dati risulterebbero oggettivi e conclamati: la frattura recente delle vertebre lombari e sacrali, considerata dagli stessi periti una delle due ipotesi più probabili della morte del geometra romano, e il ruolo "esiziale" del globo vescicale. Su tutto il resto, nessuna certezza nel corposo documento di 250 pagine redatto dal gruppo di esperti e consegnato ieri al Gip Elvira Tamburelli. Eppure le conclusioni a cui arriva il capo dei periti, il prof. Francesco Introna, sono nette: la tesi "a nostro avviso" "dotata di maggior forza ed attendibilità" non è la morte dovuta "a lesione delle radici posteriori del nervo sacrale" ma quella "improvvisa ed inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti-epilettici". Più chiaramente: "Le lesioni riportate da Stefano Cucchi dopo il 15 ottobre 2009 non possono essere considerate correlabili causalmente o concausalmente, direttamente o indirettamente anche in modo non esclusivo, con l’evento morte", scrive il medico legale del Policlinico di Bari seguendo una logica che appare tutt’altro che stringente. Immediate le reazioni di giubilo dei sindacati di polizia e dell’immancabile senatore Carlo Giovanardi. Eppure Ilaria Cucchi considera il documento una sorta di autogol di Introna (alla cui nomina si è sempre opposta per via delle frequentazioni del docente barese con quella destra pregiudizialmente contraria alla processabilità delle forze dell’ordine): "Con una perizia così ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale - scrive la sorella della vittima - Con buona pace dei medici e degli infermieri che vengono continuamente assolti (quattro i processi conclusi finora, ndr)". Scrivono i quattro periti (tutti pugliesi) infatti "che allo stato attuale non è possibile formulare alcuna causa di morte, stante la riscontrata carenza documentale". Ma, si legge nella relazione, "la tossicodipendenza di vecchia data può aver svolto un ruolo causale favorente per le interferenze con gli stessi farmaci antiepilettici alterandone l’efficacia e abbassando la soglia epilettogena. Analogamente concausa favorente può essere considerata la condizione di severa inanizione sofferta da Cucchi". Solo che, fa notare Ilaria Cucchi nel post pubblicato sulla sua pagina Facebook e intitolato "Avremo un processo per omicidio", gli esperti "non sono nemmeno d’accordo con loro stessi sull’effettiva assunzione della terapia anti epilettica da parte di Stefano, che sarebbe l’elemento centrale per arrivare, a dir loro, a quella causa di morte. Infatti, mentre a pagina 196 della perizia sostengono che "non è verosimile che Cucchi abbia assunto una terapia anti epilettica", a pagina 186 invece avevano scritto che aveva preso le medicine". In ogni caso la morte epilettica, scrivono i prof. Introna e Dammacco a pag. 205, a conclusione della perizia, è ipotesi "non documentabile, priva di riscontri oggettivi, ma supportata da rilievi clinico scientifici". Un’altra possibile morte "improvvisa ed inaspettata", aggiungono, potrebbe dipendere dell’"abnorme dilatazione" della vescica che ha fermato il cuore e che è stata causata dalla "frattura traversa di S4". Eppure i medici legali escludono categoricamente ogni nesso tra la morte e le violenze subite dalla vittima e scaricano invece ogni responsabilità sugli infermieri. Scrivono infatti: "Se il soggetto fosse stato adeguatamente sorvegliato e sottoposto a monitoraggio infermieristico, con controllo della diuresi, la dilatazione vescicale, del tutto attendibilmente, non si sarebbe verificata". Ma questa "frattura di S4", ormai conclamata dallo stesso collegio, come è stata indotta, secondo il parere dei medici legali nominati dal Gip? Due le ipotesi che vengono formulate: quella "post traumatica diretta o indiretta, realizzatasi durante una colluttazione" o quella "post traumatica in seguito a caduta accidentale". E le parole non sono neutre. "Il perito Introna tenta di scrivere la sentenza finale del processo per i responsabili del violentissimo pestaggio a mio fratello", è il commento amaro di Ilaria. Mentre il senatore Luigi Manconi giudica la perizia "come minimo contraddittoria e approssimativa fino alla confusione". Ora, conclude Manconi, "spetta alla Procura (il 18 ottobre periti e consulenti si confronteranno in udienza davanti al Gip, ndr) e, mi auguro, a un tribunale, decidere la dinamica della morte", "non certo, a maldestri e spericolati difensori dei carabinieri che finiscono come sempre col danneggiarne l’immagine e l’operato". Ma la perizia non dice che Stefano Cucchi è morto per epilessia di Claudia Torrisi fanpage.it, 5 ottobre 2016 Da più parti è stato riportato che secondo una nuova perizia a colpire Stefano Cucchi sarebbe stata una "morte improvvisa per epilessia" e il suo decesso non avrebbe avuto "nessun nesso con le lesioni". Nonostante le numerose reazioni alla notizia, in realtà, il documento redatto dal perito Francesco Introna dice molto altro e potrebbe finalmente portare a un processo per omicidio. Oggi pomeriggio sono stati resi noti i risultati della perizia medico legale disposta dal Giudice per le indagini preliminari di Roma nell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi. L’incarico ai periti era stato conferito per accertare natura, entità ed "effettiva portata" delle lesioni e stabilire il loro ruolo nella morte del geometra romano. Su buona parte dei giornali e nei lanci d’agenzia è stato riportato che secondo la perizia a colpire Stefano Cucchi sarebbe stata una "morte improvvisa per epilessia" e il suo decesso non avrebbe avuto "nessun nesso con le lesioni". La notizia ha ovviamente suscitato diverse reazioni. Da un lato si è levato un grosso moto di indignazione: dopo le assoluzioni degli agenti carcerari lo scorso dicembre e dei medici nell’appello bis di questa estate, dire che Stefano è morto per un attacco improvviso di epilessia significherebbe offendere nuovamente l’immagine del suo corpo martoriato dalle botte. In molti hanno mostrato rabbia e frustrazione, anche perché, considerata la storia del caso, un ennesimo vilipendio del cadavere di Cucchi non è da considerarsi un’ipotesi remota. Dall’altro lato, qualcuno non ha perso l’occasione per infierire, e ha preso la palla al balzo per tirare acqua al suo mulino. Tra questi, ad esempio, il sindacato di polizia Coisp ha diramato un comunicato in cui si pretendevano "le scuse ai carabinieri e a tutte le forze dell’ordine": "Cucchi non è morto per un presunto pestaggio" e questo conferma "la vergognosa montatura mediatico-giudiziaria che per anni è servita a gettare fango su tutte le forze dell’ordine". Sulla stessa linea d’onda si è collocato anche il Sappe, secondo cui "tutti coloro che formularono, mediaticamente e politicamente, accuse false e affrettate contro appartenenti al corpo di Polizia penitenziaria, senza peraltro avere alcuna prova che pure non poteva esserci" dovrebbero ora "farsi un serio esame di coscienza e avere la dignità di domandare scusa". Anche il senatore Carlo Giovanardi - che sul caso Cucchi non ha mai fatto mancare opinioni "pacate", definendo ad esempio Stefano "non solo un drogato ma anche uno spacciatore" - alla notizia della "morte per epilessia" si è espresso, sostenendo che "il tempo è galantuomo e ancora una volta i fatti mi danno ragione". In tutto questo, invece, la famiglia di Stefano e il legale hanno espresso una certa soddisfazione per le risultanze della perizia. Questo perché, in realtà, il documento redatto dal perito Francesco Introna dice molto altro al di là dell’ipotetica "morte per epilessia" - seppur in maniera piuttosto confusa. La sorella di Stefano, Ilaria, ha chiarito il contenuto in un post su Facebook. "Sostanzialmente la perizia ha formulato due ipotesi di morte: la prima per epilessia, che nonostante in un primo momento venga ritenuta più probabile, nelle conclusioni viene definita "priva di riscontri oggettivi". La seconda, invece, spiega Ilaria Cucchi, "dopo aver riconosciuto tutte le evidenze cliniche da sempre dai nostri medici legali evidenziate, riconosce il ruolo del globo vescicale come causa di morte in conseguenza delle fratture. A pagina 195 descrive compiutamente ‘un’intensa stimolazione vagale produce brachicardia giunzionalè, che ovviamente è conseguenza delle fratture, e poi della morte". Quindi l’unica causa di morte accertata è il "globo vescicale". Il perito Introna infatti poi fa il giurista e dice in buona sostanza che coloro che lo hanno violentemente pestato rompendogli la schiena in più punti non sono responsabili della sua morte per il fatto che il terribile globo vescicale che ha fermato il suo cuore non si sarebbe formato se non ci fosse stata la responsabilità degli infermieri. È questa la causa di morte da noi sempre sostenuta in questi anni, che a differenza dell’epilessia ha elementi oggettivi e riscontrati dagli stessi periti. Nel post Ilaria Cucchi fa notare che, tra l’altro, "i periti non sono nemmeno d’accordo con loro stessi sull’effettiva assunzione della terapia anti epilettica da parte di Stefano, che sarebbe l’elemento centrale per arrivare, a dir loro, a quella causa di morte. Infatti, mentre a pagina 196 della perizia sostengono che "non è verosimile che Cucchi abbia assunto una terapia anti epilettica", a pagina 186 invece avevano scritto che aveva preso le medicine". In ogni caso, nonostante saranno i giudici e non il perito a definire il nesso causale, secondo la sorella "è evidente che se Stefano fosse morto di epilessia, come ipotizzato nella perizia, secondo quanto dicono gli stessi periti ciò sarebbe stato possibile in funzione delle condizioni fortemente debilitate dalla sua magrezza e dalle lesioni subite nel pestaggio". In sostanza, gli "unici dati oggettivi scientifici che la perizia riconosce sono: il riconoscimento della duplice frattura della colonna e del globo vescicale che ha fermato il cuore". Da queste circostanze nasce la soddisfazione della famiglia che è convinta che a questo punto ci siano "ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale". Anche il legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, "rispetto alle aspettative" si è definito "veramente sorpreso". "Con questa perizia - ha detto - andiamo a processo per omicidio, le possibilità che abbiamo adesso sono concrete". Circa il passaggio della perizia secondo cui "le lesioni non possono essere considerate correlabili con la morte", per Anselmo si tratta solo "di una considerazione giuridica", che è "sbagliata". Quello che è importante è che il perito abbia "detto che il globo vescicale non si sarebbe formato se non l’avessero curato, ma il globo vescicale è la causa di morte. E questo è quello che conta per il diritto e per la Cassazione". Insomma, le speranze che Stefano Cucchi possa avere giustizia sono ancora tutte sul tavolo. Caso Cucchi. Giravolte e veleni, se la voce dei luminari allontana la verità di Carlo Bonini La Repubblica, 5 ottobre 2016 Le 205 pagine della perizia di ufficio firmata dal collegio di professori presieduto da Francesco Introna sono un italianissimo capolavoro di ipocrisia che lascia il caso Cucchi in un guado dove è possibile sostenere tutto e il suo contrario. Un guazzabuglio della logica, un monumento al "ma anche", che consente, legittimamente, di far dire ai difensori dei carabinieri indagati per il pestaggio di Stefano che l’inchiesta "bis" della Procura è pronta per essere sepolta da una pietra tombale. E, altrettanto legittimamente, a Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, legale della famiglia, che "finalmente sarà possibile celebrare un processo per omicidio". Impossibile, si dirà. Eppure, prevedibile. Chiamato dopo sette anni a rispondere una volta per tutte alla Domanda del caso Cucchi - di cosa è morto? - perché dalla risposta dipende il futuro di un nuovo processo agli autori del pestaggio, il collegio peritale nasce infatti nel gennaio scorso sotto i peggiori auspici. Perché a presiederlo viene chiamato un luminare barese, Francesco Introna, massone in sonno e uomo di destra, legato da rapporti di stima e colleganza con almeno due dei professori e medici legali (Paolo Arbarello e Cristina Cattaneo) di cui dovrebbe giudicare il lavoro. Perché, nel tempo, uno quale perito del pm (Arbarello), l’altra quale consulente di ufficio della Corte di Assise nel processo di primo grado (Cattaneo) hanno categoricamente escluso che le lesioni subite alla schiena durante il pestaggio da Cucchi (due fratture vertebrali) abbiano qualcosa a che vedere con le cause del suo decesso. Concludendo in un caso (Arbarello) che Stefano è morto per un "arresto cardiocircolatorio provocato da un grave squilibrio metabolico". Nell’altro (Cattaneo), di "fame e di sete", come un suicida. Di più. Il professor Introna è diviso da profonda inimicizia da Vittorio Fineschi, storico consulente della famiglia Cucchi che da sette anni predica nel deserto sostenendo che nella morte di Stefano hanno avuto un peso decisivo le sue fratture vertebrali e l’effetto che hanno prodotto sui riflessi vagali che governano il battito del cuore. La posta in gioco per Introna e il suo collegio è dunque alta. Concludere che le fratture vertebrali non sono state né causa, né "con-causa" della morte di Cucchi significa condannare l’inchiesta bis sui carabinieri a un’imputazione modesta di lesioni e dunque a sicura prescrizione visto il tempo trascorso. Sostenere il contrario, significa aprire la strada a un’imputazione di omicidio preterintenzionale e umiliare il lavoro di Arbarello e della Cattaneo, dando ragione all’odiato Fineschi e violando il fair play degli uomini di scienza, in cui la regola vuole che cane non morda cane. Per uscire dalla tenaglia, Introna impiega dieci mesi. E, alla fine, sceglie la via del "ma anche". Tira fuori dal cilindro come "probabile causa di morte" il coniglio dell’epilessia, ma ammette che l’ipotesi, sebbene da lui privilegiata, non ha riscontri "oggettivi". Quindi, sdogana quella avanzata dall’odiato Fineschi. Ancorché da lui scartata - argomenta infatti - esiste una seconda ipotesi plausibile: che le fratture alla schiena di Stefano (per la prima volta in sette anni riconosciute come recenti e dunque frutto del pestaggio) abbiano indotto un riflesso del nervo vagale che ha provocato la spaventosa dilatazione della vescica e, a cascata, una gravissima brachicardia che ha prodotto l’arresto del cuore. E tuttavia, aggiunge, quelle fratture (e dunque il pestaggio) non possono essere considerate causa del decesso, perché sarebbe bastato che qualcuno avesse avuto cura di svuotarla quella vescica. Insomma, colpa non dei carabinieri, ma degli infermieri del Pertini, dove Stefano fu ricoverato, e per giunta ormai assolti con sentenza passata in giudicato. Nel gergo degli addetti, una "perizia suicida". Forse, e più semplicemente, solo l’ultima furbizia di una storia che continua a pretendere soltanto la verità. "In dubio pro reo", anche per il caso Cucchi di Claudio Cerasa Il Foglio, 5 ottobre 2016 La giustizia punisca chi ha responsabilità dirette: le vendette non servono. La vicenda giudiziaria legata alla morte di Stefano Cucchi durante la sua detenzione per questioni di droga è arrivata a un passaggio cruciale. Dopo la seconda assoluzione in appello dei medici restano indagati i carabinieri che lo hanno tenuto in custodia. Il giudice delle indagini preliminari ha disposto una perizia, che ha portato gli esperti a stabilire che si è trattato di "una morte improvvisa e inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti-epilettici". Quindi per gli esperti non c’è connessione causale tra il pestaggio subito da Cucchi durante le fasi dell’arresto e il suo decesso la settimana successiva. In seguito al deposito di questa perizia, i legali dei carabinieri implicati chiederanno l’archiviazione delle accuse a loro carico, mentre la sorella del deceduto, al contrario, ritiene che ci sarà un processo per omicidio preterintenzionale. La decisione del gip non sarà semplice, soprattutto per il clamore mediatico del caso e per la forte corrente colpevolista che si è diffusa. La via maestra, però, sarebbe quella di applicare il principio giuridico garantista "in dubio pro reo", che dovrebbe far propendere per l’archiviazione. Si può obiettare che quel principio vale soprattutto per un giudizio di merito, che deve verificare la consistenza delle prove, mentre nella fase preliminare basta che ci sia una concatenazione di indizi sufficiente a passare a un processo che accerti se quegli indizi sono suffragati da prove sufficienti oppure no, e che il principio che favorisce l’imputato in caso dubbio valga solo a quel punto. Anche questa è una tesi ragionevole, il che rende davvero complessa la decisione del gip. Le conclusioni di molti esperti intervenuti finora sono abbastanza chiare nell’indicare una probabile causa del decesso, non direttamente collegata alla violenza dell’arresto. L’importante è che si agisca in base a prove e riscontri, non a prevenzioni, contrarie o favorevoli che siano all’Arma, né a compiacenze verso la pressione mediatica. Quella di Cucchi resta una tragedia terribile, per la quale è giusto provare pietà, ma che non può portare a vendette contro chi non ha responsabilità dirette e provate nell’accaduto. Sentenze esecutive a senso unico di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2016 L’esecutività delle sentenze favorevoli al contribuente è ancora in stand by: nonostante, infatti, sia quasi trascorso un anno dalla sua introduzione, il ministero dell’Economia non ha ancora emanato il decreto necessario per l’operatività del nuovo istituto con la conseguenza che l’assenza di tale provvedimento vanifica uno degli aspetti più interessanti della riforma del contenzioso tributario. Il Dlgs 156/2015 ha esteso alle sentenze emesse dai giudici tributari favorevoli al contribuente, le regole vigenti nel rito civile e amministrativo in tema di esecutività immediata. Pertanto dallo scorso 1° giugno, data di entrata in vigore della disposizione, per le decisioni in favore del contribuente, gli uffici devono adempiere alla restituzione di quanto dovuto a prescindere dal passaggio in giudicato. In altre parole, le somme liquidate nella decisione, riferite a imposte richieste a rimborso dal contribuente oo a spese di lite poste a carico dell’ufficio, devono essere erogate anche se la sentenza non è definitiva e quindi nelle more del giudizio. La nuova norma, decorrente dal 1° giugno, prevede poi che per i rimborsi superiori a 10mila euro, diversi dalle spese di lite, il giudice possa subordinare l’esecutività (e quindi il pagamento in favore del contribuente) alla presentazione di una garanzia. Tuttavia, una disposizione transitoria subordinava la concreta applicazione del nuovo istituto all’emanazione di un decreto del Mef, il quale doveva disciplinare la durata, i termini e le modalità della garanzia ove richiesta dal giudice. La norma però non specificava se lo slittamento della decorrenza fosse riferito solo alle decisioni nelle quali era richiesta una garanzia o a tutte le ipotesi favorevoli al contribuente. Secondo l’interpretazione dell’Agenzia (cir. 38/E del 2015) la mancanza del provvedimento comporta la non entrata in vigore di tutte le nuove previsioni sull’esecutività delle sentenze, a prescindere cioè che siano richieste o meno le garanzie dal giudice. Da ciò ne consegue che, in mancanza del decreto resta in vigore la precedente norma per tutte le sentenze favorevoli, e quindi la condanna dell’ufficio può essere eseguita solo dopo il passaggio in giudicato della decisione. Nonostante ormai sia trascorso quasi un anno dall’introduzione della nuova norma, il decreto non è ancora stato emanato, lasciando così ai giudici tributari l’interpretazione e l’applicabilità della nuova disciplina. Peraltro, il perdurare della mancanza del provvedimento del Mef induce a più di una riflessione sia sul tanto decantato rapporto "fisco/contribuente", sia per i risvolti operativi. L’immediata esecutività delle sentenze favorevoli ai contribuenti è stata introdotta con il dichiarato fine di equilibrare il trattamento delle parti in causa. La legge delega, infatti, la prevedeva al fine di rafforzare la tutela giurisdizionale del contribuente. Il decreto delegato, nel rispondere a tale criterio, ha tenuto conto delle peculiarità del giudizio tributario che vede contrapposti una parte pubblica e una privata, dove solo per quest’ultima potrebbero esservi problemi di insolvenza. Tuttavia, allo stato attuale, che una norma così favorevole, emanata nell’ambito della riforma del contenzioso tributario per ristabilire un minimo di parità tra le parti non entri in vigore nella data fissata, di fatto svuota di significato l’intento del legislatore. E ciò, peraltro, non perché il legislatore stesso abbia inteso differirne la decorrenza, ma perché la struttura amministrativa preposta non emana un decreto. In ogni caso, poi, una norma di rango inferiore (il decreto ministeriale), non potrebbe comportare lo slittamento (sine die) dell’entrata in vigore di una legge primaria. Daspo non solo nel calcio ma anche per i violenti durante le manifestazioni politiche di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 4 ottobre 2016 n. 41501. Il Daspo non si applica ai soli soggetti che si rendono violenti durante gli eventi sportivi. La misura deve poter essere applicata anche ai teppisti nel corso di manifestazioni politiche che con il calcio hanno poco a vedere. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 41501/2016. La Corte si è trovata alle prese con un soggetto che si era reso protagonista di intolleranze e violenza nel corso di una manifestazione politica svoltasi a Livorno. A seguito - con ordinanza 12 settembre 2015 - il gip del tribunale di Livorno ha convalidato il provvedimento del Questore di Livorno in data 8 settembre 2015 emesso ex articolo 6 della legge 401/1989 nella parte in cui si disponeva l’obbligo di presentazione presso la Polizia di stato. Ricorso contro il Daspo - Contro il provvedimento è stato presentato ricorso con l’eccezione che il Daspo potesse essere emesso solo ed esclusivamente per i comportamenti posti in essere nell’ambito delle manifestazioni sportive e non di quelle politiche. La Cassazione ha bocciato seccamente la tesi difensiva. Ha rilevato, infatti, come nel 2001 il Dl 336 convertito dalla legge 377 e nel 2014 la legge 146 hanno previsto che il Daspo possa essere applicato anche nei confronti di chi "…risulta aver tenuto…una condotta, sia singola che di gruppo, evidentemente finalizzata alla partecipazione attiva ad episodi di violenza, di minaccia o di intimidazione, tali da porre in pericolo la sicurezza pubblica o creare turbative per l’ordine pubblico nelle medesime circostanze di cui al primo periodo". Alla luce di tale modifica normativa è pacifico che i fatti ascritti al ricorrente fossero previsti dalla norma. Egli aveva minacciato, provocato lesioni personali e portato un oggetto atto a offendere senza giustificato motivo nel corso della manifestazione svoltasi a Livorno il 14 luglio 2015. Per questo era stato denunciato e sottoposto a indagini preliminari. Poiché è stata rilevata la presenza di una delle condizioni previste dall’articolo 6, comma, della legge 401/1989 correttamente è stato emesso il Daspo. La nuova legge - Si legge nella sentenza come le novità apportate dal legislatore nel 2001 hanno la funzione di estendere la portata delle disposizioni potenzialmente pericolose per l’ordinario e pacifico svolgimento delle manifestazioni sportive. Quindi non più soltanto a coloro che tale pericolosità hanno manifestato direttamente in occasione delle stesse, ma anche a coloro i quali tale pericolosità hanno evidenziato in altro modo, per essere stati denunciati/condannati per determinati reati specificamente indicati e appunto scelti quali indici precisi della pericolosità stessa. "Virginia, partecipa con noi alla Marcia per l’amnistia" l’opinione.it, 5 ottobre 2016 Lettera aperta alla Sindaca di Roma. "Onorevole signora Sindaca, i firmatari di questa lettera aperta non sono suoi fan, e probabilmente alcuni di loro non hanno votato per lei. Ma oggi si rivolgono a Lei, Sindaca di Roma, con il rispetto e la fiducia che si devono ai rappresentanti di questa città che ci è comune, e quindi in primo luogo al suo primo cittadino, cioè a Lei. E si rivolgono a lei, Sindaca di Roma, per invitarla a partecipare ? a nome e in rappresentanza della città ? a un evento che si svolgerà o ? meglio ? si snoderà per le sue strade e piazze in omaggio al capo del cattolicesimo, Papa Francesco, e a un suo cittadino che alla città ha fatto onore, con la vita e l’opera, Marco Pannella. Il 6 novembre molti, donne e uomini, radicali e/o credenti, membri della comunità penitenziaria, parenti di detenuti, le associazioni e quanti siano impegnati nella promozione dei diritti umani e civili, vorranno unirsi alla "Marcia per l’Amnistia, la Giustizia e la Libertà" che partendo dal carcere di Regina Coeli raggiungerà Piazza San Pietro, dove papa Francesco celebrerà il "Giubileo dei Carcerati". La mobilitazione è indetta "per ribadire la necessità di un’amnistia perché - come sostiene la Mozione votata il 3 settembre scorso al 40° Congresso del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito svoltosi nel carcere romano di Rebibbia - le nostre Istituzioni escano dalla condizione criminale in cui si trovano rispetto alla Costituzione, alla giurisdizione europea, ai diritti umani universalmente riconosciuti e alla coscienza civile del Paese". La Marcia sarà dunque un momento essenziale della "prosecuzione della battaglia storica di Marco Pannella per l’amnistia e l’indulto quale riforma obbligata per l’immediato rientro dello Stato nella legalità". Ma essa vuole anche rendere omaggio e sostenere la costante iniziativa di Papa Francesco a favore degli ultimi, dei diseredati, dei sofferenti e, in particolare, di quanti sono detenuti e pagano per i loro reati non solo con la detenzione loro comminata ma anche con le condizioni disumane e inaccettabili di un sistema giudiziario e carcerario inaccettabile. "Il Giubileo - ha detto papa Francesco - ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto". Lei, signora Sindaca, è stata chiamata ad affrontare, con impegno quotidiano, l’arduo compito di rendere più vivibile, efficiente e decorosa questa città, che soffre di problemi gravissimi. Ma è dovere di un buon governo non solo promuovere una più funzionale amministrazione e sempre migliori infrastrutture, ma anche indicare ai cittadini obblighi e doveri sociali che rendano la comune convivenza non una sbiadita e insignificante abitudine, ma una vera coesione nutrita di spiriti civici, di una solidarietà operosa soprattutto verso i meno favoriti, i più bisognosi. Roma è una grande città di spiriti e sentire universali, ha responsabilità che travalicano i suoi confini e quelli nazionali. Il dialogo tra la città e il capo del Cattolicesimo deve essere sempre, nel rispetto dei rispettivi ruolo, alto e significativo. La Marcia del 6 novembre potrebbe/dovrebbe essere un’opportunità per ravvivarlo e renderlo fruttuoso, a vantaggio comune. È per questo che gli organizzatori della Marcia si augurano che lei voglia partecipare all’importante evento, alla testa di una delegazione adeguata alle mille anime della città, e dietro al gonfalone giallorosso che la rappresenta e simboleggia. Cordialmente". Angiolo Bandinelli, Rita Bernardini, Antonella Casu, Sergio D’Elia, Maurizio Turco L’ergastolo "ostativo" in Italia, un altro scempio di Adriano Sofri Il Foglio, 5 ottobre 2016 Le armi, Trump, e quel sondaggio sulla pena di morte in America. Un accreditato sondaggio annuale, di cui ho letto sul New York Times, avverte che per la prima volta nella storia la maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti si dichiara contraria alla pena di morte. La trovo una formidabile notizia, sostanzialmente e simbolicamente. Verrà il giorno in cui si conoscerà il nome dell’ultimo giustiziato, e forse non è lontano. Nel 1994, poco più di vent’anni fa, era l’80 per cento degli americani a dichiararsi in favore della pena capitale. Le tendenza opposta non ha fatto che crescere poi, per una serie di cause: lo spaventoso numero di assassinati legali dimostrati poi innocenti, le peripezie dei metodi dell’omicidio legale, i costi finanziari eccetera, ma soprattutto il turbamento crescente per la contraddizione fra quella pratica e una società che si vuole civile. Questo complicato intreccio di cause era riassunto dall’Economist a gennaio (ne trovate un resoconto sul Post.it): è interessante che a quella data si valutasse che i favorevoli alla pena di morte fossero ancora il 60 per cento. Ci sono due ragioni peculiari per congratularsi della notizia sul sondaggio: che viene in un periodo in cui particolarmente calda è la discussione sul "libero" spaccio di armi, e nel periodo in cui tiene metà della scena un personaggio come Trump. La speranza sul progressivo rigetto della schifezza della pena di morte è amareggiata da un suo complemento americano ma non solo americano. Là le voci contrarie alla pena capitale ricorrono spesso all’argomento del carcere inesorabilmente a vita, una pena di morte centellinata. Non solo americano, perché come si sa, se solo lo si voglia sapere, l’Italia ha introdotto una mostruosa dizione giuridica, l’ergastolo cosiddetto "ostativo", che cioè non può mai avere fine per quanto tempo trascorra e quali che siano i cambiamenti attraversati dal condannato, salvo che questi "collabori", cioè denunci altre persone. Condizione ulteriormente mostruosa e caricatura del pentimento beninteso. L’ergastolo "ostativo" è una micidiale violenza fatta al dettato e allo spirito della Costituzione. Oggi lo denunciano prima di tutto con voci intelligenti e sconvolgenti molti di quegli ergastolani che hanno saputo riscattarsi in carcere e nonostante il carcere, e con loro "i soliti radicali" (anch’io) e un numero crescente di persone che hanno professionalmente a che fare con la giustizia, la galera e i detenuti: giuristi, magistrati, avvocati, dirigenti e personale di carceri. Il Papa, anche, che al suo Stato ha provveduto in fretta. Oggi succede anche che all’ergastolo "ostativo" siano contrari anche i maggiori responsabili dell’amministrazione penitenziaria e del ministero della Giustizia. Bel paradosso, cui contrasta l’estensione progressiva e quasi per inerzia dell’ergastolo "ostativo" a categorie di condannati diverse da quelle che pretesero di giustificarne l’introduzione. Americani e italiani, ancora uno sforzo. Lecce: detenuto morto in cella; eseguito l’esame autoptico, fatale l’inalazione di gas lecceprima.it, 5 ottobre 2016 L’autopsia ha sciolto solo in parte i dubbi legati alla morte di Mauro Zecca, avvenuta domenica notte nel carcere di Lecce. È stata con ogni probabilità l’inalazione del gas della bomboletta in dotazione ai detenuti (per riscaldare cibi e bevande) a provocare la morte di Mauro Zecca, il 38enne di Campi salentina trovato senza vita domenica notte in una cella del carcere di Borgo San Nicola. A stabilirlo, in via preliminare, l’autopsia eseguita dal medico legale Roberto Vaglio su disposizione del pubblico ministero Carmen Ruggiero, titolare del procedimento sulla morte del detenuto. Bisognerà attendere comunque l’esito degli esami tossicologici per avere un quadro più preciso delle cause del decesso. Quella del suicidio (che non convince i famigliari della vittima) è una delle ipotesi al vaglio degli inquirenti. Sul corpo del 38enne, infatti, non sarebbero stati rinvenuti segni di violenza. In realtà potrebbe anche essersi trattato della conseguenza di una pratica piuttosto diffusa negli istituti penitenziari: quella dell’inalazione di gas per lo "sballo" e l’effetto narcotizzante. Una pratica che circa dieci anni fa costò la vita (in circostanze altrettanto misteriose) a Cosimo Cirfeta, killer spietato e personaggio di spicco della Sacra corona unita, poi diventato collaboratore di giustizia, fino alla morte in una cella del carcere di Busto Arsizio È stato un agente della polizia penitenziaria a trovare il cadavere di Zecca, che stava espiando una pena per dei reati legati all’attività di spaccio di sostanze stupefacenti. Dopo aver sentito l’intenso odore di gas che proveniva dal fornelletto utilizzato in cella, intorno alle due e mezzo, ha raggiunto l’interno della cella per verificare che cosa stesse accadendo. Il compagno di stanza del 38enne, vista l’ora, dormiva e non si sarebbe accorto di nulla. I soccorsi si sono rivelati inutili. Il detenuto era ormai privo di vita: ha inalato troppo gas e non ce l’ha fatta. Sondrio: i detenuti interrompono la protesta "mancava solo la comunicazione" La Provincia di Sondrio, 5 ottobre 2016 Risolutivo l’intervento del provveditore regionale che ha incontrato direttrice e reclusi. "Mettiamo da parte quello che è successo in queste settimane e ripartiamo da capo. I presupposti per una gestione serena della vita carceraria ci sono tutti". Luigi Pagano, il provveditore regionale dell’amministrazione carceraria, sembra decisamente sollevato: l’incontro di ieri è stato soddisfacente. C’erano tutti: la direttrice Stefania Mussio, il comandante della Polizia Penitenziaria e, ovviamente i detenuti. Non solo, ma il provveditore ha voluto anche incontrare personalmente le volontarie Vincenziane per convincerle a tornare al più presto a svolgere la propria azione di supporto volontario all’interno della struttura carceraria. La tempesta dei giorni scorsi sembra destinata a lasciare spazio finalmente al sereno. Anche i 25 detenuti che hanno firmato il documento di protesta indirizzato proprio al provveditore regionale e che, allo sciopero della fame cominciato alcuni giorni fa, nel fine settimana avevano aggiunto anche quello della sete, hanno deciso di sospendere la propria protesta. Scioperi portati avanti forse non in modo non esattamente estremo, ma tali comunque da far perdere non poco peso corporeo ad alcuni dei detenuti e a provocare il ricovero in infermeria di un paio di loro. Tante le accuse rivolte alla direttrice: divieto di fare telefonate ai propri avvocati, mancata concessione dei permessi di lavoro per il reinserimento sociale, divieti al medico di entrare liberamente nelle celle, minacce di ritorsioni. Soprattutto, però, ad aver provocato la rabbia dei carcerati, sarebbe stata la rottura del rapporto tra le Vincenziane e l’amministrazione carceraria. "Direi che c’è stato forse un problema di comunicazione, ma che comunque siamo sulla via della soluzione - ha spiegato Pagano. In questa struttura, così come in altre, mancava da anni un regolamento interno che invece sarebbe bene adottare. Probabilmente l’introduzione dei alcune regole non è stata motivata in modo ritenuto soddisfacente e sono nati dei fraintendimenti - ancora il provveditore regionale -. Proprio su questo aspetto stiamo intervenendo. Quanto alle Vincenziane, le ho volute incontrare perché ritengo fondamentale la loro opera di volontariato. Adesso aspettiamo soltanto la nomina da parte del Comune di Sondrio del nuovo garante". Sassari: lavori alla nuova rete idrica, disagi per poca acqua nel carcere di Bancali cagliaripad.it, 5 ottobre 2016 "Un disagio che rende la vita all’interno della struttura detentiva particolarmente difficile", commenta Caligaris. "È evidente che il disservizio è determinato dai lavori per rendere più efficiente la rete idrica della città di Sassari". I lavori per la nuova rete idrica che collega Sassari alla frazione di Bancali, dove si trova il carcere, non garantiscono ai detenuti la fruizione costante dell’acqua potabile costringendo la Direzione a distribuirne quotidianamente una bottiglia da un litro. La denuncia arriva da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che ha accolto la segnalazione di alcuni familiari di detenuti e di Alessio Attanasio ristretto in regime di 41bis. "Un disagio che rende la vita all’interno della struttura detentiva particolarmente difficile", commenta Caligaris. "È evidente che il disservizio è determinato dai lavori per rendere più efficiente la rete idrica della città di Sassari, ma le restrizioni sull’uso dell’acqua potabile all’interno delle celle, protratto nel tempo, determinano - prosegue l’ex consigliera regionale - una condizione di oggettiva difficoltà soprattutto per coloro che non dispongono di mezzi sufficienti per accedere agli acquisti del sopravvitto. C’è infine da domandarsi se un litro d’acqua a testa al giorno sia adeguato a soddisfare le esigenze di idratazione dell’organismo". "La realtà della Casa Circondariale di Sassari-Bancali - ricorda la presidente di SDR - è particolarmente complessa anche per la tipologia di reclusi. È l’unica struttura nell’isola in cui sono ristretti 90 detenuti in regime di massima sicurezza affidati al personale del Gruppo Operativo Mobile. Attualmente nella struttura vi sono 434 ristretti, con diverse patologie, affidati a 322 agenti di Polizia Penitenziaria (anziché 392 - secondo i dati del Ministero)". "Le condizioni di vita all’interno di una struttura chiusa richiedono una specifica attenzione da parte del Dipartimento e del Provveditorato Regionale e impongono la necessità di dotare ciascun detenuto di almeno due litri d’acqua da bere per le necessità individuali evitando così situazioni che possono indurre a considerare la possibilità di proteste collettive o, come nel caso del boss siracusano Alessio Attanasio, di ricorrere a denunce alla Procura, al Magistrato di Sorveglianza, al Garante dei Detenuti e al Prap. Scontare una detenzione, seppure in un regime duro - conclude Caligaris - non significa farsi carico di pene aggiuntive". Viterbo: detenuto in gravi condizioni non viene operato di Paolo Signorelli lultimaribattuta.it, 5 ottobre 2016 "Lager di Stato". Si potrebbero tranquillamente (e purtroppo) definire così le carceri italiane. Per sovraffollamento, per condizioni igienico sanitarie ai limiti della decenza, per colpa di ogni tipo di riforma andata fallita. Una situazione davvero critica per molti detenuti che stanno scontando il loro debito con la giustizia. Tante le storie di reclusi che lamentano una condizione disumana all’interno delle prigioni del nostro paese. Uno di questi è Stefano Frignani, la cui vicenda ha davvero del clamoroso (e del vergognoso). Detenuto attualmente nel carcere di Viterbo, dopo aver pellegrinato per varie case circondariali italiane, l’uomo si trova in condizioni disperate. La storia: È il 20 novembre del 2015, quando il suo legale, l’avvocato Alessandro Cacciotti, scrive all’ufficio del magistrato di sorveglianza di Viterbo, in merito alle condizioni di salute di Frignani. Al detenuto, visitato da medici interni alla struttura, è stata infatti riscontrata una grave patologia, più precisamente una "grave forma di parodontopatia con severo riassorbimento osseo di tipo orizzontale e conseguente perdita dell’anatomia che determina appiattimento della cresta ossea". Scontato e necessario, dunque, un intervento chirurgico maxillo facciale, che possa risolvere il suo problema che sta compromettendo le funzione dell’apparato digerente, con gravi difficoltà per la masticazione (malattia contratta almeno 3 anni prima). "Valutata l’urgenza del caso, chiedo di fornire le opportune indicazioni affinché Stefano Frignani venga sottoposto alle cure necessarie presso la struttura che più verrà ritenuta idonea". Nessun riscontro. Passano quattro mesi e la situazione non migliora. Anzi. La malattia del detenuto progredisce e nonostante un quadro clinico critico, Frignani non riceve alcuna cura. L’avvocato scrive nuovamente una mail, ma questa volta non soltanto all’ufficio del magistrato di sorveglianza di Viterbo, ma anche alla direzione sanitaria del carcere e al Garante per i detenuti, Stefano Anastasia, colui che dovrebbe appunto preoccuparsi e garantire che il recluso sconti la sua pena nel pieno del propri diritti. "Si chiede urgentemente di provvedere a porre in essere tutte le attività necessarie per la salvaguardia della salute di Stefano Frignani". Niente da fare. La gravità delle condizioni del detenuto è acclarata, ma nessuno si preoccupa di trovare una struttura adeguata per farlo operare. Altri esami cui si sottopone non fanno altro che far emergere il peggioramento del quadro clinico. Pochi giorni fa, l’avvocato Cacciotti ha inviato ancora una pec (posta elettronica certificata), rivolgendosi anche al ministro della Salute, per segnalare l’assurda situazione del suo assistito. Nel frattempo, la Direzione Sanitaria, accertata (per l’ennesima volta) la criticità delle condizioni del detenuto, sembra aver inserito quest’ultimo in lista d’attesa per essere finalmente operato. Per un intervento relativo al polipo (altra patologia dell’uomo) alla gola all’Umberto I e per l’intervento maxillo facciale, il più urgente tra i due, al George Estman (le uniche due strutture in grado di accogliere e operare i detenuti). Rischia di non poter più parlare, né masticare Frignani. Il problema è che, già se una persona è libera e non è "raccomandata", una volta in lista d’attesa, possono passare anni prima che la situazione si sblocchi. Figuriamoci se uno è detenuto. Inoltre, c’è un altro ostacolo, qualora si dovesse arrivare ad una svolta: il piantonamento. Essendo un recluso, Frignani avrebbe bisogno di almeno 4 agenti che, a turno, dovrebbero darsi il cambio ogni sei ore per controllarlo. Mettiamo che venga chiamato per l’intervento e che, proprio per quel giorno, non si dovesse trovare la disponibilità della Polizia Penitenziaria. Cosa succederebbe? Slitterebbe l’intervento di mesi. Direzione sanitaria, Garante dei detenuti, giustizia italiana: tutti responsabili di un caso che, giorno dopo giorno, sta diventando sempre più drammatico. Torino: apre "Freedhome", il primo negozio di prodotti made in carcere torinoggi.it, 5 ottobre 2016 In via Milano sarà possibile acquistare oggetti e servizi realizzati dalle imprese attive all’interno del mondo penale. A Torino il primo negozio di prodotti made in carcere. A breve aprirà ufficialmente in via Milano 2/C "Freedhome", un spazio espositivo nel centro della città nel quale sarà possibile acquistare prodotti e servizi realizzate dalle imprese attive all’interno del mondo penale. "Si tratta", spiegano i promotori dell’iniziativa, "di un laboratorio di idee e progetti per ribadire forte e chiaro che l’economia carceraria è la chiave di volta per ripensare in modo efficace il sistema penitenziario italiano" I prodotti venduti all’interno sono delle eccellenze in ogni campo e soprattutto hanno una storia e ogni carcere la sua peculiarità da offrire. Biscotti, maglie, borse, caffè, vino e oggetti di design che puntano più alla qualità che al profitto. Dal carcere femminile di Venezia dove vengono preparati con erbe coltivate nell’orto biologico della Giudecca i cosmetici "RioTerà dei Pensieri", al carcere Lorusso e Cotugno dove si stampano artigianalmente le t-shirt e merchandising. Dal penitenziario di Verbania dove "la Banda Biscotti" produce dolci artigianali e con materie prime scelte, senza coloranti e additivi, alle delizie biologiche della Sicilia prodotte dal carcere di Siracusa. Pisa: diventare cuochi studiando in carcere di Renata Viola Il Tirreno, 5 ottobre 2016 Inaugurato al "Don Bosco" il primo corso per addetti ai servizi alberghieri organizzato dall’istituto Matteotti. È stato inaugurato alla casa circondariale Don Bosco il primo corso per addetto ai servizi alberghieri. Durerà cinque anni, al termine dei quali gli studenti potranno sostenere l’esame di Stato. Sono già trenta i detenuti iscritti al corso che avrà carattere modulare: fino alla fine di dicembre si studieranno le materie dell’area comune previste dall’ordinamento didattico per gli istituti alberghieri. Dal mese di gennaio fino al termine delle attività didattiche i detenuti studieranno le materie di indirizzo: cucina, sala-bar, accoglienza turistica e scienze degli alimenti. Il progetto è stato realizzato grazie alla stretta sinergia tra il provveditore agli studi, Luigi Sebastiani, il direttore del carcere, Fabio Prestopino, e il dirigente scolastico dell’istituto alberghiero Matteotti, Salvatore Caruso. Non sono state poche le difficoltà incontrate per attivare il corso all’interno della casa circondariale: il progetto è prima passato al vaglio degli organi competenti della Regione Toscana e della Provincia di Pisa per il suo inserimento all’interno della rete scolastica provinciale. Poi si è dovuto superare il problema della carenza dell’organico da destinare alla funzione docente nel penitenziario. Infine il direttore Prestopino si è occupato di predisporre gli spazi e le attrezzature necessarie per lo svolgimento dell’attività didattica, mentre al professor Caruso ed ai suoi collaboratori è stato affidato il compito della progettazione didattica. Del percorso didattico fa parte anche l’installazione delle cucine. "Sono felicissimo - commenta Caruso - di essere riuscito a portare a termine, insieme al direttore Prestopino, quel progetto che da qualche anno stavamo elaborando. Il risultato che è stato raggiunto con l’apertura della sezione carceraria dell’indirizzo dell’enogastronomia permetterà all’istituto Alberghiero Matteotti, insieme alle istituzioni, di poter offrire a chi ha sbagliato la possibilità di un reinserimento sociale e lavorativo". Asti: i detenuti recitano i reati che hanno commesso, progetto pilota per le carceri italiane di Selma Chiosso La Stampa, 5 ottobre 2016 Il reato che diventa teatro; la punizione che si fa scena; i "canovacci" ispirati dai consigli di disciplina: la strada per superare i conflitti che hanno portato ai crimini passa anche di qui. È un "giro" de "L’Altra chiave: formare, conoscere, comprendere" un progetto pilota per tutte le carceri italiane che parte da Asti. Il fine: educare in maniera inclusiva tutto il mondo carcerario, dalla Polizia penitenziaria ai volontari, dagli educatori a chi fa le pulizie, dai medici agli impiegati, dai detenuti alle loro famiglie. Perché il carcere è un mondo a sé ma per non diventare un feudo deve avere gli strumenti per aprire tante finestre sul mondo. Ad una condizione: tutti devono parlare la stessa lingua, avere gli stessi obiettivi, finalità, comportamenti. Quindi ciò che serve è un unico corso inclusivo. E il teatro diventa uno degli strumenti della didattica riscoprendo l’antica catarsi. Il progetto Non hanno avuto timore di sognare Elena Lombardi Vallauri, direttore del carcere di Asti e Anna Cellamaro, garante comunale dei detenuti. E se le casse del Ministero della Giustizia sono vuote i fondi sono arrivati "fuori sacco" e dalla Compagnia San Paolo. La necessità di un progetto educativo da mesi super sollecitato dai sindacalisti è stato realizzato in sintonia con il Provveditorato regionale ed è diventato un cantiere con il lavoro di tanti partner. Ognuno ci ha messo quello che sapeva fare, dal personale ai detenuti. Il carcere di Asti è ad alta sicurezza e quindi il punto di partenza per tutti gli operatori, non poteva che essere la conoscenza delle organizzazioni criminali spiegate da avvocati, magistrati, sociologi, esponenti di Libera. Non lezioni teoriche ma formazione sul campo con tecniche per tutti. E incontri aperti alla città per sapere cosa è il carcere. "Il fine è acquisire strumenti per mediare i conflitti e vivere meglio - dice Valluari. Il carcere di Asti è una fetta di mondo vissuto da molte persone che ricoprono ruoli diversi e 280 detenuti. La trasformazione dell’istituto in Casa di reclusione ha imposto una riorganizzazione anche in considerazione di percorsi detentivi molto lunghi". Per Anna Cellamaro: "La novità è affrontare il disagio e lo stress dell’operatore penitenziario in un ambiente generatore di emozioni e sofferenze. Una parte del progetto è dedicata alle famiglie per gestire la terribile situazione di essere genitori dietro le sbarre. Anche i colloqui vanno riempiti di contenuti e serenità". Il teatro è una tradizione per il carcere di Asti che si avvale di un attore professionista. Nel progetto sono 30 le ore dedicate alla mediazione dei conflitti che sul palcoscenico diventano storie facendo virare il dolore verso una vita migliore. Latina: progetti artistici ed artigianali nella Casa circondariale, la realtà secondo i detenuti di Elisabetta De Falco latinacorriere.it, 5 ottobre 2016 "Anche attraverso attività artistiche e culturali si può offrire un percorso di reinserimento sociale, all’interno di una visione che vede tutti coinvolti in prima persona, al di là delle differenze. Un tentativo, una spinta al recupero di ogni particella di potenzialità, di capacità, di possibilità di miglioramento, per ridare senso alla vita e futuro ad ogni soggetto, persona, cittadino". Con l’obiettivo comune di promuovere percorsi che conducano all’abbattimento di pregiudizi e di barriere, da circa cinque anni l’Associazione di Promozione Sociale Solidarte ha avviato, in collaborazione con i responsabili dell’Area Educativa e la Direzione della Casa Circondariale di Latina, un laboratorio artistico e artigianale nelle sezioni femminili e maschili del carcere, sotto la guida dell’artista Giuliana Bocconcello, affiancata dall’esperto di comunicazione Michele Catalano e il sostegno dei soci volontari dell’associazione. Il progetto consiste in una serie d’incontri formativi, di teoria e pratica, nei quali si prendono in esame le varie tappe di sviluppo di un piano di comunicazione che sappia raccontare e valorizzare i lavori artistici e di artigianato che vengono prodotti all’interno del carcere dai detenuti. Il sostegno da parte di "Solidarte" è quello di fornire strumenti, idee, prove pratiche, per la realizzazione, la presentazione e la divulgazione dei manufatti che vengono realizzati. In particolare nella sezione femminile del carcere si sono formati due gruppi ben distinti: 1. Il gruppo "Le donne di Via Aspromonte", che partecipa con manufatti artistici e artigianali ad eventi culturali e di solidarietà, promossi nel territorio pontino e nelle province limitrofe. Realizza manufatti, gadget, in ceramica su commesse da aziende private, Enti pubblici, in particolare dal Comune di Aprilia. 2. Il gruppo "P.I.G. Pellacce In Gioco" (già denominato "API"), realizza borse in tessuto e cuoio, quaderni e taccuini, interamente fatti a mano, ed esclusivamente con materiale di recupero. Il gruppo "Le donne di Via Aspromonte" ha realizzato un’opera pittorica visivo-concettuale intitolata "La Natura Tras-curata vista da dentro", eseguita con tecnica mista e materiali di recupero, in merito all’argomento del verde pubblico e gestione dei rifiuti urbani, progetto Aifo e Cesv - Azioni per la giustizia Ambientale 2014 dal titolo "Ribelli per natura". Il gruppo, inoltre, sotto la guida di Giuliana Bocconcello partecipa alla prima edizione della rassegna di arti visive per detenuti "Arte dal carcere: Verso il futuro" promosso dal Tribunale di Massa, la Casa di Reclusione di Massa, l’Associazione "Amici del Museo Ugo Guidi Onlus - Museo Ugo Guidi di Forte dei Marmi e l’Associazione AiCS Solidarietà di Massa Carrara hanno realizzato, su progetto di Enrica Frediani. Le opere selezionate saranno esposte nei locali del Tribunale di Massa dal 6 novembre 2016 al 30 settembre 2017. Inoltre domani alle ore 11.00, presso la Casa Circondariale di via Aspromonte, si terrà la cerimonia di consegna al sindaco del Comune di Aprilia, Antonio Serra, di 50 esemplari in terracotta che riproducono il logo dell’ 80° Anniversario di Fondazione della Città di Aprilia realizzati interamente a mano dal gruppo artistico delle detenute che partecipano al progetto "Percorsi d’arte e artigianato con le donne di via Aspromonte". Il progetto è a cura dell’Associazione Solidarte e della Casa Circondariale di Latina, con il contributo del Comune di Aprilia e la collaborazione del Comitato Soci Coop di Aprilia. Alla cerimonia partecipa anche l’assessore ai Servizi Sociali del Comune di Aprilia, Eva Torselli. Descrizione opera "La Natura Tras-curata vista da dentro": con il titolo "La Natura Tras-curata vista da dentro" il gruppo ha fatto un viaggio pittorico-emozionale, raccontandolo in tre momenti distinti, con tre "finestre", che segnano e raccontano il dentro-luogo fisico(la Casa Circondariale) e il dentro- luogo emozione (cuore). Un racconto che unisce il tema scelto e la realtà vissuta nel carcere dalle donne di Via Aspromonte, le quali, dalle finestre inventate (poiché dalle finestre del carcere non è possibile vedere fuori), guardano emotivamente la realtà interna ed immaginano quella esterna, uniscono le due realtà apparentemente separate, e trasformano il loro viaggio in un racconto univoco. La prima finestra è quella del grigio e del nero, è il peso degli avvenimenti, forti, l’impatto con una realtà, la città piena di rifiuti, la natura è trascurata. Nella seconda finestra le donne di Via Aspromonte vedono il verde, nel verde attendo e mi esprimo: Aiutiamo i bambini a vivere in una natura pulita, c’è la discarica abusiva, rispettare la natura è un segno di civiltà. Dalla terza finestra si può leggere la frase: l’impegno ci premia. Il giardino di Ninfa è il più bello. I colori sono solari, dal giallo, al rosso, al blu. E quel segno rosso e marrone appena tracciato su una chiazza gialla "è il Vesuvio". Bisogna rispettare la natura perché è vita. La natura va curata. Prato: Polo Universitario Penitenziario, al via ciclo di seminari per detenuti e personale unifi.it, 5 ottobre 2016 Alla Dogaia la prima lezione svolta dal rettore Luigi Dei. È stato il rettore Luigi Dei a inaugurare oggi il ciclo di Seminari del Polo Universitario Penitenziario (PUP) presso la Casa circondariale della Dogaia a Prato. Oltre che agli studenti del PUP iscritti ai corsi di laurea dell’Università di Firenze, il ciclo di seminari, che proseguirà in autunno, è rivolto a tutti detenuti della Dogaia e al personale dell’amministrazione penitenziaria. Il rettore Dei ha tenuto una lezione multimediale sul tema "Da Schubert a De André: i misteri scientifici della voce in musica". Il seminario è stato introdotto dal direttore della Casa circondariale di Prato, Vincenzo Tedeschi. All’incontro hanno preso parte, fra gli altri, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone, il garante regionale dei detenuti Franco Corleone, l’assessore del Comune di Prato Daniela Toccafondi e il delegato per il Polo Universitario Penitenziario della Toscana Antonio Vallini. Il ciclo di seminari proseguirà per tutto l’anno accademico, e vedrà l’intervento di docenti rappresentativi delle varie aree scientifiche dell’Ateneo. Per il 2017 sono già calendarizzati due incontri: quello con il presidente del PIN - il consorzio che gestisce le attività universitarie a Prato - Maurizio Fioravanti (ordinario di Storia del diritto medievale e moderno), che il 27 ottobre leggerà e commenterà l’articolo 2 della Costituzione italiana; un secondo con Francesco Palazzo, ordinario di Diritto penale, che il 22 novembre terrà alla Dogaia una lezione di Criminologia dal titolo "La pena oggi, tra riforme legislative e svolte culturali". Attualmente, il Polo universitario penitenziario - nato nel 2000 per impulso dell’Ateneo fiorentino - oltre a seguire studenti in esecuzione penale esterna o detenuti in altre sedi -riunisce alla Dogaia 27 detenuti di media e alta sicurezza (6 stranieri), iscritti a corsi dell’Università di Firenze. L’intervento dell’Ateneo si inserisce nel quadro più generale del Polo Universitario Penitenziario della Toscana, progetto cui partecipano anche le Università di Pisa e Siena, la Regione Toscana e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. I detenuti hanno a disposizione una sezione universitaria, dotata di biblioteca, computer e collegamento telematico, e sono seguiti da docenti, tutor e volontari. Augusta (Sr): Premio "Carlo Castelli" per la solidarietà. Convegno "La libertà del perdono" ondaiblea.it, 5 ottobre 2016 Il perdono come sentimento di riconciliazione che supera ogni offesa e ogni delitto. "La libertà del perdono" è il titolo del convegno che avrà luogo venerdì 7 ottobre, nella casa di reclusione in contrada Piano Ippolito ad Augusta. L’iniziativa è promossa dalla Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con il ministero della Giustizia. I nuovi modelli di giustizia, nella loro declinazione laica, prendono in considerazione l’aspetto riparativo e l’incontro tra reo e vittima. La via della giustizia "ad effetto" non sembra quella più conveniente. Il convegno è abbinato al premio "Carlo Castelli" per la solidarietà, giunto all’ottava edizione, riservato ai detenuti delle carceri italiane. La cerimonia di assegnazione dei premi si terrà quest’anno la mattina di giorno 7 ottobre nella Casa di Reclusione di Augusta - Brucoli a partire dalle ore 10, alla presenza di una folta rappresentanza di volontari dell’Associazione San Vincenzo De Paoli, autorità, invitati e persone detenute. Tutte le opere finaliste sono raccolte in una pubblicazione dal titolo "Sete di perdono", che sarà distribuita nel corso della cerimonia stessa. "Per noi è un onore e un piacere - ha commentato Camillo Biondo della Società San Vincenzo De Paoli - ospitare il premio nazionale Castelli, dedicato ad un nostro volontario che si è dedicato ai carcerati, lasciando una testimonianza importante. Siamo giunti ormai all’ottava edizione e la qualità degli elaborati e la partecipazione lascia sempre stupita la giuria. Nel pomeriggio rifletteremo su un tema molto attuale che mette in crisi e non lascia spazio alla razionalità, ma deve essere vissuto come dono". La Giuria del Premio "Carlo Castelli" per la solidarietà ha reso noto i nomi dei tre vincitori e dei dieci segnalati della ottava edizione del concorso riservato ai detenuti delle carceri italiane, avente per tema "Il cuore ha sete di perdono": primo posto a Diego Zuin - "E allora ti chiedi"; secondo a Simone Benenati - "Perdonare: una grazia infinita da dare e ricevere"; terzo classificato, Domenico Auteritano - "Notti tra Morfeo e morfina". Segnalati: Francesco De Masi - "Seconda chance" ; Daniele Liseno - "Citando Bukowski"; Vincenzo Ruggieri - "Testimonianza della mia vita"; Nazareno Caporali - "Perché perdonare? La storia di Carla e Marco"; Giovanni Nigro - "I magnifici 7"; Giuseppe Musumeci - "Il lupo e l’agnello"; "Sasà" -" Un’identità sciupata"; Salvatore Perricciolo - "Un domani migliore"; Valerio Sereni - "Nuovi occhi" ; Alessandro Cozzi - "Giovanni". Segnalazione fuori concorso: "Domenico Pi" - "I dialoghi di un tonno" Ai tre vincitori vanno rispettivamente 1.000 - 800 e 600 euro, con il merito di finanziare un progetto di solidarietà. Infatti, a nome di ciascuno dei tre vincitori saranno devoluti, nell’ordine: 1.000 euro per finanziare l’acquisto di attrezzature e materiale didattico di un’aula scolastica in India; 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di un giovane adulto dell’IPM "Malaspina" di Palermo; 800 euro per l’adozione a distanza di una bambina del Kazakistan per 5 anni. Il Premio Castelli, che ha ottenuto i patrocini di Senato, Camera e Ministero della Giustizia, richiedeva di sviluppare il tema "Il cuore ha sete di perdono". Sono pervenuti alla giuria 166 elaborati provenienti da 80 diversi istituti penitenziari. Il Premio "Carlo Castelli" nel suo appuntamento annuale col carcere, non poteva ignorare il richiamo così forte di Papa Francesco, che attraverso il Giubileo della Misericordia ci sollecita ad occuparci di "perdono", come sentimento di riconciliazione che supera ogni pochezza umana, ogni offesa, ogni delitto. Ciò vale tanto più in un "mondo" - quello penitenziario - in cui la pena significa essenzialmente privazione e sofferenza, rifiuto, recidiva, stigma. Anche i nuovi modelli di giustizia, nella loro declinazione laica, prendono in seria considerazione l’aspetto riparativo e l’incontro tra reo e vittima, ovvero la mediazione penale di cui da anni si sperimentano gli effetti incoraggianti, senza che nelle sedi istituzionali si riesca a decidere un radicale mutamento di rotta. Nel pomeriggio, alle ore 14.30, il convegno dal titolo "La libertà del perdono" che svilupperà il tema del concorso attraverso le relazioni di Luigi Accattoli, giornalista e scrittore; Renato Balduzzi, docente e membro laico del CSM; Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio, docente, noto per il suo impegno sociale e politico di cattolico; Maria Falcone, attiva nel promuovere l’educazione alla legalità e all’impegno civile; Caterina Chinnici, magistrato, europarlamentare, figlia del giudice Rocco; Angelica Musy, che attraverso il Fondo intestato alla memoria del marito Alberto opera per il reinserimento di ex detenuti. Interverrà Santi Consolo, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. I lavori saranno introdotti da Antonio Gianfico, presidente nazionale della Società di San Vincenzo de Paoli; Antonio Gelardi, direttore della casa di reclusione di Augusta; Gianfranco De Gesù, Provveditore regionale Amministrazione penitenziaria. Il convegno vuole provocare una riflessione approfondita su un tema "caldo", in un particolare momento storico in cui si assiste alla depenalizzazione di alcuni reati cosiddetti minori, per poi introdurne di nuovi, persino inutili e controproducenti. Il miglior deterrente resta sempre la prevenzione e poi la responsabilizzazione di chi commette reati. Il perdono è lo strumento più faticoso in assoluto, ma è l’unico che libera chi lo concede da una gabbia di dolore, offrendo a chi lo riceve la chiave del cambiamento per uscire dalla sua. Se è facile perdonare una piccola offesa, il senso profondo del perdono va invece ricercato nell’ "imperdonabile", nell’oltraggio più tremendo, quello che "grida vendetta", che appare impossibile da perdonare. Le balle del dottor Gratteri che non conosce la marijuana di Piero Sansonetti Il Dubbio, 5 ottobre 2016 Dice Nicola Gratteri: "Produrre marijuana legalmente costerebbe 12 euro al grammo. Un prezzo folle visto che al mercato illegale la marijuana si trova a 4 euro al grammo". Dunque non conviene. Vincerebbe sempre il mercato illegale. Dice il senatore Gasparri (feroce nemico della legalizzazione delle droghe leggere, come Gratteri): "Gratteri è il massimo esperto di queste materie. Non c’è nessuno in magistratura che ne sappia più di lui". Dice ancora Gratteri (in polemica, si suppone, col capo dell’antimafia Roberti, il quale si è dichiarato favorevole alla legalizzazione): "Quando parliamo di qualcosa, bisogna farlo di ciò che conosciamo, la dobbiamo smettere in Italia di fare i tuttologi". L’accusa a Roberti è di essere un tuttologo e anche un po’ ignorante, sembrerebbe. I giornali, tutti i giornali, riportano con grande evidenza le dichiarazioni di Gratteri e neanche si azzardano a metterle in discussione. Quel che dice Gratteri, da diversi anni, per i giornali è verità rivelata. Dicono invece gli esperti, quelli che conoscono davvero le cose che riguardano la marijuana, perché le hanno studiate: produrla costa circa 1 euro e 10 centesimi al grammo. Oggi al mercato illegale si trova attorno agli otto-dieci euro al grammo. Questa seconda informazione è nota non solo agli esperti ma anche a qualche milione di consumatori. Traduciamo: Il dottor Nicola Gratteri, evidentemente, di marijuana non sa nulla. Confonde le lanterne con le lucciole e inverte i termini del problema. Le spara grosse (Travaglio lo chiamerebbe "Il bomba... "). E il senatore Gasparri, a sua volta, non sa niente del dottor Gratteri: pensa che Gratteri sia il massimo esperto su queste materie, mentre ci sono circa 10 o forse 20 milioni di italiani (o forse 30...) che ne sanno molto ma molto più di lui. E infine possiamo anche dire che se la lotta al traffico delle droghe leggere è in mano a Gratteri, e se il massimo esperto ? come si dice ? è lui, c’è da mettersi le mani nei capelli... Adesso cerchiamo di essere più precisi, sennò sembra che sia la nostra solita fissazione contro Gratteri. (Noi non abbiamo nessun pregiudizio contro Gratteri, che a volte ci sembra persino un inquirente molto bravo, il quale, però, indiscutibilmente, ha un amore eccessivo per la sua immagine, e dichiara spesso un po’ a vanvera). Dunque il dottor Gratteri (che attualmente è il procuratore di Catanzaro) ha dichiarato testualmente: "Uno Stato democratico non può permettersi il lusso di legalizzare ciò che fa male. Anche le macchinette dei giochi nei bar, i liquori e i tabacchi sono un’ipocrisia". Ha aggiunto: "Prendiamo ad esempio la ?ndrangheta, che coltiva la marijuana in Aspromonte, mentre gli albanesi lo fanno in Albania e in alcune parti della Basilicata. Non paga la luce, l’acqua, paga in nero chi ci lavora e mette a 4 euro al grammo la droga. Se lo Stato decide di produrre la marijuana, dovrà pagare serre, luce, concime, essiccatori e distribuzione alle farmacie, con costi di circa 12 euro al grammo, che posso scendere a 10 se si va a regime. Il tossicodipendente che non ha soldi continuerà a comprare la droga a 4 euro. Mai e poi mai si potrà competere su questo piano con le organizzazioni criminali, dobbiamo cercare di essere realisti". Francamente si resta un po’ colpiti da queste frasi. Non perché non siamo abituati alle "uscite" un po’ fuori dalle righe di Gratteri (recentemente dichiarò che limitare la carcerazione preventiva equivale a dare un segnale di impunità ai colpevoli, dimostrando di non avere mai capito bene il senso della carcerazione preventiva, né mai dato un’occhiata alla Costituzione). Il problema è qui non serve una gran cultura giuridica, basta un po’ di buonseso: la marijuana è un erba che cresce con grandissima facilità, si riproduce in un batter d’occhio, non ha nessun bisogno di cure particolari né di investimenti. Basterebbero chiedere a quelli che -illegalmente ? la coltivano in balcone. È un po’ come la lattuga, ma meno costosa. A Gratteri è mai capitato andare al mercato è chiedere quanto costa un chilo di lattuga? Circa un euro. Al chilo, al chilo: non al grammo. Vuol dire che con un centesimo di euro te ne danno dieci grammi. Certo, la marijuana va essiccata e perde peso. Diciamo che perde dieci volte il suo peso, oppure diciamo che ne perde cento volte, o se volete mille volte: siamo sempre sotto l’euro al grammo. Non serve Einstein per calcolarlo. Dov’è il valore commerciale della marijuana? Nel suo essere illegale. È l’illegalità che produce ? diciamo così ? il plusvalore, e cioè che moltiplica per sette o otto volte il prezzo per il consumatore. Se la legalizzi, elimini il plusvalore, che è il guadagno della mafia. Forse però la cosa che stupisce di più di questa polemica (che non è una piccola polemica, perché contrappone il magistrato più amato dallo schieramento antimafia, e cioè Gratteri, e il capo della Procura antimafia, e cioè Roberti) è il modo nel quale ne hanno parlato i giornali. Diciamo che a qualunque comune cittadino che avesse ascoltato quelle dichiarazioni di Gratteri, gli sarebbe venuto da sorridere, e il discorso si sarebbe chiuso lì. I giornali invece hanno riportato le dichiarazioni del procuratore di Catanzaro senza neppure un filo di ironia, senza commentare: le hanno proprio prese per vere. Non è molto in salute la stampa italiana... Libia. Le carceri al collasso e i pericoli per l’Italia poliziapenitenziaria.it, 5 ottobre 2016 Intervista all’architetto che aveva progettato il nuovo sistema penitenziario. Le strutture di accoglienza previste per gli stranieri richiedenti asilo politico, gestite dalle organizzazioni umanitarie e cooperative, hanno lanciato l’ultimatum al Governo: se il Ministero dell’Interno non pagherà gli arretrati degli ultimi mesi, saranno costrette a sospendere il servizio di assistenza agli immigrati. Almeno 20mila stranieri richiedenti asilo, nei prossimi giorni, potrebbero essere liberi di circolare in Italia. Il Viminale non sottovaluta il problema e - come riporta il Corriere della Sera - il Ministro Alfano ha dichiarato che la situazione è drammatica e potrebbe creare anche "problemi di ordine pubblico per le tensioni sociali che rischiano di generarsi". Ammontano a 600 milioni di euro i debiti, ma i soldi non ci sono e il Ministero del Tesoro ha bloccato i pagamenti. Nel frattempo, un rapporto dello United States Institute of Peace (Usip) descrive una "situazione senza precedenti" nelle carceri libiche: una situazione che può degenerare da un momento all’altro. La questione "immigrazione" è una lunga catena di eventi e se la situazione sul suolo italiano è preoccupante, l’imminente collasso del sistema penitenziario della Libia, potrebbe avere pesanti ripercussioni per l’Italia. Per comprendere meglio il sistema penitenziario di quel che ormai rimane della nazione libica, ci siamo rivolti all’architetto Domenico Alessandro De Rossi, che nel 2004 è stato chiamato dal Governo del colonnello Gheddafi proprio per pianificare il nuovo assetto di tutte le carceri della Libia, qualche anno prima che la cosiddetta "primavera araba" arrivasse anche in quel martoriato Paese. Architetto, quando parliamo di carceri libiche di cosa stiamo parlando? Ad una prima ricognizione che feci a Tripoli nei primi anni Duemila ebbi l’esatta percezione che il termine carcere o penitenziario era un termine inadeguato, fuori dal tempo della civiltà. Brutalità, precarietà, orribili condizioni di sopravvivenza, assenza di normativa specifica per l’esecuzione penale: uomini tenuti in recinti come animali ed esposti a temperature insopportabili di giorno e di notte. Assenza totale dei principi giuridici a cui ci si dovrebbe ispirare nel rispetto del detenuto. Cosa le ha chiesto esattamente il Governo libico e di cosa si è occupato? Non tutti sanno che alla Libia fu affidato dall’ONU nel 2003 l’onere e l’onore di presiedere United Nations Human Rights Council- ohchr, la Commissione dei Diritti Umani. A seguito di questa importante responsabilità, come premio, ma soprattutto come stimolo per successive scelte responsabili, non solo politiche, si indusse il governo ad adeguare il proprio assetto penitenziario, facendolo corrispondere il più possibile a quelli che sono i principi universali dei diritti umani. Mi fu data carta bianca e fui messo in condizione di coordinare il lavoro di architetti e ingegneri libici, alcuni di loro colleghi universitari, e nel giro di un anno e mezzo potei presentare il progetto di massima per la realizzazione di un grosso centro penitenziario nel pressi di Tripoli, comprendente anche gli uffici dell’amministrazione penitenziaria, sul modello del quale dovevano essere realizzati analoghi impianti anche a Sirte e Bengasi. Il tutto per l’accoglienza di circa diecimila detenuti. Tre vere e proprie Città giudiziarie. L’esigenza di progettare nuove carceri all’interno di un quadro generale di riferimento, basata ovviamente su principi rispettosi dei diritti umani, ha fatto emergere subito l’esigenza di collegare la progettazione architettonica anche ad un indirizzo di riforma del sistema penale e processuale. In tal senso ebbi non pochi incontri con rappresentanti governativi che si interessavano delle questioni giuridiche e dell’applicazione dell’esecuzione penale. L’architettura in quanto "contenitore" funzionale di tutte le attività collegate all’interno del carcere, deve essere sintesi di diverse discipline. Quindi la Libia con lei aveva intrapreso un approccio "sistemico" sull’argomento carceri? Si. La premessa e il sostegno era comunque che il Dipartimento al quale riferivo del mio lavoro era sotto la discreta ma costante osservazione della United Nations Human Rights Council- ohchr, presente a Tripoli. Ciò garantiva che le finalità ultime della pianificazione del nuovo sistema penitenziario fossero indirizzate ai principi del rispetto dei diritti umani. Lo sforzo prevalente inizialmente compiuto fu quello di far comprendere attraverso una serie di riunioni con i responsabili governativi che l’edificio penitenziario, o meglio la Città giudiziaria, non avrebbe mai potuto rispondere nei termini corretti se non fosse prima stato sostenuto da un tessuto culturale alto e preparato a concepire nuovi modi di come la pena poteva essere vissuta rispettando i diritti di coloro che erano stati privati della libertà; di come potesse essere impiegato positivamente il tempo "sequestrato" al detenuto, ma soprattutto di come si dovesse "investire" sul sequestro di questo tempo, in modo tale che colui che avrebbe scontato la condanna potesse, tornando alla libertà, reinserirsi correttamente all’interno del corpo sociale contribuendo attivamente allo sviluppo comune. Come riuscì lei ad aprire un dialogo "tecnico" ispirato ai principi dei diritti umani in un Paese a prevalente cultura islamica? Fu mia responsabilità e scelta attraverso ripetute comunicazioni far comprendere ai colleghi e agli uffici a cui rispondevamo che un corretto approccio al problema della pianificazione del nuovo assetto carcerario destinato al Paese non poteva che essere ispirato a principi culturali di carattere sistemico ove fossero presenti più attori rappresentanti di diverse discipline: sociologi, giuristi, economisti, psicologici e naturalmente architetti, adeguatamente preparati a svolgere tale lavoro di sintesi. Il piano era ambizioso ed anche portatore di problematiche non semplici in quanto io stesso mi confrontavo con un paese di cultura islamica, anche se al tempo, politicamente orientato ad una certo disegno di modernizzazione. Veniamo in Italia. Cosa pensa della situazione delle nostre carceri? Guardi al mio ritorno dalla Libia e anche per quel periodo in cui sono stato consulente del DAP, per la mia formazione di docente, vista la mancanza di una letteratura specifica, ho cercato di fissare subito il frutto dell’esperienza compiuta in Italia e all’estero, scrivendo "L’Universo della detenzione" pubblicato da Mursia alla fine del 2010 ottenendo un discreto interesse tra gli addetti ai lavori. Quel libro è servito ad evidenziare e a fissare in modo certo, grazie all’approccio sistemico con il quale è stato scritto, i molteplici aspetti a cui l’architettura penitenziaria deve rispondere. Non ultimi quelli della sicurezza attiva e passiva propri dell’edificio. Non per caso l’ultimo capitolo è stato scritto da un ingegnere dei VVFF destinato ad evidenziare le misure e i rischi relativi alla protezione antincendio, alle vie di fuga, ai criteri da rispettare da parte nella progettazione e gestione degli edifici pubblici. Non sottovalutando anche le responsabilità dirette e indirette civili e penali di chi amministra tali manufatti, che ospitano lavoratori e detenuti dentro quegli ambienti. Per rispondere alla sua domanda dico che occorrerebbe mettere in pratica quanto già sei anni fa scrivevo in merito alla necessità di creare un "Centro multidisciplinare di coordinamento" per lo studio delle questioni inerenti l’esecuzione penale e le relative soluzioni tecnico-architettoniche. Ho riscontrato positivamente che, almeno in via "problematica", gli Stati generali della giustizia hanno recepito tali concetti da me espressi quasi cinque anni prima. Ma le carceri italiane sono luoghi vecchi e malsani, progettati per una detenzione afflittiva, non rispondente ai criteri dell’art. 27 C. Anche in Italia non è più rinviabile che ci si doti di un approccio "sistemico" compiendo finalmente quella rivoluzione culturale che veda finalmente il momento di voltare pagina. Questo l’ho scritto già nel 2011 ribadendolo nel mio nuovo libro "Non solo carcere" uscito nel gennaio di quest’anno. Gli Stati generali dell’esecuzione penale hanno dato ampio risalto all’edilizia penitenziaria. In Italia stiamo andando nella direzione giusta? L’attenzione ora è rivolta tutta alle condizioni di vita delle persone detenute all’interno delle carceri, ma, come ho sempre ripetuto, bisogna considerare attentamente anche le condizioni di lavoro delle persone che operano nelle carceri: alloggi per gli agenti di Polizia Penitenziaria, ambienti dove il poliziotto e le altre figure professionali interagiscono con i ristretti, etc. Dagli Stati generali invece, mi è sembrato che emergessero perlopiù proposte di ristrutturazione dell’esistente. In pochi hanno colto l’esigenza di un nuovo approccio al problema. Persino la Libia aveva assunto questo tipo di orientamento. La Libia dunque poteva essere un laboratorio per le riforme da attuare anche in Italia? In Libia c’erano tutte le condizioni per intraprendere una strada verso maggiori diritti per i detenuti e l’intera popolazione civile, non dimenticando comunque che quel Paese era ed è tuttora ricchissimo e dispone di realtà territoriali e di risorse assolutamente non paragonabili con quelle nostre. Ma il problema vero della Libia era ed è la sua posizione geografica di "ponte" verso l’Europa e di immediato attracco all’Italia ... Senza confini, quello libico, è territorio di passaggio. Ora il "ponte" verso l’Europa rischia di diventarlo l’Italia Di fatto lo è già. Il rischio però è che se non interveniamo subito per ripensare al sistema penitenziario italiano in termini "sistemici", ci ritroveremo a dover gestire tutte le contraddizioni e le problematiche che ora sta vivendo la Libia. Se già oggi non riusciamo a garantire le pratiche di smaltimento delle richieste di asilo politico, figuriamoci quando il sistema penitenziario libico collasserà definitivamente. È inevitabile che ci saranno anche ricadute pesantissime anche sulla criminalità e sulla popolazione detenuta italiana Rischiamo di "importare" detenuti islamici fortemente propensi ad una interpretazione radicale della religione? È un pericolo che in Libia avevamo già preso in considerazione e, purtroppo, è uno scenario che si è concretizzato dopo il crollo del governo di Tripoli. Sono dinamiche che andrebbero affrontate nella loro complessità. Nelle carceri italiane stiamo cercando di ovviare il problema dell’arretratezza dell’edilizia penitenziaria con le celle aperte e la sorveglianza dinamica. Di costruire nuove carceri non se ne parla più... Le carceri attuali non sono idonee per qualunque tipo di riforma penitenziaria. Non si può pensare di introdurre nuove riforme in edifici che in molti casi sono vecchi di centinaia di anni. Il rischio, anzi la certezza, è che la situazione peggiori. Siria. Il massacro di Aleppo tiene in piedi la guerra di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 ottobre 2016 Nella battaglia decisiva è il conflitto a mantenere vivi gli interessi esterni. Usa: fine del dialogo con la Russia. L’Isis spadroneggia: strage ad Hasakah. Sangue per terra, una luce intermittente che illumina il massacro, scarpe senza padrone: è quanto resta di un matrimonio kurdo in una sala da ballo nel villaggio di Tall Tawil, nella provincia settentrionale di Hasakah, devastato lunedì notte da un kamikaze dello Stato Islamico. Almeno 34 i morti, un centinaio i feriti: un bilancio molto simile a quello del 20 agosto quando un attentatore suicida si era fatto esplodere ad un altro matrimonio kurdo, stavolta a Gaziantep, nel sud della Turchia. Quella strage era stata usata dal presidente Erdogan per invadere il nord della Siria con la scusa di fermare l’Isis. Questa provocherà molto meno "sdegno": dopotutto Hasakah è considerata dai kurdi siriani la capitale della regione di Rojava e del progetto del confederalismo democratico dei cantoni, la bestia nera di Ankara. Il Coordinamento Generale di Rojava ha indetto tre giorni di lutto e promesso di eliminare la minaccia islamista: le forze kurde sono state in grado di cacciare l’Isis da buona parte della provincia, ma sacche di miliziani si dimostrano ancora in grado di colpire con attacchi dinamitardi e kamikaze. Contro di loro la Turchia non interviene nonostante i poteri che si è auto-attribuita: sabato scorso il parlamento ha esteso di un altro anno il mandato per usare le truppe all’estero, in Iraq dove operano dal luglio 2015 e in Siria, in entrambi i casi in chiave anti-kurda e anti-Pkk. In casa è stato invece estero di altri tre mesi lo stato di emergenza indetto dopo il tentato golpe del 15 luglio. Hasakah pare lontanissima da Aleppo, dove un’altra quotidiana strage si consuma. Ad Hasakah il nemico è lo Stato Islamico, entità radicata ma dimenticata visto che i due fronti avversari non la nominano più, se non in dichiarazioni di circostanza. Nessuna soluzione politica si è cementata intorno alla minacca comune, che al contrario per molti attori regionali - le petromonarchie del Golfo - non è che un elemento in più di instabilità, quella necessaria a far collassare la Siria come Stato nazione. Qua sta la centralità di Aleppo dal punto di vista militare: i civili sono ostaggio di due opposte agende che Mosca e Washington per qualche tempo hanno fatto finta di condividere. Così non è: da una parte sta il fronte pro-Assad intenzionato a mantenere unito il paese sotto la propria autorità, dall’altra quello anti-Assad che punta alla frammentazione settaria. La rottura diplomatica ufficiale (quella ufficiosa era già chiarissima) che si è consumata lunedì sera ne è la prova definitiva: gli Stati Uniti hanno annunciato la sospensione del dialogo con la Russia ai fini del cessate il fuoco - si badi bene, non del negoziato politico - accusando Mosca di aver violato i termini dell’accordo del 9 settembre. I russi reagiscono: la tregua è solo il mezzo per permettere alle opposizioni di riorganizzarsi. Ovvero, per mantenere lo status quo. Poco importa che la popolazione soffra in modo indicibile: se Aleppo resta sospesa, la guerra civile resta sospesa e con lei le possibilità di ricostruire la Siria come entità unita. Il timore ora è che la chiusura diplomatica apra ad un’ulteriore escalation del conflitto: l’arrivo di nuove e più potenti armi, come già prospettato dalle opposizioni (le consegne dal Golfo sarebbero già partite dopo il via libera della Casa Bianca) e un maggiore intervento occulto statunitense che trasformerebbe la guerra fredda in corso con la Russia in scontro aperto. In mezzo provano a infilarsi attori minori: ieri la Francia e la Spagna - a riprova dell’inesistenza dell’Unione Europea - hanno presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una bozza di risoluzione per una tregua in Siria. Mosca l’ha subito bollata come inutile e l’Onu resta a guardare: all’inviato speciale per la Siria, Staffan de Mistura, non rimane che dirsi preoccupato per la decisione Usa di sospendere il dialogo. Il segretario di Stato Usa Kerry prova a calmare le acque dicendo che la ricerca della pace non sarà abbandonata e che Washington continuerà a discutere della crisi siriana con Mosca. Un po’ di confusione o forse una mera strategia di mantenimento dell’attuale "equilibrio", pagato solo dal popolo siriano. Sul campo la battaglia prosegue: le forze governative e le milizie a loro sostegno, libanesi e iraniane, avanzano verso i quartieri est occupando una serie di edifici nel distretto centrale di Suleiman al-Halabi. Gli scontri sono quotidiani: a est cadono le bombe del governo, a ovest i missili e i mortai pieni di esplosivo delle opposizioni, con morti civili da entrambe le parti. Nelle ultime due settimane sarebbero oltre 400 le vittime tra la popolazione della città, centinaia i feriti. Siria. In Italia le foto choc delle torture del regime che non hanno scosso il mondo di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 5 ottobre 2016 Tre anni dopo la sua fuga in Occidente con le 55.000 foto che denunciavano la violenza brutale del regime, Ceasar - un Giusto del Medio Oriente - è un uomo solo, deluso, amareggiato dall’idea di essere stato per molti aspetti messo da parte, se non dimenticato. Ha avuto il coraggio inusitato di sfidare il regime siriano, la sua famigerata polizia segreta, le maglie strette degli informatori, le minacce dei carnefici e rivelare al mondo gli orrori della tortura nelle carceri di Bashar Assad. "Caesar", come è universalmente conosciuto, passa alla storia come un giusto del Medio Oriente. Ma oggi, tre anni dopo la sua fuga in Occidente con le 55.000 foto che denunciavano la violenza brutale del regime, Ceasar è un uomo solo, deluso, amareggiato dall’idea di essere stato per molti aspetti messo da parte, se non dimenticato. "Con il suo lavoro pensava di poter finalmente cambiare le cose, mettere fine alle torture, denunciare i crimini e mobilitare le opinioni pubbliche internazionali. E invece si trova a vivere braccato in una città europea, mentre assiste impotente al dramma sempre più grave che insanguina il suo Paese e adesso si concentra nei feroci bombardamenti del regime e dei russi contro i quartieri orientali di Aleppo", ci ha spiegato Mouaz Moustafa, 31enne siriano attivista per i diritti umani che si occupa delle diffusione delle foto dell’amico e compagno di lotta. L’incontro è avvenuto alla conferenza stampa di presentazione della mostra dedicata alle foto a Roma. L’occasione è importante per l’Italia, ma costituisce anche una nuova denuncia per la ritrosia con il nostro Paese ha trattato le foto. In passato si era infatti pensato di esporle in parlamento, come del resto era già avvenuto nelle sale del palazzo delle Nazioni Unite a New York, oltre che in quelle dei parlamenti britannico ed europeo. Ma poi per motivi di opportunità, con la spiegazione che le immagini sono "troppo crude", l’iniziativa era stata bloccata. Ora se ne fanno carico la Federazione della Stampa Italiana, assieme a Amnesty International Italia, la Federazione degli Organismi Cristiani (Focsiv), Un Ponte Per e l’Unione delle Università del Mediterraneo. Da mercoledì 5 a domenica 9, almeno 29 di quelle che illustrano l’immensa galleria degli orrori imposti dal regime sulla sua popolazione, saranno esposte al museo Maxxi di Roma. Le foto sono dunque ben note da tempo a chiunque si occupa di Siria. Come del resto lo è la vicenda di questo cittadino siriano che riceve l’ordine di documentare per via fotografica i decessi dei torturati dall’inizio della rivolta popolare nel marzo 2011 e due anni dopo decide che gli orrori sono troppo gravi e su larga scala per non cercare di denunciarli. Secondo gli esperti, e contro tutti i tentativi da parte del regime di Damasco di bollarli come falsi, le immagini sono quelle di 6.786 morti, dei quali quasi 800 identificati. I cadaveri sono ridotti spesso a monconi sanguinolenti, molti hanno gli occhi strappati, hanno subito scosse elettriche ai genitali, riportano bruciature, segni di percosse gravi su tutto il corpo. Eppure, sono proprio l’aggravarsi della guerra in Siria, le continue e sempre più gravi violazioni contro i diritti umani più elementari, il metodico bombardamento di ospedali e qualsiasi tipo di assistenza medica e umanitaria nelle zone controllate dalle milizie ribelli, a spiegare i motivi della "depressione" di Caesar. "Ha incontrato tanti politici europei. Negli Stati Uniti è stato ascoltato dal Congresso, dai militari al Pentagono ed è stato persino ricevuto alla Casa Bianca. Ma nel concreto nessuno fa nulla. Tante belle promesse e poco più", dicono ancora gli attivisti che tentano di mantenere viva la sua denuncia. Alla conferenza stampa di presentazione è stato tra l’altro osservato che Caesar cominciò a riprendere le immagini dei torturati sin dalle prime battute delle rivolte, quando le manifestazioni erano ancora pacifiche, non esistevano Isis e neppure i gruppi qaedisti come Al Nusra. Ciò per sottolineare che fu proprio la brutalità della repressione governativa a innescare il circolo della violenza. E nessuno è mai stato punito. Stati Uniti: Obama, promessa mantenuta a metà su Guantánamo di Andrea Spinelli Barrile ibtimes.com, 5 ottobre 2016 Detenuti consegnati ai regimi dittatoriali. Mentre prosegue la smobilitazione della prigione militare americana di Guantánamo, sull’isola di Cuba, e i vari detenuti vengono smistati in giro per il mondo, anche negli angoli più remoti, non si fermano le polemiche sul "come" l’amministrazione Obama stia mantenendo una delle promesse principali fatte nel 2008 dal Presidente americano. Lo scorso 8 settembre il portavoce militare John Filostrat, citato dal quotidiano Miami Herald, ha annunciato nuove dismissioni: "Siamo scesi a 61 detenuti" ha dichiarato annunciando la chiusura definitiva del Campo 5, all’interno di un progetto di forte riduzione del personale sull’isola fino a 1950 militari e 400 civili. 15 delle persone ancora detenute a Guantánamo si trovano segregate nel Campo 7, la struttura di massima sicurezza della base in cui sarebbe detenuto il pakistano Khalid Sheikh Mohammed, la "mente" dell’11 settembre come egli stesso ha affermato, mentre gli altri 46 si trovano nel Campo 6, una struttura a media sicurezza dove possono pregare e mangiare assieme. "Mentre continuiamo a ridurne l’attività al punto che abbiamo 40-50 persone e una struttura multimilionaria per ospitarle" ha detto Obama i primi di settembre parlando dal Vietnam "il popolo americano si chiede perché dovremmo spendere denaro su questo quando potremmo spenderlo per altre cose". E tutti gli altri che fine hanno fatto? Facendo i conti della serva infatti sono ben 800 le persone detenute a Guantánamo dal 2002 a oggi ma sono molti di meno quelli a cui sono stati notificati capi d’imputazione e che sono stati successivamente rinviati a giudizio. Fondamentalmente a Guantánamo si resta sulla base del sospetto e non del diritto. Qualcuno è stato liberato e oggi si trova a fare i conti con i fantasmi degli orrori subiti in quella prigione, mentre molti altri sono stati riassegnati ad altre strutture detentive: due casi piuttosto recenti sono quelli di Tariq al-Sawah, cittadino egiziano in precarie condizioni di salute mandato in Bosnia, e Abd al-Aziz al-Suwaidi, cittadino yemenita riassegnato in Montenegro, entrambi il 21 gennaio scorso. Giudicati da un tribunale federale americano a loro carico non sono emerse responsabilità. Di recente ha fatto invece molto clamore la storia di Mohammedou Ould Slahi: cittadino mauritano detenuto a Guantánamo per 15 anni nonostante un giudice federale l’avesse giudicato innocente, ordinandone il rilascio nel 2010, che ha trovato la forza di scrivere 400 pagine di appunti diventati un libro "12 anni a Guantánamo", edito da Piemme. La vita spezzata della famiglia di Slahi è un altro, paradossale, elemento della drammatica storia del mauritano. C’è poi la vicenda di Jihad Ahmed Diyrab, il prigioniero 722, 44enne siriano nato in Libano, arrestato in Pakistan a novembre del 2001 e spedito a Guantánamo: protagonista di diverse proteste e scioperi della fame durante tutto l’arco della sua detenzione, Diyrab è stato estradato in Uruguay nel 2014, dove ha ottenuto l’asilo politico: vive in un piccolo appartamento di Montevideo ed è stato recentemente intervistato dal quotidiano La Diaria, al quale ha denunciato le difficoltà che sta incontrando per ricongiungersi con la sua famiglia. "Il mese prossimo si sposa mia figlia e io ho chiesto ad Allah che […] io possa vedere la mia famiglia e stare con loro". E se il governo uruguayano sta facendo "tutto il possibile" per rendere possibile il ricongiungimento le variabili indipendenti sono innumerevoli: Usra al-Husein, moglie di Diyrab, si rifiuta di raggiungerlo a Montevideo dalla Turchia, dove vive da rifugiata, e molti paesi hanno negato l’autorizzazione al transito del cittadino siriano. Turchia compresa. Una storia ancor più incredibile l’ha raccontata al Guardian Lutfi Bin Ali, tunisino oggi 51enne che ha trascorso 13 anni nella prigione di Guantánamo: attualmente vive in un villaggio della steppa in Kazakhstan, una città famosa per essere un ex-sito di test nucleari del regime sovietico. Secondo una valutazione interna alla struttura carceraria fatta nel 2004 Bin Ali sarebbe dovuto essere rilasciato o estradato, giudicato anche dal Dipartimento della Difesa come detenuto "a basso rischio". Bin Ali chiese di non essere estradato nel suo Paese, la Tunisia, perché essendo stato accusato di "terrorismo" (accuse poi cadute) avrebbe rischiato il carcere anche lì, e come lui anche diversi ex-detenuti yemeniti, libici ed altri tunisini hanno avanzato la stessa richiesta, impauriti dal finire da un inferno ad un altro. "Mi hanno spiegato che il Kazakistan era un paese musulmano, che aveva un sistema sanitario eccellente e che avevano un programma per prendersi cura di lui. Dopo due anni sarebbe stato libero di andarsene. Niente di tutto ciò che mi è stato detto si è rivelato essere vero" ha dichiarato il suo avvocato americano Mark Denbeaux. In Kazakhstan Bin Ali, ed altri quattro prigionieri estradati, è stato alloggiato sin da subito in una gelida casa di Semey, città a maggioranza musulmana ma dove d’inverno le temperature sono tutt’altro che arabe, sfiorando i -30. A Semey trascorse cinque anni di confinamento anche Fëdor Dostoevskij, dove scoprì di soffrire di epilessia e sprofondò nella depressione. I problemi per gli ex-detenuti di Guantánamo in Kazakhstan sono molteplici, quotidiani, spiccioli: non trovano scarpe della loro misura, in pochissimi parlano inglese e nessuno conosce le lingue arabe. Il freddo invernale, l’alto livello di radiazioni ancora esistente, la carenza di assistenza medica, l’impossibilità per loro di lasciare i confini della città (una "sorpresa" scoperta all’arrivo) sono tutti elementi che rendono ancor più insopportabile l’ingiustizia subita. Uno di loro era Asim al-Khalaqi, yemenita trasferito a Kyzylorda e morto per complicazioni cardiache note da tempo. Gli americani hanno deciso di affidarsi al resto del mondo per risolvere la gravosa situazione di Guantánamo ma unendo il lungo filo rosso che unisce queste vicende si osserva come si stia cercando di risolvere un torto torcendo ulteriormente le regole e il diritto: il Kazakhstan, non esattamente un campione di democrazia, sta "facendo un favore agli americani" e questi ultimi, una volta ottenuto il "sì" altro non fanno che lavarsi le mani di persone arrestate dalla CIA per volontà della stessa agenzia, detenute dalla CIA, interrogate e torturate dalla CIA in condizioni di assoluta illegittimità. Molti, di fronte all’evidente innocenza, sono ancora confinati, a Guantánamo o altrove. "Dopotutto Bin Ali potrebbe essere un pericoloso terrorista" sostengono le autorità kazake "ma gli viene erogato un assegno, gli è garantito l’accesso ai farmaci e un ampio appartamento". Una prigione dorata nella quale da anni è in attesa che venga chiuso il fascicolo a suo carico o di essere portato a processo da chi lo ha arrestato nel dicembre 2001. Certo è che anche i kazaki hanno le loro ragioni ma qui la questione attiene sempre al diritto e, in particolar modo, agli americani che hanno arrestato centinaia di persone senza prove, detenendole per anni senza accuse e senza processo ma lasciando che il resto del mondo giudicasse quelle persone sulla base del luogo in cui si trovavano detenuti. Guantánamo è stata, in tal senso, produttrice di sospetto e di morte, garanzia di arbitrarietà messa in pratica da chi negli ultimi decenni ha preteso di esportare con le armi "i valori dell’occidente", tra i quali dovrebbe esserci lo stato di diritto. Dovrebbe. Turchia. Purghe a oltranza, cacciati 13 mila poliziotti di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 ottobre 2016 Il governo Erdogan vede ovunque l’ombra dell’imam Gülen mentre l’opposizione denuncia gli arresti indiscriminati e critica l’estensione dello stato di emergenza. La gente appende bandierine per le strade e celebra "i martiri della democrazia". C’è un fantasma che si aggira per la Turchia ed è quello di Fethullah Gülen, il predicatore islamico accusato di essere l’ideatore del fallito colpo di Stato, il 15 luglio scorso, e di aver creato uno "stato parallelo" con migliaia di seguaci infiltrati nelle forze di polizia, nell’esercito, nella pubblica amministrazione e negli organi di informazione. Non c’è turco che dubiti della sua colpevolezza e lo scetticismo europeo viene vissuto come l’ennesima prova di un pregiudizio tutto occidentale nei confronti della Turchia. Qui si appendono bandierine a ogni angolo delle strade, si producono libretti informativi e documentari su Feto, come viene chiamata l’organizzazione terrorista di Gülen, e si onorano i martiri, le 240 persone morte la notte del 15 luglio per salvare la democrazia. Lo stato d’emergenza - E le purghe? Le oltre 90mila persone licenziate? I 32mila sospetti terroristi in carcere? All’inizio la dura reazione delle forze dell’ordine è stata vista come una dolorosa necessità anche dai partiti di opposizione che si sono stretti intorno al governo appoggiando, senza se e senza ma, la proclamazione dello stato di emergenza. Oggi, però, quella fragile unità vacilla sotto i colpi dei licenziamenti e degli arresti di massa. Soltanto nella giornata di ieri, per fare un esempio, le autorità turche hanno sospeso 12.801 poliziotti, accusati di essere gulenisti. La scorsa settimana sono state chiuse 12 stazioni televisive per propaganda terrorista. Feto, Isis o Pkk non importa, tutte sono considerate una minaccia alla sicurezza nazionale dello stesso livello. Una di queste tv, la Imc, ha continuato ad andare in onda e la polizia ieri ha fatto irruzione negli studi mentre era in corso un dibattito sulla libertà di espressione. Tra le emittenti colpite dal provvedimento c’è anche Zorok Tv, un canale per bambini che trasmette cartoni animati doppiati in curdo. Che le purghe stiano passando il limite lo pensa Kemal Kiliçdaroglu, il leader del Chp, il principale partito di opposizione, che ha detto di aver ricevuto 30mila reclami da persone licenziate o arrestate: "Il fine non è più mettere in carcere i gulenisti. Il golpe è diventato un’opportunità per silenziare l’opposizione. Siamo in un momento in cui tutti vengono messi a tacere". I processi - Nella sede della Cnn Türk a Istanbul la porta girevole ha ancora il vetro spaccato, a eterno memento di quando i soldati golpisti hanno fatto irruzione nell’edificio. La televisione, un tempo ostracizzata da Erdogan, oggi vive un nuovo stato di grazia dopo aver trasmesso in diretta la notte del golpe il messaggio di Erdogan su Facetime: "Siamo diventati parte della Storia" dice il direttore delle news, Ferhat Boratav, che però non nasconde la preoccupazione per la decisione di estendere di 3 mesi lo stato di emergenza. "Così gli abusi si moltiplicheranno". E i processi? "Dubito che la Turchia si possa permettere di portare in giudizio decine di migliaia di persone. Finirà che queste persone diventeranno dei paria. Per loro si parla già di programmi di de-radicalizzazione". Turchia, fallito colpo di Stato dei militari - Alla tv pubblica Trt l’open space da cui la conduttrice Tijen Karas è stata costretta a leggere la dichiarazione dei golpisti è stato ribattezzato "Lo studio della Nazione", in omaggio alla reazione del popolo la notte del golpe. In redazione si respira un’aria da day after. Su 9mila dipendenti 330 sono stati licenziati in tronco. Anche loro sospetti gulenisti. E nessuno ha protestato. Per finire nel mirino basta avere sullo smartphone l’app ByLock, messa a punto dai membri dell’organizzazione per comunicare tra di loro. "Potremo respirare di nuovo solo quando tutti i gulenisti saranno arrestati" dice Mehmet Akarca, nuovo direttore generale del Dipartimento per l’informazione e l’editoria che fa capo all’ufficio del primo ministro. "Quella notte pensavo che saremmo stati tutti uccisi - racconta -. Voi sottovalutate la minaccia di Gulen, lui vuole impadronirsi dell’universo. Filippine. Droga e squadroni della morte, la strage di Duterte di Guido Olimpio e Guido Santevecchi Corriere della Sera, 5 ottobre 2016 Il neopresidente filippino ha fatto uccidere 3.300 persone sostenendo di star facendo la guerra al narcotraffico. Dietro alle sue parole volgari si nasconde una partita internazionale delicata. L’altro giorno si è paragonato a Hitler. "Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei... Ci sono tre milioni di tossicodipendenti da noi, sarei felice di massacrarli". Di fronte alle proteste internazionali Rodrigo Duterte, l’uomo che dal 30 giugno è presidente delle Filippine, si è scusato solo per l’errore sul numero delle vittime dell’Olocausto, che furono sei milioni. La promessa di eliminare fisicamente spacciatori e tossicodipendenti resta e la sta mantenendo, anche perché piace ai suoi elettori. È in carica da meno di 100 giorni e sono già 3.300 gli uccisi nella sua guerra alla droga: caduti sotto i colpi della polizia e di vigilantes privati, organizzati in squadroni della morte. Sono risultati rivendicati con orgoglio. Come sono agli atti le testimonianze in Parlamento a Manila di ufficiali di polizia e membri delle squadre speciali che per anni, fin da quando Duterte era sindaco di Davao nell’isola di Mindanao, hanno eseguito i suoi ordini di ripulire le strade dai "trafficanti di droga", definizione che nella sua interpretazione ha confini molto ampi. In campagna elettorale, questo ex avvocato di 71 anni, promise di far fuori tanti criminali che "i pesci diventeranno grassi" grazie ai resti umani sparsi nella baia di Manila. Uno degli esecutori, Edgar Matobato, 57 anni, davanti al Senato ha raccontato di persone sequestrate, eliminate e date in pasto ai coccodrilli; di altre sventrate e buttate in mare. Dichiarazioni in parte corrette ma che cambiano la sostanza. Perché è il metodo adottato attorno al 1998 quando Matobato entrò nei "Lambada Boys" di Davao, gruppo per le liquidazioni extragiudiziali creato dal sindaco Duterte, nel quale sono in seguito confluiti dei poliziotti, tutti uniti dalla comune missione di cancellare i narcos. Un altro ufficiale ha raccontato al Guardian di aver partecipato in questi tre mesi a 87 "neutralizzazioni" (termine caro alla polizia speciale): "Noi siamo solo angeli ai quali Dio ha dato il talento di mandare in cielo le anime dei cattivi e di purificarle". Il suo presidente sostiene di voler salvare i tossicodipendenti "dalla perdizione" sterminando i criminali. Nelle retate e negli omicidi mirati sono finiti quasi sempre dei disperati, dei piccoli pusher, mentre capibanda importanti e personaggi più noti del giro sono stati risparmiati. Ad alcuni è stato anche permesso di rifugiarsi all’estero. Una giustizia sommaria strabica, dunque. I portavoce del presidente hanno negato gli addebiti e respinto la versione di Matobato, definendolo un calunniatore manipolato dagli avversari politici del leader. Difesa d’ufficio indebolita da altre esternazioni di Duterte in persona: "Mi chiamate la Squadra della morte? Giusto, è la pura verità", ha enunciato, fiero della sua strategia e dei soprannomi, compreso quello di "Duterte Dirty Harry", come l’Ispettore Callaghan dei film violenti interpretati da Clint Eastwood armato di 44 Magnum. Quando gli Stati Uniti, storico alleato, hanno espresso critiche sulla violazione dei diritti umani nelle Filippine, la reazione è stata scandalosa: Barack Obama è solo "un figlio di p...", ha sbottato Duterte, "che vada al diavolo". Ai governi europei ha consigliato di "fottersi" se non apprezzano la sua lotta al crimine e ha invitato l’Unione Europea a scegliere il purgatorio "perché l’inferno è al completo". Epiteti grevi li ha riservati al Papa così come a una suora australiana violentata durante una rivolta in una prigione filippina. Ma dietro il linguaggio volgare, il presidente filippino sta giocando una partita internazionale spregiudicata: ha chiesto armi a Pechino e Mosca per la lotta contro il crimine e il terrorismo interno, ha detto agli americani di ritirare i consiglieri militari dall’isola di Mindanao sostenendo che la loro presenza danneggia gli sforzi di pacificazione con i ribelli musulmani; ha annunciato la fine (in futuro) delle manovre militari congiunte con gli Usa. Ieri sono iniziate esercitazioni in comune con gli americani che a suo dire saranno le prime e le ultime del suo mandato. Con il suo linguaggio politicamente scorretto Duterte ha sottolineato: "Non voglio che le Filippine finiscano in mezzo a uno scontro Pechino-Washington, se il campo di battaglia sarà San Francisco o la Cina per me va bene". Quindi, non più giochi di guerra simulata con gli americani ma gioco di sponda con Pechino. Un salto da acrobata della geopolitica, visto che l’espansionismo della Cina nel Mare del Sud aveva provocato nel 2012 il ricorso di Manila di fronte alla Corte per gli arbitrati internazionali dell’Aia. Il governo di Benigno Aquino, predecessore di Duterte, aveva ritenuto inaccettabile l’occupazione cinese di Scarborough, un banco di scogli e secche a sole 150 miglia nautiche dalle coste filippine. In estate i cinesi sono usciti sconfitti e umiliati dal giudizio dell’Aia, pronunciato proprio mentre Duterte si insediava. Ma il nuovo presidente ora parla di come migliorare i rapporti con la Repubblica popolare cinese ed è atteso a Pechino. La Cina esulta di fronte alla prospettiva di staccare le Filippine da Washington e dalla politica "Pivot to Asia" di Obama, che fu ispirata da Hillary Clinton quando era Segretario di Stato. "Le nubi si stanno diradando, il sole sta sorgendo all’orizzonte e splenderà radioso su una nuova era nelle nostre relazioni bilaterali", ha appena detto l’ambasciatore cinese a Manila. In cambio, sembra che i cinesi abbiano fermato i lavori per la costruzione di un’isola artificiale alle Secche di Scarborough e Duterte annuncia di voler discutere con Pechino sui diritti di pesca nella zona. A Washington cercano di separare le sortite propagandistiche da atti concreti, contano sull’influenza dei militari filippini, però non nascondono i timori sul futuro di uno scacchiere chiave.