Contro la Pena di Morte Viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita Ristretti Orizzonti, 4 ottobre 2016 Sono Piacente Francesco, vengo da Caserta. Mi trovo in carcere da 21 anni ininterrottamente per un omicidio mai commesso, si mai commesso, non sono un santo, ma nemmeno un diavolo. Sono stato accusato di aver ammazzato don Peppe Diano (prete) del mio paese, una persona amabile, ma io non sono nessuno per elencare la grandezza di quell’uomo, ma ci tengo a dire qualcosa di bello anch’io di lui. Era un sant’uomo e non meritava di morire in quel modo. Veramente nessuno merita di morire, ma purtroppo l’ambiente in cui si vive tante volte porta a fare cose che mai uno avrebbe pensato di commettere. Però a stare in carcere per un reato mai commesso, la galera diventa insopportabile. Il mio iter processuale è stato a dir poco scandaloso, quando è stato ammazzato don Diano mi trovavo in Spagna, in mano alla polizia spagnola, poiché mi accusavano di essere l’esecutore materiale, dovettero cambiare l’accusa, quando si accorsero che non mi trovavo in Italia, da killer a mandante. Ma io non sono mai stato un capo, certo non potevo comandare nessun omicidio. Da quando mi trovo in carcere ho conosciuto la vera sofferenza ho conosciuto l’indifferenza, e la miseria. Ho subito tante ingiustizie durante la mia detenzione, una delle quali l’allontanamento dalla mia famiglia; infatti come ho scritto all’inizio, ero in Spagna quando fui arrestato, la mia famiglia si trova li, quando l’Italia chiese la mia estradizione alle autorità spagnole, fu accolta con l’eccezione che non dovevo essere condannato all’ergastolo e dopo aver fatto il processo rientrare in Spagna, ma invece non solo mi hanno condannato all’ergastolo disattendendo le richieste delle autorità spagnole, ma non mi hanno nemmeno rimandato in Spagna. Ecco questa è l’Italia piena di contraddizioni, sempre pronta a vendicarsi. Vorrei tanto tornare indietro e avvertire quel ragazzo, dirgli: non fare niente di tutto quello cui stai pensando, continua a lavorare la terra e sii orgoglioso. Ma indietro non si può tornare, le lancette dell’orologio continuano a camminare inesorabilmente, i capelli si sono fatti bianchi e la pelle mi sembra che stia cascando. Ecco cosa sono diventato un vecchio trombone. Spero che tra qualche anno mi diano la gioia di stare con mia moglie e mia figlia, perché in questi ultimi 22 anni le avrò viste 22 volte mi sembra strano quello che scrivo ma è così. L’ergastolo è un atto di proprietà dove viene scritto che sei proprietà di qualcuno e lasciato in eredità al carnefice di turno. Il mio disappunto è dovuto alla mancanza di una disciplina esatta, in tanti hanno potuto evitare di prendere l’ergastolo, ma chi si sente innocente, come fa ad evitare una beffa simile? Ecco queste sono le domande che si dovrebbero porre soprattutto i magistrati di sorveglianza, perché questa persona non ha voluto evitare di prendere l’ergastolo? Ma non lo fanno, e non credo cambi qualcosa nell’immediato, forse un giorno, ma non ora. Per quello che mi riguarda io nelle galere dopo tanti anni vedo relitti umani, impazziti, gente che prende ogni tipo di psicofarmaci per stare bene. In Italia esiste la morte cerebrale. Concludo inviandole i miei saluti con affetto Piacente Francesco. Oltre 10mila detenuti nella Banca dati del Dna Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2016 Sono 10.850 i detenuti finora schedati nella Banca dati del Dna, nei primi quattro mesi del suo funzionamento. Il dato è emerso nella visita del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al laboratorio centrale della Banca dati, che potrà servire anche negli scambi di informazioni tra autorità nazionali in chiave antiterrorismo e nei prossimi mesi sarà certificato da Accredia, l’ente unico nazionale di accreditamento. Banca dati e laboratorio sono stati introdotti nel 2009 con la ratifica del Trattato di Prum e sono stati regolamentati solo quest’anno, col Dpr 87/2016, che ha previsto la collaborazione fra i dipartimenti Pubblica sicurezza (presso cui è l’archivio) e Amministrazione penitenziaria (presso cui è il laboratorio). I prelievi dei campioni biologici - iniziati a giugno nelle cosiddette stanze bianche dei penitenziari - interessano i detenuti con particolari imputazioni previste dalla legge. Finora possono effettuarli 28 appartenenti alla Polizia penitenziaria (su un organico di circa 1.600 persone), perché sono informatici e biologi appositamente formati. Secondo Orlando, si ridisegna il profilo della Polizia penitenziaria, "più legato all’esecuzione penale esterna", e ora la Banca dati è "un passaggio di grande qualità, con cui il Corpo inizia ad essere una polizia che dà un supporto al servizio giustizia. Diventare soggetto che gestisce le prove determina un salto di qualità, anche nella percezione esterna". Giustizia penale, la riforma azzoppata di Sergio Lorusso Gazzetta del Mezzogiorno, 4 ottobre 2016 È uno scacco al decisionismo renziano il rinvio sine die del varo della riforma della giustizia penale, legato alla decisa opposizione dell’Anm - Piercamillo Davigo in testa - che ha indotto il Presidente del Consiglio a ritornare sui suoi passi recedendo dall’intenzione di chiedere la fiducia per chiudere finalmente la partita sul punto. Eppure il disegno di legge in materia di "Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole del processo nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena" - che accorpa una serie di precedenti disegni di legge - naviga tra Camera e Senato ormai da oltre un anno e rappresenta per il Governo un importante impegno teso, nelle intenzioni, a dare maggiore efficienza al processo penale senza per questo sacrificare le garanzie difensive. Il provvedimento normativo presenta luci ed ombre, pur presentandosi come la riforma di settore più significativa dell’attuale legislatura. Riproduce alcuni vizi di fondo della produzione legislativa in materia di questi ultimi anni: carenza di sistematicità, scarsa organicità degli interventi che appaiono frammentari e non sempre coerenti. Non solo. A fronte di alcune modifiche estremamente specifiche, come l’inasprimento delle pene per reati di particolare allarme sociale quali quelli di furto in abitazione, furto con strappo, rapina e scambio elettorale politico-mafioso, utilizza lo strumento della delega legislativa al governo per alcuni interventi "di peso" destinati ad incidere sulle misure di sicurezza e sull’ordinamento penitenziario, lasciando ampi spazi alla discrezionalità dell’esecutivo. Alla delega legislativa si ricorre anche per realizzare - in un’ottica deflattiva - l’estensione della perseguibilità a querela di parte dei reati contro la persona e contro il patrimonio di minore entità. Mira a diminuire i carichi processuali anche l’introduzione dell’art. 162-ter c.p.p., che prevede l’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie. Centrale nel provvedimento è poi la controversa riforma della prescrizione - originariamente inserita in un autonomo disegno di legge - con la quale si intende porre un freno alla frequente ineffettività della pena nel nostro ordinamento: con il rischio concreto, tuttavia, di dilatare ulteriormente i già lunghi tempi processuali del nostro Paese. Si tratta di un tema che costituisce un aperto terreno di scontro tra magistratura (favorevole) e avvocatura (contraria). Inutile dire che, piuttosto che accrescere i termini della prescrizione, e con essa la durata dei processi, sarebbe più coerente agire sulle ragioni che stanno alla base dei comportamenti dilatori e delle stasi processuali; ragioni che sono legate a fattori procedimentali, ordinamentali, di "cultura del processo" e di carenza di risorse. Non sempre le riforme "a costo zero" producono effetti concreti. È sul terreno più strettamente processuale, tuttavia, che si collocano la maggior parte delle novità, di per sé contraddistinte da un più elevato grado di tecnicismo e la cui ratio è quella di ridurre per quanto possibile i tempi morti tra le fasi processuali, di potenziare il ruolo della persona offesa, di rafforzare l’appetibilità dei riti differenziati e di potenziare le garanzie difensive. È prevista, infine una delega legislativa al Governo per modificare la spinosa materia delle intercettazioni, croce e delizia del processo penale, e quella delle impugnazioni, sempre nell’ottica di ridurre i carichi della giustizia penale. Non sappiamo quale sarà la sorte di questa articolata riforma. Nel frattempo, le toghe, hanno minacciato sabato scorso di ricorrere all’astensione dalle udienze se non verranno accolte le loro rivendicazioni, mentre si è tenuto a Bologna (30 settembre-2 ottobre), con la presenza del guardasigilli Orlando - il XVI Congresso ordinario delle Camere penali, il cui tema - "Separare i giudici dai pubblici ministeri, i magistrati dai media, la politica dalla magistratura. Per un giusto processo" - dimostra come magistratura, avvocatura e politica viaggino troppo spesso su binari paralleli: un’incomunicabilità di sapore quasi pirandelliano, che rappresenta il vero male della giustizia italiana. No alla giustizia-sprint. L’Anm minaccia lo sciopero di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 ottobre 2016 Sotto accusa l’art 18 della riforma: 3 mesi per chiudere le indagini. Su una cosa non ci sono dubbi: i magistrati sono nettamente contrari alla riforma del processo penale in discussione al Senato. Al punto da rilanciare l’ipotesi di un clamoroso sciopero. Il nodo del contendere non è però tanto la prescrizione, che le toghe vorrebbero non scattasse praticamente mai, ma l’articolo 18. Che nel caso del ddl sul processo non ha a che vedere con i licenziamenti, ma con i termini per l’esercizio dell’azione penale. Dopo aver chiuso le indagini, il pm deve decidere se chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio degli indagati: secondo le norme inserite nella riforma non deve farlo subito, ha tre mesi di tempo. Ma per l’Anm si tratta di un limite troppo breve. Si farebbe troppo in fretta. Oggi può verificarsi che una volta chiuse le indagini trascorrano anche anni prima che gli indagati conoscano il loro destino. Il confronto avvenuto domenica scorsa nello studio di Lucia Annunziata su Rai Tre fra il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo ha permesso di cogliere il vero motivo che si cela dietro la rivolta togata contro l’approvazione della riforma penale. Il testo, che è stato originariamente impostato dalla commissione presieduta da Giovanni Canzio, contiene importanti modifiche al codice penale e a quello di procedura penale. Ma il nodo del contendere è l’articolo 18. Una coincidenza solo cabalistica perché non si tratta di licenziamenti, ma dell’obbligo per il pubblico ministero, una volta scaduti i termini per le indagini preliminari, di decidere se chiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale entro tre mesi, pena l’avocazione del fascicolo da parte della procura generale. Le altre osservazioni, prima fra tutte la scopertura degli organici, sembrano in realtà strumentali, utili per accusare il governo di non avere a cuore il settore giustizia. Ma domenica un Orlando in grande forma ha ricordato come le attuali norme sul pubblico impiego (riforma Brunetta del 2008 e riforma Madia del 2014) impediscano alle Amministrazioni statali di procedere a nuove assunzioni se prima non sono state esperite le procedure di mobilità. Nel caso di specie, è necessario assorbire il personale delle disciolte provincie e del corpo della croce rossa militare. Complessivamente diverse migliaia di unità che sono da mesi in attesa di ricollocamento. Nonostante ciò via Arenula ha comunque già fissata la data di pubblicazione di un bando di concorso per mille amministrativi. Il boccone amaro, dunque, è solo la scadenza temporale imposta ai pm. La norma in questione ha avuto il merito di squarciare un velo sull’anomalia, tutta italiana, dell’ufficio del pubblico ministero. Solo nel Belpaese, infatti, è presente un rito accusatorio dove il ruolo dell’accusa è svolto da un magistrato. Che, proprio perché magistrato, dovrebbe essere terzo e imparziale e non comportarsi, come accade di norma, da "avvocato dell’accusa". Il processo penale a modello accusatorio si accompagna, di norma, alla separazione delle carriere fra giudici e pm. Questa premessa è importante per comprendere come mai i pubblici ministeri siano saliti sulle barricate. Attualmente le indagini preliminari durano sei mesi. Che decorrono dal momento dell’iscrizione del nome della persona nel registro degli indagati. Prorogabili di altri sei mesi, previa richiesta del pm al giudice per le indagini preliminari. Si può arrivare ad un massimo di diciotto mesi. Per reati particolarmente gravi si arriva fino a due anni. Trascorsi i diciotto mesi, scatterebbero con la contestata riforma, i tre mesi per decidere se chiedere l’archiviazione o meno. I pm dicono che questo tempo è insufficiente perché "devono essere ancora svolti accertamenti, soprattutto se si è in presenza di intercettazioni telefoniche". La motivazione non ha fondamento. Per un motivo molto semplice. Le intercettazioni telefoniche, ogni 15 giorni devono essere prorogate. Se il pm vuole continuare ad intercettare deve richiedere la proroga al gip. Producendo le telefonate d’interesse investigativo per giustificare la prosecuzione dell’attività. E cosi per tutta la durata dell’attività intercettiva. Quindi, quando sono scaduti i termini delle indagini preliminari, il pm ha già tutto il materiare probatorio pronto. Le telefonate sono state già trascritte dalla polizia giudiziaria. Non deve fare più nulla. Altrimenti non si spiegherebbe come avrebbe fatto ad ottenere nel tempo le proroghe dal gip. Perché allora la "rivolta" togata, anzi, dei pm? Azzardiamo una risposta. Con i tempi contingentati, il pm sarebbe costretto a mettere subito sul tavolo le sue carte. Quindi si scoprirebbe se l’indagine è fondata oppure se è solo un teorema suggestivo, bello per essere raccontato sui media ma non davanti a un Tribunale. Un esempio recente è la vicenda della scienziata Ilaria Capua, poi assolta. Il procuratore aggiunto di Roma Giovanni Capaldo ha atteso anni prima di esercitare l’azione penale: iniziò le indagini nel 2005, le terminò nel 2007, richiese il rinvio a giudizio solo nel 2014. Con l’articolo 18 questa "stagionatura" del fascicolo non sarebbe stata possibile. Una annotazione. Non si comprende, poi, perché, mentre i giudici devono essere sanzionati dal Csm se ritardando solo di qualche mese il deposito di una sentenza, nessuna sanzione è prevista per un pm che tiene per anni sullo scaffale un suo procedimento. La sezione disciplinare del Csm, per quanto riguarda i ritardi, nel periodo ottobre 2014-settembre 2016, ha definito 72 posizioni: 44 condanne e 28 assoluzioni. Tutti giudici. L’attuale assetto della Giunta esecutiva centrale dell’Anm non depone, però, a favore del ministro Orlando. Tralasciando il presidente Davigo, che prima di finire in Cassazione è stato pm, sono pm anche gli altri due componenti di punta. Il segretario generale Francesco Minisci, uomo forte di Unicost, e Luca Poniz, pm a Milano in quota Area. Nelle prossime ore si saprà chi avrà avuto la meglio. I giudici del Tar: "Dimissioni se la norma Pd su di noi passa" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 4 ottobre 2016 Il "Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa" è l’organo di autogoverno dei magistrati dei Tribunali amministrativi regionali (primo grado) e del Consiglio di Stato (appello). E ora 6 dei suoi 15 membri, cioè tutti quelli eletti dai giudici dei Tar (e in più uno dei supplenti e un consigliere di Stato di provenienza Tar), annunciano che si dimetteranno in blocco se la Camera approverà l’emendamento fatto votare in commissione dal responsabile Giustizia del Pd, David Ermini: emendamento che farebbe passare di colpo i componenti da 15 a 17, facendo inserire come membri di diritto (accanto già al presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno) anche il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (ora è l’ex ministro Filippo Patroni Griffi) e il presidente di Tar più anziano in servizio, che però di solito è pure un altro consigliere di Stato. "Paracadutato" nel testo su una Commissione che monitori il processo telematico amministrativo, l’emendamento altererebbe la rappresentatività dell’organo di autogoverno già sbilanciata oggi che, accanto a 4 "laici" espressi dal Parlamento, 32 magistrati dei Tar eleggono 6 membri a fronte dei 4 eletti da 8 Consiglieri di Stato, il cui presidente siede già di diritto (poi ci sono 4 supplenti, 2 Tar e 2 Consiglio di Stato). Verrebbe quindi ancor più sottodimensionata la quota togata Tar, che nella giustizia amministrativa entra per concorso (quindi con maggiori garanzie di indipendenza), a vantaggio invece del coagularsi di maggioranze tra i laici eletti dalla politica e i membri eletti dal Consiglio di Stato, che ha qualche vicinanza al governo sia per la provenienza di alcuni suoi membri sia per la consulenza giuridico-amministrativa che istituzionalmente fornisce. L’Associazione nazionale magistrati amministrativi (Anma) vi coglie "un contesto in cui le scelte politiche sembrano non improntate al rispetto della piena indipendenza dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, come dimostrato dalle recenti nomine governative dei consiglieri di Stato: individuati, in taluni casi, in soggetti rispetto a cui è lecito dubitare del possesso della elevatissima professionalità necessaria e, comunque, anche di recente, legati a esperienze politiche o governative". Francesco Nitto Palma, senatore ed ex pm: "I giudici? Dicono no a tutte le riforme" di Errico Novi Il Dubbio, 4 ottobre 2016 Ci sono ex magistrati non popolarissimi tra i loro ex colleghi. Francesco Nitto Palma appartiene di diritto alla categoria. Inutile soffermarsi a capire se è per il fatto di essere stato addirittura guardasigilli. Una cosa è certa: il senatore Palma, che in questa legislatura ha anche presieduto la commissione Giustizia, è uno che dice esattamente quello che pensa. "L’Anm sostiene che i tre mesi di tempo per esercitare l’azione penale sono un termine soffocante? Questa storia deve finire, quei tre mesi sono persino troppi". Troppi? Il sindacato dei giudici vuole farci uno sciopero. Senta, la norma inserita nella riforma del processo dice che una volta concluse le indagini il pm deve decidere cosa fare. Non è che deve farlo subito: ha tre mesi per decidere. Trascorso il termine, salvo proroga, il procuratore generale può avocare gli atti. Io penso che esaurite le indagini, sia diritto del cittadino sapere cosa intende fare la Procura. Non capisco davvero la sola ipotesi di uno sciopero. Secondo l’Anm mancano le strutture materiali per rispettare quei termini. Ecco, davvero questa storia non può andare avanti. Voglio dire: non è che tutte le mancanze del sistema giustizia possono ricadere sui cittadini. Nel 95 per cento dei casi 3 mesi di tempo sono troppi. Mi rendo conto che per alcuni procedimenti il termine di 3 mesi è congruo, ma per gli altri è assolutamente eccessivo. A lei piace scherzare: intanto l’Anm fa muro anche sulla prescrizione e rischia così di tenere in vita l’odiata ex Cirielli. Da questo punto di vista il discorso dell’Anm è strategico: dicono che la riforma è insufficiente e minacciano lo sciopero non per restare aggrappati all’ex Cirielli evidentemente, ma perché puntano a far diventare legge l’emendamento Casson: dalla sentenza di primo grado, la prescrizione non decorre più. Ma i numeri in Parlamento, per una modifica simile, non ci sono mai stati. Ma guardi, il ragionamento sulla prescrizione è semplicissimo. Premesso che i colpevoli devono finire in galera, per carità, siamo tutti d’accordo, però credo anche che i colpevoli debbano essere puniti e messi galera entro un lasso temporale che consenta sì di riaffermare la capacità repressiva dello Stato ma senza che in galera ci finisca una persona ormai diversa da quella che ha commesso il fatto. E quando, per giunta, l’allarme sociale generato da quel fatto è venuto meno. Davigo sostiene che tanto le persone non cambiano. Non approfondiamo. Invito solo a riflettere sul fatto che la prescrizione cosi com’è modificata dalla riforma può tenere una persona sotto processo per corruzione anche per una trentina d’anni. Ce ne rendiamo conto? In trent’anni quella persona si è sposata, ha avuto figli, può esser diventata pure nonno. Davvero legiferare sulla giustizia ispirati dalla demagogia produce danni terribili. Le faccio un esempio lontano? Prego. A inizio anni Settanta il caso Valpreda spinse ad abbreviare i termini di carcerazione preventiva in modo che Valpreda uscisse. Pochi mesi dopo ci si accorse che la riforma avrebbe rimesso in libertà gli autori di un terribile duplice omicidio, quello dei fratelli Menegazzo a Roma. Al che le norme sulla carcerazione preventiva cambiarono di nuovo. Attenti a scherzare con la demagogia: quando si tratta di diritto penale si gioca con la vita delle persone. Ma senza i verdiniani la riforma penale passa? Mi preoccuperei piuttosto di come si comporteranno i senatori dell’Ncd: siamo così sicuri che voteranno compatti una riforma che prevede tempi di prescrizione così lunghi, o che non limita affatto l’invasività delle intercettazioni? Ma allora il ddl è spacciato. È un’incognita. Lo è anche il comportamento dei senatori vicini a Verdini. Credo sia chiaro che Falanga non darà il suo sì. Il gruppo di Ala potrebbe decidere di non partecipare al voto. Ma qui entriamo nel campo degli accordi tra Renzi e Verdini. E voi di Forza Italia? Potreste votare qualche articolo? L’aspetto politico va separato dalle valutazioni di merito, per carità. E potrei aggiungere che noi di Forza Italia abbiamo firmato 38 emendamenti di carattere tecnico, senza mai scivolare nell’ostruzionismo. Vedremo, intanto segnalerei che il testo contiene persino qualche errore paradossale. Di che tipo? Aumentano le pene per scippi e furti ma diminuiscono quelle per le rapine a mano armata: nel ridefinire il reato ci si è dimenticati che su di esso agisce anche l’articolo 63 del codice penale. Il senatore Caliendo lo ha ricordato nella discussione generale. Sul piano complessivo siamo contro la riforma, anche viste le insensatezze di relatori che presentano emendamenti contro il loro partito, con una fiducia ipotizzata per rimediare a tali eccentricità. La giustizia è troppo appetitosa come strumento di propaganda, per farci riforme sopra? Si fa troppa propaganda, certo. E ogni volta che si mette mano a una riforma della giustizia ci si scontra con i magistrati: non ne ricordo una che abbia avuto il loro consenso. Se i giudici si arrendono a Facebook di Salvatore Sica Il Mattino, 4 ottobre 2016 Nel dibattito che investe la tutela "in e da" Internet, purtroppo sviluppatosi in relazione ai video hot fatti circolare attraverso una chat e che nel caso di Tiziana Cantone hanno condotto al suicidio della giovane, si inserisce anche la singolare vicenda di cui diamo conto. Un cittadino decide di candidarsi alle elezioni comunali del 2016 del proprio Comune; in tale occasione sulla pagina Facebook di "tale Postiglione Marco" compaiono frasi offensive nei suoi riguardi o perlomeno che tali appaiono nella sua valutazione. Nel maggio del 2016, si ritiene con tempestività, presenta querela alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere affinché il responsabile dei fatti sia identificato e perseguito. In data 14 settembre, a circa quattro mesi dalla querela, il pubblico ministero titolare dell’indagine, formula richiesta di archiviazione, così testualmente motivata: "Dall’esito dell’attività di indagine delegata alla polizia postale di Caserta, è emersa l’obiettiva difficoltà di pervenire all’identificazione del responsabile in quanto i gestori di Facebook sono poco collaborativi nel fornire i dati telematici se non attraverso una rogatoria internazionale che comunque deve concludersi entro 12 mesi dalla commissione del fatto poiché i dati telematici sono disponibili solo entro quel termine". Ne consegue per il pm che "sostanzialmente è emersa l’impossibilità di identificare l’autore del reato in contestazione entro il termine sopra indicato". Il fatto ha un fortissimo valore emblematico, ben oltre la specifica vicenda da cui trae origine (del resto, archiviazioni così formulate sono assai più frequenti di quanto si immagini). La prima sensazione che si ricava è di una diffusa sfiducia nella possibilità di ottenere giustizia in un settore che, lungi dall’essere una "nicchia" della società, oggi è il crocevia fondamentale delle relazioni sociali, politiche ed economiche: internet ed il suo mondo. Se coloro che hanno responsabilità istituzionali - giudici, avvocati, classe dirigente, in senso ampio - non percepiscono che quella della Rete e della sua disciplina è un’emergenza che richiede precedenza di intervento, i rischi ed i costi potenziali sono altissimi. Del resto, viviamo un tempo in cui non rileva soltanto ciò che avviene ma piuttosto ciò che è percepito e diffuso sul piano della comunicazione; e questo vale per tutti: lasciare un reato senza colpevoli è sempre odioso, se si lo si consegna all’"eternità" mediatica è ancor più grave. Forse con un pò di sforzo gli inquirenti avrebbero potuto pensare, ad esempio, ad individuare l’IP del computer attraverso il quale si è consumato il fatto denunziato per fare un passo avanti. Certo, si sarebbe identificato una macchina e non una persona, ma il progresso investigativo sarebbe stato notevole. Ma capisco anche che in una Procura "affollata" di ben altre indagini o probabilmente "sommersa" da quotidiane querele per casi simili la soluzione dell’archiviazione per mancanza di collaborazione di Facebook è la più agevole. In realtà, il provvedimento - e la relativa scelta del pm - manifesta tutta l’impotenza degli strumenti tradizionali del diritto rispetto alla società della rete; ed il dato preoccupante è lo scenario che è sotto i nostri occhi: viviamo travolti da flusso di dati informativi, siamo tutti immersi - autorità tradizionali incluse - in un acquario in cui abbiamo la sensazione di saper nuotare, ma se un predatore ci aggredisce alle spalle, quando ci giriamo è già scomparso, a dispetto delle ferite che restano per sempre impresse nella nostra carne. Ha ragione la Procura quando segnala che Facebook è sottoposto alla giurisdizione americana e se vuoi la sua "collaborazione" devi passare per una rogatoria internazionale; tra l’altro, non è detto che ciò accada, visto una legge statunitense del 1996 (governo Clinton: Communication D ecency Act!) rende del tutto irresponsabili i provider di ciò che accade in rete, senza fare neppure troppo mistero della genesi "economico-finanziaria" di una siffatta scelta. Poi perché mai dovrebbe "collaborare" Facebook? La pagina del non identificato Postiglione Marco (magari non è neppure un fake) sarà stata cliccata di più proprio per le offese che recava al candidato alle elezioni comunali e ad ogni click il provider amplia il proprio profitto! Come si esce da questa grave situazione: rendersene conto è già importante. Se le procure incominciano a comprendere l’allarme sociale che l’illecito in rete determina siamo già a buon punto; sono stati proposti pool o strutture simili per varie tipologie di reati; oggi c’è urgenza di magistrati specializzati in materia di Internet, perché il mezzo ha preso il sopravvento sul contenuto: un pm che sappia tutto sulla diffamazione non basta quando lo strumento è la rete. Poi c’è il grande tema delle responsabilità politiche globali e nazionali: se non si costringono gli operatori a fare i conti con un territorio specifico, il suo diritto, le sue tasse da pagare, resistendo alla clamorosa offensiva lobbistica che questi compiono, tutto è vano. C’è una differenza rispetto al passato: il potere pubblico non ha più il pallino in mano: non occorre attendere il futuro; già oggi una Procura deve arrendersi all’impossibilità di intervento e ben presto i governi capiranno che basta un click per creare loro un’opposizione interna ed internazionale. Omicidio stradale. Alcol e droga, l’accertamento va interpretato di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2016 Con l’introduzione del reato di omicidio stradale (legge 41/2016), cresce l’importanza delle scienze forensi. Così emergono alcuni aspetti inadeguati della normativa che disciplina le modalità di accertamento delle condizioni fisiologiche del conducente e in particolare l’uso di alcolo droga(ipotesi in cui le pene per omicidio e lesioni stradali sono le più alte). Il Sole 24 Ore lo ha scritto più volte anche prima dell’approvazione definitiva della legge e ora uno studio dell’Università di Trieste lo conferma, evidenziando con efficacia - sotto il profilo medico legale - tali inadeguatezze e illustrando come la giurisprudenza ha cercato di risolvere i problemi che ne sono derivati. In ogni caso, le conseguenze penali di un incidente con morti o feriti possono infatti rivelarsi devastanti. Lo studio ricorda che l’attuale panorama legislativo indica solo "le previsioni generali a supporto delle condotte considerate", ma è carente di "una standardizzazione delle procedure da adottare": una mancanza che ha già causato "verdetti contrastanti", e ha reso "necessarie ulteriori puntualizzazioni giurisprudenziali e metodologiche". Si vuole perciò dimostrare che "le criticità, relative principalmente alle modalità di acquisizione e di interpretazione degli elementi di prova clinico/strumentali, possono rappresentare un concreto ostacolo all’equo inquadramento giudiziario di ciascun singolo caso", le cui conseguenze - alla luce degli eccezionali aumenti di pena introdotti dalla legge 41/2016 - possono oggi dare adito a disomogeneità sanzionatorie ancor più marcate e ingiuste. Per quanto concerne l’accertamento delle condizioni di ebbrezza alcolica, la procedura descritta dal Codice della strada "risulta complessivamente standardizzata sia quando si ricorra all’utilizzo dell’etilometro, sia con riferimento all’analisi alcolemica eseguita in contesto ospedaliero. Tuttavia, a fronte di possibili soluzione condivise, possono concretizzarsi comunque delle situazioni nelle quali l’interpretazione del solo dato strumentale può essere influenzata da alcune variabili". Una di queste variabili può essere legata al momento dell’accertamento, come dimostra una recente sentenza della Cassazione (la n. 19176/2016), che ha annullato una decisione della Corte di appello di Caltanissetta in cui i giudici avevano ritenuto che la condotta del conducente dovesse rientrare nella fascia più grave (lettera c dell’articolo 186 del Codice della strada, nonostante i valori rilevati dall’accertamento rientrassero nel più mite range enunciato dalla lettera b: ciò in base al presupposto che il lasso temporale intercorso tra l’incidente e l’accertamento - che aveva dimostrato un andamento decrescente nei valori alcolemici - era stato sufficientemente ampio da poter concludere che, se l’analisi fosse stata eseguita al momento del sinistro, il soggetto avrebbe avuto una concentrazione alcolemica superiore a quella rilevata. Criticità ancor maggiori possono presentare i casi in cui il conducente sia sospettato di avere causato l’incidente sotto l’effetto di droghe, dato che le modalità accertative non risultano essere standardizzate "con riferimento a quali matrici biologiche siano idonee a consentire una valutazione circa l’attualità d’uso, agli strumenti analitici da utilizzare, e a quali elementi clinici debbano essere valutati ai fini della dimostrazione della condotta". Dallo studio emerge l’opportunità di riservare alla valutazione clinica del personale sanitario l’accertamento dello stato di alterazione del conducente, e la sua rilevanza causale sull’incidente, onde evitare severe condanne e arresti in flagranza - la cui estesa previsione è una delle novità più discusse della legge 41/2016 - in base unicamente alla rilevazione di generici indici sintomatici da parte delle forze dell’ordine. L’approssimazione nell’accertamento dello stato di alterazione rischia infatti di causare limitazioni della libertà personale destinate a infrangersi contro il rigoroso perimetro con cui la Cassazione ha delineato il nesso di causalità tra la condizione fisiologica del conducente e l’incidente, stabilendo che non è sufficiente provare che, precedentemente al momento in cui lo stesso si è posto alla guida, egli abbia assunto stupefacenti, perché va dimostrato che egli guidava in stato di alterazione causato da tale assunzione (sentenza n. 3623/2016). Il difensore malato non ha l’obbligo di farsi sostituire di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2016 Sezioni unite - Sentenza 3 ottobre 2016 n. 41432. Il difensore che non può partecipare all’udienza per ragioni di salute non ha l’obbligo di nominare un sostituto nè di indicare le ragioni per le quali non lo fa. L’impedimento per ragioni di salute, che consente di rinviare l’udienza, vale anche nel giudizio camerale. Le Sezioni unite, (sentenza 41432) chiariscono due punti sui quali la giurisprudenza si era divisa. Il primo quesito riguardava l’onere di nominare un sostituto per l’avvocato impossibilitato a partecipare all’udienza perché malato o per un altro evento non prevedibile. Secondo la tesi dominante l’obbligo di nominare un sostituto o di indicare le ragioni dell’omessa nomina, scatta per il difensore solo nel caso di un concomitante impegno professionale, mentre sarebbe escluso quando l’impedimento riguarda la salute, comunicato al giudice e debitamente documentato. Solo di recente la giurisprudenza ha assimilato l’impedimento per un coincidente impegno professionale alla malattia del difensore, affermando l’obbligo di nominare il sostituto anche in quest’ultimo caso. Le Sezioni unite scelgono il primo orientamento. Per i giudici l’effettività della difesa non può essere ridotta alla formale presenza di un tecnico del diritto che, per mancanza di tempo e di rapporti significativi con le parti, non sia in grado di padroneggiare adeguatamente la causa. Non può dunque essere esteso anche al caso della malattia non prevedibile l’obbligo di nominare un sostituto, che deve restare limitato all’ipotesi dei due impegni professionali coincidenti. Per ottenere il rinvio dell’udienza il difensore malato, o impossibilitato a comparire per un imprevisto, deve provare la sussistenza dell’impedimento o la patologia. Circostanze improvvise e imprevedibili tali da impedire la nomina tempestiva di un sostituto che abbia avuto il tempo di studiare la vicenda. La seconda risposta fornita dalle Sezioni unite riguarda l’estensibilità o meno del principio sul legittimo impedimento del difensore per imprevedibili motivi di salute, anche ai procedimenti camerali di appello, conseguenti al processo di primo grado. La risposta delle Sezioni unite è un sì che ribalta il precedente orientamento, pressoché incontrastato, secondo il quale l’impedimento del difensore, non sarebbe per ragioni di speditezza del rito, un valido motivo per rinviare l’udienza camerale di appello. Il Supremo collegio cambia rotta, sottolineando che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte evidenziato la necessità di garantire un processo equo, con garanzia del diritto di difesa, in ogni stato e grado del giudizio. Per essere in linea con la Costituzione e con la Cedu la disciplina del legittimo impedimento, già prevista per l’udienza preliminare, va dunque estesa anche al procedimento camerale. Revoca patente ancora incerta di Silvio Scotti Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2016 Ministero delle infrastrutture e dei trasporti - Direzione generale Motorizzazione - Circolare 31 agosto 2016 Protocollo Ru n. 18817. La sentenza del Tar del Veneto n. 393 del 15 aprile 2016 aggiunge un’ulteriore puntata all’intricata questione di come va calcolato il periodo di tre anni in cui chi subisce la revoca della patente per infrazioni legate a droga o ebbrezza grave non può candidarsi a conseguire una nuova licenza di guida. Quindi non è ancora pacifico se si debba partire dalla data in cui è stato contestato l’illecito (come afferma la sentenza) o da quella è passata in giudicato la relativa sentenza di condanna. Non solo: la pronuncia tocca anche la questione della competenza a giudicare su fatti del genere, rimettendo in discussione l’orientamento che pareva recentemente consolidato secondo cui competente sarebbe il giudice ordinario e non quello amministrativo. La vicenda su cui ha deciso il Tar trae origine da un incidente causato da guida in stato di ebbrezza, avvenuto il 29 giugno 2012. Il responsabile venne condannato, con decreto penale diventava definitivo il 1° ottobre 2015. In casi di questo tipo, il Codice della strada, all’articolo 219, prevede che consegua la revoca della patente, con il divieto di conseguirne una nuova per tre anni a decorrere dalla "data di accertamento del reato". Il Tar del Veneto ha aderito alla tesi già data a suo tempo dall’ufficio del Massimario della Cassazione (relazione del 3 agosto 2010), secondo cui conta la data in cui l’organo di polizia rileva l’illecito. Ma resta "forte" anche l’orientamento secondo cui conta la data di passaggio in giudicato della sentenza di condanna, recentemente recepito anche da una circolare del ministero delle Infrastrutture e trasporti (la n. 18817 del 31 agosto) sulla base di una non trascurabile giurisprudenza. L’incertezza è amplificata da un altro dubbio, su una questione dirimente: su questi casi è competente il tribunale amministrativo o il giudice ordinario? Secondo una prima tesi, confortata da dal Consiglio di Stato e dalle Sezioni unite della stessa Cassazione, lo è la magistratura ordinaria, perché alla base di una domanda volta a richiedere l’illegittimità di un provvedimento di diniego della patente c’è un diritto soggettivo. Questa posizione, espressa compiutamente dal Consiglio di Stato nella sentenza n.235 del 25 gennaio 2016 (peraltro a conferma dell’orientamento di diversi Tar), è ripresa dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti sempre nella circolare n. 18817 del 31 agosto scorso. Con essa, il ministero confidava di aver risolto il problema della giurisdizione e indicava ai diversi uffici competenti, in caso di impugnazioni al Tar sul rigetto della domanda di riconseguimento della patente, di eccepire il difetto di giurisdizione, in favore della competenza del tribunale ordinario. Il Tar del Veneto ora si pone in contrasto col Consiglio di Stato, sulla base di argomentazioni tutt’altro che trascurabili: • la titolarità della patente costituirebbe un interesse legittimo e non un diritto soggettivo; • la circolazione stradale è regolamentata a tutela della sicurezza pubblica, "espressione del principio costituzionale della tutela della salute", trascendendo così l’interesse individuale; • lo stesso rilascio della patente, che è soggetto a discrezionalità tecnica, confermerebbe la natura di interesse legittimo. Ciò stato poi subito riconfermata dal medesimo Tar (sentenza 12 settembre 2016, n. 1014). Ricambi contraffatti: con l’acquisto sul web si rischia la ricettazione di Nicola Giardino Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2016 Se acquistare ricambi auto su Internet può essere facile e conveniente, è anche vero che i rischi connessi sono molto elevati per chi non è esperto. Il magazzino virtuale è sicuro, infatti, solo se il sito fa capo ad aziende serie e regolarmente registrate e le informazioni chiare. In questo caso è possibile consultare online l’assortimento dei pezzi suddivisi per tipologia e per modello e ordinare contestualmente quelli desiderati. Il vero rischio per l’acquirente occasionale e inesperto è di incappare in ricambi contraffatti anche banalmente e privi di valore (si veda "Il Sole 24 Ore" del 6 settembre). La Cassazione, a sezioni penali riunite, si è pronunciata con sentenza 8 giugno 2012, n. 22225 sul quesito se per l’acquirente finale possa configurarsi, in un caso di merce assimilabile ai ricambi, una responsabilità a titolo di ricettazione. Il pronunciamento della Corte lo ha escluso, limitandosi a statuire che siffatti acquisti configurano un illecito amministrativo al quale consegue solo l’irrogazione di una sanzione amministrativa. La stessa sentenza lascia però ben intendere che, qualora l’acquirente sia un commerciante o comunque un operatore professionale (per esempio, un titolare di officina di riparazione), risponderebbe del reato di ricettazione allorché, effettuato l’acquisto di prodotti contraffatti o di illecita provenienza, li rivenda o, nel caso delle officine, li installi sui veicoli dei clienti. In altre parole, se sul web o mediante qualsiasi altro mezzo il professionista acquista - per la rivendita o per il montaggio - ricambi contraffatti nella consapevolezza della loro illecita provenienza o contraffazione, si rende responsabile di una condotta perseguibile penalmente. Lo stesso operatore professionale allorché, come potrebbe facilmente accadere sul web, effettui l’acquisto, in assenza della consapevolezza, senza aver preventivamente accertato l’autenticità del prodotto e la liceità della sua provenienza, incorrerebbe in un titolo di responsabilità più lieve della ricettazione, poiché è configurabile solo un reato di tipo contravvenzionale, quello di incauto acquisto. Ma i rischi non sono solo di incappare in illeciti di natura amministrativa o penale. Per gli acquirenti privati occasionali, i rischi sono di vedersi recapitare non solo pezzi contraffatti, ma anche parti di ricambio che, pur di provenienza lecita, sono inutilizzabili perché non conformi ai bisogni. Nel caso di pneumatici, per esempio, è obbligatorio rispettare il tipo e il modello di pneumatici previsto dal costruttore e riportato sul libretto di circolazione. In caso contrario, a parte la sanzione delle autorità di polizia, c’è il rischio, ben più grave, di non passare la revisione periodica obbligatoria e vedersi intimare la sostituzione. La raccomandazione, per limitare rischi, è di farsi consigliare, prima di qualunque acquisto, da un esperto e accertarsi poi della disponibilità di un’officina al montaggio. Meglio ancora negoziare preventivamente il prezzo della manodopera per evitare sorprese che vanifichino presunti risparmi. Puglia: carceri fantasma, un "bluff" che non finisce mai Quotidiano di Foggia, 4 ottobre 2016 Ogni tanto c’è chi si ricorda delle strutture rimaste ruderi tra Bari e Foggia. Qualche anno fa fu la notissima trasmissione "Striscia la Notizia" a denunciare la presenza sul territorio pugliese di alcune carceri "fantasma" poiché costruite e mai entrati in funzione. Da allora ciclicamente qualcuno si sveglia, in questo caso l’associazione ‘Antigonè e denuncia ai quattro venti la presenza di strutture penitenziarie chiuse in Puglia, mentre il sovraffollamento dei detenuti ha raggiunto livelli record, circa 4500 presenze a fronte di 2350 posti letto. Eppure già da tempo, quando il sovraffollamento delle case circondariali non era così devastante, fu proprio il sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria (Sappe) a denunciare la questione dei "ruderi carcerari" nel silenzio generale. E però con la stessa serietà non si può accettare che si mischino sacro e profano solo per fare sensazionalismo, giocando sulla pelle di detenuti e operatori penitenziari, lasciando tutto in una desolante situazione gattopardesca che non porta da nessuna parte. "Il problema del sovraffollamento della carceri è drammatico poiché condiziona la vita ed il lavoro di migliaia di persone e non può essere liquidato in maniera così superficiale", spiega il segretario nazionale del sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria, Federico Puilagatti. Per lui le carceri fantasma ci sono e tante, esempio di spreco di denaro pubblico così come accaduto per ospedali costruiti e mai entrati in funzione, oppure ponti e strade iniziate e mai portate a termine. "Ma offrire queste strutture, ormai fatiscenti da Volturara, a Bovino, a Castenuovo, da Minervino Murge a Monopoli, da Francavilla Fontana a Maglie in pasto all’opinione pubblica come panacea per risolvere la questione delle carceri sovraffollate, oltre ad essere una bestemmia, è altamente sbagliato poiché si dà un’idea errata del problema, che invece merita soluzioni molto serie e concrete", affonda Pilagatti. Insomma, personaggi che ben conoscono come funziona il sistema penitenziario sembrano abbandonarsi a facili strumentalizzazioni per avere un pò di ascolto. Ci si è chiesto, per esempio, quanti soldi, quanti uomini e quanti mezzi sarebbero necessari per riadattare e far funzionare tantissime di quelle carceri (da ristrutturare completamente) che potrebbero ospitare (a pieno regime) non più di due, trecento detenuti con requisiti minimi di pericolosità, considerati gli scarsi presidi di sicurezza di quegli Istituti? Quelle carceri non offrivano e non offrono garanzie di economicità di gestione (considerati i pochissimi posti a disposizione),di sicurezza pubblica e non risolvono assolutamente il problema dell’affollamento delle carceri. Tant’è vero che il carcere di Spinazzola, che sicuramente era molto più attrezzato ed ampio di quelli sopra citati, è stato chiuso quest’anno, proprio per problemi di risparmio e carenza di personale di Polizia Penitenziaria. Come non ricordare, infine, che dopo la riorganizzazione della Giustizia con l’eliminazione delle Preture, l’Amministrazione Penitenziaria cedette ai comuni la maggior parte di quelle strutture, che sono diventate poi il solito monumento allo sperpero di denaro pubblico. Lecce: 38enne si uccide col gas della bomboletta in dotazione ai detenuti corrieresalentino.it, 4 ottobre 2016 Inala gas da una bomboletta da campeggio e si suicida in carcere. Il dramma si è consumato nel penitenziario di Lecce nelle scorse ore, dove un salentino di 38 anni, Mauro Zecca, si è tolto la vita nel reparto di infermeria della casa circondariale leccese di Borgo San Nicola, respirando il gas dalla bomboletta da campeggio in dotazione ai detenuti. Si tratta del primo suicidio dell’anno verificatosi nel penitenziario leccese. La vittima è un uomo di Campi Salentina, che si trovava recluso per scontare una condanna definitiva inerente reati in materia di sostanze stupefacenti. La tragedia è avvenuta nella notte. L’uomo è stato trovato nel letto con un sacchetto in testa ed accanto la bomboletta del gas. Sebbene gli agenti della Polizia Penitenziaria si siano accorti subito di ciò che era appena accaduto, per il detenuto salentino non vi era più nulla da fare. Sulla morte del 38enne salentino, nel frattempo, la Procura di Lecce ha aperto un’inchiesta, per accertare le reali cause che hanno portato alla morte del detenuto di Campi Salentina. Il sostituto procuratore della Repubblica di Lecce Carmen Ruggiero, pubblico ministero di turno, ha disposto l’autopsia sul corpo dello sfortunato detenuto. Sondrio: proteste in carcere, ecco la soluzione di Susanna Zambon Il Giorno, 4 ottobre 2016 La svolta dopo la visita a Sondrio del provveditore regionale Luigi Pagano. Sembra in via di risoluzione la delicata situazione del carcere (stop a sciopero della fame), dove 25 dei 37 detenuti hanno proclamato una settimana fa lo sciopero della fame, poi da sabato quello della sete e, sempre sabato, i carcerati hanno anche messo in atto una protesta rumorosa, con urla e sbattendo sulle grate delle finestre delle celle stoviglie e oggetti. Ieri la visita ispettiva del provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, che ha incontrato i detenuti, la direttrice Stefania Mussio, il comandante "ad interim", il vice capo Emilio Di Somma, e poi, fuori dalle porte della Casa circondariale, anche i volontari che fino a non molto tempo fa operavano con i carcerati. Una delicata operazione di diplomazia, col chiaro obiettivo di ricucire uno strappo che sembrava definitivo, ma forse così non è. Infatti, i detenuti sembrano aver deciso di fare un passo indietro e revocare almeno momentaneamente lo sciopero della fame e della sete, convinti dalle rassicurazioni del provveditore. "Ho fatto loro un discorso: azzeriamo tutto e ricominciamo da capo - ha affermato Pagano al termine della visita -. Ci sono aspetti che possono essere migliorati con un pò di buona volontà da tutte le parti in causa, cercheremo di fare chiarezza ad esempio per quanto riguarda i colloqui tra i detenuti e i loro legali, assolutamente sacrosanti ma presentando una motivazione. Per quanto riguarda, invece, le celle sovraffollate, avvieremo a breve un programma di ristrutturazione che riguarderà anche il carcere di Sondrio, e la cella da 5 posti ora inutilizzata verrà messa a norma così potrà ospitare alcuni detenuti". C’è, poi, da sciogliere il delicato nodo sul mondo del volontariato, che ormai non entra più in carcere da tempo per incomprensioni con la direttrice. "Per quanto riguarda il garante dei detenuti - prosegue Pagano - so che il Comune si è attivato con un bando per nominarne uno nuovo. Spero poi che le Dame di San Vincenzo si convincano a tornare a offrire il loro preziosissimo aiuto". La situazione sembra avviarsi verso una risoluzione. "La terrò comunque sotto controllo - conclude Pagano - e nei prossimi mesi tornerò in visita". Sondrio: i Radicali chiedono il ritorno del Garante dei detenuti Racchetti di Claudia Osmetti Ristretti Orizzonti, 4 ottobre 2016 Visto l’aggravarsi della situazione relativa alla casa circondariale di Sondrio dove continua lo sciopero della fame dei detenuti, al quale si è aggiunto anche lo sciopero della sete di una parte di essi, Claudia Osmetti di Radicali Sondrio e membro del Comitato nazionale di Radicali Italiani dichiara: "L’urgenza degli ultimi avvenimenti ci impone la ricerca di una soluzione il più rapida possibile. Per questo ci rivolgiamo al Consiglio comunale di Sondrio, e in particolare al suo presidente Carlo Zanesi o in subordine a un quinto dei suoi componenti così come prescritto dal regolamento, affinché venga indetta una convocazione straordinaria già nei prossimi giorni o comunque con la massima urgenza con all’ordine del giorno la discussione di quanto sta avvenendo in via Caimi. Chiediamo che in quell’occasione vi sia un riconoscimento della fondatezza delle motivazioni che hanno portato alle dimissioni del garante, Francesco Racchetti, e conseguentemente il ritiro delle stesse. Come radicali crediamo che l’assise di Palazzo Pretorio abbia il dovere di prendere una netta posizione al riguardo, chiedendo al garante dimissionario di svolgere un’opera di mediazione che consenta una onorevole sospensione dell’iniziativa nonviolenta dei detenuti e scongiuri eventuali degenerazioni, in attesa di provvedimenti risolutivi da parte delle autorità competenti. Il silenzio che, sulla questione, in questi mesi ha mantenuto il sindaco Alcide Molteni è vergognoso: nel marzo scorso, quando Racchetti presentò le sue dimissioni in Consiglio, Molteni non mosse un dito. Successivamente non è stato da meno, rifiutandosi anche solo di approfondire l’argomento: non è stato chiesto conto alla direttrice del carcere dei comportamenti che, nei fatti, hanno portato all’allontanamento sia delle dame di San Vincenzo sia di altre associazioni di volontariato che operavano nella struttura. Senza contare l’increscioso episodio che ha riguardato Alì El Hazaymeh, il medico da anni responsabile del servizio sanitario, ostacolato nell’esercizio delle sue funzioni. Per quanto ci riguarda ribadiamo il nostro sostegno alle rivendicazioni nonviolente dei detenuti e chiediamo alla politica sondriese di compiere un atto di coraggio, mettendo da parte presunte animosità, per risolvere la situazione". Roma: medicina penitenziaria, alla Asl2 visite per 5.000 detenuti bussolasanita.it, 4 ottobre 2016 Fra i punti di forza del modello assistenziale l’ambulatorio infermieristico e quello ostetrico. La Asl Roma 2, nel IV Municipio, gestisce l’attività assistenziale per le persone detenute nel Polo penitenziario di Rebibbia, articolato in 4 Istituti carcerari. L’assistenza sanitaria è governata dal dipartimento di Tutela delle fragilità e fornita con personale proprio. La popolazione detenuta ammonta a circa 2.500 unità, pari al 35% di quella ristretta in tutto il Lazio, ma, a causa dei continui avvicendamenti, vi transitano circa 5.000 persone durante l’anno. Si tratta dell’equivalente di un piccolo paese e tutte quante vengono sottoposte a visita medica. I Punti di forza sono l’ambulatorio infermieristico e quello ostetrico. La Asl Roma 2 ha infatti potenziato questi settori assistenziali oltre a quelli socio-sanitari e riabilitativi. Inoltre, è stata riorganizzato anche il servizio del farmaco. Gli operatori dell’azienda svolgono interventi di prevenzione e di assistenza ai detenuti ed ai tossicodipendenti ristretti, e, presso l’Unità operativa di Medicina protetta dell’ospedale Pertini, gli accertamenti diagnostici e l’attività di ricovero. Il reparto ospedaliero dispone di 22 posti letto e 9 medici presenti ogni giorno. All’interno del complesso di Rebibbia invece, esiste un presidio di guardia medica attivo 24 ore su 24. La popolazione ristretta ha inoltre la possibilità di accedere a prestazioni specialistiche grazie a 17 medici cardiologi, odontoiatri, infettivologi, oculisti dermatologi, ecografisti, otorinolaringoiatri, ortopedici, urologi, endocrinologi, pneumologi e neurologi. Disponibili anche 9 psicologi, 3 psichiatri della Asl e 8 assistenti sociali. Le attrezzature in dotazione sono quelle di radiologia, gastroscopia, fisiokinesiterapia, audioscopio, sala gessi, 2 riuniti, 1 defibrillatore. Santa Maria Capua Vetere (Ce): detenuto evade dal carcere con un paio di cesoie di Roberto Calierno diariopartenopeo.it, 4 ottobre 2016 Evasione da film nella mattinata di ieri dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove un detenuto straniero di 35 anni è riuscito a fuggire utilizzando solo un paio di cesoie che aveva in dotazione per svolgere il suo lavoro di giardiniere recluso. È accaduto tutto attorno alle 10:30 del mattino, quando il detenuto ha approfittato della momentanea assenza della cosiddetta vigilanza dinamica, vale a dire una ronda della polizia penitenziaria che sopperire alla scarsità di personale effettua controlli periodici dei detenuti lavoranti lungo tutto il perimetro della Casa circondariale. Il 35enne, che avrebbe dovuto scontare altri quattro anni di carcere, è riuscito a fuggire tranciando con le forbici parte di una recinzione della zona esterna all’intercinta del penitenziario. Immediatamente è scattato l’allarme, che ha dato vita a una vera e propria caccia all’uomo. Torino: progetto "Studiare vale la pena", trenta agenti sui banchi per diplomarsi La Stampa, 4 ottobre 2016 Ritorno sui banchi per trenta agenti di polizia penitenziaria decisi a conquistare in due anni un diploma di tecnico dei Servizi sociosanitari grazie ad una estensione del progetto "Studiare vale la pena" che l’Istituto Giulio di via Bidone porta avanti da anni alla Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Fin qui il progetto è andato a beneficio dei detenuti, ma in estate, dopo il brillante esito della maturità di un gruppo di detenuti, l’incoraggiamento dell’Ufficio Scolastico Regionale a trasformare la scuola in carcere in "scuola autonoma", il sostegno del direttore della Casa Circondariale Domenico Minervini e del comandante delle guardie, Giovanni Battista Alberotanza, il progetto per gli agenti è stato definito. "È stato il comandante Alberotanza - racconta il professor Antonello Franco, appassionato coordinatore del programma- ad avere avuto la felice intuizione di una curvatura del curricolo in senso criminologico- relazionale. Avremmo dovuto avere otto studenti, invece hanno aderito in trenta, altri sette saranno presenti come uditori: abbiamo dovuto privilegiare chi non ha ancora un diploma". Agli iscritti sono stati riconosciuti crediti per i corsi sostenuti in passato e abbuonati così i primi due anni. "La finalità del corso, al di là del diploma che potrà aiutare i singoli nel migliorare la propria posizione, è quella di avere una ricaduta positiva nell’ambiente carcerario nel suo complesso, maggiore serenità, migliori relazioni e minore rischio di emergenze e burn out", ha detto la preside Giulia Abbio all’inaugurazione, presenti direttore, comandante, i garanti dei detenuti regionale, Bruno Mellano, e comunale, Monica Gallo. Il corpo docente al completo si è presentato e ha fatto gli auguri agli allievi di buon anno scolastico. "Questo progetto didattico per gli agenti, realizzato in carcere, in orario extra-servizio, è la prima esperienza del genere in Italia", ha spiegato il professor Franco. Insieme alle tradizionali materie scolastiche, la classe conterà su un dipartimento criminologico, che riunisce la garante Monica Gallo, Marisa Brigantini, criminologa della Casa circondariale, e i docenti di Psicologia, di Metodologie operative e di Diritto. In veste di "visiting professor" arriverà Pietro Buffa, ex direttore del Lorusso e Cutugno e oggi direttore generale del personale e delle risorse dell’Amministrazione penitenziaria, il garante regionale Mellano, educatori, assistenti sociali. Roma: Fp Cgil, oggi l’iniziativa sulla pena "Dentro a metà", con Orlando e Sorrentino Ristretti Orizzonti, 4 ottobre 2016 A Roma presso il Rebibbia Femminile in via Bartolo Longo 92 dalle ore 9.30. "Dentro a metà - Cambiare la pena, dentro e fuori le mura del carcere". Questo il titolo dell’ iniziativa promossa dalla Fp Cgil Nazionale in programma oggi martedì 4 ottobre a Roma presso il Teatro della Casa circondariale Rebibbia femminile in via Bartolo Longo 92 a partire dalle ore 9.30 e alla presenza, tra gli altri, del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e della segretaria generale della Fp Cgil, Serena Sorrentino. Una giornata divisa in due momenti. La mattina l’iniziativa avrà al centro un approfondimento sulla esecuzione della pena e le riforme messe in campo negli ultimi anni. Partendo dall’esperienza dei lavoratori del settore, la Fp Cgil illustrerà la propria idea di esecuzione della pena intra ed extra muraria, confrontandosi con la politica, le istituzioni ed il mondo dell’associazionismo. Nella seconda parte della giornata si farà un focus sul lavoro delle donne in carcere, inteso sia come lavoro delle operatrici che delle detenute. Si terrà una tavola rotonda in cui si affronterà, tra i molti temi, anche quello delle pari opportunità nel mondo carcerario: si confronteranno dirigenti sindacali, lavoratrici e rappresentanti delle Istituzioni. Informazioni: Per partecipare all’iniziativa è obbligatorio accreditarsi inviando una mail a saccoia@fpcgil.it entro oggi lunedì 3 ottobre Programma Mattina ore 9.30 - 13.30 "Una giornata di approfondimento sull’esecuzione della pena e di riflessione sulle riforme messe in campo negli ultimi anni" Ore 9.30: Introduzione Salvatore Chiaramonte, Segreteria Nazionale Fp Cgil Nazionale Ore 10.00: Interventi di: Andrea Orlando, ministro della Giustizia Santi Consolo, capo Dipartimento amministrazione penitenziaria Francesco Cascini, capo Dipartimento giustizia minorile e di comunità Francesco Maisto, già presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna Patrizio Gonnella, presidente di Antigone Voci dai luoghi di lavoro: Simonetta Casciotti, educatrice minorile; Michela Vincenzi, assistente sociale esecuzione penale esterna; Stefano Branchi, polizia penitenziaria Ore 13.00: Conclusioni di Serena Sorrentino, segretaria generale Fp Cgil Pomeriggio ore 14.30 - 17.30 Tavola rotonda - "Donne ed esecuzione della pena. Un focus sul lavoro femminile: le pari opportunità nel mondo carcerario" Partecipano: Gianna Fracassi, segreteria Cgil Nazionale Ida del Grosso, direttore di Rebibbia femminile Lucia Valente, assessore al Lavoro della Regione Lazio Lucia Castellano, direttore generale per l’esecuzione penale esterna della Giustizia minorile e di comunità Massimo De Pascalis, vice capo Dipartimento amministrazione penitenziaria Paola Fino, polizia penitenziaria Stefano Anastasia, garante per i Diritti dei detenuti del Lazio Modera: Lina La Monica, educatrice e coordinatrice Fp Cgil Dap E sul diritto d’asilo Europa vicina a un altro fallimento di Valentina Errani Il Messaggero, 4 ottobre 2016 Non solo la relocation, programma dell’Ue evidentemente fallito in materia di redistribuzione dei migranti, le questioni europee in materia di immigrazione restano tutte aperte e lontane dalla soluzione che l’Italia attende da tempo. E se i numeri per la misura emergenziale e temporanea, raccontano già la profonda frattura a tra i 28, con il 3,5 per cento dei 162mila previsti effettivamente redistribuiti, va peggio per la revisione del Trattato di Dublino e per un sistema di asilo europeo, passaggi successivi del medesimo progetto politico dell’Unione. Il 13 ottobre, i ministri degli Affari Interni e della Giustizia torneranno a discutere a Lussemburgo ed certo che anche in quell’occasione l’Unione esca spaccata, perché l’incontro riguarderà le nuove regole che vuole imporre agli Stati membri in materia di asilo e la revisione del Trattato, già bocciata dall’Italia. Le modifiche Ue al Trattato, che prevede l’obbligo di accoglienza del paese di primo approdo per i richiedenti asilo, sono peggiorative rispetto all’accordo già esistente. Un irrigidimento delle misure che prima consentivano, per motivi umanitari o per favorire i ricongiungimenti familiari, la possibilità che i migranti lasciassero lo stato nel quale avevano presentato la domanda. Non solo, la proposta Ue limita anche le sovranità nazionali, perché non sarà più consentito a un paese terzo di accogliere richiedenti asilo sbarcati altrove neppure sulla base del principio di volontarietà. La proposta di revisione di Dublino mette paletti anche ai cosiddetti "movimenti secondari", ossia al trasferimento in altri paesi finora tollerato se emerso dopo un certo numero di anni. E così l’Italia ha già bocciato la proposta. Non va meglio per il sistema di asilo integrato. Anche in questo caso l’Ue pone un freno ai principi di sovranità, prevedendo norme che sono al limite del rispetto dei trattati internazionali e in alcuni casi contraddicono la nostra costituzione. La proposta di Bruxelles di uniformare gli standard di protezione e i diritti per i beneficiari contempla tempi brevissimi e la possibilità di rimpatriare trattenimenti e sanzioni per evitare che i profughi si spostino da un Paese all’altro dell’Unione. Non solo, l’Easo, l’Agenzia per l’asilo deputata ad armonizzare il sistema, diventerebbe una sorta di "commissario" per controllare il rispetto delle regole. Lampedusa, marcia della memoria ma la strage di profughi continua di Alfredo Marsala Il Manifesto, 4 ottobre 2016 È stato il mare più che il rito. Mentre a Lampedusa il ministro Alfano "marciava" nella "giornata della memoria" in ricordo delle 386 vittime della strage di tre anni fa al largo dell’isola, nel Canale di Sicilia i soccorritori salvavano quasi 6mila persone, agganciando ben 36 barconi. Una migrazione senza fine dalle coste africane, ripresa a pieno regime per le buone condizioni del mare in una situazione di disarmante stallo in Europa. Con numeri destinati a salire perché sono in corso altre operazioni coordinate dalla centrale operativa della guardia costiera. Dalla strage di Lampedusa a oggi non è cambiato nulla. Lo dicono i numeri dell’Unhcr: 11.400 le persone morte nel Mediterraneo dal 3 ottobre 2013 ad oggi. L’Alto commissariato per i rifugiati ricorda che la "giornata della memoria" viene celebrata "proprio nell’anno destinato a essere quello più letale nel Mediterraneo" mentre "muri e politiche restrittive continuano a ridurre lo spazio di protezione per i rifugiati in Europa". Solo quest’anno sono 3.498 i migranti morti "nel disperato tentativo di trovare salvezza in Europa", dice Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa, anche lei presente alla marcia di Lampedusa. "Non possiamo considerare queste tragedie con indifferenza e assuefazione. La giornata della memoria sia stimolo importante di riflessione e impegno", ammonisce. Secondo i dati in possesso dell’Unhcr quest’anno hanno attraversato il Mediterraneo oltre 300mila persone, il 28% bambini, molti non accompagnati o separati dalle loro famiglie. Esistono, evidenzia l’alto commissariato, "alternative legali e sicure e vanno implementate: ricongiungimento familiare, reinsediamento, corridoi umanitari, visti per motivi di studio o lavoro". "Possibilità concrete affinché le persone in fuga da guerre, violenze e persecuzioni, possano arrivare in un luogo sicuro senza dover intraprendere viaggi pericolosissimi rischiando la vita, ancora una volta", aggiunge Sami. Un appello alle istituzioni arriva dalla comunità di Sant’Egidio. "Nonostante lo sdegno che provocò quella strage, la visita di Papa Francesco e la mobilitazione di larga parte dell’associazionismo e del volontariato, si continua a morire in mare e, nel 2016, con cifre mai raggiunte: un morto ogni 42 profughi che partono dall’altra sponda del Mediterraneo, una percentuale ancora più elevata di quella registrata nel 2015", sottolinea la comunità. Che bolla come inutili "i muri" e sollecita "risposte di umanità e accoglienza", come "i corridoi umanitari", promossi da Sant’Egidio insieme alla federazione delle chiese evangeliche e alla tavola valdese: 300 profughi siriani già arrivati dal Libano con regolari voli di linea e non sui barconi e altre centinaia che giungeranno prossimamente. Le vittime del naufragio al largo di Lampedusa furono 366, più 20 dispersi. Furono salvate 155 persone, 41 i minori. L’imbarcazione che si capovolse era un peschereccio lungo circa 20 metri, salpato dal porto libico di Misurata il primo ottobre del 2013, con a bordo migranti di origine africana provenienti soprattutto dall’Eritrea. Quando il barcone carico di profughi giunse a circa mezzo miglio dalle coste lampedusane, poco lontano dall’Isola dei Conigli, l’assistente del capitano gettò a terra una torcia infuocata che provocò un devastante incendio. Le fiamme erano state accese, fu spiegato in seguito, per fare notare la presenza della barca ai soccorritori. I profughi cercarono di mettersi in salvo, l’imbarcazione si capovolse e colò a picco. I primi ad accorgersi della tragedia furono all’alba dei pescatori locali che videro la gente in mare in mezzo a pozze di gasolio. Furono proprio quei pescherecci a caricare i primi superstiti. Lo scorso aprile la Corte di assise di appello di Palermo ha confermato 30 anni di reclusione al somalo Mouhamud Elmi Muhidin, uno degli scafisti del barcone della morte. Ungheria, Colombia, Svizzera: gli strappi dei referendum di Massimo Nava Corriere della Sera, 4 ottobre 2016 Le recenti consultazioni popolari rivelano scelte spesso condizionate dall’astensionismo e da motivazioni degli elettori estranee al quesito in oggetto. Si fa presto a esultare per la sconfitta di Viktor Orbán in Ungheria: un referendum anti immigrati naufragato per troppo assenteismo, come le povere vittime nel Mediterraneo, e lo spirito europeo salvo. La notizia contraria arriva 12 ore dopo: i cittadini della Colombia hanno bocciato l’accordo di pace con le Farc, le forze guerrigliere marxiste, che avrebbe chiuso trent’anni di massacri e strisciante guerra civile. Troppo rancore, troppi lutti, per cancellare tutto con un trattato. Anche in Colombia, tuttavia, l’assenteismo è stato elevato. Per fortuna della Colombia, le Farc hanno annunciato che non terranno conto del risultato e che si impegnano a perseguire il processo di pace. Al contrario, il messaggio dall’Ungheria resta inquietante per l’Europa e non sarà certo il leader ultranazionalista Viktor Orbán a fare un passo indietro nonostante la sconfitta: "Il 98% dei votanti (!) è con me!". Situazioni diversissime per storia e problematiche, che dovrebbero fare riflettere sul senso di consultazioni popolari condizionate dall’astensionismo e influenzate da motivazioni degli elettori che aggirano la materia referendaria per mettere nell’urna anche qualche cosa d’altro: opposizione al governo in carica, contestazione delle élite al potere e fattori emozionali e ideologici raramente accompagnati da una conoscenza approfondita della materia del contendere. È stato il caso di Brexit: la maggioranza dei no espressa da una minoranza, vittoriosa grazie all’astensionismo delle classi più giovani, alla voglia di punire il premier Cameron e all’irrazionale paura degli immigrati. L’uscita della Gran Bretagna, voluta soprattutto dalla provincia profonda e anziana e dalle classi popolari, ha conseguenze drammatiche per l’Europa e per la stessa Gran Bretagna. A ben vedere, una minoranza di inglesi (non gli scozzesi e nemmeno gli irlandesi!) ha rotto un patto condiviso da 500 milioni di europei che si sono potuti esprimere sulla materia soltanto attraverso i commenti dell’opinione pubblica. È anche il caso recente del referendum nel Canton Ticino, che fa passare una proposta contro i lavoratori italiani senza tenere in alcun conto la realtà dei rapporti economici e del mondo del lavoro transfrontaliero: un voto che colpisce gli italiani, ma danneggia soprattutto i ticinesi. E potrebbe essere il caso del referendum sulle riforme costituzionali in Italia: in questo senso vanno letti gli ultimi interventi di Napolitano e di Renzi, tesi a sgomberare il campo da condizionamenti politici per riportare gli elettori alla materia del contendere. Ma è del tutto evidente che il fronte del "no" vota in opposizione a Renzi e al governo, con un minimo interesse all’abolizione del Senato e senza tenere conto delle conseguenze sul medio e lungo periodo. È stato così anche passato, per le consultazioni sul trattato costituzionale europeo. I francesi non votarono sul progetto di costituzione, ma contro il presidente in carica Chirac che volle la consultazione. Olandesi e danesi fecero altrettanto, di fatto dando il primo colpo al processo federativo continentale. A ben vedere, il trattato di Lisbona fu un successivo rimedio al disastro, un rimedio inventato dai capi di stato e di governo. Riflettere sul senso dello strumento referendario significa riflettere sul senso della democrazia diretta, mitizzata, a volte a sproposito, rispetto alla vituperata democrazia rappresentativa. Il referendum, di fatto, riduce o conferma la legittimità del governo che lo ha indetto, ma limita e sottrae la responsabilità di decidere, di scegliere, di guidare una comunità, grazie anche a competenze, conoscenza dei problemi, lungimiranza politica, qualità e titoli che non appartengono necessariamente al comune cittadino. Altra cosa è una consultazione popolare su questioni etiche, quali il divorzio o l’aborto. Nella crisi attuale dei partiti e delle classi dirigenti - in parte sorprese, ma in parte complici dell’onda lunga del populismo - l’arma del referendum colma probabilmente un vuoto di democrazia e di partecipazione ed è la risposta più semplicistica alla diffidenza verso la politica che non decide e che tradisce il mandato popolare. Ma il referendum consegna il destino di un Paese (o di un sistema di Paesi) alla volontà di una minoranza strumentalizzabile, che spesso traduce in un voto una narrazione emozionale/ideologica che non sempre rispecchia il quesito tecnico o la valutazione delle conseguenze. Siria. Aleppo, dove l’Onu ha perduto l’onore di Aldo Masullo Il Mattino, 4 ottobre 2016 Il filosofo Bernard-Henri Lévy ha levato sul Corriere della sera l’estremo grido: "l’Europa salvi il suo onore, impedendo la fine di Aleppo!". Ma come può l’Europa salvare un onore che ha già perduto? Nella terribile vicenda siriana, che dura ormai da cinque anni, hanno perduto l’onore non solo l’Europa ma tutte le nazioni del mondo cosiddetto civile, raccolte sotto l’ormai screditato nome di Nazioni Unite. Eppure, beffa del destino, Aleppo proprio dall’Unesco, che delle Nazioni unite è il braccio culturale, era stata enfaticamente proclamata "patrimonio dell’umanità", così come lo era stata Palmira. Ma chi mai l’anno scorso si è mosso dinanzi allo scempio di Palmira, dinanzi all’oscena decapitazione del vecchio archeologo, prestigioso e pacifico conservatore di quell’irripetibile monumento dell’umana civiltà? Incidentalmente confesso un mio privatissimo vincolo con Aleppo. Nel 2012, proprio mentre iniziava, senza che quasi nessuno dei comuni cittadini del mondo se ne accorgesse, la guerra civile siriana, che in cinque lunghissimi anni di attacchi con ogni tipo di armi da terra e soprattutto dal cielo avrebbe ridotto la plurimillenaria città ad un ammasso di macerie e fatto strage dei suoi incolpevoli abitanti, mi capitò di pubblicare in volume alcuni dialoghi filosofici immaginari, già da tempo composti. In uno di essi Eraclito di Efeso si ferma a parlare con un bancarellaro di orologi, di quei segnatempo che potevano trovarsi allora, cioè più o meno cinque secoli prima di Cristo: meridiane di pietra e di ferro, piccole "ladre d’acqua", quadranti solari di fattura egizia. Alla fine, nella mia fantasia letteraria, il rozzo mercante, emozionato dalla forza di un pensiero con cui egli, pur ignorante, è riuscito a rapportarsi, dice al filosofo: "Accetta, ti prego, per ricordo del nostro incontro, l’umile dono di questa meridiana portatile. La trovai in un mercato di Aleppo alcuni anni fa e non ho mai voluto venderla. Ti porterà fortuna". Poco più tardi, nelle nostre cronache quotidiane, Aleppo cominciò ad essere il martellante nome di una sventura collettiva senza pari per ampiezza e ferocia. Io ogni volta, ricordando le immaginate parole del mio venditore di orologi, provo una pena profonda, quasi un sottile senso di colpa per aver fatto con allegria quel nome. Quanto all’odierno grido di Lèvy, in esso, nonostante le ottime (e ottimistiche!) intenzioni dell’autore, risuona la voce stridula dell’imperversante ipocrisia politica del mondo globale. Certamente non è stata un’improvvisa ventata di pacifismo a trattenere i padroni del mondo e i loro vassalli dall’intervenire nello scandalo di una Siria lacerata tra le pari crudeltà di tiranni e ribelli, ma un’indifferenza più feroce di ogni atto di guerra. Si tratta di un atteggiamento che purtroppo fa scuola. Su di esso si modella ormai capillarmente la vita delle nostre società, l’ordinario astenersi da ogni sia pur solo verbale o indiretto intervento in difesa di chi, sotto gli occhi di tutti, si trovi comunque colpito dalla violenza d’altri. I popoli in effetti sono rapidamente diventati come i loro capi, si sono conformati al cieco egoismo del "chi me lo fa fare?". Comunemente si dice che il terrorismo islamico sia programmato per produrre paura diffusa, appunto "terrore". A ben considerare però non sono tanto i terroristi propriamente detti a produrre tale paura. Peggiore della paura è l’indifferenza, ed è piuttosto essa che produce i terroristi, se non quelli di professione, certamente gli agenti delle intolleranze violente che sempre più frequenti irrompono negl’interstizi della nostra comune quotidianità. Il bullismo nelle scuole, le pratiche gratuitamente ricattatorie dei social, la democrazia fatta non di discussioni sul merito delle questioni ma d’irragionevoli insolenze e invettive minacciose che nel Novecento avrebbero provocato fior fiore di querele e nell’Ottocento addirittura duelli mortali, sono adesso semplicemente il marginale sottoprodotto di massa di un sistema sociale sempre più povero di sicurezza, dunque intrinsecamente "terroristico". Il celebre verso di Ungaretti, ispirato al sentimento di precarietà dei soldati in guerra, si attaglia ora allo stato d’animo quotidiano dell’uomo comune. Ormai si sta tutti "come foglie sul ramo d’autunno". Non è forse il lavoratore oppresso dalla paura di perdere da un momento all’altro il posto, e il giovane angosciato da un futuro senza prospettive, e l’imprenditore onesto stretto dal timore di trovarsi preso in un affare di corruzione oppure di non avere tempestiva giustizia contro i cattivi debitori e così ritrovarsi miseramente fallito? La vita civile si fonda sulla fiducia più elementare. Quante persone incontro mentre cammino o viaggio in un mezzo pubblico? Eppure cammino o viaggio tranquillo, perché non penso neppure lontanamente che qualcuna d’esse possa assalirmi o colpirmi. In fondo io so che, oltre tutto, la nostra pacifica convivenza e la mia personale incolumità sono garantite dallo Stato. Il "terrorismo" è il venir meno di questa tranquilla fiducia, con cui in ultima istanza s’identifica la stessa vita civile. Ora la condizione d’insicurezza che, nell’eccezione criminale, è l’effetto dei professionisti del terrorismo, ben più sistematicamente si produce nel tessuto sociale per l’indifferenza dei cittadini, per l’abituale inerzia che nutre la mala tolleranza. Un detto popolare napoletano avverte: "il pesce puzza dalla testa". È così. Non c’è male sociale che non provenga dai piani alti della società e dalla condotta dei potenti, cioè dalle persone e dai gruppi che, avendo la forza e dunque la responsabilità per imprimere comportamenti virtuosi alla vita dei popoli, preferiscono coltivare i propri sostanziosi vizi riparandosi dietro l’ipocrisia del non intervento. Con ciò io, da sempre convinto assertore di pace, non voglio affatto dire che l’Europa e il mondo civile dinanzi allo scempio siriano avrebbero dovuto mettere l’umanità a ferro e fuoco. Piuttosto, e qui sta lo scandalo, in cinque anni ben si sarebbe potuto mettere in piedi, magari sotto l’insegna dell’ Onu, un’azione politica e diplomatica sufficientemente autorevole per sciogliere il nodo siriano e salvare la vita di centinaia di migliaia di persone del tutto estranee alle disastrose furbizie delle grandi potenze e dei loro vassalli. Invece, miserabili "ragion di Stato" e miopi interessi strategici, al cui centro ancora una volta Si è venuto a trovare il Medio Oriente, hanno reso i responsabili del mondo civile ciechi e sordi al dolore dei popoli malcapitati. Più vergognosamente che mai ha vinto la turpe indifferenza. Peraltro, che l’esortazione a salvare l’onore Lévy lo rivolga all’Europa, come se soltanto essa fosse responsabile dello scandalo, la dice lunga, visto che dell’immane tragedia proprio l’Europa subisce i più gravi effetti collaterali, soprattutto l’immigrazione travolgente di masse umane disperate. Insomma sembra che il filosofo francese in fondo rinfacci all’Europa non tanto di non aver concorso a salvare Aleppo, quanto di essere stata così stupida da non comprendere che alla fine essa stessa sarebbe stata messa in pericolo. Il che peraltro mostra tutta la cecità autodistruttiva dell’egoismo. Purtroppo, ed è la riflessione più amara di tutte, neppur oggi l’Europa, di fronte al disastro che investe anch’essa, dà segni d’avere imparato la lezione. Anziché unirsi nell’azione positiva di porre ordine nella nuova realtà di fatto, essa cerca puerili ripari dietro i muri della indifferenza e, anziché lottare ragionevolmente contro le comuni avversità, si divide nella stupida gara di un gioco suicida. La regola dell’unanimità blocca le Nazioni Unite Corriere della Sera, 4 ottobre 2016 Il segretario generale dell’Onu traccia un bilancio dei dieci anni trascorsi alla guida dell’organizzazione, affermando tra l’altro che il mancato accordo sulla riforma del Consiglio di Sicurezza è un rischio per la sua efficacia e legittimità. Il mondo in cui viviamo sta affrontando sfide impressionanti. Abissi di diffidenza separano i cittadini dai loro leader e gli estremisti ci obbligano a decidere da quale parte stare usando la dicotomia del "noi contro loro". La Terra ci assale con l’innalzamento del livello del mare e con l’aumento delle temperature che raggiungono picchi da record. Centotrenta milioni di persone hanno bisogno di assistenza vitale. Decine di milioni di esse sono bambini e giovani: la nostra generazione futura è già minacciata. Tuttavia, a dieci anni dall’assunzione del mio incarico, sono convinto che abbiamo il potere di porre fine a guerra, povertà e persecuzioni, di colmare il divario tra ricchi e poveri e di fare in modo che i diritti diventino una realtà per tutte le persone. Grazie ai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, ci siamo dotati degli strumenti necessari per realizzare un futuro migliore. E con l’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico stiamo affrontando la sfida più grande del nostro tempo. Gravi minacce contro la sicurezza stanno mettendo in pericolo i progressi finora raggiunti. I conflitti armati sono diventati più complessi e tendono a protrarsi nel tempo. Gli insuccessi in termini di governance destabilizzano molte società. La radicalizzazione minaccia la coesione sociale, cosa che rallegra gli estremisti violenti, poiché è ciò che cercano. Dallo Yemen alla Libia, all’Iraq e dall’Afghanistan fino al Sahel, passando per il bacino del lago Ciad, stiamo assistendo, in uno scenario brutale, alle tragiche conseguenze di tutto questo. Il conflitto in Siria sta causando il maggior numero di vittime e seminando l’instabilità, dal momento che il governo siriano continua a bombardare quartieri urbani e alcuni capi potenti non smettono di alimentare la macchina della guerra. È di fondamentale importanza che i responsabili di crimini atroci come l’attacco perpetrato di recente contro un convoglio dell’Onu e della Mezzaluna Rossa Araba Siriana rispondano delle proprie azioni. Continuerò a fare pressione su chiunque eserciti un’importante influenza, affinché vengano avviati negoziati in vista di una transizione politica che ha già troppo tardato. Il futuro della Siria non deve dipendere dalla sorte di un solo uomo. In troppi paesi i leader stanno riscrivendo le costituzioni, manipolando le elezioni, incarcerando i loro oppositori o utilizzando altre misure disperate per rimanere aggrappati al potere. Essi devono comprendere che esercitano le proprie funzioni solo grazie alla fiducia che il popolo concede loro e che il potere non è una loro proprietà personale. La Dichiarazione di New York su rifugiati e migranti recentemente adottata può aiutarci ad affrontare in modo migliore il più grande esodo forzato dalla Seconda Guerra Mondiale. Troppo spesso i rifugiati e i migranti, soprattutto se musulmani, sono vittime di manifestazioni d’odio. Il mondo deve denunciare pubblicamente quei dirigenti politici e candidati alle elezioni che adottano calcoli loschi e pericolosi, al solo scopo di guadagnare voti e dividere la popolazione per mezzo della paura. Guardando ai miei dieci anni di mandato, mi ritengo fiero della nascita di Un Women e del fatto che sia diventato l’ente all’avanguardia nella promozione dell’uguaglianza tra i sessi e dell’emancipazione delle donne. Sono orgoglioso di definirmi un femminista. Ciononostante, dobbiamo impegnarci di più per mettere fine alla discriminazione ben radicata e alle violenze croniche che le donne subiscono e per promuoverne la partecipazione ai processi decisionali. Ho anche difeso con forza i diritti di tutte le persone, indipendentemente dalla loro etnia, religione o del loro orientamento sessuale, così come le libertà della società civile e dei media indipendenti, i quali devono ricoprire dei ruoli essenziali. Per far sì che i progressi continuino, saranno necessarie nuove vette di solidarietà - e sforzi continui per rafforzare le operazioni di pace e adattare le Nazioni Unite affinché possano far fronte alle sfide del 21° secolo. Gli stati membri non hanno ancora trovato un accordo sulle modalità di riforma del Consiglio di Sicurezza, e questo continua a rappresentare un rischio per la sua efficacia e legittimità. Troppo spesso ho visto ottime idee e proposte che avevano ricevuto un grande sostegno venir bocciate dal Consiglio, dall’Assemblea Generale o da altre istituzioni, in nome della ricerca del consenso. Non bisogna confondere il consenso con l’unanimità, altrimenti si rischia di affidare a un pugno di paesi, o anche solo uno, un potere smisurato su questioni fondamentali, permettendo loro di tenere in ostaggio il resto del mondo. In questi ultimi dieci anni, ho visitato quasi tutti gli stati membri delle Nazioni Unite. Quello che ho visto, più che i palazzi ufficiali o i monumenti storici, è il notevole potere della gente. Un mondo perfetto forse è ancora lontano all’orizzonte, ma la strada per un mondo migliore, più sicuro, più giusto, è nelle mani di ciascuno di noi. Dieci anni dopo, so che lavorando insieme, uniti, possiamo arrivarci. In Egitto si finisce in prigione per un’intervista di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 ottobre 2016 Tre giornalisti arrestati per aver chiesto opinioni sulla politica economica del Cairo. A Ferrara Hossan Bahgat riceve il premio Anna Politkovskaja e ringrazia i genitori di Giulio Regeni. Hossam Bahgat non ha potuto ritirare il premio giornalistico Anna Politkovskaja con le sue mani. A Ferrara, al festival di Internazionale, non è andato: nel mirino del regime egiziano, non può lasciare l’Egitto e a fine settembre, sulla base della liberticida legge sulle Ong varata nel 2011 e subito adottata dal presidente al-Sisi, si è visto congelare anche il conto bancario. Direttore di Mada Masr, agenzia indipendente egiziana, ha affidato a Skype il suo messaggio all’Italia e alla famiglia di Giulio Regeni, trovato senza vita esattamente sette mesi fa sulla strada tra Il Cairo e Alessandria: "Vi ringrazio per aver trasformato la vostra tragedia familiare in fonte di ispirazione e in una denuncia di altre tragedie che si verificano quotidianamente in Egitto". Bahgat, quel premio, lo ha ricevuto anche a nome di tanti altri: dal golpe del 2013 la stretta contro la stampa ha raggiunto picchi devastanti con l’apice più visibile il primo maggio quando la polizia ha attaccato la sede del sindacato dei giornalisti. Decine i giornalisti dietro le sbarre, alcuni da anni come il fotografo Shawkan, molti accusati di proteste non autorizzate, diffusione di notizie false, tentativo di rovesciare il governo. Tutti reati serviti su un piatto d’argento al regime dalla legge anti-terrorismo che lo stesso al-Sisi ha partorito ormai tre anni fa. Pochi giorni prima che Bahgat venisse insignito del premio dedicato alla giornalista russa Politkovskaja, uccisa a Mosca 10 anni fa, in Egitto tre fotoreporter finivano dietro le sbarre per aver intervistato semplici cittadini per le strade della capitale: il 26 settembre Hamdy Mokhtar, Mohamed Hassan e Osama al-Bishbishi sono stati portati via dalla polizia con l’accusa di incitazione al terrorismo perché, armati di microfono e telecamera, chiedevano opinioni sulla politica economica di al-Sisi, un’austerity che sta colpendo le classi più basse. Da allora sono detenuti e, denuncia il loro avvocato, sono stati picchiati e sottoposti a elettrochoc. Resteranno in detenzione preventiva per 15 giorni, misura cautelare abusata dal governo perché ripetutamente rinnovata senza limiti, come nel caso del consulente dei Regeni Abdallah e l’avvocato per i diritti umani Malek Adly, rimasti in prigione per 5 mesi in quasi totale isolamento. Un destino condiviso da circa 30 giornalisti egiziani, la cui detenzione fa del paese il terzo al mondo per reporter in carcere dopo Cina e Turchia. A preoccupare sono le denunce del legale che parlano apertamente di violenze e abusi subiti dai tre in prigione. Una notizia che fa il paio con l’ultimo rapporto pubblicato dal Nadeem Center, ong che da oltre 20 anni documenta abusi e torture di Stato: solo a settembre è stato possibile documentare 52 casi di violenze da parte degli apparati alla sicurezza di al-Sisi, tra cui torture, negligenza medica, decessi in carcere, omicidi extragiudiziali. A questi si aggiungono 113 sparizioni forzate. Numeri da campagna di repressione di massa. Massacro del Carandiru, 24 anni senza colpevoli: il Brasile si specchia nell’ingiustizia di Alfredo Spalla eastonline.eu, 4 ottobre 2016 Sono i primi di ottobre ed è vigilia di elezioni in Brasile. Proprio come 24 anni fa, quando morirono 111 detenuti del carcere del Carandiru in seguito alla repressione violenta della polizia di San Paolo. La cifra della ricorrenza non è tonda, ma è una delle più significative degli ultimi anni. Il motivo risiede nella recente sentenza della Corte d’Appello: "Non fu un massacro, ma legittima difesa". E così i 74 poliziotti condannati nelle sentenze precedenti sono stati assolti. Si è passati da un estremo all’altro. Nelle fase precedenti del processo erano state emesse condanne che prevedevano da 48 a 624 anni di reclusione per i colpevoli. In totale, 21.000 anni di carcere da scontare. Da 21.000 a zero, e 24 anni dopo nessuno è stato condannato per l’evento che il 2 ottobre del 1992 sconvolse il Brasile e il Mondo. Non è facile ricostruire l’intricata storia del Carandiru, ma è possibile accennare alle proporzioni della tragedia. Tutto cominciò con una discussione fra i detenuti del Padiglione 9, dove si trovavano i cosiddetti "primários", ovvero coloro che erano in carcere per la prima volta nella loro vita. "Non esistevano distinzioni fra condannati e persone in attesa di giudizio. Erano tutti nella stessa ala", spiega Marcus, guida del Museo Penitenziario Paulista, che oggi sorge vicino alla vecchia casa di detenzione. Le ricostruzioni vogliono che il casus belli fu l’uso di uno stendino. Un detenuto avrebbe steso i propri panni nel posto occupato da un altro, innescando una rissa. La situazione sarebbe poi degenerata, rendendo necessario l’intervento delle forze armate. Alla fine della giornata morirono 111 detenuti e un poliziotto. La polizia sostiene di essere stata attaccata con lancio di siringhe (era forte l’incidenza di Aids), urina, feci e minacciati con coltelli. Diverse associazioni di diritti umani sostengono, invece, che la ribellione era cessata e tutti erano rientrati nelle celle senza armi. Le perizie confermerebbero la teoria di un’esecuzione: 515 proiettili sparati. Il 90,4% delle vittime fu colpito alla testa o al collo, mentre l’86% avrebbe ricevuto 3 o più colpi di arma da fuoco. Centotrenta furono i detenuti feriti, 23 i poliziotti. Il giorno dopo le autorità divulgarono un primo bilancio: solo 8 morti. Era vigilia d’elezioni e non si poteva dire la verità sull’accaduto. E quest’anno - come nel 1992 - i cittadini sono chiamati alle urne. Il 2 ottobre a San Paolo si vota per il Sindaco, e così la manifestazione in memoria delle vittime è stata posticipata al 6 ottobre. "Se l’avessimo fatta il 2, nello stesso giorno del voto, sarebbe stato alto il rischio di arresti fra i partecipanti. Sono proibite manifestazioni politiche. Noi non siamo di nessun partito, ma c’era il rischio di strumentalizzazione e di arresti", spiega Helder, uno degli attivisti. Anni fa esisteva la "Rede 2 de outubro", mentre oggi l’organizzazione degli atti in memoria del Carandiru è affidata a diversi collettivi che per prepararsi all’atto indicono una raccolta fondi. L’intenzione è mettere un po’ di musica, vendere da mangiare, da bere e qualche maglietta per finanziare il viaggio dei parenti delle vittime. Gli organizzatori vorrebbero inoltre far partecipare l’associazione delle "Mamme di maggio". Nel 2006, circa 600 civili furono uccisi nello stato di San Paolo, secondo molti per mano della polizia. Le "Mamme" tengono viva la memoria dei famigerati "crimini di maggio". A prescindere dai 24 anni trascorsi, il feeling con la polizia non è dei migliori. Sul luogo della manifestazione compare la "Guarda Civil" insieme alla "Policia Militar". Occupazione di suolo pubblico, volume troppo alto, vendita ambulante e allaccio abusivo alla rete elettrica. Queste sono le accuse che la polizia contesta ai manifestanti. "Dicono di non avere un responsabile. Come si sono organizzati allora?", s’interroga un poliziotto. I ragazzi dei vari collettivi non hanno grande piacere a essere identificati. Dopo una breve mediazione, però, si stabilisce che la raccolta fondi può proseguire. "Non ci addolora il fatto che siano stati assolti i poliziotti, ma che un genocidio di stato sia stato giudicato come legittima difesa", puntualizza Sérgio, mentre cerca di domare il gazebo della manifestazione contro il vento. Del vecchio carcere del Carandiru non c’è quasi più traccia. La maggior parte della struttura è stata demolita nel 2002. Sono rimasti in piedi solo il Padiglione 4 e il 7, trasformati in scuole d’avviamento professionale. Lì, dove molti scontavano le pene, oggi s’insegnano arte e design. È stato aperto un grande parco con una biblioteca per i ragazzi della zona nord paulista. Al fondo del viale c’è un piccolo Museo per conservare viva la memoria del penitenziario. Una contraddizione in tipico stile brasiliano: nessun colpevole per 111 morti, ma un’intera struttura per non dimenticare l’accaduto. A volte la memoria storica sa essere più rapida della giustizia. "Il carcere è il luogo della tortura e del castigo. E oggi la tortura è passata dal livello fisico a quello psicologico. In tutto il Brasile esistono celle di tortura come quelle del Carandiru", spiega Padre Valdir João Silveira, coordinatore nazionale della Pastoral Carcerária, un’associazione che offre assistenza morale, religiosa e materiale ai detenuti. Al Museo è possibile sperimentare l’esperienza delle celle punitive. "Il tempo di permanenza è di 30 giorni. Una doccia alla settimana", spiega la guida Marcus prima di chiudere la porta. All’interno esiste una feritoia minuscola per l’ossigeno, non è possibile distendersi e non ci sono materassi. La serratura si chiude solo con un movimento violento; la permanenza, seppur per 5 minuti, non è per nulla gradevole. "Il Brasile ha una storia di educazione punitiva. La storia del Paese è fatta di schiavitù e castigo. Noi visitiamo tanti condannati e la cosa curiosa è che loro sono i primi ad essere favorevoli alla pena di morte", racconta Padre Valdir nel suo ufficio. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero della Giustizia, in Brasile ci sono 622.202 detenuti. Il 55% è di età compresa fra 18 e 29 anni, il 61,6% è di colore e il 75,08% non ha terminato la scuola dell’obbligo. È la quarta popolazione carceraria al Mondo, solamente dietro USA (2.217.000), Cina (1.657.812) e Russia (644.237). Il 40% dei detenuti brasiliani non è stato ancora condannato in primo grado. E intanto la sentenza stride con il celere avanzamento della Lava-Jato, l’operazione anti-corruzione che sta mandando in galera politici e imprenditori di alto livello. Arresti domiciliari, collaborazioni di giustizia e tempi record. La Lava-Jato procede spedita, mentre sul Carandiru non si riesce ad arrivare a una conclusione. "Perlomeno la popolazione sta cominciando a criticare il potere giudiziario, il più corporativista del Paese. E alla stampa non interessa nulla. Sono veicoli di comunicazione nati sotto l’ombra della dittatura e continuano a servire il potere politico", accusa Padre Valdir con la tranquillità di chi ha combattuto già tante battaglie ma non si è ancora rassegnato. Sono i primi di ottobre ed è tempo di elezioni. Proprio come 24 anni fa. Stati Uniti. Shock per foto centro detenzione clandestini di Valeria Robecco Ansa, 4 ottobre 2016 Immagini diffuse dal giudice in una class action. Decine di uomini ammassati sul pavimento e avvolti in coperte termiche per difendersi dal freddo, una mamma che cambia il pannolino al figlio sul cemento, un individuo che dorme appoggiato ad un orinatoio: è questo che mostrano le immagini shock scattate nel 2015 in un centro di detenzione in Arizona, dove la polizia di frontiera rinchiude i clandestini che tentano di entrare negli Stati Uniti dal Messico. A diffondere le istantanee, ricavate dai video delle telecamere di sorveglianza, è stato un giudice nell’ambito di una class action presentata da alcune associazioni per i diritti civili alla Federal District Court di Tucson. Nella causa si accusano le autorità di aver rinchiuso i clandestini che varcano il confine in celle sporche, affollate e gelide, tanto che le chiamano "hieleras", ghiacciaie, in spagnolo. I legali dei migranti hanno studiato migliaia di ore di filmati catturando immagini che mostrano le condizioni tremende in cui vengono detenuti: l’unico riparo dal freddo è costituito da coperte termiche di emergenza, le persone dormono ammassate l’una all’altra sul cemento oppure appoggiate al muro, poiché non ci sono letti nè brandine a disposizione, e bevono acqua potabile da brocche comuni. L’agenzia United States Customs and Border Protection ha però respinto le accuse, affermando che le "condizioni di detenzione devono essere considerate nel loro insieme", e negando che le stanze siano fredde o sporche. "La spazzatura a volte si accumula, ma solo per un breve periodo di tempo - ha precisato - Le prove mostrano chiaramente che le strutture del Tucson Sector Border Patrol non violano i diritti costituzionali dei detenuti". Una conclusione non condivisa dagli esperti consultati dai legali degli immigrati: "Le pessime condizioni per la salute e l’igiene in cui le persone si trovano costituiscono per loro un rischio ingiustificabile", ha spiegato l’igienista forense Robert W. Powitz. Mentre Eldon Vail, ex capo del Department of Corrections dello stato di Washington, ha detto che i clandestini sono in condizioni "pericolose, contrarie agli standard e alla prassi consolidata del settore". A conferma, anche un manuale della polizia di frontiera presentato come prova al processo, nel quale si definiscono le stanze "celle a breve termine", dove gli individui "non dovrebbero essere costretti a dormire, nè essere trattenuti per più di dodici ore". L’80% dei clandestini detenuti dall’1 settembre 2014 al 31 agosto 2015 nei centri in Texas e Arizona, invece, vi sono rimasti per almeno ventiquattr’ore. Venezuela. Mons. Moronta chiede di risolvere la situazione delle carceri Agenzia Fides, 4 ottobre 2016 Il Vescovo della diocesi di San Cristobal, Sua Ecc. Mons. Mario del Valle Moronta Rodríguez, è preoccupato per la tensione che continua da più di 20 giorni in seguito agli eventi verificatisi nel carcere di Tachira. Il 9 settembre, un gruppo di detenuti ha preso in ostaggio 2 guardie, 9 familiari di detenuti e qualche detenuto, per fare pressione sulle autorità al fine di ottenere il trasferimento al centro penitenziario di Aragua, viste le condizioni di invivibilità sperimentate a Tachira. Secondo dati raccolti da Fides, i livelli di sovraffollamento sono allarmanti: in totale queste strutture riuniscono circa 33 mila persone ma hanno una capacità effettiva di meno di 5.000 detenuti. Inoltre sono state concepite per ospitare detenuti per non oltre 48 ore, mentre ci sono detenuti già condannati che vi scontano la loro pena. Sebbene Mons. Moronta non abbia ricevuto alcuna richiesta ufficiale per una sua mediazione, ha già incontrato e ascoltato le preoccupazioni dei parenti degli ostaggi e ha parlato con diverse autorità, tra cui lo stesso direttore del centro di reclusione. Nel breve comunicato della diocesi inviato a Fides, Mons. Mario Moronta sottolinea che la Chiesa vive questa situazione con preoccupazione, insieme alle famiglie degli ostaggi. Il Vescovo chiama i detenuti a prendere coscienza dei loro atti e sollecita le autorità ad affrontare la situazione salvaguardando efficacemente la vita di tutte le persone coinvolte. Chiede infine ai fedeli di accompagnare con la preghiera la risoluzione tempestiva di questo conflitto. Mons. Moronta ha nominato un sacerdote per accompagnare e seguire personalmente l’evolversi della situazione.