Ergastolani: prendiamo la parola, raccontiamo la sofferenza, lottiamo per sperare Ristretti Orizzonti, 3 ottobre 2016 Un Convegno sull’ergastolo organizzato da ergastolani. Cari compagni, abbiamo un sogno: l’abolizione dell’ergastolo in Italia. E dato che è meglio accendere una candela che maledire l’oscurità, la redazione di "Ristretti Orizzonti" ha pensato di organizzare, per il 20 gennaio 2017, un convegno sull’ergastolo e sulle pene lunghe nel carcere di Padova. Il convegno, organizzato dai diretti interessati, gli ergastolani, ha come obiettivo di coinvolgere personalità del mondo della Giustizia, dell’Università, della Politica, dell’Informazione, della Chiesa nella promozione di un Osservatorio sulle pene lunghe e sull’ergastolo, che si dia anche obiettivi "intermedi" rispetto all’abolizione dell’ergastolo: intervenire sulle declassificazioni, monitorare le informative stereotipate delle DDA, affrontare temi come l’inesigibilità della collaborazione, parlare della vita nelle sezioni di Alta Sicurezza e al 41 bis, proporsi come finalità il graduale superamento dei circuiti, come proposto dal Tavolo 2 degli Stati Generali dell’esecuzione penale. Cari compagni, alcuni ergastolani accettano il loro destino senza tentare di migliorare la propria condizione. Subiscono la loro condanna, una pena che non avrà mai fine, perché hanno rinunciato a vivere accettando di sopravvivere. Molti compagni si sono rassegnati perché la pena dell’ergastolo, specialmente quello ostativo, ti fa sentire impotente, ti fa sentire solo contro il resto del mondo. Invece noi crediamo che bisogna reagire alla tirannia della pena perpetua, perché riteniamo più onesta una istituzione che ci mette a morte, invece di tenerci dentro tutta la vita parlando di pena umana. In una società civile, gli uomini nascono liberi e muoiono liberi. Così anche noi, dopo avere scontato la nostra condanna, vogliamo morire liberi. Mentre farci morire in carcere lentamente con le condanne all’ergastolo è una violenza quasi altrettanto crudele dei reati da noi commessi. Purtroppo, molti ergastolani sono convinti che sia inutile lottare perché in Italia l’ergastolo non potrà mai essere abolito. Non siamo d’accordo. Come in molti altri Paesi europei, anche nel nostro Paese la barbarie dell’ergastolo è destinata a lasciare posto alla civiltà dell’avere un fine pena nelle nostre sentenze di condanna. Ma noi crediamo che, perché ciò accada, occorre prendere la parola e parlare noi stessi della nostra condizione. Non possiamo stare ancora in silenzio. Dobbiamo scrivere e raccontare come la condanna dell’ergastolo ha devastato le nostre vite e quelle dei nostri cari. Noi siamo convinti che le battaglie si fanno soprattutto attraverso la conoscenza. Pertanto abbiamo bisogno di scambiare esperienze, di conoscere e di far conoscere. Per questo invitiamo tutti gli ergastolani (ormai circa millesettecento) a partecipare alla nostra battaglia di civiltà usando carta e penna, usando il racconto delle vostre storie, vissuti, riflessioni, sensazioni, emozioni perché le nostre armi sono le nostre sofferenze. E siamo convinti che raccontando possiamo vincere. La nostra rivista ha sempre raccontato le umanità schiacciate dal carcere; il nostro convegno approfondirà il racconto delle umanità schiacciate dal fine pena mai o dalle pene lunghissime. Ma per farlo abbiamo bisogno di essere uniti. Prendete coraggio e scriveteci. Carmelo Musumeci Redazione di Ristretti Orizzonti Per facilitare i vostri racconti, proponiamo una traccia di domande alle quali potete rispondere in forma aperta. Sono comunque benvenuti anche contributi che raccontano il vostro ergastolo attraverso altre forme. Il materiale raccolto verrà distribuito nel corso del Convegno, inoltre sarà tutto pubblicato sul sito e sulla rivista "Ristretti Orizzonti". Racconta qualcosa di te: Dove e quando sei nato? Cosa ricordi della tua infanzia e della libertà? A quale età sei entrato in carcere la prima volta? In che regime o circuito ti trovi attualmente? Possiamo rendere pubblica la tua testimonianza, citando anche il tuo nome e cognome? Racconta qualcosa sulla tua esperienza di carcere: Quanti anni di carcere hai fatto fino adesso? In quali regimi e circuiti, e in quali istituti penitenziari? Come percepisci il tempo che trascorri in carcere: è per te un tempo vuoto, un tempo perso o comunque un tempo di vita? Tra la pena di morte e l’ergastolo, quale pena è a tuo parere un po’ meno "disumana"? Hai visto nel tuo corpo e nei tuoi sensi dei peggioramenti particolari (non dovuti solo all’invecchiamento) in questi anni di detenzione? Fai qualche riflessione personale sull’ergastolo. Scegli un nome o una frase per definire la pena dell’ergastolo. Racconta qualcosa su come vivono i tuoi familiari il tuo ergastolo. Che cosa pensi di come attualmente l’Ordinamento penitenziario fa fronte al bisogno di affettività espresso dalle famiglie degli ergastolani? Qualche riflessione sulla nostra idea di prendere la parola e parlare di ergastolo: secondo te gli ergastolani possono avere più iniziativa e lottare al fine di migliorare la propria condizione di vita, oppure conviene non rischiare di perdere qualche privilegio garantito dall’istituzione? A conclusione di questo breve questionario puoi mandarci anche le tue osservazioni e i tuoi suggerimenti su come proseguire questa battaglia contro l’ergastolo. P.S. Le risposte alle domande vanno inviate a questi indirizzi: Carmelo Musumeci, Via Due Palazzi 35/A, 35136 Padova, oppure a Redazione di Ristretti Orizzonti, Via Citolo da Perugia, 35, 35138 Padova "Dobbiamo lottare ed essere forti per loro": parlano mogli, madri, compagne di detenuti Il Mattino di Padova, 3 ottobre 2016 Da carceri diverse ci arrivano spesso messaggi di donne, compagne, madri, figlie di detenuti, e sono tutti messaggi che parlano di sofferenza, angoscia, difficoltà ad affrontare una situazione, che è sempre e comunque faticosa e umiliante. Non si fa abbastanza per loro, eppure anche con le leggi attuali si potrebbe rendere più umana la loro condizione, ma manca nella società una cultura del rispetto per chi è in carcere, e per chi ha legami di affetto con le persone detenute. E manca spesso, nelle carceri, la convinzione profonda che le Istituzioni devono spendere più risorse ed energie per tutelare le famiglie. Sono la compagna di un ragazzo che si trova in carcere Sono la compagna di un ragazzo che si trova in carcere. Volevo riportare anche io la mia testimonianza rispetto a tutto quello che sto, e che stiamo vivendo: un Inferno. Così lo descrive il mio fidanzato, che dopo poco che è entrato mi ha chiesto di sposarlo. È vero, forse doveva avere un freno, forse stava esagerando. Era troppo agitato e non stava fermo un attimo. Ma veramente si meritava tutto questo "a prescindere", senza che nessuno prendesse in considerazione anche la possibilità che fosse innocente? Averlo conosciuto in un momento della sua vita difficoltoso probabilmente ci ha aiutato ad avere una relazione solida come abbiamo oggi, tanto da pensare di sposarci, ma credetemi, NON È SEMPLICE essere la compagna di un detenuto. Non è semplice essere consapevole che non puoi fare niente per lui, sentirti inutile, sentirti impotente su una cosa più grande di te. Sapere che il tuo compagno non mangia, non dorme, che sta male, fa stare male anche te. Ti senti come un vuoto dentro che nessuno può colmare, se non quell’ora che lo vedi durante il colloquio. Non mi scorderò mai la prima volta che sono entrata in quella stanza. Ho dovuto aspettare assai tempo prima di vederlo… perché si sa, per chi non ha nessun grado di parentela con il detenuto è difficile entrare, devi solo aspettare… aspettare che qualcuno si metta una mano sulla coscienza, aspettare che qualcuno ti faccia vedere la persona con cui convivi e con cui ti stai costruendo un futuro. Non mi abituerò mai ad essere perquisita, ai baci e agli abbracci dati sapendo che ci sono sconosciuti che ti guardano e ti osservano senza dire una parola. A parlare sapendo che tutti possono ascoltare quello che dici. Dopo aver aspettato tanto, quando l’ho visto la prima volta è stato un colpo al cuore. Pensare che qualche giorno prima eravamo insieme e ritrovarsi di punto in bianco così, a doverlo andare a trovare in un posto del genere, ti fa venire un magone dentro. C’erano solo i suoi occhi, il suo sorriso e i suoi occhi lucidi... Non pensavo a nient’altro se non ad andare da lui, mi era mancato così tanto che non riuscivo a pensare di dover ancora stare ad aspettare anche solo per qualche minuto per poterlo abbracciare di nuovo. Questa è una cosa che provo ogni volta che lo vedo, è una cosa che non mi passerà mai. Certo per come vivi una persona all’esterno un’ora a settimana è veramente poco, non riesci mai a dirgli tutto, non riesci mai a fargli capire fino all’ultimo che tu sei lì per lui, e che gli starai accanto sempre, perché come l’hai scelto al di fuori non hai motivo per non continuare A SCEGLIERLO OGNI GIORNO. L’amore supera queste barriere, supera quelle sbarre e quelle mura che ci dividono. No, non è facile essere la compagna di un detenuto, lo ammetto. Non puoi viverlo al centro per cento, quando vorresti, e il sapere che lui pensa le stesse cose tue ti porta ad avere tante consapevolezze, e perché no, anche a riuscire a dimostrare all’altra persona tante certezze che neanche immaginava. È facile stare insieme fuori, e quando ti ritrovi in queste situazioni capisci che le litigate, le discussioni che c’erano non avevano senso, erano stupide e senza significato. Io non sono nessuno per dare consigli agli altri, anche io ho paura e vivo con il terrore che possa succedergli qualcosa, ma a tutte le ragazze, mogli, compagne che potranno leggere questa "lettera", a tutte le persone che sono nella mia stessa situazione dico: se veramente c’è amore, non fatevi sopraffare dal vuoto che questa situazione vi mette dentro. Dobbiamo lottare ed essere forti per loro. L’unica cosa che possiamo fare purtroppo è fagli capire, fargli vedere che siamo con loro e non abbatterci mai. Asia Da poco mi hanno portato via il mio compagno per un reato commesso nel 2004 Salve, sono una ragazza romana di 25 anni e da poco mi hanno portato via il mio compagno per un reato commesso nel 2004... dove si è preso la bellezza di 7 anni di reclusione definitivi. Abbiamo un figlio meraviglioso di 4 anni, ed è tutto cosi duro... Dopo qualche mese l’ho lasciato, anche se stavo male male... avevo deciso di restarmene sola con mio figlio, per farlo crescere in modo più sano e migliore possibile, perché restando con lui piangevo notte e giorno e mio figlio mi vedeva e mi faceva domande continue, mi chiedeva del papà, e d’altra parte me l’hanno portato via da casa con mio figlio davanti... Lo vado a trovare tutti i mesi e gli porto il bambino, ma quando scende il buio il dolore penetra nell’anima e il cuore fa un rumore assordante... e vorrei tornarci insieme, ma ho cosi paura di sbagliare. Barbara Sono la convivente di un detenuto con sentenza definitiva Sono la convivente di un detenuto con sentenza definitiva. Mi viene negato da mesi il permesso per un colloquio con il mio compagno, sono in possesso di una autocertificazione rilasciata dal Comune dove vivo, mi è stato detto dal responsabile dell’ufficio colloqui che la direzione del carcere deve prima assumere informazioni inerenti la veridicità della autocertificazione. Sono stata presso i vigili e poi presso la polizia giudiziaria, i quali mi hanno detto di avere inviato l’esito delle informazioni richieste alla direzione del carcere, subito dopo avere ricevuto l’incarico per raccogliere le suddette informazioni. Al carcere dopo tre mesi mi rispondono di non avere ricevuto niente, mentre i vigili e la polizia mi confermano nuovamente di aver inviato tutto al carcere. Queste informazioni lasciano comunque il tempo che trovano, nel senso che a casa mia non é mai venuto nessuno ad informarsi, e le persone che abitano nello stesso stabile dove abito io si fanno soltanto i fatti loro. Cosa devo fare per ottenere questo benedetto colloquio, ma é mai possibile che in Italia per ottenere qualcosa di sacrosanto dobbiamo continuare a sbattere la testa contro i muri della burocrazia? Qualcuno mi può aiutare? Katia Sono la madre di un detenuto Sono la madre di un detenuto e devo dire che i detenuti sono prima di tutto persone, a volte meritano una pena a volte sono innocenti, a volte aspettano una sentenza per anni e sono già puniti prima di riceverla, comunque sono persone a cui sono negate molte cose, cose che non c’entrano niente con la libertà negata, con la perdita della dignità, l’umanità e il buon senso. I detenuti sono persone che vivono uno stato di sofferenza continua e il sovraffollamento è una doppia pena. Nei loro momenti di sconforto, nella solitudine, nella lontananza dalle loro famiglie, nel tempo che non gli appartiene e che non passa mai, nel grido di dolore che gli rimane dentro e che non riescono ad urlare ci si aggrappa all’unica ancora di salvezza che è la fede. L’accanimento della società poi, che vuole carceri nell’ultimo intento di segregare i veri o presunti colpevoli per garantire la propria incolumità, nega a chi ha sbagliato ogni considerazione ed ogni possibilità di riscatto, ed a me, che sono una madre, mi è negato ogni gesto di comprensione e di amore. Grazie giustizia Silvana Magistratura, duello Orlando-Davigo. Il ministro: sciopero incomprensibile di Marco Ventura Il Messaggero, 3 ottobre 2016 Lo sciopero dei magistrati "sarebbe un atto incomprensibile, più che devastante: si sciopera contro il primo governo che mette mano al tema del personale amministrativo". Quanto alla fiducia sulla riforma del processo penale "discuteremo nelle prossime ore qual è la strada migliore", se blindare il provvedimento o andare avanti "punto per punto, anche con il rischio di qualche voto segreto". All’indomani della minaccia dell’Anm di salire sulle barricate contro la riforma del processo penale e la situazione di grave carenza delle risorse della giustizia, il ministro della Giustizia Andrea Orlando è protagonista di un faccia a faccia con il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo. E nel confronto che avviene alla trasmissione "In 1/2h" di Lucia Annunziata, non sembra disposto a fare concessioni alle toghe. Certo, Orlando dice che le prossime ore saranno utilizzate anche per capire quali sono le obiezioni dell’Anm, ma ricorda che la riforma è già stata oggetto di discussione con il sindacato delle toghe e che è stato "il frutto del lavoro di una Commissione presieduta dal presidente della Cassazione e composta per due terzi da magistrati". Il nodo fiducia - "Il ministro sa benissimo cosa riteniamo inaccettabile" gli replica Davigo, che intanto, rispondendo a una domanda di Lucia Annunziata, respinge l’idea che i magistrati stiano per fare uno sciopero contro Renzi. In cima a quello che non va nella riforma, dice il leader dell’Anm, c’è la norma che stabilisce che se entro tre mesi il pm non esercita l’azione penale, il procuratore generale debba avocare l’inchiesta. Una sorte che riguarderà "centinaia di migliaia" di processi destinati a finire nel nulla perché le procure generali non hanno i magistrati sufficienti per fare i processi. Per questo non si può che essere contrari alla fiducia perché così come è fatta questa riforma "non va bene", aggiunge il presidente del sindacato delle toghe, criticando anche l’intervento sulla prescrizione. Le ferie - Anche sulla situazione delle risorse la distanza resta tutta. Per il ministro i drastici giudizi dei magistrati sono tuttavia condizionati dalle loro frequenti competizioni elettorali: "perché Davigo non può dire mai su cosa è d’accordo, come faceva il suo predecessore? perché sulle liste dei magistrati verrebbe coperto di insulti. E questo accade perché i magistrati votano troppo spesso". Ma il presidente dell’Anm non ci sta: "I magistrati sono profondamente irritati da alcuni provvedimenti che hanno considerato offensivi, come il taglio delle loro ferie". La dura vita delle riforme, 20 anni di fallimenti tra lobby e opposizioni di mattia feltri La Stampa, 3 ottobre 2016 Dalla giustizia alla scuola: il Paese che non cambia. Introduzione all’attitudine italiana al cambiamento: secondo Renato Brunetta, la riforma della pubblica amministrazione di Marianna Madia è "un grande imbroglio"; secondo Marianna Madia, la riforma della pubblica amministrazione di Renato Brunetta era pensata "contro i pubblici dipendenti"; per la sintesi della Cgil, la riforma di Madia è "un aggiustamento di cosucce", quella di Brunetta il prodotto di un "megalomane paranoico". Lo schema è perfetto: l’opposizione di destra contro la maggioranza di sinistra, l’opposizione di sinistra contro la maggioranza di destra, le corporazioni in declinazione sindacale contro tutti. In calce il lamento globale: in Italia non cambia mai niente. Infatti le riforme sono tutte necessarie e tardive "purché", "a patto che" e "a condizione che", dove patto e condizione è che riguardino gli altri. La riforma/abolizione delle province non piaceva alle province e ai sindacati dei lavoratori delle province perché racchiusa in "interventi legislativi scoordinati", perché "un’anomalia in Europa", perché "confusa, pasticciata, sbagliata", perché "accentrerà la spesa pubblica", perché "produrrà solo caos", perché "poco coraggiosa" e soprattutto perché le province erano indispensabili per "rilanciare il valore di prossimità territoriale", qualunque cosa voglia dire. La liberalizzazione dei taxi ha inquietato i tassisti ("riforma omicida"), quella dei commercialisti ha inquietato i commercialisti medesimi ("progetto scellerato"), quella delle farmacie ha inquietato i farmacisti di città ("a rischio le farmacie nelle città") e i farmacisti di montagna ("a rischio le farmacie montane"). E non è mai una questione egoistica, anzi, altamente sociale. La riforma dei musei va a discapito "dei visitatori", quella dei dentisti compromette la "riabilitazione masticatoria degli anziani", quella dei benzinai favorisce "la potente lobby dei petrolieri". Il nostro capitolo preferito è sulle mille riforme della giustizia. Nel 1997 l’attuale segretario del sindacato dei magistrati (Anm), Piercamillo Davigo, spiegava che "non risolve i problemi, anzi li aggrava"; nel 2004 spiegava che "non aumenta la nostra professionalità, semmai la diminuisce". Per Antonio Di Pietro, non erano riforme ma "un colpo di mano", "una vendetta", "un inciucio", "una deformazione dello stato di diritto", "una truffa mediatica", "un provvedimento criminogeno". Per il sindacato, "inefficace", "un attentato", "punirà i giudici", "pericolo fascista", "gravissima", "regolamento di conti", "incostituzionale", "ingestibile", e per fare sintesi se ne deve pensare "tutto il male possibile" e "va rivista tutta". In genere gli avvocati si limitano a scioperare, ma soltanto se la riforma riguarda gli avvocati. E non è male nemmeno la storia delle riforme scolastiche. Quella di sinistra di Luigi Berlinguer non piaceva a Gianfranco Fini: "Va restituita dignità ai docenti", disse naturalmente a un incontro coi docenti. Quella di destra di Letizia Moratti aveva un obiettivo: "Si vogliono regionalizzare gli insegnanti". Quella di Stefania Giannini l’obiettivo opposto: "Si vogliono deportare gli insegnanti". Ogni santo autunno delle nostre vite è attraversato da cortei di studenti che protestano contro qualsiasi riforma perché qualsiasi riforma fa della scuola un’azienda, e "la cultura non si commercializza". Seguono prese di posizione di Cgil, Cisl e Uil del comparto di pertinenza. "Tutto sbagliato". "È tutto da rifare". "Riforma da abolire". "Grosso pasticcio". "Si scommette sull’ignoranza". Perfino un "si smantella lo stato nazionale" (e una riforma non piaceva al leghista Francesco Speroni "perché non è federalista"). Ci siamo limitati a qualche rapido virgolettato dei milioni raccolti nel corso della Seconda repubblica. Nemmeno osiamo mettere gli occhi sulle riforme del lavoro, delle pensioni, della sanità, del welfare. Non abbiamo dettagliato sulle sottocategorie cattoliche delle varie corporazioni - tipo i notai cattolici - che si sono opposte allo "stravolgimento della famiglia" in una delle tante proposte di riforma con risvolti etici. Forse è più istruttivo dare qualche spazio allo scandalo sollevato negli interessati dalla riforma del terzo settore ("è senza anima"), delle guardie mediche ("ha superato ogni limite"), dell’editoria ("incompleta"), della Rai ("dalla padella alla brace"), della tv ("pasticciata"), della polizia ("precipitosa e insensata"), dell’università ("effetti devastanti"), dei porti ("va nella direzione sbagliata"), dei produttori di vino ("inaccettabile"), dei produttori di zucchero ("occorre cambiare tutto"), degli operatori del settore del tabacco ("effetti dirompenti") e, siccome tocca concludere, lo scandalo sollevato dalla riforma del Coni nella Federazione autonoma pugili, che nel 1999 chiedeva "più rappresentanza" per i suoi iscritti. I pugili l’avranno spuntata, supponiamo. Ecco l’Italia dei reati: Rimini e Milano al top di Rossella Cadeo Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2016 Dai furti alle rapine 7.400 denunce ogni giorno Fenomeno in calo ma aumentano le truffe e le frodi online. In calo i reati denunciati nel 2015: -4,5% a quota 2,69 milioni, per oltre la metà costituiti da furti (-7%). Tutte le tipologie, secondo i dati del ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica sicurezza, risultano in arretramento, salvo le truffe e le frodi informatiche, le estorsioni e il riciclaggio. Trend, volumi e incidenza si articolano in modo differenziato sul territorio e tra le province quelle con la maggiore incidenza sono Rimini, Milano e Bologna: oltre 7mila ogni 100mila abitanti contro una media di 4.430. Generale arretramento delle denunce dei reati nel 2015: a crescere sono poche tipologie, come le truffe e le frodi informatiche, le estorsioni o il riciclaggio/impiego di proventi illeciti, delitti in qualche modo "virtuali" e meno "concreti" di altri - quali scippi, borseggi, effrazioni - che maggiormente influenzano la percezione della sicurezza. È abbastanza soddisfacente il quadro di massima che scaturisce dalle statistiche provinciali e regionali sull’attività delittuosa nel 2015, fornite al Sole 24 Ore dal ministero dell’Interno, dipartimento della Pubblica Sicurezza. Ma se nel complesso la situazione appare migliorata, sul territorio incidenza, volumi e trend dei diversi generi delittuosi si distribuiscono in maniera differenziata, facendo emergere una "specializzazione" geografica e socio-economica delle attività criminose lungo la penisola, o comunque evidenziando livelli diversi di vulnerabilità. Ma ecco che cosa ci raccontano i "numeri". L’andamento nel 2015 - Nel 2015, ultima annualità consolidata disponibile, il totale dei delitti denunciati all’autorità giudiziaria è diminuito del 4,5% (2,7 milioni contro i 2,8 dell’anno precedente), in misura superiore che nel 2014 (-2,7%) e dopo i peggioramenti del precedente triennio (+2,6% nel 2013, +2% nel 2012 e + 5,4% nel 2011). Inoltre, l’arretramento delle denunce interessa quasi tutte le tipologie di reati. Nel dettaglio, i furti totali sono calati del 7% (meno di 1,5 milioni, pur continuando a pesare per oltre la metà sul totale delle denunce). All’interno della "macro-categoria" furti, la sottocategoria "furti in casa" è la più numerosa (235mila casi), ma il trend appare in calo dell’8,3% andando così a indebolire uno degli argomenti più gettonati da alcune forze politiche a sostegno della riforma della "legittima difesa" (si veda il Sole 24 Ore del 21 aprile scorso). Terza "sottocategoria" più frequente è quella dei borseggi che scendono a 173mila (-3,6%); seguono i furti d’auto, sotto i 115mila casi (-4,6%), quelli nei negozi (- 4,2% a quota 102mila) e gli scippi (7%, neppure 18mila casi). E ancora: diminuite del 10,6% le rapine (35mila), diminuiti gli omicidi volontari consumati ("solo" 469 nonostante la piaga del femminicidio), i tentati omicidi, i reati di usura e gli altri delitti in generale. Ed eccoci alle categorie in controtendenza: per le truffe e le frodi informatiche nel 2015 ci sono state 145mila denunce (+8,8%). Anche le estorsioni, così come il riciclaggio di denaro e proventi illeciti, segnano un incremento (rispettivamente +20% e +13%), ma in termini di volumi restano un fenomeno limitato (circa 10mila e 1.800 casi), anche per le ovvie difficoltà della vittima a compiere il passo della denuncia. La classifica generale - Un’analisi più dettagliata del livello della sicurezza (o comunque della fiducia nelle istituzioni o del loro funzionamento, visto che si tratta di statistiche sulle denunce) viene dalle classifiche provinciali. A partire da quella (si veda la tabella in pagina) sulla densità dei reati totali rispetto alla popolazione. Qui a fronte di una "media Italia" pari a 4.430 reati ogni 100mila abitanti si va da oltre 7mila per Rimini, Milano e Bologna (seguite da Torino e Roma) a meno di 2mila per Oristano, o intorno a 2.500 per Pordenone, Rieti, Enna, Benevento, Belluno o Matera. In testa a questa classifica negativa troviamo prevalentemente province di maggiori dimensioni e del Nord benestante, attrattive per le attività delittuose; l’eccezione è Rimini: ha appena 335mila abitanti, ma flussi turistici e attività commerciali la trasformano in un grande polo di attrazione, anche per le azioni illecite (che comunque per volume sono un decimo rispetto a quelle di Roma o Milano). All’altra estremità della classifica, in posizione di tranquillità ci sono province di tutta Italia demograficamente caratterizzate dalla piccola dimensione. Interessanti le variazioni 2015/14: appena una ventina delle 106 province considerate evidenziano un incremento. Quanto ai volumi complessivi Milano lascia volentieri il primo posto a Roma, mentre terza e quarta sono Torino e Napoli (il capoluogo campano tra l’altro è in peggioramento). Il quartetto pesa nel complesso per il 30% sul totale dei 2,6 milioni denunciati nel 2015. Le tipologie - Passando alle principali tipologie (si veda nella pagina a fianco, con otto top ten per pressione sulla popolazione), quella dei furti totali non si discosta molto dalla classifica complessiva: sempre a Rimini, Milano, Bologna e Roma la concentrazione più forte rispetto ai residenti. In ogni caso il fenomeno appare in ritirata in quasi tutte le province (aumenti a due cifre però ad Avellino e Caserta, oltre che a Massa Carrara, tanto che la Campania è l’unica regione a evidenziare un peggioramento, +3,8%, totalizzando 112mila furti, su un totale di un milione e mezzo). Nella "top ten" dei furti in abitazione sono invece a Ravenna, Savona e Lucca le case più "visitate" (oltre 700 colpi per 100mila abitanti, il doppio della media). In questa tipologia tra l’altro, si nota un peggioramento in circa un terzo delle province. Nei borseggi ancora maglia nera per Rimini, seguita da Bologna e Milano. Anche qui il trend migliora in generale, ma peggiora in oltre metà del territorio: tra le province in cui il fenomeno è più evidente per concentrazione e numerosità, Napoli (+11%), Pisa (+15%), Modena (+13%) e Parma (+26%). Anche nei furti negli esercizi commerciali (con il solito terzetto Bologna-Milano-Rimini in testa) un buon terzo delle province ha visto un incremento. Colpiscono in particolare quelli di Trento (+24%) e di Bolzano (+5%), anche se Milano, Roma e Torino restano con il maggior numero di negozi colpiti. I proprietari d’auto invece rischiano maggiormente in Puglia, in particolare a Barletta-AndriaTrani e Bari. Nelle rapine e negli scippi emerge Napoli: qui la pressione per abitanti è quasi il quadruplo della media (195 contro 58) per le rapine e quasi il triplo per il furto con strappo (83 contro 29). Per entrambe le tipologie di reato le variazioni in aumento interessano la metà delle province. Quanto alle truffe e frodi informatiche, si rileva un peggioramento in tutte le province (salvo in una quindicina): +32% e +27% per Verbano Cusio Ossola e Trieste, ma anche +52% per Campobasso (tutte nella top ten per pressione sulla popolazione). Roma, Napoli e Milano (con oltre 10mila denunce ciascuna) restano comunque le aree dove più spesso si denuncia un imbroglio. La sciatteria del Parlamento sul caso di Ilaria Capua di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 3 ottobre 2016 Che pena, la sciatteria con cui il Parlamento ha lasciato passare, come una noiosa incombenza da sbrigare in fretta per re-immergersi nel chiacchiericcio politico, le dimissioni della scienziata Ilaria Capua, accusata di reati mostruosi e prosciolta senza che possa restare la benché minima ombra sui suoi comportamenti. Che tristezza, questi parlamentari mediocri e inconcludenti che non riescono nemmeno a capire la tragedia di un Paese che costringe una scienziata infamata a fuggire per fare ricerca altrove, in cui qualche magistrato per un quarto d’ora di notorietà imbastisce procedimenti giudiziari privi di ogni riscontro fattuale ma destinati al massimo clamore mediatico prima dell’inevitabile, desolante flop, e nel quale un giornale come l’Espresso partecipa al linciaggio di una persona con la copertina che addita al pubblico ludibrio i "trafficanti di virus". Non era vero niente. La macchina della fanghiglia mediatico-giudiziaria ha colpito Ilaria Capua con una violenza feroce. E ora i parlamentari non dicono una parola, non un soffio, non un minimo soprassalto d’orgoglio, nell’accettare silenti il desiderio di una persona perbene di andarsene da questo Paese. Non prestano nemmeno un po’ di attenzione all’enormità di questo fatto. Al pari della quasi totalità del nostro sistema giornalistico fanno finta di niente, si girano dall’altra parte, non si chiedono come possa accadere un’ingiustizia così aspra in quella che veniva retoricamente definita la Patria del diritto e che invece dello Stato di diritto, è del rispetto delle persone, è diventata la tomba. Non si interrogano su niente, sperano di concludere la pratica delle dimissioni della Capua con il minimo sforzo. E che valore avrebbe avuto invece un rappresentante delle istituzioni, del governo, del Parlamento, di chi dovrebbe rappresentare l’unità nazionale, che si fosse alzato in piedi per difendere non solo la persona di Ilaria Capua, indicata senza prove d’essere una "trafficante di virus", ma le ragioni del diritto, della decenza, del rispetto per le persone che non possono essere massacrate senza difesa, aspettando un sacco di tempo prima che venga individuata la vera base di accuse tanto gravi: il nulla assoluto. E invece la scienziata Capua se ne va, nessuno paga in una magistratura superficiale a affamata di riflettori, di una stampa che va in branco contro la preda designata. Un’occasione perduta. Un cervello che se ne va. Complimenti. Permessi per necessità facilitati. Il cattivo comportamento in cella non lede il diritto di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 3 ottobre 2016 La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso del procuratore generale di Lecce. Si dilata la possibilità per i detenuti di usufruire di permessi per motivi di necessità di cui all’articolo 30, secondo comma, dell’ordinamento penitenziario. La prima sezione penale della Corte di cassazione con sentenza n. 36329 depositata il primo settembre scorso, nel rigettare il ricorso del procuratore generale di Lecce avverso l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Taranto, contribuisce a dare forza a una giurisprudenza più attenta ai bisogni affettivi, relazionali e di salute dei detenuti. L’articolo 30, secondo comma, della legge penitenziaria prevede la possibilità che un detenuto possa uscire dal carcere "eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità". Si tratta di una norma, ribadisce la Cassazione, che nulla ha a che fare con il trattamento interno al carcere, con la condotta regolare del detenuto o con la sua adesione ai programmi di recupero sociale. È una norma che si connette invece alla prima parte dell’articolo 27 della Costituzione secondo cui le pene non devono contrastare con il senso di umanità. Negare un permesso di necessità a un detenuto sulla base di un suo cattivo comportamento è dunque illegittimo. La Corte inoltre propone un’interpretazione estensiva del carattere di eccezionalità dell’evento da non intendersi come situazione unica e irripetibile. Nel caso in questione il detenuto chiedeva di andare in visita alla moglie affetta da "psicosi cronica gravissima con deterioramento cognitivo e turbe del comportamento". Il fatto che una malattia duri nel tempo e che si tratti di una malattia psichica, non fa perdere quel carattere di eccezionalità e gravità che giustifica la concessione del permesso per motivi di necessità. Una decisione che sovverte una giurisprudenza di una parte della magistratura di sorveglianza molto restrittiva. In un caso noto alle cronache nel 2014 il giudice di sorveglianza di Roma aveva negato una analogo permesso a Salvatore Cuffaro, allora detenuto a Rebibbia, il quale avrebbe voluto incontrare la mamma affetta da demenza senile. Con ruvidezza e cinismo fu detto di no in quanto la mamma, visti i suoi problemi psichici, non si sarebbe resa conto della presenza del figlio. La Cassazione restituisce umanità e giustizia alla norma. Quasi flagranza solo se c’è nesso tra soggetto e reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 21 settembre 2016 n. 39131. In tema di arresto da parte della polizia giudiziaria, lo stato di quasi flagranza non sussiste nell’ipotesi in cui l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato iniziato per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte della vittima o di terzi, dovendosi in tal caso escludere che gli organi di polizia giudiziaria abbiano avuto diretta percezione del reato. Lo hanno detto i giudici delle sezioni Unite penali con la sentenza n. 39131 del 2016. La nozione di inseguimento - La nozione di inseguimento, caratterizzata dal requisito cronologico dell’immediatezza (subito dopo il reato), postula, quindi, la necessità della diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa da parte degli operanti della polizia giudiziaria procedenti all’arresto: l’attribuzione dell’eccezionale potere di privare della libertà una persona si spiega proprio in ragione di tale situazione idonea a suffragare la sicura previsione dell’accertamento giudiziario della colpevolezza (da queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso del pubblico ministero avverso il provvedimento del giudice che aveva escluso la quasi flagranza, in una vicenda in cui la polizia giudiziaria aveva proceduto all’arresto per il reato di lesioni personali aggravate dall’uso di un coltello dopo alcune ore dalla commissione del reato ed esclusivamente sulla base delle dichiarazioni rese dalla vittima e dalle persone informate dei fatti nonché degli esiti obiettivi delle lesioni rilevati sul corpo della persona offesa: in una situazione in cui, quindi, secondo le sezioni Unite, non poteva ricorrere l’ipotesi dell’inseguimento inteso nei termini di cui sopra). La quasi flagranza legittimante l’arresto - Alla luce delle puntualizzazioni fornite dalle sezioni Unite, risulta ormai definitivamente stabilito che la quasi flagranza legittimante l’arresto da parte della polizia giudiziaria è configurabile tutte le volte in cui sia possibile stabilire un particolare nesso tra il soggetto e il reato che, pur superando l’immediata individuazione dell’arrestato sul luogo del reato, permetta comunque la riconduzione della persona all’illecito sulla base della continuità del controllo, anche indiretto, eseguito da coloro i quali si pongano al suo inseguimento. Tale condizione si può configurare nei casi in cui l’arresto avvenga in esito a inseguimento, ancorché protratto ma effettuato senza perdere il contatto percettivo anche indiretto con il fuggitivo, o nel caso di rinvenimento sulla persona dell’arrestato di cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima; ma non si può configurare nelle ipotesi nelle quali l’arresto avvenga in seguito a un’attività di investigazione, sia pure di breve durata, attraverso la quale la polizia giudiziaria raccolga elementi (dalla vittima, da terzi o anche autonomamente) valutati i quali ritenga di individuare il soggetto da arrestare, il quale beninteso non sia trovato con cose che lo colleghino univocamente al reato e non presenti sulla persona segni inequivoci riconducibili alla commissione del reato da parte del medesimo. Nella medesima prospettiva, deve ritenersi ricorrere il presupposto della flagranza allorquando l’autore del reato sia stato trattenuto immediatamente dopo il fatto da un privato sino all’arrivo delle forze dell’ordine che poi procedono materialmente all’arresto, giacché in tale ipotesi, in linea con le puntualizzazioni fornite dalle sezioni Unite, non vi è soluzione di continuità tra il fatto, il trattenimento del soggetto da parte di terzi, l’immediato arrivo degli operanti e l’arresto da questi autonomamente e legittimamente eseguito (sezione IV, 24 febbraio 2016, Proc. Rep. Trib. Rimini in proc. Mhedby). Violenza sessuale: esteso il concetto di abuso di autorità di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 28 luglio 2016 n. 33049. In tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità rilevante ai sensi dell’articolo 609-bis, comma 1, del Cpnon è ravvisabile solo allorquando sussista in capo all’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, ma va inteso in senso ampio, essendo ravvisabile anche in presenza di ogni potere di supremazia di natura privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 33049 del 2016. L’altro orientamento - La sentenza prende consapevolmente le distanze da un diverso orientamento, anche di recente ribadito, secondo cui, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità rilevante ai sensi dell’articolo 609-bis, comma 1, del Cp, presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, che determina, attraverso la strumentalizzazione del potere esercitato, una costrizione della vittima a subire il compimento degli atti sessuali (sezione III, 24 marzo 2015, M.). Tale orientamento, va ricordato, era stato valorizzato anche dalle sezioni Unite (con la sentenza 31 maggio 2000, Bove), le quali avevano avuto occasione di affermare che l’abuso di autorità presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico. La sentenza in esame - La sentenza in esame, invece, segue una interpretazione più ampia, richiamando, a sostegno, il contenuto dell’articolo 61, numero 11, del Cp, che configura, come elemento di aggravamento comune, la condotta di chi commette un reato con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazione di opera, di coabitazione o di ospitalità, ossia strumentalizzando situazioni coinvolgenti rapporti di diritto privato. Sempre a sostegno della tesi ampliativa si evidenzia che ove il legislatore ha inteso riferirsi a una situazione autoritativa di tipo pubblicistico l’ha indicato espressamente, come nel caso dell’articolo 608 del Cp. In linea con la tesi qui sostenuta dalla Cassazione, sono state ritenute rilevanti: 1) la posizione di datore di lavoro nei confronti di una dipendente con mansioni di segretaria (sezione III, 30 aprile 2014, G.); 2) la qualità di datore di lavoro strumentalizzata per costringere una lavoratrice a subire atti sessuali (sezione III, 27 marzo 2014, A.); 3) la condizione di convivenza dell’imputato con la madre del minore vittima di violenza sessuale (sezione III, 3 dicembre 2008, M. A.); 4) la qualità di istruttore di arti marziali esercitata dall’imputato nei confronti dei suoi allievi minorenni (sezione III, 10 aprile 2013, G.); 5) il ruolo di marito che esercitava un potere di soggezione sulla cognata minore destinataria degli atti sessuali (Sezione III, 19 aprile 2012, I.) Transfer pricing, penale circoscritto alle operazioni del tutto inesistenti di Mario Cavallaro Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2016 L’orientamento giurisprudenziale diffuso è che la nuova disciplina penale derivante dal Dlgs 158/2015 abbia molto diminuito, fin quasi a renderla residuale, l’ipotesi di una rilevanza penale delle operazioni di transfer pricing. Infatti, la norma incriminatrice che fa riferimento alla dichiarazione cosiddetta infedele non contiene più la dizione "elementi fittizi", ma esclusivamente quella di elementi inesistenti, con ciò escludendosi in via di fatto la totalità o quasi delle operazioni di transfer pricing. Va tenuto anche conto delle esimenti di cui al nuovo comma 1-bis dell’articolo 4 (dichiarazione infedele) del Dlgs 74/2000, che in realtà riproducono molte delle cause di esclusione della punibilità precedenti e della franchigia del 10% di cui al comma 1-ter. La Suprema Corte - Sul punto la Cassazione (penale, sezione III, n. 40272/2015) ha chiarito che "…non è più configurabile il reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali, in quanto l’articolo 10 bis, comma 13, della legge 212/00, (...), esclude che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti". La sentenza ha adottato un criterio ampio di retroattività della depenalizzazione che attraverso la disposizione transitoria ha realizzato, in tema di reati tributari, una sostanziale abolitio criminis con effetto retroattivo. In verità, il transfer pricing continua ad essere sotto l’occhio non benevolo della giurisprudenza tributaria che di recente (Cassazione civile, sezione V, 30 giugno 2016, n. 13387) ha ribadito che "in caso di operazioni infragruppo intercorse con società estere controllate o controllanti, l’onere probatorio gravante sull’amministrazione finanziaria si esaurisce nel fornire la prova dell’esistenza della operazione infragruppo e della pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore normale di mercato, logicamente comprensivo della più grave ipotesi dell’assenza di corrispettivo. Il contribuente che intende contrastare la pretesa impositiva deve invece fornire la prova che il corrispettivo convenuto, ovvero la mancanza di un corrispettivo per l’operazione infragruppo, corrisponde ai valori economici che il mercato attribuisce a tali operazioni". Sostanzialmente in linea la Cassazione civile, sezione V, 15 aprile 2016, n. 7493. Ne deriva che sul contribuente ricade l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali (articolo 9 del Tuir). In parziale dissenso sembra invece la Cassazione civile (sezione V, sentenza del 6 aprile 2016, n. 6656). In sostanza, si può affermare che la giurisprudenza tributaria riafferma il valore elusivo delle operazioni di transfer pricing e assegna al loro acclaramento un regime probatorio conseguente, che pone in innegabile vantaggio l’amministrazione finanziaria, mentre sul fronte penale si può affermare che è tuttora perseguibile, se realizzato mediante operazioni radicalmente inesistenti, cioè mediante la creazione di un’apparenza totalmente diversa dalla realtà fattuale. Il legittimo impedimento del difensore. Rassegna di massime Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2016 Difensore - Legittimo impedimento - Impegno professionale in altro procedimento - Rinvio udienza - Istanza - Comunicazione tardiva - Rigetto - Diritto di difesa dell’imputato - Lesione - Esclusione. Presupposto indefettibile del rinvio dell’udienza per la "assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento", è l’onere a carico del difensore della prova del suo impedimento e delle caratteristiche che lo connotano. A questo si aggiunge l’obbligo della tempestività nella prospettazione dell’impedimento stesso (che ha la sua ratio nell’esigenza di consentire al giudice di individuare, in caso di accoglimento della richiesta, la data della nuova udienza in relazione alle esigenze organizzative del proprio ufficio e a quelle delle parti evitando disagi per le stesse o disfunzioni giudiziarie). Non è pertanto ravvisabile lesione del diritto di difesa dell’imputato, nel caso di rigetto dell’istanza di rinvio presentata tardivamente dal difensore. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 30 agosto 2016 n. 35795. Difensore - Legittimo impedimento - Rinvio del dibattimento - Impegno professionale in altro procedimento - Condizioni - Nomina di un sostituto - Necessità. In tema di impedimento del difensore, deve essere rigettata la richiesta di rinvio del dibattimento se l’impedimento dedotto non riveste i caratteri di assolutezza richiesti dalla legge. Nel caso specifico dell’impegno professionale del difensore in un diverso procedimento, la dimostrazione dell’assoluta impossibilità a comparire deve essere data nel rispetto delle seguenti condizioni: l’impedimento deve essere prospettato non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni e le ragioni che rendono essenziale l’attività difensiva nel diverso processo concomitante devono essere indicate in maniera specifica; inoltre deve essere rappresentata l’assenza nel procedimento di altro co-difensore che possa validamente difendere l’imputato e l’impossibilità di nominare un sostituto ai sensi dell’articolo 102 c.p.p., sia nel processo a cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 25 luglio 2016 n. 31940. Difensore - Legittimo impedimento - Rinvio udienza - Motivi di salute - Attestazione medica - Valutazione - Motivazioni generiche - Esclusione. Un certificato medico impreciso non giustifica il differimento dell’udienza per legittimo impedimento del difensore, ben potendo il giudice valutare, sulla base di nozioni di comune esperienza, indipendentemente da una verifica medico - fiscale, la sussistenza di un grave e non evitabile rischio di salute. Le ragioni che impediscono al difensore la partecipazione all’udienza debbono infatti essere indicate in maniera adeguatamente precisa e non generica, in modo che il giudice possa valutare la serietà, la gravità e la fondatezza dell’impedimento. Il difensore ha, comunque, l’obbligo di nominare un sostituto ex articolo 102 c.p.p. con eccezione solo dei casi in cui l’impedimento sia non prevedibile. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 5 febbraio 2016 n. 4888. Difensore - Legittimo impedimento - Rinvio udienza - Astensione collettiva dalle udienze - Configurabilità - Esclusione - Sospensione della prescrizione - Durata. Non è riconducibile alla ipotesi del legittimo impedimento l’astensione collettiva dalle udienze. Mentre il legittimo impedimento è funzionale al diritto di difesa, l’astensione non costituisce impedimento in senso tecnico, ma è esercizio del diritto di associazione tutelato dall’articolo 18 della Costituzioneed è dunque espressione di un diritto di libertà, con la conseguenza che la richiesta di rinvio dell’udienza per partecipare ad un’astensione collettiva è tutelata dall’ordinamento col diritto a ottenere un differimento, non trovando pertanto neppure applicazione il limite massimo di sessanta giorni di sospensione al corso della prescrizione, previsto all’articolo 159, comma 1, n. 3), cod. pen., che resta invece sospeso per tutto il periodo del differimento. • Corte cassazione, sezioni unite, sentenza 2 febbraio 2015 n. 4909. Campania: per una Salute Mentale di comunità da Psichiatria Democratica Ristretti Orizzonti, 3 ottobre 2016 In un comunicato stampa del 2007, Psichiatria Democratica (PD), si diceva "fortemente preoccupata per il progressivo depauperamento delle risorse a disposizione delle ASL della Campania, depauperamento che occorrerà fermare subito se non si vorranno vedere vanificate le straordinarie esperienze territoriali maturate nel corso degli ultimi anni, e chiedeva, tra l’altro, a gran voce, temendo" un ritorno al regime di custodia", l’adeguamento degli organici, lo sviluppo di interventi per una diversa accoglienza abitativa, una nuova progettazione dei Centri Diurni di riabilitazione e un Patto per il lavoro, come l’adeguamento degli SPDC e l’affiancamento di tutor per pazienti in gravi difficoltà. Orbene quelle che allora erano soltanto preoccupazioni, inserite in un contesto istituzionale adeguato, per il numero di Unità Operative territoriali allora esistenti in numero di 10, oggi si presenta come un vero incubo, in ragione delle notizie che ci giungono relativamente al dimezzamento di questi avamposti territoriali di Salute Mentale, previsti ora dalla ASL Napoli 1 centro. Per questo motivo, ed in continuità con quanto Psichiatria Democratica da oltre quarant’anni porta avanti, ben oltre un denunzialismo sterile, ma avanzando proposte concrete, si ribadisce che il succitato dimezzamento di queste realtà, renderà vana ogni innovazione e sostegno concreto a utenti e famiglie e riporterà la Salute Mentale lontana dai suoi compiti previsti per legge e sostenute da pratiche di inclusione e di liberazione, ormai diffuse in tante realtà del Paese. Il rilancio del Servizio pubblico, secondo PD significa recuperare risorse fresche (oltre che spendere, finalmente, il 5% del bilancio, così come previsto dalle normative vigenti e mai finora utilizzato a quanto ci risulta) e, pertanto, la nostra proposta di recuperare fondi con la messa a reddito delle aree dell’ex manicomio L. Bianchi ( i cui fondi dovranno essere utilizzati per la Salute Mentale napoletana) lanciata dai vertici nazionali dell’Associazione fondata da Franco Basaglia, a maggio al Seminario "Liberarsi" svoltosi presso l’Accademia delle Belle arti di Napoli, richiede una accelerazione per la realizzazione, beninteso insieme ad una grande iniziativa, cui Psichiatria Democratica chiama tutti coloro che credono nella centralità della Sanità pubblica. In questa direzione intendiamo muoverci da subito, convocando una assemblea pubblica cui chiameremo a partecipare le istituzioni locali e regionali, i movimenti, le associazioni del territorio e le facoltà universitarie come i sindacati, gli imprenditori, il mondo dell’informazione, le scuole e quanti sono interessati anche a costruire insieme un progetto urbanistico (sul quale come Psichiatria Democratica abbiamo già avanzato proposte operative) che liberi i quartieri di S. Carlo Arena, Secondigliano, S. Pietro a Patierno e Miano, da quella cintura di spine che li soffoca, costituendo, di contro, la straordinaria occasione per fare cambiare volto all’intera città. Concretezza e rilancio delle politiche socio-sanitarie, sempre secondo Psichiatria Democratica, costituiscono la chiave di volta per garantire, la difesa della salute come prioritaria contro tutte le politiche di austerità che, come sempre, penalizzeranno i meno garantiti, gli anziani, le persone in difficoltà di vivere, le donne e i bambini. Chieti: morto detenuto di 47 anni, presunto boss della Sacra Corona Unita Il Centro, 3 ottobre 2016 Salvatore Caramuscio, detenuto a L’Aquila, lunedì era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale di Chieti per essere sottoposto a intervento chirurgico. Domani i funerali a Surbo (Lecce), il suo paese. Un uomo di 47 anni, Salvatore Caramuscio, di Surbo (Lecce), indicato dagli investigatori come uno dei boss della organizzazione di tipo mafioso Sacra Corona Unita, è morto nell’ospedale di Chieti dove era stato ricoverato lunedì scorso e sottoposto ad intervento chirurgico per problemi di salute. Caramuscio stava scontando una condanna all’ergastolo nel carcere dell’Aquila per l’omicidio di Antonio Fiorentino, avvenuto a Lecce nel marzo del 2003 nel bar Papaja, di cui Fiorentino era titolare. Il suo nome venne inserito tra i 100 latitanti più pericolosi d’Italia. Il paese di Surbo, dove vivono i famigliari del boss defunto, è stato tappezzato di manifesti funebri. La salma arriverà domani mattina alle 7 da Chieti. I funerali si svolgeranno nella chiesa di Santa Lucia. Volterra (Pi): "Ciao Nino, Amleto indocile", morto attore della Compagnia della Fortezza Il Tirreno, 3 ottobre 2016 È morto Antonino Mammino (Nino, detto "Rospo" dagli amici). Era nato nel 1960 a Santa Maria di Licodia, ma viveva a Volterra da 25 anni, da quando era stato trasferito nel carcere per scontare una condanna per reati che aveva commesso a Milano (dove ora vivono i suoi due figli, Antony e Sharon e la ex moglie). Era malato da molto tempo ma a strapparlo ai suoi cari è stato un malore improvviso. Mammino faceva parte della Compagnia della Fortezza e come attore di teatro del carcere era molto conosciuto nella città etrusca. Cinzia De Felice, della Compagnia della Fortezza, è stata tra i primi, ieri mattina, a ricordarlo su Facebook con un messaggio di cordoglio. "Antonino era entrato a far parte della Compagnia fin dal 1996. Durante la sua detenzione nel Carcere di Volterra, ha partecipato con importanti ruoli a tutti gli spettacoli, per alcuni dei quali era stato anche a ritirare insieme ad Armando Punzo, regista e fondatore della compagnia, premi prestigiosi come l’Ubu", spiega la Compagnia della Fortezza. Negli ultimi anni della sua vita, uscito dal carcere, aveva continuato l’attività teatrale e non si era mai voluto allontanare da Volterra, città alla quale era molto legato. "Uomo dai modi garbati e gentili e grande lavoratore, molto benvoluto dalla comunità volterrana, e da tutto il mondo teatrale, come dimostra l’ondata di affetto dimostrata da centinaia di persone, che sui social hanno lasciato commoventi testimonianze di affetto, si era fatto apprezzare anche per la sua partecipazione a tante iniziative sia all’interno del carcere, come le Cene Galeotte, sia nel mondo del lavoro esterno, che in quello del volontariato. Il suo sogno (in passato lo aveva raccontato anche al nostro giornale) era quello di veder riconosciuto il primo Teatro Stabile nel Carcere di Volterra, per poter rimanere a lavorare in maniera continuativa con la compagnia", spiegano ancora dalla Compagnia della Fortezza. Proprio in queste ore, amici, scrittori e giornalisti che lo conoscevano per il suo percorso teatrale hanno scritto di lui: "Rospo, uno spirito pieno di vita ed energia cosmica, una voce che era già in sé un viaggio dentro l’anima". "Eri il primo ad iniziare a lavorare, avere la parte più bella era il tuo obiettivo... Come in questo momento, e quello che sta avvenendo ora grazie a te, mostra quanto sei stato importante e quanto lavoro abbiamo fatto tutti insieme per trasformare questo luogo. Vivi ancora, ora, in noi". "Ciao Nino, Amleto indocile, uomo dal largo sorriso". Novara: detenuto morto in ospedale, la figlia presenta un esposto alla Procura di Marcello Giordani La Stampa, 3 ottobre 2016 La figlia: "Trasferito tardi in ospedale, i domiciliari concessi quando era in coma. Un esposto alla Procura della Repubblica di Novara per fare chiarezza sulla morte di Paolo Guerriero, 67 anni, detenuto in carcere e portato in ospedale - dove è stato operato - dopo un probabile aneurisma. La figlia di Guerriero, Monica, che abita a Borgomanero in via Cureggio, non si rassegna; ha interpellato un avvocato per acquisire le cartelle cliniche, poi le ha consegnate a un medico legale perché le esaminasse: "Da questo esame - dice la donna - emergono molti interrogativi sia sulla tempistica che sul tipo di terapia che è stata praticata a mio padre. A mio avviso ci sono le premesse perché la Procura faccia un’inchiesta per accertare le responsabilità. Mio padre non doveva morire, poteva salvarsi, e su questo voglio che si facciano tutti gli accertamenti necessari". L’esposto è di un’ottantina di pagine e ripercorre tutta la vicenda di Guerriero. L’uomo nel settembre dell’anno scorso era detenuto per furto nel carcere di Novara: "Aveva già avuto problemi di diabete e scompensi cardiaci, per questo avevamo inoltrato la domanda al Ministero della Giustizia - racconta la figlia - perché gli venissero concessi gli arresti domiciliari. A casa avremmo potuto curarlo, ma la domanda non è stata accolta". Monica Guerriero rimarca anche un altro aspetto della vicenda: "Mio padre si trovava in carcere per un furto commesso nel 1991, sarebbe dovuta scattare la prescrizione: come mai non è stata applicata?". Il 9 settembre dell’anno scorso Guerriero, nel primo pomeriggio, si sente male: "Mio padre ha cominciato a stare male alle 15; come mai è stato ricoverato solo alle 20,20? Alle 4 di notte si sono accorti che era in coma profondo, ormai era tardi, non si è più ripreso. Nessuno si è reso conto della gravità della patologia, è stata sottovalutata, la nostra perizia ha accertato che alcuni farmaci non erano probabilmente adatti alle sue condizioni. Fatto sta che il 18 settembre è stato trasferito all’ospedale di Borgomanero, e il 26 settembre è morto, senza riprendere conoscenza". Un’altra domanda che assilla Paola Guerriero riguarda l’accoglimento della richiesta dei domiciliari: "Gli sono stati concessi in ospedale, quando ormai era in coma". Terapia più adeguata. Secondo la perizia Paolo Guerriero andava trasferito subito all’ospedale e doveva essere sottoposto ad una terapia più consona alle sue condizioni: per questo nell’esposto viene chiesto il risarcimento dei danni ai responsabili, se la Procura ne accerterà l’identità, del decesso. Viene richiesta una serie di risarcimenti per il danno da morte, quello di "perdita di chances di sopravvivenza", il danno patrimoniale per la perdita della pensione, il danno da sofferenza morale e per mancata informazione. Sondrio: sciopero della fame e della sete e protesta rumorosa in carcere di Susanna Zambon Il Giorno, 3 ottobre 2016 I detenuti chiedono interventi contro la direttrice. Sciopero della fame da quasi una settimana, e da sabato anche della sete. Proteste "rumorose", tanto che si sentivano nelle case intorno al carcere. La situazione nella casa circondariale di Sondrio è sempre più calda, tanto che oggi è prevista l’ispezione del provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Prima la questione del medico che coordina il servizio sanitario all’interno del carcere, Alì El Hazaymeh, che, dopo screzi e dissidi con la direttrice Stefania Mussio, si è visto negare il permesso a entrare nella Casa circondariale per il giro di visite; poi, all’inizio della settimana scorsa, 25 dei 37 detenuti nel carcere di Sondrio hanno proclamato lo sciopero della fame denunciando comportamenti della direttrice che violerebbero i loro diritti: "Non possiamo chiamare i nostri avvocati - hanno scritto in una lettera inviata al Provveditorato regionale Amministrazione penitenziaria e al presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano - e la direttrice ha fatto terra bruciata attorno a sé, il garante dei detenuti si è dimesso e anche le volontarie, le Dame di San Vincenzo non vengono più ad aiutarci". E sabato nuove proteste. Diciannove di quei 25 detenuti che stanno facendo lo sciopero della fame a oltranza ("finché non verranno presi provvedimenti corretti ed effettivi dalle autorità preposte, utili alla risoluzione dei problemi") hanno proclamato anche lo sciopero della sete, e alcuni hanno già avuto bisogno dell’intervento della guardia medica per i primi problemi di disidratazione. In serata, poi, una manifestazione "rumorosa": diversi detenuti hanno iniziato a battere quello che avevano a disposizione contro le inferriate delle finestre delle celle e a gridare, tanto che nelle case vicine e sulla strada si poteva udire distintamente il rumore e qualcuno è riuscito anche a realizzare un video postato poi su Facebook. A innescare questa nuova rimostranza sarebbe stato il trasferimento di uno dei carcerati, pare tra quelli più decisi a opporsi alla direttrice, nel carcere di Monza. Al momento non si sa da chi sia arrivata la decisione, ma i detenuti l’hanno letta come ritorsione per la protesta messa in atto. Insomma, un clima davvero molto teso. Da quando tutto è iniziato la direttrice Mussio non si è vista in carcere (dirige anche quello di Lecco). Domani dovrebbe arrivare il provveditore regionale. Sassari: detenuto suicida in cella, assolto l’agente di turno di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 3 ottobre 2016 Mario Usai era stato rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio colposo Secondo la Procura non avrebbe vigilato con attenzione. I legali: giustizia è fatta. "Mario Usai ha finalmente avuto giustizia", sono state le parole degli avvocati difensori dell’agente di polizia penitenziaria sassarese dopo la sentenza di assoluzione. Un verdetto che arriva a distanza di cinque anni dall’iscrizione nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo dopo il suicidio di un detenuto. L’allora pubblico ministero Maria Grazia Genoese aveva archiviato la posizione di Teresa Mascolo, all’epoca direttore del carcere di San Sebastiano, di Cataldo Fusco, comandante facente funzioni, e di Giuseppe Cannizzo preposto del reparto di polizia penitenziaria il giorno del fatto. L’unico rinviato a giudizio era stato proprio Usai. Ieri il giudice Teresa Castagna, accogliendo la richiesta degli avvocati difensori Sergio Milia e Maria Claudia Pinna, lo ha assolto perché il fatto non sussiste. Mario Usai era imputato di omicidio colposo per la morte - avvenuta il 18 luglio del 2010 - di un artigiano, detenuto in una cella di San Sebastiano. La vittima si era impiccata con i lacci delle scarpe. L’uomo era stato arrestato per sospetti abusi sulla figlia. Un’accusa che non poteva accettare, un peso insopportabile. Secondo la Procura della Repubblica il suicidio era stato "favorito" dalla "negligenza" di chi avrebbe dovuto controllare lui e la sua cella. Ecco perché sotto inchiesta era finito l’agente di polizia penitenziaria in servizio quel giorno. Usai era arrivato nella cella del detenuto quando ormai era troppo tardi: a quanto pare però l’uomo si sarebbe tolto la vita nel giro di nove minuti rispetto all’ultimo controllo effettuato dall’agente. Oltretutto, quella domenica, l’agente imputato era solo in turno a controllare l’intero reparto promiscui. Il detenuto era stato arrestato il 14 luglio del 2010, quattro giorni prima della sua morte. Ma senza nemmeno aver avuto il tempo di capire quali fossero le prove a suo carico, era stato assalito dalla disperazione. "È un’infamia", continuava a dire, anche al giudice durante l’interrogatorio di garanzia. In carcere, il medico che lo aveva visitato aveva definito "altissimo" il rischio che potesse togliersi la vita. Il giorno prima che si suicidasse era stato applicato un provvedimento di "grandissima sorveglianza" ma non di "sorveglianza a vista". Non era stato prescritto, in sostanza, che un agente vigilasse senza sosta la sua cella. I familiari del detenuto si erano costituiti parte civile con gli avvocati Elias Vacca e Nicola Lucchi. Grosseto: la direttrice sul suicidio di un detenuto "In carcere rispettati tutti i protocolli" di Francesca Gori Il Tirreno, 3 ottobre 2016 L’uomo che si è ucciso non era solo in cella: l’agente della penitenziaria che era in turno ha grandissima esperienza. C’è un’inchiesta interna, scattata subito dopo la morte del detenuto che si è ucciso in una cella del penitenziario di Grosseto e c’è un fascicolo aperto in Procura. Ma ci sono anche gli occhi di Maria Cristina Morrone, la direttrice, che si posano sul detenuto che con la scopa sta pulendo il corridoio davanti agli uffici, a pian terreno. Occhi che si bagnano, quando l’uomo dice: "Certo, fuori è meglio ma qui dentro si sta bene". Quello che è successo la scorsa settimana in via Saffi è stato un evento unico. "Dirigo questo istituto da 18 anni - dice la direttrice Morrone - e mai alcun detenuto era riuscito a compiere un gesto del genere. Non possiamo fare altro che esprimere la nostra vicinanza alla sua famiglia, ma il nostro personale ha fatto tutto il possibile per evitare questa tragedia". L’uomo, che aveva 47 anni, era arrivato al carcere di via Saffi con l’accusa di maltrattamenti nei confronti dell’ex compagna. Non aveva rispettato il divieto di avvicinamento alla donna e per questo era finito in carcere, dopo l’ennesima lite. Una volta arrivato in via Saffi, dopo l’udienza di convalida dell’arresto, la direttrice insieme al personale della penitenziaria aveva cercato di trovare tutte le soluzioni possibili per aiutarlo. "Abbiamo applicato il protocollo alla lettera - spiega - e abbiamo subito cercato un istituto che potesse accoglierlo, un centro specializzato per chi aveva i suoi problemi". Problemi che sono stati affrontati, nel breve periodo di permanenza del quarantasettenne grazie all’attivazione dell’assistenza psicologica e psichiatrica. L’uomo era nella sua cella e sembrava che dormisse. Erano le tre del mattino quando l’agente della penitenziaria è passato davanti a quella stanza. "Tra l’altro in turno c’era uno degli agenti con la maggiore esperienza - aggiunge Maria Cristina Morrone - Lo ha visto dormire, dopo un quarto d’ora invece aveva già tentato il suicidio". Non era solo in cella il quarantasettenne: nemmeno l’altro uomo che era con lui si è accorto di quello che stava per succedere. La sua volontà è stata più forte del giro di controllo dell’agente e della presenza di un altro detenuto nella sua cella, a pochi metri di distanza. Quello che resta dopo quel suicidio è l’amarezza della direttrice e del personale del carcere. "Siamo sopraffatti da un senso di impotenza - dice ancora - ma non avremmo potuto fare altro. Una vita che si interrompe in questo modo è un grande dolore anche per tutti noi che facciamo questo lavoro con grande senso del dovere". Cremona: Sappe; agente aggredito da detenuto e l’allarme era fuori uso Adnkronos, 3 ottobre 2016 Aggredito da un detenuto in carcere, un agente di Polizia penitenziaria in servizio a Cremona non ha potuto fare affidamento sull’allarme del Reparto perché fuori uso. Lo denuncia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Sabato sera, un detenuto italiano di circa 25 anni, con posizione giuridica definitivo per reati contro il patrimonio, ha aggredito senza alcuna ragione un agente di Polizia Penitenziaria che è poi dovuto ricorrere alle cure dell’Ospedale civile. L’agente era solo nella Sezione detentiva e, grazie alla sorveglianza dinamica, il detenuto era libero di muoversi tra i reparti. L’agente avrebbe tentato di attivare il pulsante di allarme contro le aggressioni presente nel Reparto ma la stesso non funzionava... Così è lasciata la Polizia Penitenziaria a Cremona, allo sbando e senza alcuna tutela: una vergogna", spiega il segretario regionale Sappe della Lombardia Alfonso Greco, che esprime al poliziotto ferito "solidarietà e vicinanza". Il segretario generale del Sappe Donato Capece sottolinea che "la Polizia Penitenziaria, nelle diciotto carceri della Regione Lombardia, è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante affollamento - al 31 agosto scorso erano infatti detenute nelle celle 7.927 persone rispetto ai 6.120 posti letto regolamentari - credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando molti suicidi di detenuti o contenendo gli effetti devastanti di altrettanto numerosi atti di autolesionismo". Ferrara: lettera dal carcere ai giornalisti estense.com, 3 ottobre 2016 Il gruppo di redazione di Astrolabio, il giornale del carcere di Ferrara, desidera far sapere che ritiene di grandissima importanza il fatto che lo spettacolo teatrale "Me che libero nacqui al carcer danno" si sia svolto dentro un carcere e sia stato aperto al pubblico. Il teatro, così come i concerti, le presentazioni dei libri, le manifestazioni sportive, l’incontro con i calciatori e le diverse altre attività che vengono proposte all’interno della casa circondariale, rappresentano un importante arricchimento. I motivi sono legati all’interesse specifico che queste iniziative possono creare ma, soprattutto per noi "ristretti", alla possibilità di poter stabilire e mantenere un contatto diretto con "il fuori". Ferrara è una città che vive dentro le mura e noi siamo una specie di città dentro la città, che vive dentro altre mura. Pensiamo che la forza di queste iniziative stia proprio nel tentativo di aprire una porta in modo che possa avvenire un passaggio: un incontro fra esperienze e speranze diverse. Noi siamo persone che hanno commesso dei reati e, per questo, stiamo scontando una pena più o meno lunga; prima o poi, la maggior parte di noi uscirà e dovrà affrontare di nuovo la società. Crediamo che non ci possa essere un buon reinserimento senza una giusta rieducazione e pensiamo che per far questo ci sia bisogno anche di occasioni di incontro con gli altri. In Italia esistono tassi di recidiva fra i più alti d’Europa ma sappiamo bene che le persone che hanno partecipato attivamente a buone attività rieducative (scuola, teatro, musica, pittura, giornale, …) hanno bassissime possibilità di compiere di nuovo reati perché, avendo intrapreso un percorso di consapevolezza, hanno imparato dal confronto con gli altri favorito anche dal contatto tra l’interno e l’esterno. Per questo apprezziamo queste iniziative e tutte le altre che ci permettono di far incontrare e di confrontare i nostri mondi. Per questo proponiamo all’attenzione della Direzione di questa Casa Circondariale e del comitato di redazione di Internazionale di pensare insieme alla costruzione di un "incontro", da svolgersi dentro questo carcere durante il Festival di Internazionale del prossimo anno, che tratti della scrittura sul e dal carcere, delle tematiche relative e dei problemi collegati. Un incontro di esperienze fra giornalisti, giuristi, educatori, volontari e persone detenute. Ci mettiamo a disposizione fin da subito per una collaborazione proficua: la porta della redazione di Astrolabio, nonostante le molte sbarre che dobbiamo superare per arrivarci, è sempre aperta a nuovi incontri e a contributi costruttivi. Il gruppo di redazione di Astrolabio, il giornale del carcere di Ferrara Vicenza: scuola e carcere, 40 partite nel 2016 tra le mura di S. Pio X di Chiara Ferrante Giornale di Vicenza, 3 ottobre 2016 Nel 1999 era una scommessa, ora è una realtà radicata nel territorio vicentino e non solo. "Carcere Sport Insieme" è l’iniziativa che caratterizza maggiormente il Csi di Vicenza, che da molti anni ha lanciato al suo interno il "Progetto Carcere - Scuola". Tutto è cominciato nell’aprile del 1999 quando, da una testimonianza del Prof. Maurizio Ruzzenenti, allora operatore del Csi di Verona, è maturato il desiderio da parte del Csi di Vicenza e, nello specifico, nella persona di Enrico Mastella, di portare lo sport nella vita del carcere, la Casa Circondariale San Pio X. Le attività sportive hanno portato nel marzo del 2000 il calcio in carcere e, per la prima volta nella storia di Vicenza, si è disputata la prima partita tra una squadra esterna e un’altra rappresentativa dei detenuti all’interno della Casa Circondariale, grazie alla partecipazione del Real Vicenza di Paolo Rossi, campione del mondo nel 1982. Anche il Vicenza ha partecipato a questa iniziativa. Da questa esperienza e in primis dall’esempio di Paolo Rossi, è stata costituita la squadra Real CSI Vicenza, formata da atleti del campionato dilettanti provinciale del Centro Sportivo Italiano e mensilmente dal 2001 in poi si è disputata una partita di calcio in carcere con una rappresentativa interna. L’iniziativa continua tutt’oggi, ma le squadre che entrano ora al San Pio X sono costituite da giovani studenti delle scuole superiori di Vicenza e provincia. Nasce nel 2003 il progetto che unisce il carcere e le scuole e il primo istituto che ha aderito è stato l’Itis "A. Rossi" della città. Oggi sono molte le scuole superiori che partecipano al progetto. "L’esperienza maturata attraverso il "Progetto Carcere e Scuola" - afferma Mastella - è la via privilegiata che ci permette attraverso questo straordinario strumento di dialogo, lo sport, di far in modo che il mondo carcerario, un giacimento ricco di valori e umanità, possa interagire con il mondo esterno e possa considerarsi parte integrante della nostra società civile". Il progetto prevede tre importanti step: le assemblee scolastiche nelle quali il Csi di Vicenza si affida alle testimonianze di detenuti o figure professionali (tra le quali i magistrati, gli avvocati, i Carabinieri, la Polizia, la Guardia di Finanza, il cappellano del carcere e il mondo del volontariato che opera all’interno della struttura rappresentato da Lembo del Mantello e Progetto Jonathan), i corsi di educazione alla legalità e, dal 2008, il carcere lungo. Questo permette l’entrata agli studenti in carcere non solo per la partita di calcio, ma fin dalla mattinata. I ragazzi delle scuole e, negli ultimi anni anche le ragazze, hanno la possibilità di incontrare le tre figure principali della struttura, la Polizia Penitenziaria che rappresenta l’area della sicurezza, l’area giuridico-pedagogica e l’area della sanità, ascoltando poi le testimonianze e le storie di alcuni ospiti del San Pio X. Dopo il pranzo in mensa agenti e la partita, prima dell’uscita, si disputa il cosiddetto terzo tempo per un momento di condivisione tra le squadre. Con l’aiuto della Caritas Diocesana di Vicenza, il "Progetto Carcere -Scuola" ha assunto sempre più un ruolo di valenza positiva ed educativa e, ad oggi, le scuole superiori coinvolte del territorio sono 34. Nel 2016, tra aprile e maggio, sono stati 1600 i ragazzi entrati in carcere, 40 le partite di calcio giocate,8le assemblee e molteplici i corsi sulle legalità organizzati, per un totale di circa 4000 studenti coinvolti attivamente. Il Csi di Vicenza è già al lavoro per continuare questa iniziativa ed implementarne di nuove, con il desiderio di cominciare già nei mesi di febbraio-marzo per un primo gruppo di scuole e concludere con le altre tra aprile e maggio. Roma: "#IocorroconStefano", seconda maratona per Stefano Cucchi di Chiara Fazio glistatigenerali.com, 3 ottobre 2016 Chissà quante volte le sarà balenata nella mente l’idea di mollare tutto, quante volte la rassegnazione avrà preso il sopravvento sulla voglia di verità e quelle forze, già labili dopo il dolore della perdita e prosciugate fino all’osso nelle sere passate a studiare documenti, lanciare appelli, campagne, richieste d’aiuto, avranno ceduto il passo alla rabbia prima, e allo sconforto poi. Un urlo che rompe il muro del suono lanciato come un boomerang nel vuoto della legislatura italiana. Eppure Ilaria Cucchi corre ancora, corre da sette anni, senza sosta, e assieme a lei corrono papà Giovanni e mamma Rita, corrono decine di famiglie come la sua, corrono migliaia di cittadini romani, corrono le associazioni, corre quella fetta di società civile che reclama il rispetto dei diritti umani troppe volte calpestati. Ed è una corsa al ripristino della legalità, alle volte estenuante, ma ricca anche di momenti di entusiasmo e condivisione come quello che alle dieci di questa mattina ha radunato i tanti partecipanti alla seconda edizione del Memorial Stefano Cucchi al Parco degli Acquedotti di Roma, lo stesso parco nei pressi del quale il 15 ottobre 2009 Cucchi venne fermato per detenzione e spaccio di stupefacenti, portato in caserma, perquisito e processato, per morire una settimana dopo in condizioni disumane nel reparto di medicina penitenziaria dell’Ospedale Sandro Pertini. La pioggia non ha fermato le due gare allestite per l’occasione, una competitiva da 6 Km e una non competitiva da 3 Km, pur costringendo al rinvio delle attività culturali, artistiche e musicali previste per il pomeriggio, tra cui la performance del Muro del Canto, dibattiti e vari laboratori per i più piccoli, che avranno luogo il 22 ottobre, giornata in cui ricorre l’anniversario della morte di Stefano. All’iniziativa del Comitato Promotore Memorial Stefano Cucchi patrocinata da Comune di Roma e Regione Lazio, hanno aderito anche diverse personalità di spicco del mondo dello spettacolo e del giornalismo tra cui Riccardo Iacona, Sabrina Impacciatore, Ascanio Celestini, Daniele Vicari, Jasmine Trinca, Andrea Rivera, Giulio Cavalli, Silvia e Gaia Tortora (figlie di Enzo, ndr), Ilaria Bonaccorsi, gli Assalti Frontali, il senatore Luigi Manconi e molti altri. Una manifestazione che cade proprio nel giorno successivo a quello che sarebbe stato il 38° compleanno del giovane. "Correre per Stefano significa correre per la libertà e per i diritti umani. Per la giustizia e contro la tortura che in Italia non è un crimine - ha dichiarato Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone, tra i partner dell’evento -; correre per Stefano significa inseguire la verità sulla sua morte avvenuta per mani pubbliche". Già, perché è noto, purtroppo, che la discussione sull’approvazione del ddl per l’introduzione dei reati di tortura e di istigazione alla tortura all’interno del codice penale italiano avviata lo scorso 19 luglio in Senato dopo l’ok della Camera è stata - più o meno volutamente - sospesa per il mancato raggiungimento della maggioranza e rinviata sine die. Non solo: è di pochi giorni fa la notizia che il Consiglio regionale della Liguria ha respinto, con 16 voti della maggioranza di centro destra, un ordine del giorno presentato dal M5S e votato da Pd e Rete a Sinistra che avrebbe impegnato la Giunta ad attivarsi presso il Governo per riportare alla luce quanto prima la discussione sul ddl in questione. Ulteriori ritardi rispetto al resto delle normative europee riguardano l’introduzione di codici identificativi sui caschi delle forze dell’ordine, misura già adottata in paesi come Francia, Spagna, Belgio, Olanda, Grecia e alcune regioni del Regno Unito e della Germania. In Italia il cammino per l’approvazione di leggi del genere è ancora, come si è visto, lungo e fitto di ostacoli. C’è chi ancora si appiglia ai termini: la tortura è tale solo nel caso di "reiterate" lesioni. C’è chi ancora parla di malnutrizione, mentre i poliziotti già indagati nel caso Cucchi sono ancora a "manganello" libero, e medici e infermieri sono liberi di decidere chi curare e chi no. Ma la corsa non si interrompe. E alla fine della strada c’è un faro: è quello della verità, ancora intrappolata tra le maglie di inutili lungaggini processuali, la verità che tutti conoscono ma che spesso "muore nei segreti". Pisa: carcere Don Bosco, i detenuti vanno a scuola di teatro pisatoday.it, 3 ottobre 2016 È iniziata lo scorso 19 settembre l’attività della Scuola di Teatro ‘Don Boscò che vede venti detenuti impegnati ad acquisire le tecniche teatrali di base per preparare uno spettacolo. Una novità all’interno del carcere di Pisa. Ha preso infatti il via la Scuola di Teatro Don Bosco, un percorso di incontri rivolto ai detenuti della sezione maschile della casa circondariale pisana. Il progetto, nato dall’unione della compagnia teatrale pisana I Sacchi di Sabbia con l’attrice Francesca Censi, è stato sostenuto e finanziato dalla Fondazione Pisa attraverso il bando pubblico dedicato al sostegno delle attività culturali, sociali e di volontariato. La Scuola di Teatro ‘Don Boscò nasce come luogo di confronto umano e culturale nel quale i detenuti-allievi possano fare un’esperienza di socialità e comunicazione attraverso il linguaggio del teatro, della letteratura e della poesia. Il percorso del laboratorio prevede un progetto didattico diviso in due fasi: una prima fase di acquisizione delle tecniche teatrali di base e una seconda fase con un percorso tematico a partire da testi letterari e teatrali per realizzare una messa in scena finale a carattere collettivo. Per il laboratorio 2016-2017 il percorso di lavoro sarà basato sull’Odissea di Omero, attraverso l’utilizzo sia di rielaborazioni personali di alcuni episodi da parte di detenuti-allievi, sia di passi originali del testo. L’obiettivo del progetto è far diventare quest’esperienza un punto di riferimento stabile, nel corso dei prossimi anni, all’interno delle attività della Casa Circondariale Don Bosco e di poterla successivamente ampliare, realizzando un’analoga attività anche per la sezione femminile. "Pensiamo che la Scuola di Teatro Don Bosco - dice Francesca Censi - sia uno strumento che può realmente contribuire al recupero psicosociale, emotivo, culturale del soggetto detenuto, e contribuire così alla natura riabilitativa e rieducativa della detenzione, come prevede la nostra Costituzione". La Scuola di Teatro Don Bosco, che ha inaugurato le sue lezioni il 19 settembre scorso, conta ad oggi 20 partecipanti, metà italiani e metà stranieri, e concluderà i suoi incontri alla fine di maggio 2017. Docenti e formatrici del corso sono, oltre a Francesca Censi, Giulia Solano (componente de I Sacchi di Sabbia) e Carla Buscemi. Roma: "Nome in codice Caesar", in mostra le foto delle torture nelle carceri siriane Il Messaggero, 3 ottobre 2016 Immagini scioccanti che documentano le terribili torture contro gli oppositori avvenute nell’arco di tre anni nelle carceri siriane. Saranno in mostra per la prima volta in Italia da mercoledì 5 ottobre a Roma nella Sala Spazio D del Maxxi in via Guido Reni. L’esposizione, intitolata "Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura", è stata promossa da Fnsi (Federazione Nazionale della Stampa Italiana), Amnesty International Italia, Focsiv (Volontari nel Mondo), Un Ponte Per, Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo) e Articolo21, e resterà aperta fino al 9 ottobre, giorno della marcia Perugia Assisi. Esposte una selezione di pochissime delle 55mila fotografie che l’agente della polizia militare siriana chiamato Caesar, incaricato dal regime di documentare quanto accadeva ai detenuti nelle carceri, portò con sé quando decise di fuggire. Caesar ha deposto, testimoniato, ma non ha mai rilasciato interviste, tuttavia un suo messaggio è stato inviato per questa mostra, già esposta al Palazzo di vetro di New York, al museo dell’Olocausto di Washington e al Parlamento europeo. Nel Rapporto varato dalla Commissione d’inchiesta sulla Siria costituita dal Consiglio per i Diritti umani dell’Onu (Ohchr) presieduta dal giurista Paulo Sérgio Pinheiro, della quale fa parte la signora Carla Del Ponte si legge: "Detenuti sotto custodia del governo sono stati picchiati a morte o sono morti come conseguenza di ferite patite a causa di torture. Altri sono morti a causa di condizioni detentive inumane. Il governo ha commesso i crimini contro l’umanità di sterminio, assassinio, stupro o altre forme di violenza sessuale, tortura, sparizione forzata, o altri atti disumani. Per via della medesima condotta sono stati commessi anche crimini di guerra". Sabato 8 ottobre alle ore 18, come iniziativa collegata alla Mostra, si terrà un incontro dal titolo "Il Medio Oriente si racconta, voci e sguardi dall’area", organizzato da Focsiv e Fnsi, che unisce la testimonianza dei volontari impegnati al fianco della popolazione al lavoro di narrazione e di denuncia di quanto accade nell’area mediorientale dei giornalisti. Un appuntamento che vuole mettere in evidenza da un lato, con la testimonianza di Suor Hanan Youssef, libanese delle suore di Nostra Signora del Buon Pastore, Terry Dutto, capo progetto FOCSIV Kurdistan, e di Mons. Paolo Bizzeti, Vicario apostolico dell’Anatolia, come oggi si viva e quali siano le necessità e le speranze della popolazione mediorientale e dall’altro con il racconto dei giornalisti Amedeo Ricucci, inviato del Tg 1, Luca Geronico, giornalista di Avvenire e Cristiano Tinazzi, del Messaggero, quali siano le prospettive e il futuro per questa area secondo la loro conoscenza dei luoghi e delle vicende. Accompagna l’incontro Giovanni Lamanna, Rettore dell’Istituto Massimo a Roma. Sarà inoltre presentata "Humanity", la nuova campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi promossa da Focsiv per permettere che il lavoro svolto in questi anni a fianco delle migliaia di uomini e donne in fuga nell’area mediorientale possa proseguire. A inaugurare la mostra il 5 ottobre alle 17.30 saranno i presidenti delle Commissioni Esteri del Parlamento Pierferdinando Casini e Fabrizio Cicchitto, il presidente della Commissione per i Diritti Umani, Luigi Manconi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, il giurista statunitense Stephen J. Rapp, il presidente del Centro Astalli, padre Camillo Ripamonti sj, Giancarlo Bosetti, direttore di Reset e il professor Baykar Sivazliyan, presidente emerito dell’Unione degli Armeni in Italia. La Mostra con ingresso gratuito osserverà il seguente orario: Mercoledì 5 ottobre dalle ore 18,00 alle ore 20,00 Giovedì 6 e Venerdì 7 ottobre dalle 11,00 alle 19,00 Sabato 8 ottobre dalle ore 11,00 alle 22,00 Domenica 9 ottobre dalle 11,00 alle 19,00 Catanzaro: partita di calcio tra detenuti e Asd Saint Michel… con lo sport vincono tutti catanzaroinforma.it, 3 ottobre 2016 Una giornata di attività fisica e di preghiera al carcere voluta da don Gaudioso Mercuri della diocesi di Palmi - Oppido Mamertina. Nell’anno del Giubileo della Misericordia, voluto da Papa Francesco, ci sarà il prossimo 6 novembre a Roma la giornata dedicata ai detenuti ed ai volontari penitenziari, ma c’è chi i detenuti è già andato a visitarli e a giocare con loro a calcio: "Ero carcerato e siete venuti a trovarmi". Don Gaudioso Mercuri, vice parroco della Diocesi di Palmi-Oppido Mamertina, che il Papa lo conosce di persona è andato nel carcere di Catanzaro ed ha portato la squadra Asd Saint Michel al completo per disputare una partita con i detenuti di Alta Sicurezza. Non si è limitato a portare solo la squadra, ma anche un messaggio di speranza ai detenuti e con loro ha anche condiviso un momento di preghiera con la recita di un Padre Nostro. Il risultato, che poco importava a tutti vista la particolarità dell’incontro, si è concluso comunque con una vittoria della squadra Saint Michel, ma la vittoria è stata di tutti, perché lo scopo non era vincere e ne competere ma condividere. Nella conferenza stampa, che si è svolta all’interno del teatro dell’Istituto penitenziario "Ugo Caridi" di Catanzaro erano presenti tantissimi detenuti che hanno avuto modo di ascoltare sia le confortanti parole di Don Gaudioso e sia la visione di un video che testimoniava la nascita della Squadra Asd Saint Michel nella Piana di Gioia Tauro e l’incontro di Don Gaudioso prima e della squadra poi, con Papa Francesco. L’evento, promosso da Mario Sei, volontario penitenziario e autorizzato dal Direttore del carcere, la dottoressa Angela Paravati, rientra in un progetto più ampio di sport che la struttura da tempo promuove e sostiene con l’organizzazione delle Partite della Solidarietà. Resta quindi il ricordo, in tutti i presenti, di un pomeriggio di condivisione e di sport, ma il ricordo più vivo resterà certamente negli occhi dei detenuti, nella solitudine delle loro celle e di quei lunghi corridoi, ed ai ragazzi della squadra Saint Michel resterà vivo il ricordo di un’esperienza, certamente forte, ma formativa. Lo stato di diritto europeo va difeso Corriere della Sera, 3 ottobre 2016 Qual è il più grande risultato raggiunto in ormai 60 anni di integrazione europea? Cosa ha contraddistinto la nostra esperienza comune dopo le due guerre civili europee del XX secolo? I diritti fondamentali. La loro tutela. La loro promozione. È questa la vera essenza dell’identità europea: libertà, eguaglianza e fratellanza. Oggi questi valori sono sotto attacco delle aggressioni terroristiche, delle forze xenofobe ed estremiste. Siamo determinati nel difendere il diritto alla sicurezza di tutti i nostri cittadini, ma senza calpestare la sicurezza dei diritti fondamentali e della cultura europea del diritto. Dobbiamo mettere lo Stato di diritto non solo tra le più importanti conquiste europee, ma tra le nostre più grandi priorità. Ci stiamo impegnando per questo in Europa. E ne dibatteremo oggi a Roma a Palazzo Madama nell’incontro dedicato a "Europa: Stato di diritto e Stato dei diritti" alla presenza del presidente del Senato italiano Pietro Grasso; Giuliano Amato, Emma Bonino, Michael Ò Flaherty, direttore dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali e rappresentanti degli altri Stati membri in linea con le nostre posizioni. Cosa vogliamo fare? Mettere lo Stato di diritto al centro della nostra azione e attenzione. Durante il semestre di Presidenza italiana abbiamo assunto l’impegno di tenere dibattiti regolari su uno specifico argomento legato allo Stato di diritto. Abbiamo discusso di rivoluzione digitale e integrazione dei migranti. Dopo due anni, siamo chiamati a fare una prima valutazione e nuove proposte. Vorremmo che questo processo prosegua e venga rafforzato. Proponiamo che divenga un dibattito annuale tra pari, al Consiglio Affari Generali Ue, sulle tendenze e sul rispetto dello Stato di diritto in diversi Stati membri. Perché vogliamo farlo? Perché solo garantendo il rispetto dei diritti fondamentali negli Stati membri, l’Unione può essere forte nel pretendere lo stesso dai suoi partner internazionali, a partire dai Paesi che sono candidati all’adesione. Perché dovremmo essere più esigenti nel chiedere il rispetto di questi principi e diritti all’interno dell’Ue al pari di quanto lo siamo in altri campi, come a esempio il rispetto degli obiettivi e delle linee guida di bilancio e macroeconomiche. A sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, rilanciare l’Unione significa ritrovare il rispetto dei principi fondamentali. La solidarietà tra gli Stati membri non è un’opzione. È una responsabilità condivisa, un principio fondamentale e un valore fondante. Siamo impegnati nel gestire i flussi alle frontiere esterne, sosteniamo gli sforzi di reinsediamento e ri-locazione, ma prima di tutto vogliamo preservare la vita e i diritti di tutti, e in particolare delle persone più bisognose, che sono in fuga da guerre e Sì ad azioni comuni contro le minacce del terrorismo e le derive xenofobe persecuzioni. Chiedere il rispetto dello Stato di diritto non è una "intrusione esterna", ma l’osservanza di una condizione basilare per l’ingresso nell’Unione. Ma cosa frena questo processo? La paura per la sicurezza: personale, economica e sociale. Contrabbandieri di demagogia stanno alimentando odio e paure. Diciamo no ai muri di filo spinato e agli atteggiamenti egoistici, xenofobi e autoritari. "Se le foto non sono abbastanza buone, è perché non eri abbastanza vicino" era solito dire il celebre fotografo di guerra Robert Capa per spiegare il suo bisogno di sperimentare la realtà senza mediazione. Al contrario, Henri Cartier-Bresson credeva fortemente nel paradossale equilibrio della "distanza partecipativa". Se vogliamo cogliere la verità delle cose e restituire la fotografia più veritiera dello Stato di diritto in Europa oggi, dobbiamo adottare gli atteggiamenti di entrambi. Andare, vedere, toccare con mano i rischi di violazione dei diritti fondamentali derivanti dalle emergenze umanitarie. E poi, da una "giusta distanza" trovare soluzioni comuni, tempestive ed efficaci. Questa è l’Europa che vogliamo. Jean Asselborn Ministro degli Affari esteri ed europei del Lussemburgo Harlem Désir Ministro degli Affari Europei della Francia Sandro Gozi Sottosegretario agli Affari e Politiche europee dell’Italia Bert Koenders Ministro degli Affari Esteri ed europei dell’Olanda Margarida Marques Segretario di Stato per gli Affari europei del Portogallo Didier Reynders Ministro degli Esteri del Belgio Nikos Xydakis Ministro per gli Affari Europei della Grecia Ungheria, il referendum sui migranti non raggiunge il quorum di Andrea Tarquini La Repubblica, 3 ottobre 2016 L’affluenza si ferma al 43,23%. Il 98% ha votato contro i profughi. Sconfitto il premier Orbàn: "La Ue non potrà imporre la sua volontà all’Ungheria". Tra gli ungheresi che sono andati a votare al referendum sui migranti il 98 per cento hanno votato no alle quote di ripartizione di migranti decise dalla Ue. Ma troppo pochi sono gli ungheresi che nella splendida Budapest ingrigita da nubi e pioggia e nel resto del paese sono andati a votare: quota di partecipazione al voto al 43,23 per cento, ben sotto il quorum del 50 per cento che secondo Costituzione e leggi magiare è necessario perché un referendum sia valido. In altre parole: il popolarissimo premier nazional-conservatore ungherese Viktor Orbàn, per la prima volta, ha mancato un bersaglio per lui prioritario, ha incassato una sconfitta di primo peso. "I risultati del referendum - ha detto il premier Orbàn - devono essere presi in considerazione. L’Unione europea non potrà imporre la sua volontà all’Ungheria". La sconfitta dell’ampia maggioranza liberamente eletta è stata riconosciuta con dichiarazioni pubbliche dal vicepresidente della Fidesz (ndr: il partito del premier, membro del Partito popolare europeo) Gergely Gulyas, e dal presidente della commissione elettorale Andras Pulai. Certo, sul piano meramente numerico Orbàn - che domattina terrà un discorso allo Orszaghàz, il maestoso parlamento ungherese in riva al Danubio - può dire che comunque il 95 per cento di chi ha votato (dati provvisori: ulteriori dati sono attesi di ora in ora e nella notte) ha detto sì alla sua linea dura anti-migranti. E che quindi conta il segnale politico più della non validità del referendum visto il quorum mancato. Ma il problema per lui resta. Il partito di maggioranza, la Fidesz appunto, e altre organizzazioni politiche o sociali vicine al governo, avevano indetto un referendum chiedendo agli ungheresi di rispondere alla domanda "volete o no che la Ue imponga a ogni suo paese membro quote di ripartizioni di migranti, senza consultare governo e Parlamento nazionali e sovrani magiari?". No scontato visto sia che secondo ogni sondaggio autorevole 8 ungheresi su 10 non vogliono clandestini a casa, sia che l’opposizione non ha trovato discorsi e proposte d’alternativa. Puntando a vincere e sperando di andare oltre il quorum Orbàn voleva rafforzarsi ancor più sia in patria, sia in Europa come leader più coraggioso e creativo dei nuovi nazional-conservatori. Eppure non è bastato. Ovunque nel mondo libero c’è il trend del calo d’interesse per la politica e quindi calo della partecipazione a elezioni, referendum, a ogni consultazione elettorale. È quanto dicono i consiglieri del premier Orbàn in primi commenti confidenziali a caldo. Ma il disincanto verso la politica, che finora ha favorito forze politiche che fanno discorsi duri, severi su un no ai migranti o su un’Europa che sia Europa delle patrie e non Europa con forti poteri federali centrali, questa volta ha danneggiato gli euro-minimalisti anti-migranti più dei loro avversari democristiani, socialdemocratici, liberali, verdi e tutto il resto. Grande attesa per le dichiarazioni di Orbàn in Parlamento nelle prossime ore. E grande attesa anche per le reazioni dei leader delle maggiori potenze della Ue. Intanto le opposizioni chiedono al premier di dimettersi. "Dopo una sconfitta come questa in un Paese normale e democratico il premier si deve dimettere", ha detto l’ex premier socialdemocratico, Ferenc Gyurcsany. Anche per il leader dell’estrema destra di Jobbik, Gabor Vona, Orban "deve fare come Cameron: dimettersi". Il moderato sollievo di Bruxelles, sarà comunque scontro sulle quote di Andrea Bonanni La Repubblica, 3 ottobre 2016 Nonostante la massiccia mobilitazione dei media controllati dal governo, la maggioranza degli ungheresi non è andata a votare per bandire i rifugiati. È molto mitigato il sollievo che si respira a Bruxelles per il mancato raggiungimento del quorum nel referendum anti immigrati e anti-Ue ungherese. Orbán subisce un evidente smacco politico. Nonostante la natura populista del quesito referendario. E nonostante la massiccia mobilitazione dei media controllati dal governo, la maggioranza degli ungheresi non è andata a votare per bandire i rifugiati. Ma il parlamento di Budapest, largamente controllato dalla destra nazionalista, potrà agevolmente farsi interprete di quel 90 e più per cento di cittadini che hanno espresso nell’urna il loro rifiuto al sistema delle quote obbligatorie di accoglienza e al diritto della Ue di imporle. Lo stesso Orbán ha già anticipato che proprio questa sarà la linea che andrà a difendere in Europa. Lo scontro, dunque, rimane. E non solo sulla irrisoria cifra di 1.300 rifugiati che l’Ungheria avrebbe dovuto ospitare e che rifiuta. Ormai la speranza di riuscire a ricollocare i 160mila richiedenti asilo che si trovano in Grecia e in Italia e che la Ue voleva ridistribuire in due anni tra gli Stati membri appare destinata a restare nel limbo delle nobili intenzioni. Se i Paesi dell’Est la rifiutano come il simbolo della prevaricazione di Bruxelles sulle sovranità nazionali, altri, come la Francia, dicono di approvarla ma poi accettano i ricollocamenti con il contagocce. La Commissione di Jean-Claude Juncker insiste sulla obbligatorietà della redistribuzione e propone di far pagare una multa esorbitante a chi non rispetta le quote assegnate. Ma all’ultimo vertice di Bratislava, quello che ha fatto arrabbiare Matteo Renzi, i capi di governo hanno assunto un atteggiamento molto più morbido, affermando che le quote sono un principio giusto che però deve essere applicato su base volontaria. In termini legali, poi, se anche il referendum ungherese avesse raggiunto il quorum e fosse stato giudicato valido, per la giurisprudenza europea non avrebbe avuto alcun valore. Le decisioni comunitarie adottate a maggioranza, come quella sulla redistribuzione dei migranti, sono vincolanti per tutti i Paesi, indipendentemente dall’avallo dei Parlamenti nazionali. L’unico modo legale di rifiutarne l’applicazione, è avviare una procedura di uscita dall’Unione europea. E poiché nessuno, all’indomani della Brexit, si augura un’altra secessione, sia pure di un membro scomodo come l’Ungheria di Orbán, questo spiega le ragioni del sollievo di Bruxelles. Sollievo che sarà comunque di breve durata se il Parlamento ungherese dovesse comunque sfidare la decisione europea. Il problema, dunque, è e resta quello di una scelta politica. Ma anche di una spaccatura più profonda, che incrina il vincolo di solidarietà alla base del contratto europeo. Se infatti alla fine dovesse prevalere la linea della prudenza pragmatica, con una rinuncia implicita all’obbligatorietà delle quote di redistribuzione, questo non diminuirebbe la portata della frattura. E se anche le multe proposte dalla Commissione non dovessero trovare applicazione, si può star certi che in occasione della definizione del prossimo bilancio europeo pluriennale la generosità dei Paesi che sono contributori netti (tra cui l’Italia) nei confronti dell’Est europeo che ha rifiutato la propria solidarietà sui migranti sarà pesantemente rivista al ribasso. "In Siria strage di medici, sparano sulla Croce Rossa" di Francesca Paci La Stampa, 3 ottobre 2016 Il direttore dell’organizzazione internazionale Yves Daccord: "Uccisi 54 nostri operatori, un record dalla Seconda Guerra". Sabato è stato messo fuori uso un altro degli ospedali a est di Aleppo, la zona assediata dall’esercito di Assad. È quasi una non notizia, ammette il direttore generale della Croce Rossa Internazionale Yves Daccord: "Il bombardamento delle strutture sanitarie è ormai routine". Daccord descrive la morte lenta della Stalingrado siriana con gli occhi al cellulare per gli aggiornamenti dei suoi uomini sul campo. I volontari rimasti in città postano su WhatsApp le foto degli edifici colpiti chiedendo di identificarli come M2 o M10 per non indicare ai lealisti quali siano gli altri ancora in piedi. La situazione è a questo punto? "Ci sono attacchi sistematici al personale e alle strutture mediche, sono stati bersagliati i convogli della Croce Rossa e le ambulanze. Non si tratta più di episodi sporadici. Sebbene oggi nessun posto sia sicuro, la gente di Aleppo ritiene più pericoloso stare in un ospedale che in mezzo alla strada. In realtà non avviene solo ad Aleppo, potrei dire lo stesso di Homs, Idlib". È la fatalità della guerra o, come denuncia Medici Senza Frontiere, sono attacchi intenzionali? "Entrambe le cose. Da una parte, come in qualsiasi guerra civile che si consumi nelle aree urbane, la linea del fronte si sposta di continuo spiazzando le persone e i loro ripari. Dall’altra Medici Senza Frontiere ha ragione: dal principio della crisi siriana assistiamo all’attacco sistematico di dottori, infermieri, ospedali e malati da parte dell’esercito di Damasco ma anche dell’Isis e di al Nusra. Sin dal 2011 è evidente il disprezzo assoluto dei feriti e delle strutture sanitarie. Il corpo delle vittime è diventato il campo in cui combattere l’estrema battaglia, un salto di qualità che non si verifica in tutte le guerre". Quante persone avete ad Aleppo e quante ne avete perse? "Abbiamo 50 persone ad Aleppo di cui 6 internazionali. Il rischio è enorme ma non possiamo lasciare soli i locali. Dal 2011 a oggi abbiamo avuto 54 operatori della Mezzaluna Rossa uccisi e 3 ostaggi internazionali, il più alto numero di perdite dalla Seconda guerra mondiale". L’Onu parla della Siria come della maggiore crisi internazionale dell’ultimo secolo. È così? "Non so fare paragoni perché l’accesso alle cifre è complesso, soprattutto nella zona est di Aleppo. Ma difficilmente ho visto una situazione simile, non perché nelle altre guerre non siano state commesse atrocità ma perché l’abisso che separa l’Aleppo sofisticata di 5 anni fa da quella di oggi è di una violenza drammatica, senza eguali". Si cita l’assedio di Sarajevo. "Ripeto, non so comparare. Ma se c’è una similitudine sta nel fatto che a un certo punto a Sarajevo tutti hanno pensato di poter vincere attraverso la guerra e ad Aleppo sta succedendo proprio la stessa cosa". Chi vive nella Aleppo assediata? "Ci sono 250 mila persone, non possono essere tutti terroristi o ribelli. Perché sono rimasti? Ci sono fasi differenti in questi casi: all’inizio molti riluttano a scappare perché non vogliono lasciare le proprie cose e magari vanno nei villaggi vicini, poi quando la situazione si aggrava fugge solo chi ha i soldi. Oggi è troppo tardi sia per chi ha temporeggiato che per i poveri". Cosa riuscite a far entrare? "Poco di medico. In questi casi i belligeranti si impediscono a vicenda la cura dei feriti, fa parte del conflitto. Seppur a fatica ad Aleppo riusciamo per esempio a portare acqua e servizi igienici ma medicine quasi niente". Si può ancora fare qualcosa? "I leader mondiali devono capire che non ci sarà una soluzione militare o umanitaria in Siria ma solo politica. Per il resto sarebbe già molto rispettare la risoluzione 2286 del Consiglio di sicurezza dell’Onu per far passare i beni di prima necessità". Colombia senza pace, no all’accordo con le Farc di Emiliano Guanella La Stampa, 3 ottobre 2016 A sorpresa vince il No al referendum che doveva ratificare l’intesa. Una sconfitta per il presidente Santos e per il capo dei guerriglieri Timochenko. Niente di fatto e la pace, adesso, sembra molto più lontana. Con uno stretto margine di 60.000 voti e un’affluenza relativamente bassa, i colombiani hanno votato No al referendum che doveva ratificare gli accordi di pace firmati una settimana fa tra il presidente Juan Manuel Santos e le Farc. L’intesa, raggiunta dopo 4 anni di trattative a Cuba grazie anche all’aiuto di diversi mediatori internazionali, non ha ottenuto l’appoggio della popolazione e ora si ritorna da capo, con uno scenario che preoccupa tutti. La vittoria del No è stata una sorpresa, già che tutti i sondaggi pronosticavano un ampio margine a favore del trattato. L’ago della bilancia sono state le regioni del paese dove storicamente si è mossa la guerriglia, ad iniziare da Antioquia, con capitale Medellin, dove due terzi dei votanti hanno detto No. Dove la guerra è stata più forte, le Farc controllano ancora oggi vaste regioni del paese, la gente non si è fidata e ha votato No. Si tratta di una grande sconfitta per Santos e per il leader delle Farc Rodrigo Timochenko, dati entrambi in pole position per aggiudicarsi il Premio Nobel della Pace questa settimana, ma anche un gigantesco passo indietro per un paese attraversato da 52 anni di guerra. "Le Forze armate rivoluzionarie della Colombia mantengono la propria volontà di pace e ribadiscono di essere disponibili a usare solo la parola come arma di costruzione del futuro", commenta a caldo Timochenko che sottolinea il "profondo dispiacere sul fatto che il potere distruttivo di chi semina odio e rancore abbia influito sull’opinione pubblica colombiana". Mentre Santos rilancia: "Il cessate il fuoco è bilaterale e definitivo, non mi arrenderò e cercherò la pace fino all’ultimo giorno del mio mandato". A cantare vittoria è soprattutto l’ex presidente Alvaro Uribe, nemico giurato della guerriglia ed unico grande leader nazionale a schierarsi contro l’accordo. Dal fronte del No hanno sempre detto di non essere contro la pace, ma contro alcuni punti, i più polemici, raccolti nelle 297 pagine dell’intesa, come l’assegnazione di 5 seggi di diritto in parlamento al futuro "partito delle Farc" o la possibilità di amnistie ed indulti per alcuni dei crimini commessi durante il conflitto. Il panorama, ora, si fa complicato. Santos ha più volte detto che non è possibile tornare indietro rispetto a quanto accordato fra le parti, le Farc hanno fatto capire che la decisione di abbandonare le armi è irreversibile, ma senza le garanzie e i benefici dell’accordo difficilmente accetteranno di abbandonare la selva. Deludente anche l’affluenza, ha votato poco più di un terzo dei 35 milioni di aventi diritto. Tra timori, indifferenza e diffidenze, la Colombia ha preferito non salire sul treno della pace proposta dal governo ed ora tutti gli scenari sono possibili. Egitto: detenuti del carcere di Tora iniziano sciopero della fame Nova, 3 ottobre 2016 I detenuti del carcere di Tora, al Cairo, hanno dato vita ad uno sciopero della fame e delle medicine per protestare contro le condizioni nelle quali versano all’interno dell’istituto di pena. Sono circa 2500 i detenuti, secondo quanto riferisce l’emittente televisiva "al Jazeera", che hanno aderito a questa protesta e che hanno lanciato un grido d’allarme contro le restrizioni decise dalla direzione carceraria nei giorni scorsi. I detenuti denunciano abusi e provocazioni da parte delle guardie carcerarie ai loro danni. La protesta è scattata dopo che la direzione si è rifiutata di prestare cure mediche ad alcuni detenuti malati e dopo che alcuni di questi carcerati hanno subito punizioni come l’isolamento nonostante le loro precarie condizioni fisiche. Inoltre la direzione è accusata di impedire da mesi le visite dei familiari ai detenuti.