A Matteo Renzi abbiamo detto che un carcere poco umano produce soltanto recidiva Il Mattino di Padova, 31 ottobre 2016 Quante volte capita di pensare a che soddisfazione sarebbe dire in faccia, a chi ha il potere di cambiare le cose, tutto quello che vorremmo davvero che facesse? Noi di Ristretti Orizzonti abbiamo avuto la fortuna di avere di fronte il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e di potergli spiegare le nostre riflessioni su come rendere più umana la vita detentiva e come aprire prospettive più certe di percorsi di reinserimento, che passino per misure diverse dal carcere. Al Ministro e al Presidente del Consiglio abbiamo consegnato le nostre idee per dare cuore e gambe alle proposte di cambiamento della cultura delle pene e del carcere, emerse dai Tavoli degli Stati generali sull’esecuzione penale, con la precisazione che alcuni cambiamenti significativi potrebbero essere fatti subito, ancor prima di mettere mano alle leggi. Li abbiamo poi invitati alla Giornata di studi che si terrà a Padova il 20 gennaio 2017, "Contro la pena di morte viva, per il diritto a un fine pena che non uccida la vita", dove parleranno ergastolani, detenuti con lunghe pene, e soprattutto i loro figli, mogli, genitori, fratelli, sorelle, e alla fine abbiamo dato una lettera aperta ad Agnese Renzi, moglie di Matteo Renzi, proprio per invitarla a venire a Padova il 20 gennaio ad ascoltare i famigliari dei detenuti, a dialogare con loro e a farsi "portavoce" dei loro bisogni. È il confronto con la società che ci aiuta a diventare persone responsabili Mi chiamo Bruno Turci, sono detenuto nella Casa di Reclusione di Padova, premetto che quando Renzi era ancora Sindaco di Firenze, gli avevo scritto una lettera aperta per rispondere a una sua dichiarazione circa l’opportunità di promulgare un provvedimento di clemenza, l’indulto. Lui affermava che non avrebbe saputo come spiegare ai giovani la scelta di emanare provvedimenti indultivi, considerato il clima sociale. Io spiegavo, invece, che noi, a Ristretti Orizzonti, con i giovani ci parliamo spesso grazie a un progetto che prevede di incontrare durante l’anno scolastico circa seimila studenti qui in carcere. E abbiamo imparato che con loro si può ragionare di tutto, l’importante è non voler barare o prenderli in giro, loro capiscono se lo facciamo. Saranno state le 10.00 di venerdì 28 ottobre quando Matteo Renzi è arrivato in redazione. Con lui c’erano il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e i sottosegretari Federica Chiavaroli, Cosimo Ferri e Gennaro Migliore, i Deputati Alessandro Zan, che conosciamo bene perché sostiene da tempo la nostra proposta di legge sugli affetti dei detenuti, e Giorgio Santini, la consigliera regionale Alessandra Moretti, il Presidente del Dap Santi Consolo e il Prefetto di Padova, Patrizia Impresa. Entrando in redazione, Renzi, ha voluto prima di ogni cosa stringere la mano a tutti noi redattori detenuti e alla nostra direttrice. Il Presidente del Consiglio ha parlato pochissimo, però ha ascoltato come non mi sarei aspettato. Di lui mi ha colpito proprio questa volontà di ascolto. Ha voluto capire in quei pochi minuti ciò che alcuni di noi della redazione hanno cercato di spiegare circa il nostro "strano" impegno nel fare prevenzione sulla sicurezza proprio dal carcere, incontrando ogni anno gli studenti delle scuole superiori del Veneto. Ha ascoltato le nostre ragioni a proposito della funzione della pena come è concepita oggi in tante prigioni italiane, una pena che produce soltanto recidiva e incremento della potenzialità criminale. Questo è dovuto a un sistema di contenimento delle persone detenute, appiattito su criteri repressivi. E ciò impedisce alle persone condannate di confrontarsi con la società civile e di responsabilizzarsi con la rivisitazione dei fatti che le hanno portate a delinquere. La narrazione delle nostre storie che si fa durante il confronto con gli studenti consente invece la rielaborazione dei reati proprio con le risposte che diamo alle domande dei ragazzi. Dopo che è andato via il Presidente del Consiglio, si sono trattenuti il Ministro della Giustizia e gli altri componenti della delegazione. Con loro il dialogo è proseguito in maniera più articolata sulle tematiche a noi più care, che riguardano i nostri affetti, i figli le madri le mogli. Che sono le persone che spesso pagano un prezzo più alto del nostro, per i reati di cui ci siamo macchiati, solo per avere avuto la ventura di essere nostri famigliari. Ma sono anche il punto di riferimento più importante per il recupero delle vite sbagliate che ci hanno caratterizzato e condotto a lunghe condanne in carcere. Noi vorremmo che l’esperienza degli incontri con gli studenti delle scuole superiori fosse estesa ad altre carceri. È un’iniziativa importantissima per fare prevenzione e per aiutare le persone condannate a uscire dal carcere con minor rischio di recidiva. E poi chiediamo una giustizia giusta che ci aiuti a rientrare nella società, che contribuisca a "riumanizzare" tutti gli autori dei reati. Ricordando che non esistono mostri, ma solo persone da recuperare. Le dichiarazioni che Renzi ha rilasciato sui media ci lasciano ben sperare che l’impegno per cambiare la legge penitenziaria, e in particolare tutto quello che riguarda le nostre famiglie, ma anche i provvedimenti per ridare speranza ai condannati all’ergastolo, diventino una priorità per una giustizia che non dimentichi nessuno. Bruno Turci Sentirsi ascoltati dalle istituzioni aiuta molto il detenuto 28 ottobre 2016, una data da ricordare per la redazione di Ristretti Orizzonti, perché ad ascoltare le testimonianze di alcuni detenuti-redattori è stato il premier Matteo Renzi, in una breve visita accompagnato dal ministro della Giustizia e dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che si sono invece trattenuti più a lungo con noi per confrontarsi sui problemi che affliggono gli istituti di pena italiani. Noi dell’Alta Sicurezza, che facciamo parte della redazione, abbiamo spiegato che avere un confronto vero con le istituzioni aiuta molto il detenuto perché gli fa abbattere le barriere alzate da una certa subcultura, quella tipica di alcuni territori del Sud del nostro Paese. Ciò che mi ha colpito di più è che il Ministro della Giustizia conoscesse così in profondità quali sono i mali delle carceri italiane, e mi ha gratificato e incoraggiato sentirlo apprezzare la nostra rivista, dicendo che è ben fatta e letta da molti con attenzione. Penso che la visita del premier Renzi sia stata un atto di grande significato, perché mai era successo nel nostro Paese che un Presidente del Consiglio entrasse dentro un istituto di pena, così come la presenza del Ministro della Giustizia e del Capo del DAP è stata importante perché entrambi hanno dimostrato grande capacità di ascolto, ma anche perché siamo riusciti ad affrontare questioni spinose come l’ergastolo ostativo, che uccide ogni speranza, e a spiegare l’importanza di una carcerazione più umana anche per quelli come noi, che viviamo nei circuiti di Alta Sicurezza, e che solo con un confronto vero con la società possiamo cambiare davvero. Tommaso Romeo Al Presidente del Consiglio abbiamo detto che al primo posto ci sono le nostre famiglie La giornata del 28 ottobre è iniziata come di consueto nella nostra redazione, ma a sconvolgere ogni programma è stato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che è venuto qui al carcere Due Palazzi. L’incontro è stato intenso di emozioni, soprattutto perché non ci aspettavamo certo di ricevere una visita di rilievo come quella del Presidente del Consiglio. Matteo Renzi si è soffermato ad ascoltare le testimonianze delle persone che vivono il dramma della carcerazione, il loro racconto dei problemi che pesano sulle condizioni di vita nelle carceri, dei quali la redazione di Ristretti Orizzonti si occupa da quasi vent’anni. Vista la mole d’impegni che il Presidente aveva, la visita è durata una ventina di minuti, ma poi l’incontro è proseguito con il Ministro Orlando che si è reso disponibile ad ascoltare le questioni che Ristretti ha più volte posto all’attenzione di chi gestisce le carceri. Il Ministro ha le idee chiare sulle riforme che si sta accingendo a portare avanti, dopo i lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale, e ha le idee chiare anche sulle difficoltà politiche che incontrerà sulla sua strada, ma quello che abbiamo sottolineato noi è che alcune proposte possono trovare attuazione nell’immediatezza con delle semplici circolari, come quella di ampliare i colloqui telefonici con i famigliari e i colloqui via Skype per chi ha la famiglia lontana, che a nostro avviso sono di notevole importanza per la cura delle relazioni con i nostri cari. Infine non potevamo dimenticare di invitare il Ministro alla Giornata di studi che si terrà il 20 Gennaio nel carcere di Padova per l’abolizione dell’ergastolo, dove a prendere la parola saranno soprattutto i nostri famigliari. Agostino Lentini La vita dopo il carcere di Maurizio Crippa Il Foglio, 31 ottobre 2016 Si può entrare in galera e uscirne da una "porta" di cambiamento che qualcuno ha aperto? Il Giubileo dei carcerati, la Marcia radicale intitolata a Pannella e Francesco, la giustizia sbagliata. Storie vere e affermative di detenuti, e di una seconda possibilità. "Io le porte ero abituato ad aprirmele: col tempo, era diventato un gioco da ragazzi". Porte di qualsiasi tipo: di casa e di bottega, di legno o blindate. Porte, portoni, portoncini. "Dopo trent’anni di galera, se scampo dovrò dire grazie a una porta. Non avrei potuto aprirla con le mie mani: altri me l’hanno aperta". Dicevano gli antichi che "porta itineris dicitur longissima esse", la porta è la parte più lunga di un viaggio. Non conta sapere se la massima sia autentica o apocrifa, non importa se abbia varcato la soglia della prigione nascosta in un romanzo di Fabio Volo, accompagnata da un assistente carcerario, o da un volontario che l’aveva letta in un libro. Non c’è nulla di così lungo da passare come una porta. A Enrico, dopo trent’anni, su cinquantacinque, trascorsi dietro il cemento e il ferro ("ho collezionato un codice penale di reati") la porta del Due palazzi di Padova gliel’ha aperta, tecnicamente, un cancro: Mi hanno sbattuto fuori e mi han detto: "Vatti a curare, poi torna a finire la galera". Dopo trent’anni. Con nient’altro in mano che un cancro e un pugno di domande: "Dove vado, dormo, sbatto? Ci sono giorni nei quali libertà è disperazione, quasi rimpianto della prigionia". L’altra porta, a Enrico, l’hanno aperta persone sconosciute. Gli hanno dato la chiave. Don Leopoldo Voltan, parroco di Campodarsego, Padova, con la sua comunità si era detto disponibile ad accogliere un detenuto. "Ci hanno proposto Enrico, noi gli abbiamo aperto la porta di casa. Gli abbiamo dato le chiavi: uno di noi, dalla prima sera". "Mica ho ancora capito perché la gente voglia tutto questo bene a un vecchio lupo di galera come me, con un fisico che è un rottame, una storia sfasciata. Non lo merito, chiaro". L’illogicità che la detenzione lascia addosso. "Ci sono sere che vorrei tornare subito in carcere". Ma una logica ce l’ha, tutta sua: vera galera non sono le sbarre, il cemento. La galera, quella che piega la roccia, è lo stare esposti alle domande, reggere l’urto del passato senza defilarsi: "Le domande dei bambini (non potevi pensarci prima?), le domande di mio figlio (papà, perché non sei mai a casa?), gli sguardi della gente, le loro attenzioni, i miei rimpianti: questa è la galera che mi tortura. Mai l’avrei immaginato mentre ero là dentro. Durante una messa ho sentito dire: "Vinci il male col bene". Quando non riesco a dormire, mi metto a riflettere e penso che stavolta mi abbiano fregato così, aprendomi una porta". La porta che hanno aperto a Enrico è quella del Giubileo. "Nelle cappelle delle carceri potranno ottenere l’indulgenza, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà". Lo ha scritto Francesco nella Lettera in cui concede l’indulgenza per il Giubileo della Misericordia. E se c’è un’immagine potente per riassumere che cosa sia il perdono per i cristiani, che è qualcosa d’altro dal perdono della legge, è questa. Quando si aprirà il sipario del Piccolo Teatro Studio Melato, il 10 e l’11 dicembre, Antonella, Betsy, Carolyne, Cinzia, Dana, Mariangela e le altre penseranno a un’altra porta che si è aperta. La porta del carcere di San Vittore a Milano, dove lavora da più di vent’anni Donatella Massimilla, che ha fondato nel 1999 il Cetec, Centro europeo teatro e carcere, una cooperativa sociale. Una compagnia "aperta" di artisti, cittadini e detenuti. Perché il teatro, il lavoro dolce e doloroso del mettersi in scena, a nudo, e rivestirsi, è "auto-rivelativo", è passare la porta di se stessi. Lo sanno in molti, quanto vale la teatro-terapia nel processo di recupero dei detenuti. Soprattutto all’estero, in Gran Bretagna e Germania, in Italia siamo sempre allo stadio della sperimentazione d’eccellenza. Ma Donatella Massimilla è rimasta "grotowskiana", la partenza è sempre quella del suo maestro: "All’inizio per me il teatro è stato unicamente il pretesto, lo pseudonimo della vita". Così adesso le sue attrici detenute, ex, oppure libere saranno su un palcoscenico "fuori": con San Vittore Globe Theatre - Atto II, uno spettacolo elaborato su Shakespeare, vissuto e costruito dentro le mura, un laboratorio di "auto drammaturgia" che ora fa dire alle sue creatrici-interpreti "Un temporale è un temporale, ma noi siamo sopravvissute". A Donatella piace la parola "reesistere", e non è solo poesia. Attorno a questo lavoro - e ad altre esperienze simili - ci sono meccanismi virtuosi di reinserimento nel lavoro, non solo teatrale. Dal San Vittore è partita ad esempio l’ApeShakespeare, un mix di street food e teatro di strada che i milanesi ormai conoscono e che dà lavoro stabile a ex detenute e altri collaboratori. Le piace ricordare che le ultime parole di Shakespeare, le ultime della Tempesta, sono queste: "E come voi vorreste esser perdonati di ogni colpa / fate che io sia affrancato dalla vostra indulgenza". Quando il 22 ottobre sei detenuti di Rebibbia hanno affrontato la commissione di laurea, nuovi dottori - quattro in Lettere e due in Drammaturgia antica - grazie al progetto Università in carcere con Teledidattica ideato nel 2006 dal Garante dei detenuti del Lazio, dall’ateneo e dalla direzione del penitenziario romano, hanno pensato a una porta che è stata aperta. Una porta di conoscenza, la porta della letteratura come esperienza di cura di sé. Insegnare ai carcerati, "un’attività spettacolare" di Maurizio Crippa Il Foglio, 31 ottobre 2016 "I libri, le lauree, il teatro come una terapia. Intanto fuori, la battaglia per l’amnistia e l’indulto. E con la politica muta". Lo spiega Fabio Pierangeli, docente di Letteratura a Tor Vergata e tra gli iniziatori del progetto, ricorda l’impressione della prima volta che varcò le sbarre - era stato invitato dai detenuti per un corso "in presenza", le lezioni invece sono videoregistrate in università e poi trasmesse - sulla letteratura di viaggio: "Singolare e affascinante ossimoro, la chiusura più totale, la pena, l’espiazione, la costrizione, la voglia di evadere nell’immaginazione, come nello splendido libro di Jack London, Il vagabondo delle stelle". Pietro Vereni, che insegna Antropologia culturale e partecipa allo stesso progetto, in un articolo che sarà pubblicato nel prossimo gennaio sulla rivista Studium fa un bilancio dell’insegnare "ai carcerati" e non "in carcere", e della sua "presa di coscienza che insegnare nel carcere può essere un’attività al limite dello spettacolare, quanto alla resa in rapporto all’investimento". Annota Vereni che "è incredibile la mole di parole scritte dai carcerati". "Scrivono romanzi noir, poesie concettose e buffe, raccontano in brevi note quel che fanno alla radio, in romanzi più o meno lunghi quel che tipicamente non hanno commesso per essere lì… Ci sono hipster con barbe curatissime, in carcere, che scrivono pezzi rap dove urlano il loro rimorso e la loro solitudine, e li cantano accompagnati da percussionisti poliglotti in grado di concepire spettacoli teatrali sul rapporto tra arte e carcere che hanno un successo strepitoso tra i detenuti ammessi tra il pubblico". Quest’anno a Rebibbia inizia anche un corso di laurea in Scienze motorie. Che in prigione, è un altro bell’ossimoro. Quando attraversano la linea non soltanto di una pena finita, ma di un’esistenza cambiata, riacciuffata attraverso la soglia del dolore, pensano che la porta girevole per loro non tornerà più a mulinare, risucchiandoli indietro. A spalancarsi su quel luogo buio, fermo nel tempo, ma in cui il tempo è l’unica cosa a contare davvero. Il carcere, visto da fuori, o ascoltato dalla voce di chi ha avuto la dolorosa ventura di passarci, per la pena o per alleviare la pena di altre persone, è innanzitutto una cosa: un salto all’indietro. Arrivando da fuori, dal mondo dei liberi, è un tragitto quasi impercorribile, "porta itineris dicitur longissima esse". Ci vogliono sforzi di fede autentica, di lucidità politica, di coraggio civile e razionale per passare. E per decidere se, da dentro, sia possibile a uomini e donne fare il cammino inverso. Quando un anno fa Papa Francesco indisse il Giubileo della Misericordia, nella Lettera scriveva: "Il mio pensiero va anche ai carcerati, che sperimentano la limitazione della loro libertà. Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto. A tutti costoro giunga concretamente la misericordia del Padre che vuole stare vicino a chi ha più bisogno del suo perdono". Domenica 6 novembre, in San Pietro, si celebrerà il Giubileo dei Carcerati, mentre lo stesso rito verrà celebrato dai vescovi in date diverse nei penitenziari di molte città. Un gesto più che simbolico, non solo per la sensibilità di Bergoglio ma anche ricordando la forza con cui Giovanni Paolo II chiese un’amnistia in occasione del Giubileo del 2000, ma non fu concessa. E quando, nel memorabile discorso al Parlamento del 2002, tornò a chiedere "un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della pena". Lo stesso giorno, a Roma, si svolgerà la "Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà" organizzata dal Partito radicale e intitolata a Marco Pannella e Papa Francesco. Dal carcere di Regina Coeli fino a piazza San Pietro, sfilando davanti ai luoghi del potere politico, secondo la liturgia radicale, per arrivare a incontrare la liturgia della chiesa e ricordare la richiesta di amnistia del Papa disattesa dalla politica. Una marcia nel ricordo, parlandone da vivo, di Marco Pannella e della sua laica, democratica attenzione alla giustizia e al ripristino della legalità nelle carceri italiane. Una lotta di lunga durata. Rita Bernardini, presidente onorario di Nessuno tocchi Caino, è con altri militanti da giorni in sciopero della fame. Spiega che nelle prigioni la situazione è lievemente migliorata, soprattutto per effetto della sentenza Torreggiani del 2013 che ha costretto l’Italia a "svuotare" e aprire un poco le celle per rientrare nei parametri della legalità e schivare quelli della tortura. Ma il livello di emergenza, dice, sta tornando alto. La marcia servirà anche a rilanciare i disegni di legge per l’amnistia fermi in Parlamento e in commissione Giustizia del Senato. Così come è fermo il disegno di legge Manconi intitolato a Marco Pannella che intende modificare l’articolo 79 della Costituzione sull’approvazione dei provvedimenti di amnistia e indulto: lo scopo è abbassare la maggioranza necessaria, fissata oggi a due terzi del Parlamento. Luigi Manconi, presentando la sua proposta nel maggio scorso, non ha dimenticato di individuare il punto dolente, di inciviltà politica prima che giuridica: l’articolo 79 della Carta, aveva detto, era già stato "modificato, in piena Tangentopoli, per elevare il quorum necessario a far passare amnistia e indulto. Allora si voleva rendere questo strumento di clemenza più difficilmente approvabile. Lo scopo è stato raggiunto perché a oggi è passato solo l’indulto del 2006. Un fatto, questo, assolutamente negativo perché ha sottratto questi provvedimenti alla loro principale destinazione: essere strumento di politica di diritto destinato a ridurre in modo significativo la presenza nelle carceri e l’accumulo delle cause pendenti. Sono provvedimenti a carattere eccezionale ma la situazione del sistema penitenziario resta comunque emergenziale". La Conferenza episcopale italiana ha aderito ufficialmente alla marcia promossa dal Partito radicale. La porta troppo lunga da oltrepassare per la politica - e per la società civile - ha una soglia innanzitutto ideologica. E di sudditanza psicologica nei confronti del giustizialismo che ha contagiato l’Italia da decenni. Infine, c’è la sudditanza rispetto al populismo giudiziario sedimentato nell’opinione pubblica, nutrito da paure reali ma circoscrivibili, e da paure incontrollabili sobillate dal mercato elettorale. Così il carcere rimane entità separata, da non vedere. L’ultimo indulto ha la data del 2006, l’ultima amnistia addirittura del 1990. Un tempo infinito per provvedimenti che, per quanto straordinari, sono previsti dall’ordinamento costituzionale. Chi ha memoria, ricorda le polemiche e il clima di spavento che l’indulto generò, anche per la sua applicazione improvvisata nei giorni socialmente più sguarniti dell’anno, i giorni di Ferragosto. Dal carcere uscirono circa 22 mila detenuti. Nel 2014 Luigi Manconi e Giovanni Torrente, che insegna Diritto penale e penitenziario all’Università di Torino, hanno pubblicato un saggio nella Rassegna italiana di sociologia del Mulino, "Clemenza e recidiva: il caso del provvedimento di indulto del 2006". Scrivono: "Il dato della recidiva dei beneficiari dell’indulto si colloca quindi su un livello inferiore rispetto a quello rilevato in un monitoraggio ordinario". Inoltre: "Occorre, infine, rilevare come, fra i soggetti provenienti dal carcere, i dati confermino una stretta correlazione fra il numero di precedenti carcerazioni e l’aumento dei tassi di recidiva. Appare quindi significativo il fatto che meno di uno su cinque fra gli 11.131 soggetti scarcerati che erano alla prima esperienza detentiva abbiano fatto reingresso in carcere nei successivi 38 mesi. È all’interno di questo universo che troviamo i ‘verì beneficiari dell’indulto, vale a dire coloro per i quali la clemenza è stata la possibilità di sfuggire agli effetti negativi provocati dall’esperienza detentiva". Una dimostrazione per tabulas che i provvedimenti, di varia natura, che aprono le porte delle prigioni funzionano. La porta chiusa è invece quella di una "decenza" politica e dei diritti, come dice Rita Bernardini, per restituire legalità al sistema di giustizia. Il muro di gomma sono la concezione giuridica della pena e i meccanismi arretrati e fuori controllo dell’amministrazione penitenziaria (nella maggior parte dei casi, e con le dovute eccezioni e buone volontà). Il risultato è una giustizia che anziché prevenire i reati produce carcere. Un luogo in cui si somministra una giustizia tutt’al più retributiva (semplicemente punitiva, nell’opinione corrente), raramente riabilitativa - quella prevista dalla Costituzione - quasi mai una giustizia riparativa, concetto per molti versi nuovo ma su cui in molti, dentro e fuori dalle celle, stanno concentrando gli sforzi. Si può davvero uscire da quella porta? Elvio Fassone è stato magistrato, membro del Csm e per due legislature senatore della Repubblica. Lo scorso anno ha scritto un libro, per Sellerio, che si intitola "Fine pena: ora". È un reato non leggerlo. È il diario di bordo di venticinque anni di vita, di impegno professionale e giudiziario, filtrati attraverso una storia singolare, personale, decisiva come sanno esserlo pochi incontri. È la storia di una porta che divide, che unisce. Il libro inizia con una lettera ricevuta, la busta gualcita, la scrittura ben conosciuta, sono venticinque anni che il giudice riceve quelle lettere, ma stavolta la grafia è allarmante. "L’altra settimana ne ho combinata una delle mie. Mi sono impiccato. Mi scusi". Fassone ha conosciuto Salvatore nel 1985, al maxi processo di Torino contro la mafia catanese, di cui fu presidente. Salvatore era giovane, un duro, un assassino. Ma non un bruto, dentro aveva qualcosa d’altro. Si instaura un rapporto a distanza, profondo, con il giudice che lo condannerà all’ergastolo. Seguiranno decenni di corrispondenza, di interrogativi e di risposte che saranno non solo per l’ergastolano, per il giovane senza cultura e senza prospettiva. Saranno anche, o soprattutto, per l’uomo di legge una strada di riflessione sulla pena, la sua utilità sociale, la necessità di riformare la giustizia e il carcere. Soprattutto quel "fine pena: mai". Il 24 ottobre a Padova si è suicidato un detenuto. Sono 29 quest’anno, in totale 81 i decessi dentro alle mura. Secondo l’Istituto superiore della sanità nei penitenziari si registra una percentuale tra il 60 e l’80 per cento di persone malate (30 mila affetti da epatite B, 5.000 da Hiv). I dati sul sovraffollamento parlano di circa quattromila detenuti senza letto e oltre novemila rinchiusi in spazi angusti, quattro metri quadrati. L’emergenza è evidente, la sua irredimibilità una questione di cecità politica. Mario Rossetti è un uomo che ha conosciuto il carcere, per quattro mesi, custodia cautelare. Un caso clamoroso di errore giudiziario, era l’inchiesta Fastweb. Ha raccontato il bilancio provvisorio della sua esperienza in un libro che tutti dovrebbero leggere: Io non avevo l’avvocato (Mondadori). In Italia, al 30 giugno 2016, erano detenute 54.072 persone, stranieri compresi. Di queste, 514 laureate (0,95 per cento), 3.537 con un diploma di scuola superiore (6,54 per cento) ma di ben 25.937 (47,97 per cento) il titolo di studio non è rilevato. Significa che di quasi metà della popolazione carceraria il sistema che ne gestisce le restrizioni della libertà dichiara di non conoscere il livello di istruzione. Quattro mesi bastano a un uomo istruito, a un manager che conosce i sistemi umani strutturati che si chiamano aziende, per capire molte cose di un universo concentrazionario, di una struttura ricettiva sui generis - a parte i muri e le guardie, dentro quasi tutta l’organizzazione è dar da mangiare e da dormire alle persone. Nient’altro. Si entra e poi si esce. Ma la vita è cambiata. Rossetti non è un filantropo, "non faccio buonismo", è tornato a fare il manager. Ciò di cui racconta è il carcere visto secondo ragione. La sua disfunzionalità, innanzitutto, secondo il suo fine presunto e la sua funzione "rieducativa". La sua popolazione che per due terzi non dovrebbe essere reclusa: o non ce ne sarebbe bisogno, o è solo un aggravamento del danno sociale. Piccolo crimine, molta droga e tossicodipendenza, immigrati che non parlano italiano, disagio psichico che avrebbe bisogno di tutt’altra cura. È "un salto indietro, in un mondo buio e senza comunicazione, ottocentesco, mentre fuori si vive connessi con tutti e tutto". La privazione (restrizione) della libertà è un concetto giuridico. Forse inevitabile, forse antiquato. Ma, per Rossetti, "la verità è oggi che il carcere ti priva di molte altre libertà. Plurale. Non solo la libertà, in astratto, ma la "le" libertà. La libertà di comunicare, ad esempio: per quale motivo non puoi fare una telefonata, se non sei sottoposto a un regime particolare di indagine? In Spagna si può. O la privazione della libertà di incontrare i propri parenti. O la violazione della privacy, non hai modo di stare solo, nemmeno per piangere". E i diritti, che vengono negati ad altri: "Il diritto dei miei figli di vedermi sarà inferiore o maggiore al diritto dello stato di tenermi imprigionato?". Tutte queste negazioni, la legge non le prevede. Secondo l’art. 13 della Costituzione, "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Sono un’aggiunta della macchina, ingiustificata da un punto di vista razionale. Un di più che nasce, se non da un sopruso, da una interpretazione meccanica e arretrata di decenni. L’esperienza vissuta da Rossetti lo ha cambiato, non lo nega. Ricordare, dire, è "non è una premura umanitaria". È questione di dignità e consapevolezza civile: che società è quella che produce carcere, dunque soprattutto piccola delinquenza? Che non dà futuro alla sua popolazione detenuta, anzi ne rimette la maggioranza periodicamente a piede libero, in un circolo vizioso, "persone che potenzialmente possono, nelle condizioni in cui sono lasciate, divenire pericolose?". Si esce coscienti dell’urgenza sociale di cambiare questo stato di cose. Per fare del carcere ciò che dovrebbe essere. Art. 27 della Costituzione: le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato". Ci sono molte persone e associazioni, e fortunatamente anche istituzioni che lavorano per aprire le porte, non solo i chiavistelli. Basterebbe citare la Seconda casa di reclusione di Milano a Bollate, caso di studio a livello internazionale per il tasso di recidiva tra i più bassi in Europa (20 per cento, contro una media italiana che sfiora il 70). Merito della gestione "aperta" interna, dell’area educativa-scolastica ben strutturata. Merito dei laboratori. Merito di operatori come Silvia Polleri, che guida la cooperativa sociale Abc-La sapienza in tavola, che collabora con la scuola alberghiera, da cui è nato un anno fa il ristorante In Galera in cui lavorano i detenuti, finito sulle pagine del New York Times. Merito di altre cooperative, come la Cascina Bollate: un vivaio all’interno del perimetro dove lavorano giardinieri liberi e detenuti. Basterebbe citare il lavoro di Ristretti orizzonti, giornale della Casa di reclusione di Padova e dell’Istituto di pena femminile della Giudecca, poi sito online, poi centro di documentazione. Nel carcere di Padova da dieci anni esistono tre diversi gruppi impegnati nella ricerca e nella produzione di materiale informativo sul carcere. Ci lavorano in media 80 detenuti, un ricambio del 30 per cento ogni anno. Ornella Favero, che Ristretti orizzonti ha fondato, del carcere ha detto: "Qui conosci davvero il male, cominci a farci i conti e a capire che a fare il male sono delle persone, delle persone. Cominci a fare i conti con il tuo lato oscuro e con quello di chi ti è vicino, e capisci quanto è complessa una realtà che invece si tende sempre a semplificare". Qualcosa sta cambiando. Secondo il monitoraggio svolto dal gruppo dei cappellani della diocesi di Milano, in collaborazione con la Caritas, "a livello legislativo assistiamo in Italia dal 2013 a un cambiamento molto interessante". Sono gli sforzi, "non sempre omogenei ma presenti, di rendere la pena in carcere residuale, implementando le forme di esecuzione penale esterna. L’esecuzione penale esterna al carcere è la miglior scelta possibile dal momento che abbatte la recidiva, dà provato esito di efficacia nel reinserimento sociale, incide meno sui costi della Pubblica amministrazione, genera maggior sicurezza sociale". Considerazioni che si affiancano all’attenzione di decine di volontari e al racconto di un Giubileo che ha in molti casi raggiunto il suo scopo. Come dice don Marco Pozza, giovane cappellano del carcere Due Palazzi, "scopri che la vita non si scioglie neanche quando fai i conti con la morte". C’è anche chi la vita, dal carcere, se l’è vista cambiata per errore. Un’altra delle disfunzionalità del sistema di giustizia e di esecuzione (spesso troppo cautelare) della pena. Da anni il sito errorigiudiziari.com curato da due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, e un avvocato, Stefano Oliva ne raccoglie le storie, i dati. Una documentazione preziosa, circoscritta ai soli casi giudiziariamente conclusi. Da quando, 1992, è stato introdotto l’istituto per la riparazione per ingiusta detenzione, in Italia i casi in cui lo stato ha dovuto riconoscere l’errore (e risarcire) sono stati 24 mila, mille ogni anno. Una cifra abnorme. Il totale dei risarcimenti è di 630 milioni, un’enormità. Una disfunzionalità anche dal punto di vista meramente economico di uno stato che ha un problema con la sua amministrazione della giustizia, spiega Maimone. Ma dietro ai numeri ci sono le persone che hanno avuto la vita cambiata. Raramente in meglio. Dal loro lavoro è nato anche un docufilm, Non voltarti indietro, già presentato in varie occasioni ufficiali e interpretato da alcune vittime. Non guardarti indietro sembra voler dire cerca di non ricordare. Ma è una cosa che non può accadere. "Non voltarti indietro", spiega Maimone, è un’espressione del gergo carcerario per chi esce: un augurio di buona fortuna. A Lucia Fiumberti, una delle vittime che si raccontano nel film, quando l’hanno scagionata, il magistrato ha dato una pacca sulla spalla: è andata bene, no? Mercoledì 26 ottobre nel Due Palazzi di Padova hanno presentato un altro documentario, si intitola Mai dire mai, storie di dieci detenuti, otto uomini e due donne. Porte che si sono aperte, forse si apriranno. Sarà trasmesso in due puntate da Tv2000, il 6 e 13 novembre. Per capire cosa significhi una possibilità di cambiare basta guardare Lorenzo, ha più di quarant’anni e trenta da scontare, i suoi occhi scuri pieni di un dolore consapevole. Sentirlo raccontare, con la voce grave e la lucidità di chi ha percorso una strada infinita. Carcerato figlio di carcerato. Racconta che, alle prime "avventure" s’immaginava che suo padre sarebbe stato orgoglioso di lui. L’ultima volta l’hanno arrestato perché, latitante, era rientrato in Italia per assistere "ma da lontano, non sentivo il prete", al funerale del suo bambino, Salvatore. A Padova ha incontrato la redazione di Ristretti orizzonti. Non è stato facile, ma "mi è stata data una possibilità e io l’ho colta". Così ora dice: "Se uscissi… oggi non avrei gli amici della batteria ad aspettarmi". Avrei le persone che mi hanno dato una possibilità. Non importa sapere se è stata una porta santa, o una redenzione civile. Importa che è avvenuto. Gli chiedono cosa vorrebbe, ora: "Vorrei chiedere a mio padre se oggi sarebbe orgoglioso di me". Piange. È inumano far trascorrere 27 giorni in meno di 3 mq. Celle piccole (a volte) ammesse di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 31 ottobre 2016 La Corte europea dei diritti umani: permanenze brevi da valutare caso per caso. Ventisette giorni in cella in uno spazio di meno di 3 metri quadrati rappresentano un trattamento inumano. I giudici di Strasburgo tornano sulla questione dello spazio minimo che deve essere assicurato ai detenuti affinché non possa ritenersi violato l’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani che proibisce la tortura e ogni trattamento inumano o degradante. Il caso deciso dalla Grande camera della Corte europea dei diritti umani lo scorso 20 ottobre riguarda la Croazia (caso Muršic) ma condizionerà anche gli altri Stati. La Grande Camera è dovuta intervenire sul tema in quanto i precedenti della Corte non erano proprio omogenei e ha dunque cercato di fare chiarezza. Vi erano infatti sentenze nelle quali si affermava che nel caso in cui un detenuto disponesse di meno di 3 metri quadri vi era automaticamente violazione dell’articolo 3 della Cedu e sentenze dove il principio era attenuato. Va ricordato che l’Italia nel maggio del 2013 aveva subito una sentenza pilota nel caso Torreggiani, decisione che aveva costretto il nostro Paese a varare un pacchetto di riforme. La Corte, presieduta dal giudice italiano Guido Raimondi, ha deciso che nel caso di un periodo di 27 giorni di permanenza in meno di 3 metri quadri vi è inequivocabilmente un trattamento inumano e degradante; invece nel caso di reclusione in celle con meno di 3 metri quadri a disposizione pro-capite per periodi più brevi bisogna guadare anche ad altri fattori, come la libertà di movimento fuori dalla camera di pernottamento o le più generali condizioni di detenzione. Non è chiarissimo quale sia il tempo che fa scattare la presunzione di violazione. Nel caso di reclusione tra i 3 e i 4 metri quadri vanno invece sempre verificate le condizioni fi siche di detenzione con uno sguardo alla possibilità di esercizio all’aria aperta, alla disponibilità di luce naturale, ventilazione, riscaldamento, servizi igienici riservati. Al di là se la sentenza sia un passo in avanti o indietro nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sicuramente arriva un messaggio forte alle autorità penitenziarie, comprese quelle italiane: per evitare l’umiliazione di una condanna va rispettata la dignità dei detenuti, va organizzata una sorveglianza di tipo dinamico, vanno offerte opportunità trattamentali fuori dalla cella. La tregua dell’Anm: "Ma sulle pensioni serve concretezza" di Errico Novi Il Dubbio, 31 ottobre 2016 La si può considerare una tregua. Il "no" dell’Anm alla riforma del processo penale finisce tra parentesi, e il sindacato dei giudici concede al governo un’apertura di credito su due questioni a questo punto prioritarie: estensione a tutti i magistrati di un reinnalzamento a 72 anni dell’età pensionabile e ritorno a 3 anni della permanenza minima nella prima sede per le toghe appena entrate in ruolo. Sono i due punti che spostano il direttivo dell’Associazione magistrati, riunitosi venerdì nella consueta saletta presso la Cassazione, verso un atteggiamento decisamente più dialogante con l’esecutivo. Fino a poche settimane fa le critiche dei giudici erano arrivate a paralizzare il cammino della riforma penale a Palazzo Madama. Lo stesso Renzi aveva deciso di congelare la fiducia sul ddl per evitare il conflitto aperto con l’Anm. Ma è lo stesso presidente Davigo ad ammettere davanti al suo "parlamentino" che "la disponibilità" da parte del governo, "c’è stata: ora attendiamo che si traduca in atti concreti". Secondo l’ex pm di Mani pulite "non possiamo abbassare la guardia", ma può essere sicuramente accantonata la linea dura. Certo, l’assemblea ha ribadito la richiesta sulla riforma del processo: eliminare la norma sull’avocazione obbligatoria da parte della Procura generale qualora il pm non decida, entro 3 mesi dalla chiusura delle indagini, se chiedere o no il rinvio a giudizio. Non è stata avanzata, come pure aveva invitato a fare il ministro Orlando, una soluzione "alternativa" per dare tempi più serrati alla fase preliminare. In ogni caso nell’incontro a Palazzo Chigi di lunedì scorso il presidente del Consiglio e il guardasigilli avevano fatto cadere il tabù delle soglie per il congedo: la chiusura a ogni modifica sul decreto Cassazione era sembrata fino a quel momento invalicabile, e invece il vertice a Palazzo Chigi ha riaperto la partita. "Noi siamo per il limite a 72 anni per tutti i magistrati in via transitoria fino a che non verrà coperto l’intero l’organico", ha ribadito nella riunione di ieri il segretario dell’Anm Francesco Minisci. Su questa linea in effetti lo stesso premier ha mostrato ampia condivisione. Ed ha offerto a Davigo e alla sua giunta assicurazioni di massima sull’inserimento del limite transitorio a 72 anni nel milleproroghe se non addirittura in Finanziaria. "Ora aspettiamo le risposte affinché quello che è stato detto non resti lettera morta", ha spiegato Minisci al Comitato direttivo centrale. Ha anche ammesso che "non tutto dipende dal governo: senza mettere in discussione la buona fede dei nostri interlocutori, le decisioni dovranno essere condivise dalle Camere". La tregua è provvisoria: resta la distanza sulla norma che rende obbligatorie le avocazioni, ma il direttivo dell’Anm dovrebbe riunirsi il 18 novembre, e per quella data, se non altro, difficilmente la riforma del processo penale avrà ricominciato a inviare segnali di vita da Palazzo Madama. Senza contraddittorio il Gip non può archiviare per particolare tenuità del fatto di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2016 Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 5 settembre 2016 n. 36857. Il giudice per le indagini preliminari, a cui è stata chiesta dal pubblico ministero l’archiviazione nel merito (nella specie, in cui si ipotizzava il reato di diffamazione, la richiesta si basava sull’applicabilità dell’esimente del diritto di critica), anche laddove abbia fissato l’udienza camerale, non può concludere per l’archiviazione del procedimento ai sensi dell’articolo 131-bis del Cp. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 36857 del 5 settembre 2016. Ciò perché l’articolo 411, comma 1-bis, del Cpp, nel disciplinare l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, prevede che il provvedimento del giudice deve essere preceduto da apposita richiesta in tal senso del pubblico ministero, richiesta che deve essere portata a conoscenza delle parti (sia dell’indagato, sia della persona offesa, anche se quest’ultima non ne abbia fatto, in precedenza, esplicita richiesta), in modo da consentire il contraddittorio fra le parti. La decisione della Corte - Da queste premesse, la Corte ha dichiarato nulla l’ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto pronunciata ai sensi dell’articolo 411, comma 1, del Cpp,in luogo dei diversi motivi di merito indicati nella richiesta del pubblico ministero, senza l’osservanza della speciale procedura prevista al comma 1-bis, sul rilievo che le disposizioni generali contenute negli articoli 408 e seguenti del Cppnon potessero considerarsi idonee a garantire il necessario contraddittorio sul punto. La ragione della decisione è argomentata sulle caratteristiche tipiche dell’istituto della non punibilità per la particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Cp), basato, da un lato, sulla decisione positiva sulla sussistenza del fatto-reato (che l’indagato può comunque avere interesse a contrastare) e, dall’altro, sulla valutazione del danno causato (di evidente interesse per qualsiasi persona offesa, e non solo per chi abbia chiesto di essere notiziato dell’eventuale archiviazione). L’istituto dell’irrilevanza per particolare tenuità - Ciò spiega perché nel caso esaminato qui dalla Cassazione il ricorso era stato proposto dalla persona indagata, che aveva evidentemente interesse a un’archiviazione nel merito. Infatti, l’istituto dell’irrilevanza per particolare tenuità presuppone un fatto tipico, costitutivo di reato e offensivo dell’interesse tutelato, ma da ritenere non punibile in ragione dei principi generalissimi di proporzione e di economia processuale che stanno alla base del decreto legislativo: conclusione pacifica anche in ragione della formulazione letterale della norma, laddove si richiama l’offensività del fatto (che quindi non può essere ricondotto all’articolo 49 del Cp), ricollegandosi la punibilità (solo) alla modestia dell’offesa ("di particolare tenuità"). A ciò dovendosi aggiungere che l’archiviazione per la riconosciuta particolare tenuità del fatto produce comunque conseguenze giuridiche sfavorevoli, come attestato dalla prevista iscrizione del relativo provvedimento nel casellario giudiziale (articolo 3, comma 1, lettera f), del Dpr 14 novembre 2002 n. 313); con effetti principalmente ai fini dell’apprezzamento dell’"abitualità" ostativa all’applicazione dell’istituto (articolo 131-bis, comma 3, del Cp). L’interlocuzione con l’indagato - In sintesi, sono proprio queste le ragioni per cui è stata introdotta una interlocuzione con l’indagato anche nel caso in cui il pubblico ministero intenda richiedere l’archiviazione per la particolare tenuità del fatto, così da consentirgli, mediante l’opposizione, di far valere le ragioni che dovrebbero piuttosto condurre a una decisione liberatoria nel merito. A maggior ragione, secondo il ragionamento della Corte, questa interlocuzione consapevole deve essere garantita nel caso in cui il pubblico ministero si sia determinato a una richiesta di archiviazione nel merito e sia il giudice a voler definire il procedimento ricorrendo alla particolare tenuità del fatto. I problemi pratici - La soluzione della Cassazione, ineccepibile in diritto, presenta indubbi problemi di farraginosità pratica, ostativi comunque alla possibilità di una sollecita definizione. In questa prospettiva, il problema di garantire il contraddittorio, allorquando il giudice voglia affrontare il tema della definibilità della vicenda ex articolo 131-bis del Cp, pur a fronte di una richiesta di archiviazione basata su altre ragioni, potrebbe essere opportunamente risolto prevedendo che, con l’avviso di fissazione dell’udienza, sia il giudice stesso ad avvisare le parti interessate di tale possibilità, sì da consentire - ove lo vogliano - di interloquire in sede camerale. Detenzione di 45 grammi di hashish: illegittima la custodia cautelare in carcere Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2016 Cassazione: 65694/2016. Illegittima la custodia cautelare in carcere per il soggetto che detenga 45 grammi di hashish. La Cassazione censura quanto disposto dal Tribunale di Catania ossia che le modalità della condotta nonché il luogo ove il fatto era stato accertato ("sede di una nota piazza di spaccio cittadino") dovessero far presagire la pericolosità del soggetto con concreto rischio di reiterazione della condotta. Se gli associati non partecipano la Onlus perde le agevolazioni di Marco Ligrani Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2016 Ctp Milano 7424/1/16. Il rispetto dei vincoli statutari posti a carico delle associazioni deve riguardare non soltanto gli aspetti formali, ma anche quelli sostanziali della vita dell’ente, pena la revoca dei benefici previsti dalla legge 398/91. Pertanto, l’associazione che non abbia approvato il rendiconto annuale e che sia stata inadempiente rispetto agli obblighi previsti dallo statuto, va tassata come un’attività commerciale: solo la stretta osservanza dell’articolo 148 del Tuir giustifica la fruizione delle agevolazioni fiscali previste. È questa la motivazione con cui la Ctp di Milano 7424/1/16 (presidente Roggero e relatore Chiametti) ha rigettato il ricorso di un’associazione contro un avviso di accertamento con cui l’Agenzia aveva disconosciuto i benefici. La controversia - La vicenda trae origine da una verifica documentale mirata a controllare la presenza nello statuto delle clausole previste dall’articolo 148 del Tuir e il corretto svolgimento della vita associativa, con particolare riguardo a: • redazione e approvazione del rendiconto annuale; • partecipazione degli associati all’attività dell’ente. I verificatori, pur avendo riscontrato la regolarità formale dello statuto, ne avevano rilevato la mancata applicazione da parte degli organi associativi, non essendo stata esclusa la partecipazione temporanea, né regolamentato il diritto di voto. Inoltre, durante il controllo erano emerse irregolarità sia nella tenuta del libro soci che nella formalizzazione delle decisioni tanto dell’assemblea quanto del consiglio direttivo. Infine, i controllori avevano constatato la mancata redazione e approvazione del rendiconto economico-finanziario annuale. In seguito l’associazione aveva impugnato l’accertamento, sostenendo come i rilievi del fisco non fossero stati provati e, nel merito, che la vita dell’ente si fosse svolta in modo adeguato. In particolare, la ricorrente aveva ricordato come il Codice civile garantisca la libertà di forme per le convocazioni assembleari e che i rimborsi spese sono connaturati con la vita associativa, così come pienamente corretta risultava la procedura di acquisizione di nuovi soci. Inoltre, l’associazione aveva evidenziato che un eventuale difetto di democraticità avrebbe potuto comportare, al più, la perdita delle sole agevolazioni previste per le attività attuative degli scopi istituzionali, ma non anche dello status di ente non commerciale. La sentenza - I giudici milanesi, tuttavia, hanno concordato con la tesi del fisco. In particolare, il collegio ha evidenziando come le irregolarità riscontrate nella gestione rendessero pienamente condivisibili le argomentazioni dell’Agenzia, nonostante i vincoli imposti dalla legge siano effettivamente complessi e stringenti. Secondo i giudici, infatti, i vantaggi riconosciuti dalla legge 398/91 sono sicuramente notevoli e, per questo, bilanciano ampiamente i pur numerosi adempimenti posti a carico delle associazioni, dai quali non si può prescindere; questi obblighi, inoltre, restano in capo alle associazioni nonostante la conformità delle clausole statutarie al dettato normativo debba prescindere da una impostazione eccessivamente formalistica (Cassazione 16726/15). De Cataldo, manettari e mafia capitale di Claudio Cerasa Il Foglio, 31 ottobre 2016 Giancarlo De Cataldo è un famoso magistrato che lavora come giudice alla Corte d’assise di Roma e nel molto tempo libero, beato lui, che riesce a ritagliarsi nell’ambito della sua faticosa vita da giudice negli ultimi anni è riuscito a crearsi una spettacolare vita parallela in cui ha mostrato di possedere diversi talenti. Sia da scrittore, sia da drammaturgo, sia da sceneggiatore. In questa sua vita parallela, negli ultimi tempi, De Cataldo, penna rapida e accattivante, si è imposto come scrittore e sceneggiatore di successo prima con "Romanzo Criminale" (scritto nel 2002, sceneggiato nel 2005) e poi con un libro che, per stessa modesta ammissione di De Cataldo e dell’altro autore Carlo Bonini, ha anticipato la sceneggiatura di Mafia Capitale: "Suburra", da cui il regista Stefano Sollima ha tratto il suo omonimo film. Nelle ultime settimane però il caso ha voluto che il nome di Giancarlo De Cataldo sia tornato al centro dell’attenzione non per la sua generosa attività di scrittore ma per la sua attività di magistrato. In particolare, da un po’ di tempo a questa parte, il nome di De Cataldo è diventato sinonimo di un caso che si è aperto al Csm e che ci dice molto non tanto di chi è Giancarlo De Cataldo (un bravo magistrato, un ottimo scrittore) ma di che cosa si rischia quando all’interno del circo mediatico-giudiziario si gioca con alcune parole e alcuni concetti tipici della gogna. Il caso di De Cataldo è arrivato qualche mese fa al Consiglio superiore della magistratura per una ragione semplice e pur essendo noi del Foglio i più garantisti del reame per una volta, per descrivere il caso De Cataldo, abbiamo scelto di utilizzare i verbi e le parole (le metteremo tra virgolette) che i professionisti del circo mediatico utilizzerebbero se il soggetto in questione non fosse un magistrato. La storia è questa. Il giudice della Corte d’assise di Roma, De Cataldo, è stato "pizzicato" a conversare "amabilmente" al telefono con "il braccio destro di Massimo Carminati", Salvatore Buzzi, ex capo della Cooperativa 29 giugno, uno dei protagonisti del romanzo giudiziario di Mafia Capitale. In queste conversazioni telefoniche, che solo quando riguardano i magistrati vengono definite fino all’ossessione "penalmente non rilevanti", mentre di solito per i professionisti del circo mediatico-giudiziario finire in un brogliaccio è l’anticamera dell’essere colpevoli di qualcosa, in queste conversazioni, si diceva, la "coppia De Cataldo-Buzzi" mostrava una "certa confidenza" (tredici telefonate e sms) che ha insospettito la procura di Roma, che per questo ha portato il caso al Csm per valutare l’incompatibilità ambientale del giudice. In queste conversazioni "il boss della cooperazione" informava il consigliere della Corte di appello della capitale dell’arrivo in una delle sue cooperative del boss Massimo Carminati, di cui lo stesso De Cataldo aveva a lungo scritto all’interno dei suoi romanzi (Carminati è il "Nero" di "Romanzo Criminale", e il giustizialista collettivo di solito di fronte a casi come questo aggiungerebbe un magnifico "non è un caso"). Oltre a questo, il "braccio destro di Carminati" è stato "beccato" a "spifferare" al telefono un’altra "verità scomoda": ha offerto come investimento al giudice De Cataldo di comprare obbligazioni emesse dalla stessa Cooperativa 29 giugno. E stando alla documentazione agli atti del Csm, il magistrato si fece "persino" inviare il prospetto informativo dell’iniziativa finanziaria (e in questi casi, il giustizialista collettivo, per corroborare la tesi infila una bella frase di un’intercettazione, tipo questa allegata agli atti del Csm, in cui Buzzi parla al telefono con l’amico imprenditore Marco Clemenzi: "Oh, d’i a Diddi [legale di Buzzi, ndr] che ha aderito pure il giudice De Cataldo eh"). La procura di Roma ha chiesto così al Csm di valutare gli estremi della compatibilità ambientale del giudice e mercoledì 26 ottobre il plenum del Csm ha bocciato la richiesta di archiviare la pratica e ha bocciato la richiesta di far tornare gli atti in Commissione per l’avvio della procedura di trasferimento d’ufficio. Il dubbio, anticamera della verità A noi garantisti, che a differenza dei grillini conosciamo a memoria solo un articolo della Costituzione ma conosciamo quello giusto (articolo 27, si è innocenti fino a prova contraria) la spiegazione data da Giancarlo De Cataldo ci sembra logica, lineare e convincente e non ci faremo certo influenzare dalle molte e simpatiche telefonate intercettate di Buzzi (come quella in cui "il braccio destro di Carminati" dice al telefono a De Cataldo. "Ti abbiamo candidato a futuro sindaco di Roma: dai chirurghi agli scrittori e poi saresti più divertente"). Il ragionamento dello scrittore magistrato è perfetto e il discorso si potrebbe chiudere così: De Cataldo dice di aver conosciuto Buzzi nel 1989, quando era magistrato di sorveglianza; dice di non avere nulla da rimproverarsi perché Buzzi all’epoca di quei contatti era per tutti, istituzioni comprese, il "simbolo del detenuto rieducato"; dice che sì è vero Buzzi voleva soldi ma "io non ho mai sottoscritto obbligazioni"; e dice che non c’era nessuna ragione allora per sospettare nemmeno "minimamente che l’uomo avesse subìto l’involuzione che sarebbe poi sfociata nel procedimento Mafia Capitale". Per noi, ma chi siamo noi per giudicare, il caso è chiuso, e concordiamo con il dottor Armando Spataro, magistrato, quando dice che il tono delle telefonate era chiaramente "scherzoso" e che quei colloqui "dimostrano la fiducia di Giancarlo nell’uomo nuovo, un uomo diverso da quello che aveva inizialmente conosciuto". Per noi il caso è chiuso ma la storia di De Cataldo ci permette di soffermarci su alcune liturgie talebane che si innescano quando il mondo del circo mediatico-giudiziario si ritrova ad affrontare casi simili a questi. A voler seguire quelle liturgie, De Cataldo sarebbe colpevole fino a prova contraria. E la sua colpevolezza sarebbe resa evidente dal fatto che - un manettaro sintetizzerebbe senz’altro così la storia se il protagonista non fosse un magistrato - "le intercettazioni dimostrano un legame sospetto e una confidenza innegabile con il braccio destro di Massimo Carminati che rende oggettiva l’esistenza di una incompatibilità ambientale del magistrato amico del boss". Invece no. La storia di De Cataldo ci dimostra e siamo certi che ci dimostrerà una serie di cose importanti. A: usare la parola "presunto" non è un reato ma è un obbligo quando si parla di un caso giudiziario; B: essere intercettati mentre si parla al telefono con un indagato non significa essere "legati" a quell’indagato; C: non tutto quello che ci raccontano le intercettazioni corrisponde a verità; D: l’anticamera della verità non è il sospetto ma è sempre il dubbio; E: l’abuso dell’espressione "incompatibilità ambientale" nel linguaggio mediatico- giudiziario ha creato una discrezionalità tale nell’utilizzo di questa espressione che qualsiasi cosa ormai può essere considerata un indizio di incompatibilità ambientale. Tutto questo lo sappiamo. E oggi lo sapranno meglio sicuramente Giancarlo De Cataldo (il quale non ci pare però che abbia scritto editoriali indignati quando la stampa massacrava il ministro Giuliano Poletti, "reo" di essere stato fotografato nel 2010 a una cena con Buzzi) e tutti coloro i quali di solito quando sotto la gogna non ci passa un magistrato passano con disinvoltura come dei trattori sopra l’articolo 27 della Costituzione. Il caso De Cataldo è una fiction. Ma, come dimostra Mafia Capitale, la fiction, si sa, spesso può diventare un caso giudiziario. Speriamo che almeno con De Cataldo questo non accada. Sardegna: selezione di operatori per attività lavorative nelle Case di reclusione giustizia.it, 31 ottobre 2016 Avviso pubblico di manifestazione di interesse per la formazione di un elenco di Cooperative Sociali, Imprese o Società interessate a creare e/o gestire attività lavorative all’interno delle colonie penali di Is Arenas, Isili e Mamone con l’obbligo di assunzione di detenuti e/o interessate all’assunzione degli stessi nelle proprie attività lavorative esterne con la possibilità di acquistare parte delle produzioni delle colonie per la parte eccedente il fabbisogno interno e nei limiti dettati dalla normativa. Con avviso 20 ottobre 2016 il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sardegna procede ad un’indagine conoscitiva di mercato per l’istituzione dell’elenco di operatori economici. I soggetti economici interessati dovranno inviare le domande entro il 20 novembre 20160 esclusivamente per posta elettronica certificata (pec) all’indirizzo: pr.cagliari@giustiziacert.it. Vibo Valentia: detenuti dell’Alta Sicurezza in sciopero "ci hanno tolto anche la dignità" ilvibonese.it, 31 ottobre 2016 In un lungo e articolato documento i reclusi nella sezione Alta sicurezza denunciano disservizi e la sistematica violazione dei loro diritti fondamentali, invocando un’ispezione ministeriale e provvedimenti contro i dirigenti. "Qui fallisce ogni giorno il principio riabilitativo della pena" scrivono. C’è tensione nel carcere di Vibo Valentia, dove dal 24 ottobre scorso i detenuti della sezione Alta sicurezza hanno intrapreso una protesta pacifica per reclamare trattamenti più umani all’interno dell’istituto di pena e denunciare quelle che a loro avviso rappresentano violazioni dei loro diritti fondamentali. A dare il "la" alla protesta l’ultimo drammatico caso che si è consumato tra le mura del carcere vibonese con la morte di Giuseppe Barbaro, deceduto a causa di un male che lo attanagliava da tempo ma che, ad avviso dei reclusi, non era stato adeguatamente valutato in termini di "assistenza sanitaria e monitoraggio H24". Ma il caso Barbaro, scrivono i detenuti in una lunga lettera, sarebbe solo la punta di un iceberg fatto di "suicidi, negligenze nelle cure, disservizi", fattori che fanno sentire gli stessi detenuti a "repentaglio, dal punto di vista sia fisico che mentale" e gli fanno invocare l’avvio di approfondite indagini interne da parte della Commissione ministeriale nonché reclamare a gran voce la sospensione del direttore, del commissario e del dirigente dell’istituto. Nelle 24 pagine del documento, oltre a descrivere minuziosamente le criticità vissute dalla popolazione carceraria, si mette in evidenza come i principi riabilitativi della pena vengano vanificati da condizioni descritte al limite della dignità umana. "Considerato che il principio e l’utilità di un carcere nella sua totale essenza - scrivono i detenuti, dovrebbe essere collocato sull’unico binario di far intraprendere al detenuto un percorso di rieducazione e reinserimento nella società, con l’unico fine che un detenuto, espiata la propria pena, debba essere una persona migliore rispetto a quanto ha fatto ingresso nel sistema penitenziario italiano, a Vibo tale principio sembra essersi smarrito". La struttura penitenziaria viene infatti descritta come "non funzionale come ben pochi altri penitenziari sparsi sul suolo italiano. Non funzionale, nelle più piccole cose e nelle più banali della quotidianità, che potrebbero migliorarsi, in modo gratuito, come nelle cose più importanti che comportano grandi spese economiche". Cose che, aggiungono, "osservate singolarmente, possono sembrare piccolezze, ma nell’insieme, rendono inservibile nel fine, il principio della detenzione e della condanna che ogni singola persona detenuta deve espiare". Usando un paragone ad effetto, spiegano "è come tener chiuso un animale selvatico, un leone, un coccodrillo, in una gabbia, in cattività. Per anni. E uscito, pretendere da esso si sia moderato della sua essenza naturale… Tanto vale non sprecare risorse di mantenimento di una gabbia, e mantenimento gestionale, ma chiudere in una zona delimitata e controllata, chiunque abbia l’essenza di predominare e l’indole di non moderarsi, per vivere libero in una comunità di suoi simili". Facendo un parallelo con altri sistemi carcerari europei, i detenuti attribuiscono a quello italiano la "maglia nera" e al carcere vibonese un livello ancor più basso. "Qui - specificano - si registra il massimo dell’inefficienza su scala nazionale. Responsabilità da attribuire "all’amministrazione penitenziaria nella sua totalità, al direttore, al commissario e al personale di guardia e sicurezza". E ancora "all’area educativa e di trattamento e all’area sanitaria di un istituto nel quale non esiste la figura del "Garante detenuti". Qui sembra vigere un ordinamento a sé" volto a "creare disagi al detenuto su ogni profilo, genere e sorte". Chi esce da questa struttura, incalzano, "uscirà solo un rancore verso l’Istituzione. In codesta struttura, in codeste circostanze, si apprende solamente la privazione, ma non privazione della libertà. Privazione di affetto, del libero arbitrio, delle cose più ovvie e sciocche, della propria dignità! Privazione di tutto ciò che un qualsiasi penitenziario d’Italia è cosa ordinaria e di ordinaria amministrazione". Segue quindi un lunghissimo e mesto elenco delle disfunzioni cui i detenuti denunciano di essere sottoposti. "Ventuno ore sulle 24 quotidiane - elencano -, i detenuti stanno chiusi in cella. Gabbiette dove il detenuto viene ubicato a scelta del commissario, in base a propria simpatia e capricci. Senza alcun criterio in una dura convivenza forzata, costretti a sopportarsi l’un l’altro o a far da badante e piantone a persone più avanti con l’età o con vari problemi di salute". Non esiste, poi, "la telefonata d’ingresso. Chi arriva non può comunicare alla famiglia dove si è giunti. Viene negato il diritto alla difesa, vietando i colloqui telefonici con gli avvocati o se accettati, vanno ad eliminazione sui colloqui telefonici con i congiunti, comunque limitati a 2 mensili". Ancora, "i pacchi in entrata, si ritirano dopo settimane dall’ingresso nell’istituto mentre per i pacchi in uscita l’attesa arriva ad essere mensile, trimestrale e semestrale. Non è possibile far entrare alcunché: che siano alimenti, libri, cancelleria, Cd o lettori musicali, radioline. Neanche orologi, profumi, deodoranti o rasoi. È possibile però far entrare numero 3 musicassette (in un era che le musicassette non esistono più in commercio). Qui siamo a Vibo Valentia, siamo rimasti nell’era delle musicassette. Sembra ironico, ma drasticamente è la realtà! "Qui siamo a Vibo". Ulteriori disagi, a detta dei detenuti, si registrano nel settore dell’assistenza sanitaria. "L’istituto dovrebbe avere un’assistenza di totale copertura medica H24. Nei fatti vi è H12, essendo che sempre più spesso l’assenza dei medici, con l’infermiere che non può far altro che offrire un farmaco "generico", tant’è vero che i detenuti lo abbiamo definito la "pillola di padre Pio", la pillola bianca, buona per tutti i malesseri". Peggio solo "l’ambulatorio dentistico, da definire fatiscente, che meriterebbe una semplicissima ispezione che lo dichiarerebbe subito inagibile. Se il ministro della Salute, lo visionasse personalmente, non potrebbe che giudicare le performance dello specialista diversamente che squallide e fonte d’infezione di ogni genere per i pazienti". Ancora, trovano spazio nel lungo elenco problemi legati al vestiario, alle scarpe, alle condizioni degli spazi interni ed esterni ai familiari in visita, all’ora d’aria e all’utilizzo degli spazi esterni, all’assenza della lavanderia, all’acqua, ecc. "Purtroppo - conclude il lungo dossier - queste circostanze tendono a distruggere gli affetti dei detenuti, ad aumentare la pressione psicologica e a renderli esasperati, in molti casi mal curati". Invocano quindi "ispezioni e provvedimenti" o sarà sciopero "ad oltranza finché non si avranno riscontri sulla nuda e cruda realtà denunciata". Oristano: la protesta dei detenuti, denunciano un clima di tensione e il sovraffollamento La Nuova Sardegna, 31 ottobre 2016 Denunciano un clima di tensione e sono pronti a inasprire la protesta 45 reclusi nel carcere di Oristano Massama che hanno scritto una lettera aperta al ministero della Giustizia, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al Garante dei detenuti per segnalare, tra l’altro, una condizione di sovraffollamento e chiedere migliori condizioni di vita. "Nella casa di reclusione convivono attualmente 284 detenuti, quasi tutti in regime di alta sicurezza, per 260 posti", evidenza Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Sdr-Socialismo Diritti Riforme, cui i firmatari della lettera si sono rivolti. "Si tratta prevalentemente di ergastolani che, nel rispetto della legge sull’ordinamento penitenziario, dovrebbero poter disporre di una cella singola e di un lavoro. Una condizione difficilmente attuabile in considerazione del numero dei ristretti e delle oggettive opportunità lavorative, senza dimenticare che sono persone provenienti da altre regioni italiane. Ciò che crea maggior disagio, secondo i detenuti, è la difficoltà di avere un dialogo costante col direttore". "Una condizione - scrive ancora Caligaris - non facilmente modificabile, dal momento che il direttore di Massama svolge analogo incarico nella casa di reclusione all’aperto di Is Arenas, oltre ad assolvere il ruolo di viceprovveditore". "I detenuti nella lettera, oltre a denunciare un clima di tensione, annunciano un ulteriore inasprimento delle proteste qualora non siano assunte iniziative tese a migliorare le loro condizioni di vita quotidiana". Sarebbe necessario istituire un clima di maggiore collaborazione: "L’auspicio è che si apra un dialogo più intenso tra la direzione, che tuttavia ha risposto ai ristretti evidenziando le numerose iniziative migliorative assunte rispetto al passato. Far prevalere il buon senso e ristabilire un clima collaborativo - conclude Caligaris - sono gli strumenti più utile per evitare ulteriori tensioni". Nel documento si ricorda anche la situazione complessiva degli istituti di pena sardi: "La realtà isolana - sottolinea la presidente di Socialismo, diritti, riforme - è sempre più complessa in seguito alla concentrazione nell’isola di detenuti in alta sicurezza circa 700 su 1.766 reclusi definitivi, senza considerare quelli in regime di 41bis a Sassari-Bancali. Mancano però del tutto i vice direttori e i responsabili degli Istituto non sono sufficienti in quanto sono 7 per 10 strutture penitenziarie ma due sono in missione e in part time". Bologna: in carcere nonostante il tumore, ora rischia di morire di Ottavia Giustetti La Repubblica, 31 ottobre 2016 È ammalato di tumore e da dieci mesi è in attesa di un intervento chirurgico e delle cure di radio e chemio terapia. La malattia avanza a grandi passi. Vive in una cella di pochi metri a Bologna, dove sta scontando un periodo di detenzione "cautelare" quindi in attesa del processo, ma l’isolamento dal mondo si è trasformato per lui nella culla dei peggiori incubi. Il suo non è un semplice esempio di malasanità. Quello di Antonio Samà è un caso di giustizia ingiusta senza un responsabile, un groviglio di circostanze apparentemente inestricabili che in breve hanno trasformato la paura di una condanna nel terrore di morire. Antonio Samà, 47 anni, nato a Locri ma residente a Torino, è accusato dal pm Paolo Toso di essere braccio operativo della famiglia Crea negli affari estorsivi dell’operazione Big Bang, l’ultima grande inchiesta di ‘ndrangheta che ha portato, a gennaio, venti arresti tra Torino e la Calabria, altri quattro la settimana scorsa. L’indagine ha smantellato alcune della cosche più attive in Piemonte e il 3 novembre si celebrerà l’udienza preliminare. Ma per Antonio Samà, uno degli indagati accusati di associazione a delinquere finalizzata all’estorsione, l’appuntamento con il processo ha perso ogni importanza. Lui aveva già scontato un anno di carcere preventivo per l’inchiesta Minotauro ed è poi stato completamente assolto in aula. Man mano che i giorni passano gli cresce ora la paura di non fare in tempo a curarsi, di arrivare in sala operatoria quando ormai sarà troppo tardi. "Dopo tanti mesi di attesa avevamo saputo che l’intervento era stato fissato per venerdì scorso - racconta la moglie, Loredana Bello - e invece attraverso un parente che sta anche lui in carcere abbiamo saputo che è stato ancora rinviato, non si sa quando". La donna è la titolare del circolo Gran Galà che ha dato il nome all’operazione di polizia, ma è incensurata e non è mai rimasta coinvolta nell’indagine. Altri due sono i locali, il Gran Galà in San Paolo e il Babylon alle Porte Palatine, messi sotto sequestro durante l’inchiesta. Lei e i due figli sono autorizzati a incontrare il padre solo quattro ore al mese. Non riescono ad avere informazioni dirette su quando e dove, finalmente, sarà ricoverato. Hanno paura che gli succeda qualcosa di grave mentre sono lontani. "Il gip ha respinto la nostra istanza, chiedevamo che dichiarasse le condizioni di salute di Samà incompatibili con il carcere - spiega il suo avvocato, Caterina Biafora - ma lo stesso gip, Potito Giorgio, ha ammesso l’urgenza di intervenire, perché i periti hanno rilevato che la malattia sta procedendo e in assenza di interventi potrebbe rapidamente degenerare". Tutti d’accordo: Claudio Cardellini, nominato dal giudice, Sergio Bonziglia, consulente di parte, ma anche Maurizio Di Emidio della direzione sanitaria del carcere di Bologna, l’intervento chirurgico deve essere eseguito al più presto. "Ulteriori ritardi potrebbero portare a una situazione di pericoloso aggravamento delle condizioni di salute del paziente" è scritto nella cartella clinica di Samà. "Non si può negare a un detenuto il diritto alle cure - dice il garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano - è vero che anche i normali cittadini possono aver ritardi nelle cure per le liste d’attesa ma è anche vero che chi sta fuori è libero di scegliere dove curarsi, non è lo stesso per i detenuti". Volterra (Pi): da oltre 18 mesi nella Rems, i giudici "liberano" malato psichiatrico di Massimo Mugnaini La Repubblica, 31 ottobre 2016 Il malato psichiatrico bloccato da oltre un anno e mezzo nella Rems di Volterra è stato liberato. Ad aprirgli i cancelli della residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza che ha sostituito gli Opg, da cui sarebbe dovuto uscire nel febbraio 2015 dopo 8 anni di internamento, un’ordinanza del Tribunale di Firenze che ne ha disposto l’immediata liberazione dichiarando "la cessazione della misura di sicurezza perché superato il termine massimo stabilito dalla legge di esecuzione della misura stessa". La decisione del Tribunale dà ragione al difensore dell’ex internato, l’avvocato Michele Passione che lo scorso settembre aveva sollevato il caso e attaccato: "Non si capisce perché siano state istituite le Rems se agli internati si prospettano ancora le morti bianche dei manicomi". Il collegio composto dal presidente Marco Bouchard e dai giudici Elisabetta Pagliai e Barbara Bilosi ha definito "illegittimo" l’internamento subìto negli ultimi 20 mesi dall’uomo, ostaggio sia di un rimpallo di competenze tra gli uffici giudiziari di Pisa, sia di una sentenza della Cassazione divergente da tutte le altre sul tema, che nei mesi scorsi aveva portato i magistrati pisani a negargli per due volte la liberazione. Il garante dei detenuti toscani Franco Corleone l’aveva spiegata così: "Le norme entrate in vigore nel marzo 2015 sanciscono che la misura di sicurezza abbia un limite edittale massimo pari alla durata della pena: l’internato non può restare nella Rems oltre tale periodo". La sentenza della Cassazione fatta propria dai togati pisani sosteneva che la norma non fosse retroattiva e quindi non valesse per i "vecchi" internati. Attaccata un mese fa dall’avvocato Passione che adesso valuta una richiesta di risarcimento per il suo assistito (che ha due tentati omicidi alle spalle e sarà seguito dai servizi sociali e psichiatrici), quella sentenza è stata ora censurata anche dai giudici fiorentini che l’hanno definita come "interpretazione odiosa nei confronti degli internati". "Vicenda che rivela come sul tema della limitazione della libertà personale bisognerebbe sempre porre massima attenzione: sia da parte di chi limita quella libertà, sia da chi dovrebbe fare in modo che quella limitazione si configuri secondo i termini di legge", conclude Passione. Oristano: "sì alla Marcia per l’amnistia", la Camera penale aderisce all’iniziativa Radicale La Nuova Sardegna, 31 ottobre 2016 La "Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà" ha il sostegno della Camera penale oristanese. La manifestazione che porta la firma del Partito Radicale è in programma per domenica prossima a Roma. Intitolata a Marco Pannella e a Papa Francesco vuol richiamare l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica sui quattro disegni di legge per amnistia e indulto da tempo nelle mani della Commissione Giustizia del Senato, ma mai esaminati. Il problema è comunque più ampio e riguarda in generale il malfunzionamento del sistema giudiziario. In particolare c’è sempre la questione della ragionevole durata del processo che sembra un miraggio per la giustizia italiana e che comporta anche situazioni di detenzione e di carcerazione preventiva non più sostenibili in particolare nelle case circondariali di massima sicurezza. La decisione delle Camere penali oristanesi segue l’adesione delle Camere penali Italiane alla manifestazione su invito dell’Osservatorio Carcere della stessa Unione. "L’adesione all’iniziativa del Partito Radicale - spiegano gli avvocati Rosaria Manconi e Simone Prevete - è condivisa sia nelle motivazioni che nelle finalità. C’è poi la necessità di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione giustizia, sulla situazione carceraria e sull’esigenza di riforma del sistema penitenziario, attraverso una manifestazione che coinvolga tutte le massime istituzioni e contribuisca a portare le istanze al Governo ed al Parlamento al quale sollecitare un percorso alternativo alla carcerazione". Ferrara: "Il senso della pena", incontro in ricordo di Sandro Margara di Federica Pezzoli estense.com, 31 ottobre 2016 Una riflessione sul senso della pena e sulla situazione del sistema carcerario italiano, partendo dagli spunti contenuti negli scritti di Alessandro Margara, direttore generale dei Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, scomparso lo scorso agosto, "probabilmente il primo vero magistrato di sorveglianza nel nostro paese e il primo garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana". Così il consigliere comunale di Sinistra Italiana, Leonardo Fiorentini, nella sua introduzione dell’iniziativa "Il senso della pena. Incontro in ricordo di Sandro Margara sulla pena, fra giustizia, umanità e sicurezza dei cittadini", tenutasi sabato mattina al Centro Lgtb Ripagrande12, durante la quale è stato presentato "La giustizia e il senso di umanità. Antologia di scritti su carcere, opg, droghe e magistratura di sorveglianza", a cura di Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana (Fondazione Michelucci Press, 2015). Oltre al curatore del volume, all’incontro erano presenti: Ilaria Baraldi, consigliera comunale Pd, Andrea Pugiotto, costituzionalista dell’Università degli studi di Ferrara, e Marcello Marighelli, garante dei detenuti di Ferrara. "In Italia il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio, il 50% sono tossicodipendenti, il 30% immigrati e un 10% è composto da senza fissa dimora, persone con problemi psichiatrici o con problemi di alcolismo", da questi dati, secondo Baraldi, emerge come il carcere sia il luogo di "detenzione sociale" anzi, citando proprio Margara: il sistema penitenziario viene usato come "strumento sociale per separare le situazioni di disagio sociale dalla società e sequestrarle in carcere". "Ci piace trovare soluzioni semplici a problemi complessi", ha detto ancora la consigliera Pd, e certamente è più facile "la risposta penale", "trovare il colpevole e rimuoverlo", piuttosto che valutare il contesto di disagio sociale e la mancanza di politiche di prevenzione. Ecco dunque da dove nasce quel "diffuso senso di insicurezza" strumentalizzato dai media, quella richiesta di una pena certa. Le politiche securitarie, diffuse sia a destra sia a sinistra, sono dunque secondo Ilaria Baraldi "offerta di punizione" in risposta a una "domanda di punizione", citando ancora Margara. Andrea Pugiotto, aprendo il proprio intervento, ha voluto ricordare come Alessandro Margara abbia "sempre operato per tradurre in realtà il disegno costituzionale della pena" e proprio su questo tema il costituzionalista di Unife ha offerto numerosi spunti di riflessione. "La Costituzione punisce la tortura (art.13, comma 4), ma nel nostro codice non c’è ancora il reato di tortura" e anche il ddl ora in discussione "è deludente perché la tortura viene definita come reato comune": si configura quindi un rapporto fra "un forte e un debole", ma non viene considerato lo specifico caso del "rapporto fra Stato e individuo singolo". Per quanto riguarda poi la certezza della pena, secondo il docente c’è stato un "completo capovolgimento" del senso dell’espressione: non significa più una pena predeterminata rispetto al reato, come garanzia rispetto all’arbitrio di un potente di turno e alla proporzione fra reato e sua punizione. Oggi "il cittadino deve essere certo che la pena sia comminata in tutto il suo rigore", inoltre la maggioranza della popolazione sembra concepire la pena "nel suo significato di sofferenza" e sembra "non saper distinguere l’errore dall’errante": "chi è punito deve soffrire", senza che ci sia una speranza per il reo di cambiare. A ciò si aggiungono anche per Pugiotto, come per Baraldi, "la demagogia securitaria di facile presa elettorale, usata quindi sia a destra sia a sinistra" e "il format collaudato dell’insicurezza percepita" cavalcato dai media. Franco Corleone, oggi garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana e coordinatore dei Garanti territoriali per i diritti dei detenuti, ha conosciuto Margara quando era sottosegretario al Ministero della giustizia con la delega all’organizzazione Giudiziaria, alla giustizia minorile e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: "abbiamo lavorato insieme per molti anni", per esempio stendendo il nuovo regolamento penitenziario approvato nel 2000, "per la comunità che si occupa di carcere era un mito, per la sua umanità e al tempo stesso severità". Corleone ricorda come Margara parlasse del carcere come "discarica sociale", legandolo al "fallimento dello stato sociale" e come, rispetto alla certezza, egli volesse privilegiare "la flessibilità della pena". Secondo il garante della Toscana, "il carcere non può essere un tempo morto", ma deve divenire "un luogo che offre possibilità di reintegrazione": "la grossa questione che dobbiamo affrontare è dunque come si riempie il tempo del carcere". Parlando della recente visita del Presidente del Consiglio all’istituto detentivo di Padova Corleone ha affermato provocatoriamente che sarebbe urgente "porre la questione non della riforma costituzionale, ma del codice penale dato che in Italia abbiamo ancora il Codice Rocco", retaggio del regime fascista. È necessario superare il carcere nel quale oltre la cella, seppur aperta, "non c’è nulla", "bisogna che all’interno del carcere la persona ristretta possa muoversi liberamente e con responsabilità". Per questo nel tempo che gli rimane del proprio incarico, anche come coordinatore dei Garanti territoriali, l’obiettivo che si è posto è "superare la concezione burocratica del carcere" e "cambiare le regole della vita quotidiana": non è solo una questione dello spazio nelle celle, ma di quante brande occupano quello spazio e di quanti bagni ci sono, se quei bagni hanno le docce e se le docce hanno o meno l’acqua calda. La parola è poi passata a Marcello Marighelli, garante dei diritti dei detenuti di Ferrara, per il quale Margara è stato ed è tuttora un "magister" più che un magistrato. "In questi cinque anni di esperienza come garante ho avuto circa 300 colloqui con i detenuti e il tema dell’aspirazione al cambiamento è il più ricorrente". "Lo voglio dire proprio in questo momento in cui il territorio non ha dato un esempio proprio edificante - ha affermato Marighelli - in carcere a Ferrara i detenuti stranieri partecipano a tutte le iniziative come e quanto i detenuti italiani": anche in carcere infatti, "data la scarsità di risorse, gli stranieri vengono spesso esclusi perché si pensa che con loro non vale la pena di avviare percorsi". Secondo Marighelli, a Ferrara "stiamo procedendo su una strada che non è facile e sulla quale non tutti sono d’accordo, né all’interno né fuori": "il carcere si è aperto alla città e alla cittadinanza": gli eventi come i Buskers e Internazionale entrano all’Arginone, così come il teatro e il suo pubblico, mentre i detenuti-attori hanno recitato al Comunale, grazie ai laboratori di Horacio Czertok; inoltre "la scuola professionale alberghiera e agraria" tiene corsi e laboratori. Marighelli, infine, va molto orgoglioso dei "sabati delle famiglie", perché "i detenuti non smettono di essere genitori" e durante queste occasioni possono incontrare non solo i figli minorenni, ma hanno l’occasione di "riunirsi al nucleo famigliare" in un ambiente adatto. Alessandria: riflessioni sul libro "Wanted. Esercizi spirituali per ladri e briganti" alessandrianews.it, 31 ottobre 2016 Detenuti e studenti hanno discusso insieme, nella Casa di Reclusione San Michele di Alessandria, partendo dalla letture del libro "Wanted. Esercizi spirituali per ladri e briganti". L’iniziativa, curata dalla Cooperativa Company, ha coinvolto dodici ragazzi del Liceo Balbo di Casale e quattordici detenuti. L’avevano ferma nella gola dal momento in cui sono entrati: "vi siete pentiti?". Dopo l’imbarazzo iniziale l’hanno posta i ragazzi del liceo Balbo di Casale ai detenuti del carcere di San Michele che hanno partecipato all’iniziativa "San Francesco e i Briganti", curata dalla Cooperativa Company e da uno dei suoi fondatori, frate Giuseppe Giunti. Dodici studenti e quattordici detenuti, a discutere attorno al libro di Fabio Scarsato, autore di Wanted. Esercizi spirituali francescani per ladri e briganti (Edizione Emp) che racconta, iniziando dal buon ladrone crocifisso insieme a Gesù, storie e aneddoti francescani di ladri, briganti, malfattori di vario genere, divenuti poi grandi amici di Dio e testimoni del suo amore. Non è la prima volta che allievi delle scuole entrano in carcere. Era già accaduto a Venezia, Roma e Padova. Per Alessandria, invece, era una novità. L’idea dalla quale è nata l’iniziativa non era quella di alimentare una curiosità dei ragazzi, ma di instaurare un dialogo tra "dentro" e "fuori", senza decidere a priori dove stia l’uno e dove stia l’altro. Insieme ai docenti del liceo e ai formatori del carcere, oltre all’autore del libro, ragazzi e detenuti hanno ascoltato e letto parti del libro. "L’intuizione di san Francesco di "sporcarsi le mani", cercando i briganti tra i boschi per sedersi intorno a un tavolo, come racconta l’aneddoto dei briganti di Montecasale narrato nello Speculum Perfectionis, gli ha permesso di stabilire un dialogo con loro, di ridargli dignità - ha spiegato l’autore del libro, fra Fabio Scarsato. Il mondo non si divide in maniera netta in buoni e cattivi: non può funzionare così. Nessuno di noi è così cattivo da non essere anche un po’ buono, né così buono da non essere anche un po’ cattivo. Il problema di fondo non è quanto sono briganti gli altri, ma con che occhi noi guardiamo i briganti. San Francesco non ha convertito i briganti, ma i frati!". E questo incontro tra santi e briganti, tra spiritualità e criminalità, non è un gesto da poco per i ladri e i briganti, di ogni epoca e luogo, come hanno scritto nella Prefazione al volume i redattori di "Ristretti orizzonti", il giornale della Casa di reclusione di Padova: "la galera - si legge - è il luogo in cui difficilmente recuperi la tua umanità, messa a rischio ogni giorno dalle scelte sbagliate che hai compiuto e dal fatto che la vita detentiva ti infantilizza e ti inchioda al reato, ti trasforma da uomo in un "reato che cammina". Al termine della lettura c’è stato uno scambio di domande "senza filtri". "Vi siete pentiti? Quale è il vostro pensiero ricorrente?" hanno voluto sapere i ragazzi. Hanno detto di aver riconosciuto l’errore e, soprattutto, di voler "imparare", i detenuti del carcere. Imparare e ricostruire. Cosa manca maggiormente? La famiglia, hanno risposto senza esitazioni. Massa Carrara: dal carcere verso il futuro, ecco l’arte dei detenuti di Luca Cecconi La Nazione, 31 ottobre 2016 Speciale rassegna di opere realizzate dietro le sbarre. Si chiama "Arte dal carcere: verso il futuro". È la prima edizione di una rassegna di arti visive molto speciale. E per due motivi: perché è realizzata con le opere dei detenuti italiani e perché sarà allestita negli spazi comuni del Palazzo di giustizia apuano. L’iniziativa è stata realizzata a Massa dal Tribunale, dalla Casa di reclusione, dall’Associazione Amici del Museo Ugo Guidi onlus di Forte dei Marmi e dall’associazione Aics Solidarietà di Massa Carrara. L’inaugurazione è in programma domenica 6 novembre, alle 10, con una cerimonia nell’aula di Corte di Assise del Tribunale di Massa. Un giorno scelto non a caso, è quello infatti che Papa Francesco ha dedicato alla misericordia nei confronti dei detenuti. Il progetto, che è nato dall’idea della dirigente amministrativa del tribunale, Anna Molino, e di Enrica Frediani, curatrice di eventi artistici, ha trovato subito l’adesione del presidente del tribunale, Maria Cristina Failla, e delle altre associazioni che hanno prontamente collaborato al fine di incoraggiare le abilità artistiche dei detenuti nelle carceri favorendone l’integrazione. Il progetto ha un contenuto innovativo e socializzante, grazie non solo al luogo in cui si terrà la rassegna ma anche per il significato dell’evento, che si propone di realizzare un progetto educativo e di reinserimento sociale facilitando il percorso verso l’accettazione emotivo, psicologica e fisica dovuta al disagio della mancanza di libertà e alla demotivazione che ne consegue. In tribunale saranno esposte un centinaio di opere tra le 276 pervenute, selezionate da una commissione di esperti presieduta da Donatella Failla, direttrice del Museo d’arte orientale di Genova e docente universitaria, e composta da Bruno Massabò, ex soprintendente per i beni archeologici della Liguria e attuale soprintendente delle province di Sassari e Nuoro, Anna Laghi, presidente dell’Accademia delle belle arti di Carrara, Vittorio Guidi, curatore del Museo Ugo Guidi di Forte dei Marmi, Marco Gianfranceschi, critico d’arte e presidente dell’associazione di volontariato Centro italo-svizzero di arte contemporanea di Montignoso (Cisdac). La rassegna ha avuto l’alto patrocinio del Pontificio consiglio della cultura e del Ministro della giustizia Andrea Orlando, che è stato in visita al carcere di Massa, il 14 maggio scorso, proprio quando fu lanciato il progetto. La giornata sarà ricordata grazie anche un annullo filatelico, la cui vignetta realizzata da Poste Italiane riproduce l’opera dal titolo "Sempre insieme" di Andrea Grosso, detenuto del carcere di Ivrea. All’inaugurazione saranno presenti anche il sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri, il vescovo Giovanni Santucci e il presiedente del consiglio dell’Ordine degli avvocati, Salvatore Gioè. Firenze: "Otto", i detenuti di Sollicciano incidono il loro primo album seidifirenzese.it, 31 ottobre 2016 È uscito "Otto", il primo disco di Orkestra Ristretta, prodotto da Massimo Altomare con Costanza Castiglioni, distribuito da GoodFellas e realizzato grazie alla partecipazione al concorso di Toscana 100 Band, promosso dalla Regione Toscana nell’ambito del progetto GiovaniSì. L’album è in vendita nei migliori negozi di dischi e digital store. Alex, Mattia e Simone, alcuni dei detenuti protagonisti dell’album raccontano, con l’intreccio di dialoghi e suoni, il lavoro settimanale portato avanti dall’Orkestra Ristretta, portando a termine un’esperienza unica nel panorama delle attività socio-culturali all’interno dei penitenziari italiani. Da Tre passioni, singolo in uscita nei prossimi giorni, brano melodico e prettamente pop, che sarà supportato da un videoclip girato all’interno del carcere di Sollicciano, a Santi in Paradise, cover riarrangiata molto carica di suoni e grinta, che ricorda quanto tutti noi abbiamo bisogno di un "santo in paradiso"; e poi Sbarre, che racconta la restrizione di un luogo cosi lontano dall’immaginario collettivo e misterioso. Otto tracce tutte da ascoltare, senza mezzi termini e con parole forti, che spiegano il bisogno di esprimersi, di liberare la mente e riuscire, con la musica, ad uscire da quella condizione di restrizione. "Otto è un disco hip hop" racconta Massimo Atomare, punto cardine del gruppo, "non è stata una scelta di genere preventiva, semplicemente nelle scorse due stagioni gli elementi di punta erano dei rapper così coinvolgenti, da trasportarci tutti di peso nel loro mondo, anche se ci sono delle parti cantate melodiche che non appartengono al genere, ma che rappresentano meglio il lavoro e danno spazio al gusto e la sensibilità degli altri ragazzi" spiega il musicista. "Quando durante i mesi di prove alzo lo sguardo dalla chitarra e vedo persone concentrate sui propri strumenti e cantanti e rapper che ispirati si raccontano con convinzione" conclude Altomare "beh io mi sento felice". "Otto è un progetto del tutto inedito, non è solo un disco, ma la realizzazione di un qualcosa che non si era mai visto prima dentro un carcere e ci riempie di orgoglio" spiega Costanza Castiglioni, blogger e giornalista musicale che ha curato l’album. "Otto tracce che sono il frutto di un lavoro fatto a denti stretti e di mesi passati fianco a fianco, con arrangiamenti che hanno preso forma un po’ alla volta e fiumi di parole riordinate in rima da giovani rapper". "Stando a Sollicciano con questi ragazzi" prosegue "ho capito il loro bisogno di fare musica, di condividere la loro passione laddove si incontrano solo ‘Sbarrè". L’Orkestra Ristretta nasce nel 2004 nell’ambito dell’omonimo laboratorio musicale tenuto nella Casa Circondariale di Sollicciano a Firenze, dal maestro Massimo Altomare, dove i detenuti scontano pene non troppo lunghe e sono frequenti i trasferimenti presso altre strutture. Per questo i membri dell’Orkestra variano di stagione in stagione e solo alcuni restano dentro il progetto per pochi anni di seguito. Cambiano le persone, le nazionalità e quindi le tradizioni musicali, ma resta l’idea portante del lavoro: realizzare brani inediti che mixino le varie culture attraverso suoni, ritmi e canzoni scritte dal gruppo o anche cimentarsi in cover estremamente personalizzate. Libri. "Padrini e padroni", di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso di Attilio Bolzoni La Repubblica, 31 ottobre 2016 Italia della corruzione e delle sue mafie, prima e dopo. L’Italia dei patti e delle trame, sempre. L’Italia dove il "camorrista ripulito" diventa capo elettore a Napoli nel 1874 e dove i boss calabresi allungano le mani sui fondi del terremoto del 1908, come lo faranno cent’anni dopo all’Aquila nel 2009. Ogni volta sembra tutto nuovo ma purtroppo tutto è già accaduto. Mafiosi, corrotti e corruttori, sciacalli, ladri. E i famigerati "colletti bianchi" che sono e sono sempre stati la faccia pulita dei poteri criminali. C’erano ieri e ci sono ancora oggi. Come gli ‘ndranghetisti, che da quando esistono - lo ricorda Corrado Alvaro parlando del suo paese, San Luca, sull’Aspromonte - "formavano uno degli aspetti della classe dirigente". Il titolo è "Padrini e padroni" (Mondadori, pag. 218, euro 18), libro firmato dal procuratore capo della repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri e da Antonio Nicaso, coppia di saggisti che in queste pagine si addentra per la prima volta nelle relazioni con la politica e l’economia e nei labirinti delle logge segrete. È la fotografia di una democrazia permanentemente condizionata dall’uso della forza. Si parte da lontano, dall’inizio. E da una Calabria che ha una ‘Ndrangheta che ancora prima del 1900 "comincia a dotarsi di una struttura molto simile a quella attuale, basata su due livelli", la Società Maggiore e la Società Minore. Si passa dal Fascismo e dalla repressione poliziesca che schiaccia solo i boss che non hanno saputo mimetizzarsi (il Duce non fece mai un riferimento alla pericolosità della mafia calabrese nel suo celebre discorso dell’Ascensione del 26 maggio 1927) e si sfiora il golpe di Junio Valerio Borghese dove la ‘Ndrangheta non si fece coinvolgere, per arrivare ai giorni nostri. Ai De Stefano e ai Piromalli, ai Nirta, ai "boia chi molla" della rivolta di Reggio del 1970, ai Tripodo e ai Macrì. La prima e la seconda guerra di ‘Ndrangheta, in mezzo prima "l’industria dei sequestri" e poi la scoperta del grande traffico di stupefacenti, l’inizio della colonizzazione del Nord e l’espansione nel mondo. In questa parte del libro, Gratteri e Nicaso ricordano - dimenticato da tutti - il primo omicidio eccellente della Calabria. Un magistrato, Francesco Ferlaino, avvocato generale dello Stato alla Corte di appello di Catanzaro. Ucciso il 3 luglio del 1975. E, subito dopo il delitto, dal suo ufficio sparì una relazione preparata per il Consiglio Superiore della Magistratura "sulle presunte collusioni di diversi magistrati con la ‘Ndrangheta". E poi gli omicidi del presidente delle Ferrovie Ludovico Ligato e del sostituto procuratore della Cassazione Antonino Scopelliti, molto tempo dopo l’agguato contro il vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. Un filo nero, una mafia calabrese sempre più aggressiva e potente e un’Italia che sta a guardare, che se la trova vicina a Milano o a Torino o in Emilia ma fa finta di niente, che nega (come non ricordare prefetti e questori che sino a qualche anno fa si scandalizzavano dei giornalisti che raccontavano delle mafie al Nord?) e intanto tratta. E, come all’inizio di "Padrini e padroni", nelle ultime pagine ancora la politica. Con i boss che non amano schierarsi. "Ha vinto la sinistra e ci siamo spostati tutti a sinistra. Ha vinto la destra e siamo andati tutti a destra", è la frase pronunciata da un boss di Condofuri e intercettata da una microspia. Il finale è tutto dedicato alle cosche che si confondono con le logge. E a una ‘Ndrangheta sempre più segreta. Terremoto. Un grande patto per salvare il Paese di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 31 ottobre 2016 Crolli, feriti, 40mila sfollati. E rischia di non essere ancora finita. Certo, siamo tutti appesi alla speranza che questo grappolo di terremoti che da mesi devasta l’Appennino abbia finalmente fine. La storia dice che prima o poi dovranno ben esaurirsi, questi scossoni che spezzano la spina dorsale dell’Italia seminando lutti e annientando quei bellissimi borghi antichi che sono la nostra anima. Ultimi fra i tanti Ussita, Castelluccio, Norcia. Dove la basilica di San Benedetto è crollata in una nuvola di polvere. Un popolo serio e uno Stato all’altezza, però, devono aver chiaro che forse non è finita. E che è del tutto inutile fare gli scongiuri. Occorrono progetti, visioni, scadenze. Quella stessa storia millenaria della nostra terra che ci incoraggia a confidare nella fine dell’incubo ci ricorda infatti che è già successo. L’abbiamo rimosso, ma è già successo. Più volte. Non solo dal 1315 gli Appennini sono stati sconvolti da 149 scosse superiori a 5.5 gradi della scala Richter e quasi tutte con danni gravissimi. Ma, spiega la storica Emanuela Guidoboni, "cluster" di terremoti simili a quello attuale sono stati registrati lungo la schiena della penisola almeno cinque volte: nel 1349, 1456, 1638, 1703 e 1783. Di più: nelle aree a elevato rischio sismico, che valgono il 50% circa del territorio e il 38% dei comuni, ci sono 6 milioni e 267 mila edifici. Molti bellissimi e costruiti secoli fa, altri decorosi tirati su più recentemente, altri ancora orrendi e ammassati senza alcuna attenzione ai problemi del territorio negli ultimi settant’anni. Ci vivono, complessivamente, 24 milioni e 147 mila persone. Non consapevoli, per usare un eufemismo, dei pericoli che corrono. Dice tutto una ricerca del 2012 di Cresme, Ance e Consiglio nazionale degli architetti: un quarto degli edifici è in condizione mediocre o pessima. "Sebbene la normativa antisismica per le costruzioni abbia più di trent’anni, solo una minima parte degli edifici realizzati in questo periodo nelle attuali zone ad elevato rischio è stata costruita secondo criteri antisismici". Eppure il 45 per cento delle persone, pur sapendo di vivere in aree a rischio, "ritiene che la sua abitazione sia costruita con criteri antisismici". Anzi, una su tre pensa che basti risanare le strutture ogni 40 anni o 60. Per non dire di chi ritiene bastare una ristrutturazione al secolo. Ciechi. Per salvare il nostro patrimonio abitativo, storico, monumentale, scolastico e salvare chi ci vive dentro non basta dunque accorrere in soccorso alle popolazioni ogni volta che c’è una calamità. Calamità sismiche o idrogeologiche che, tra parentesi, son costate dal 1944 al 2009, secondo le stime, da 176 a 213 miliardi. Una cifra mostruosa destinata a crescere. Non basta. Occorre un patto nazionale all’altezza dell’emergenza. Dirà Matteo Renzi: c’è già, Casa Italia. Nel nome e negli obiettivi, può darsi. Di fatto, però, manca il cemento fondamentale per cominciare a restituire agli italiani, che già avevano il morale basso e oggi sono ancora più scossi, quella speranza di poter vivere nei loro centri storici risanati e sicuri. Il cemento di una solidarietà nazionale che vada oltre il mesto bla-bla di circostanza. Lo sappiamo: è impensabile che questi rissosissimi partiti, con l’aria che tira, trovino un accordo su un ogni altra cosa. Almeno su un grande patto di salvezza nazionale, magari sottratto a partiti e maggioranze e fazioni e delegato a un’agenzia messa su da tutti che si occupi "solo" di questo, però, è doveroso pretendere una svolta. Radicale. Quanti altri terremoti o alluvioni devono colpirci perché la politica abbia uno scatto di orgoglio e di decenza all’altezza di quanto i volontari quotidianamente fanno senza badare alle tessere? E insieme, finalmente, dovrà partire una grande offensiva culturale nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nella società, che diffonda fra gli italiani la coscienza dei rischi che corrono. E di quanto tocchi anche a loro, e non solo genericamente "allo Stato", il dovere (il dovere: non la facoltà) di farsi carico della loro parte di responsabilità. Né i cittadini possono aspettarsi che le casse pubbliche siano in grado di farsi carico di ricostruire tutto a spese della collettività: non possono farcela. E sarebbe ora che si cominciasse a prendere in esame (con cautela e buon senso, ovvio) quell’assicurazione obbligatoria contro le catastrofi che già è prevista in tanti paesi, dal Belgio alla Francia, dalla Norvegia alla Spagna o alla Romania. Ce l’ha, questo Paese, la forza e l’ambizione per prendere di petto i problemi epocali posti dagli eventi di queste settimane? Di avviare davvero, con regole nette e meno burocrazia, il risanamento del nostro territorio e dei nostri scrigni storici? Noi pensiamo di sì. Ma lo sforzo deve essere corale. È una sfida troppo seria per smarrirsi in guerricciole di bottega. Terremoto. Otto miliardi per rifare il Centro Italia di Valentina Conte La Repubblica, 31 ottobre 2016 È la somma stanziata da qui al 2047 per risollevare i territori devastati dal sisma, sessantadue i comuni interessati, ma la lista potrebbe allungarsi. Oggi Consiglio dei ministri straordinario per nuovi interventi. Quasi 8 miliardi per rimettere in moto l’Italia centrale squassata dai sismi di agosto e ottobre. Per la precisione, 7 miliardi e 800 milioni stanziati dal governo per riportare in vita quanto distrutto dalle scosse, da subito al 2047. Trent’anni di "riparazione, ricostruzione, assistenza alla popolazione, ripresa economica" dei territori devastati a cavallo tra Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria. In tutto, 62 comuni del cratere sbriciolato. Una lista, inserita nel decreto terremoto numero 189 del 17 ottobre, destinata ad allungarsi dopo le repliche telluriche di questi giorni. Se ne discuterà oggi nel Consiglio dei ministri straordinario. Il premier Renzi ascolterà i resoconti del capo della Protezione civile Fabrizio Curcio, del commissario straordinario Vasco Errani e dei quattro governatori, di ritorno dai sopralluoghi nelle terre colpite. E poi deciderà come procedere. Forse subito con un’ordinanza per includere i nuovi centri colpiti all’elenco dei 62. Più in là, con l’invio al Parlamento - dov’è in discussione il decreto 189 per la conversione in legge - di un emendamento con probabili nuovi stanziamenti. Il provvedimento vale 266 milioni per il solo 2016. Ma a questa cifra vanno aggiunte le risorse delle due delibere d’emergenza della Protezione civile, la prima di agosto da 50 milioni e quella di questi giorni da 40 milioni. E anche i 19 milioni donati dagli italiani: 15 milioni inviati con sms solidale al 45500 e altri 4 milioni al conto corrente della Protezione civile. Iniziative benefiche ripartite giusto ieri. A conti fatti dunque, per i quattro mesi di questa terribile fine d’anno ci sono 375 milioni. Servono a prestare le prime cure, sistemare gli sfollati, spostare le macerie. E poi a puntellare, ristrutturare, ricostruire prime e seconde case (beneficiate al 100%), grandi e piccole aziende, esercizi commerciali, scuole, chiese, palazzi pubblici. Il meccanismo è quello del finanziamento agevolato con credito di imposta: la banca anticipa i soldi e paga ad avanzamento lavori, poi lo Stato ripiana al massimo in venticinque anni, sotto l’occhio di Anac e Corte dei Conti. Nel pacchetto ci sono anche 50 milioni per l’indennità ai lavoratori senza posto, perché l’azienda è venuta giù o perché assistono feriti o malati. E altri 30 milioni per gli autonomi, co.co.co e partite Iva: 5 mila euro una tantum. Poi si vedrà. Nel 2017 entra in campo la manovra appena varata, con 6,1 miliardi riservati alla ricostruzione degli edifici privati (distribuiti lungo un trentennio, dal 2017 al 2047) e un miliardo alla ricostruzione di quelli pubblici (spalmati su quattro anni, 2017-2020), al ritmo di 200 o 300 milioni l’anno. Risorse a cui sommare 300 milioni di fondi europei in capo alle Regioni e da usare entro il 2023. In tutto: 7,4 miliardi che diventano appunto 7,8 miliardi, calcolando gli stanziamenti del 2016. Soldi riservati al cratere appenninico. E per il resto del Paese? C’è Casa Italia. Il progetto di messa in sicurezza di tutti gli edifici in chiave antisismica - dalle scuole ai palazzoni di periferia - che tanti grattacapi crea al governo nel confronto con Bruxelles. A questo scopo, l’Italia chiede di mettere fuori patto - e dunque di poter sforare il deficit senza sanzioni - lo 0,2% del Pil. Circa tre miliardi e mezzo di euro. Ma l’Europa, pur disposta ad aprire i cordoni della borsa per la stretta emergenza, non ne vuol sapere di scontare anche i lavori che giudica tutt’affatto eccezionali, ma di ordinaria manutenzione. Nella manovra il governo ha intanto piazzato un primo tassello di Casa Italia, il pacchetto Delrio per le ristrutturazioni. Incluso il potenziamento del sisma-bonus per abitazioni e condomini, con uno sconto più ampio rispetto al solo efficientamento energetico: detrazioni che vanno dal 70 all’85% e la possibilità di rientrare delle somme spese in metà del tempo (cinque anziché dieci anni). Eventualmente cedendo i crediti alle stesse aziende che fanno i lavori: una soluzione alla carenza di liquidità da anticipare, ostacolo frequente per questo tipo di operazioni. La misura vale 50 milioni nel 2017, poi si sale a 400 e 600 milioni nel 2017-18. Da Amatrice a Bruxelles, dunque. Una partita miliardaria. E un bisogno di fare in fretta. Guerra. Intervista a Emanuele Severino "non ci sarà la Terza guerra mondiale" di Daniela Monti Corriere della Sera, 31 ottobre 2016 Secondo il filosofo Severino le grandi potenze che potrebbero scontrarsi sono in realtà destinate al tramonto perché verranno sopraffatte dalla tecnica. Un’ipotetica e spaventosa Terza guerra mondiale come "guerra di retroguardia" rispetto al "conflitto primario" che è già in atto: quello fra l’insieme delle forze che si servono della tecnica - il capitalismo, la democrazia, le religioni, il comunismo, i nazionalismi - e la tecnica stessa. Le forze della tradizione credono di guidare il gioco, ma in realtà ne sono già ai margini. Per prevalere l’una sull’altra, devono potenziare il mezzo tecnico di cui si servono. Ma così facendo, dimenticano il loro scopo originario - accrescere il profitto per il capitalismo, fare la volontà di Allah per l’Islam. Diventano cioè qualcosa di diverso: detto nella terminologia più squisitamente severiniana, "sono destinate al tramonto". Una "destinazione" il cui senso autentico sfugge alla cultura contemporanea, umanistica quanto scientifica. Non alla filosofia. A vincere dunque è la tecnica, ovvero il "dono avvelenato" dell’Occidente, il dispiegamento del "progetto di trasformazione del mondo" portato avanti - una volta decretata "la morte di Dio" - dall’apparato tecnologico, scientifico, di pensiero razionale, fisico, matematico destinato a diventare più forte dei sistemi che oggi se ne servono. E l’uomo? È un mezzo per l’incremento della potenza della tecnica, non il fine, "l’umanità della tecnica è la morte dell’uomo". Sarà Emanuele Severino ad aprire il convegno internazionale che si svolge giovedì 3 novembre a Padova, dal titolo "Terza guerra mondiale?", nell’ambito delle attività del master in Death Studies & the End of Life dell’Università padovana, l’unico, non solo in Italia, a elaborare in forma scientifico-filosofica il problema della gestione della morte. "Il convegno vuole descrivere da un lato in che modo la morte, il nichilismo e la paura promuovono la violenza, il terrorismo e la guerra; dall’altro, cerca di dare voce alle strategie di comprensione del problema. Ed è per questo che il concetto di nichilismo di Severino diventa centrale", dice la direttrice del master Ines Testoni, che insieme al collega della Houston University Alessandro Carrera ha curato l’edizione inglese di Essenza del nichilismo, The Essence of Nihilism, per la Verso Books, fra gli editori più prestigiosi nel mondo culturale angloamericano. Il libro, pubblicato in Italia nel 1972 dalla casa editrice Paideia di Brescia (la più recente edizione è del 2015 presso Adelphi), resta forse il più celebre di Severino, quello in cui ritrovare le fondamenta del suo pensiero: essenza del nichilismo, cioè essenza "della follia estrema ed estremamente nascosta: la persuasione che gli essenti, in quanto tali, escano dal loro non essere e vi ritornino". La traduzione (avviata anche in cinese) è dunque un riconoscimento al sistema filosofico organico, unitario e strettamente coerente di Severino che Carrera, nella sua prefazione, definisce un "castello magico, di cui L’essenza del nichilismo è la chiave per l’ingresso principale" (per proseguire: "Il lettore deve essere avvertito: ci vorrà un po’ di tempo per esplorare l’intero edificio". Ma una volta entrati, "se anche non si è d’accordo con l’architettura, forse troppo solida per la sensibilità postmoderna, non si vorrà più uscire"). Professor Severino, una Terza guerra mondiale è possibile? E perché fare questa domanda alla filosofia? "La possibilità è ammessa anche in campo scientifico, si pensi alle previsioni di George Friedman. Le frizioni tra Russia e Stati Uniti e le prove di guerra telematica di questi giorni ce lo ricordano. Tuttavia, nemmeno la politologia, la geopolitica, la sociologia, la psicologia tengono sufficientemente conto delle implicazioni che sussistono tra la tecnica guidata dalla scienza moderna e le forze che della tecnica oggi intendono servirsi per realizzare i loro scopi. Non si tiene conto, innanzitutto, di questo fondamentale principio: che lo scopo di un’azione più o meno complessa ne stabilisce la configurazione e la struttura. Le forze che oggi si servono della tecnica sono azioni di grande complessità, e appunto perché si servono della tecnica sono destinate ad assumere uno scopo diverso da quello che è loro proprio: sono destinate al tramonto e la tecnica è destinata a dominarle. Il risultato è sorprendente: la conflittualità tra tali forze diventa una guerra di retroguardia, obsoleta, rispetto al conflitto primario che esiste tra l’insieme di esse e la tecnica. La cultura del nostro tempo, quella umanistica non meno di quella scientifica, si lascia sfuggire il senso autentico di questa destinazione. La tecnica è destinata al dominio perché il sottosuolo essenziale della filosofia degli ultimi due secoli mostra che l’unica verità possibile è il divenire del tutto, in cui viene travolta ogni altra verità e innanzitutto la verità della tradizione dell’Occidente, che pone limiti all’agire tecnico. Di tutto questo, e di ciò che tutto questo implica, tiene lucidamente conto l’impostazione del convegno di Padova". Che ne è dell’uomo in questo processo di autoaffermazione della tecnica? "Lo scopo dell’Apparato tecno-scientifico planetario non è il benessere cristiano, capitalistico, comunista, democratico dell’umanità, ma è l’aumento indefinito della potenza; e la conflittualità tra le forze che oggi si combattono rallenta tale aumento. L’arricchimento dei venditori di armi non aumenta la potenza dell’Apparato tecno-scientifico: aumenta il loro capitale. Quindi l’Apparato si potenzia riducendo e infine eliminando tale conflittualità. Lo scopo dell’Apparato - ossia della forma suprema della volontà di potenza - non è l’uomo: l’uomo è mezzo per l’incremento della potenza; tuttavia, come il capitalismo, che prima ancora della tecnica ha già come scopo qualcosa di diverso dall’uomo, riesce a dare a quest’ultimo un benessere superiore a quello dei movimenti che, come il socialismo reale, si propongono invece di avere l’uomo come fine, così, e anzi in misura essenzialmente superiore, accade nell’Apparato, dove ancora più radicalmente del capitalismo l’uomo non è assunto come fine". Pax technica: è questa la "destinazione" finale? La fine di ogni conflittualità? "Prima di prevalere, l’Apparato tecnico planetario è costretto a reagire al tentativo delle forze della tradizione di non farsi mettere da parte. E questa reazione è un episodio - forse tra gli ultimi - delle guerre di retroguardia. La Terza guerra mondiale non può essere uno di questi episodi. Innanzitutto è mondiale se si contrappongono le maggiori potenze, che ancora oggi sono capaci di determinare la distruzione atomica del Pianeta, cioè Stati Uniti e Russia (il duumvirato Usa-Urss ha costituito una delle fasi decisive del passaggio al dominio tecnico del mondo). In esse è più avanzato che altrove il processo in cui la tecnica ha sempre più come scopo il proprio potenziamento. Se si esclude che proprio nei due luoghi primari del potenziamento tecnico abbia a prevalere quella totale cecità tecnologica che non fa loro comprendere l’identità dei loro scopi (cioè il potenziamento della tecnica) e quindi il carattere irreale dei motivi del loro contrapporsi, se cioè si esclude la cecità che impedisce loro di scorgere che il contrapporsi indebolisce e impedisce la realizzazione del loro stesso scopo comune e che li rende sempre più simili, allora non solo una Terza guerra mondiale è impossibile, ma si presenta come inevitabile il prevalere del senso autentico dell’"universalismo" tecnico. Questa inevitabilità non significa che la pax technica, a cui il prevalere della tecnica conduce, sia la fine di ogni conflittualità, ma determina un mutamento nella configurazione del nemico e della guerra. I nuovi nemici sono le forme storiche destinate a condurre oltre il tempo della stessa dominazione della tecnica - giacché nemmeno questa dominazione ha l’ultima parola. Anzi, l’inizio dell’ultima parola, che peraltro è una parola infinita, incomincia a questo punto". Cultura. Dobbiamo incoraggiare i dibattiti aspri ma aperti dentro l’Islam di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 31 ottobre 2016 Proprio quelli che, come chi scrive, in questi ultimi anni non ha mai fatto mancare un giudizio critico, talvolta anche aspramente critico, verso aspetti centrali delle società islamiche, a cominciare da quegli aspetti che sono espressione in un modo o nell’altro del retroterra religioso di tali società, proprio questi ha il dovere più di altri di informare su fatti significativi di segno opposto che pure accadono. Come quelli, per l’appunto, che ha riferito sulla prima pagina dell’Osservatore Romano di sabato Zouhir Louassini, un valente giornalista marocchino residente da tempo in Italia. Eccoli riassunti in pochissime righe. Primo: lo sceicco al Tayyb, sceicco della famosa università cairota al-Azhar, intervistato alla tv da un giornalista dichiara, parlando in arabo, che il Cristianesimo "è una religione di amore e di pace che (…) invita addirittura ad amare i propri nemici". Ancora: è capitato di recente che i social media del mondo arabo siano stati invasi da un video visto da moltissimi spettatori, che mostra il battesimo di un convertito di origine siriano; ne è seguita una marea di commenti: molti anche assai aspri, ma non pochi che invece hanno sostenuto la libertà di scelta individuale pure in una materia a cui l’Islam è notoriamente quanto mai sensibile. E infine, il 24 ottobre, un seguitissimo giornale on line marocchino ha aperto un dibattito sul fenomeno della conversione di molti marocchini al Cristianesimo; anche qui sono seguite polemiche feroci ma pure molti interventi a favore della libertà religiosa. Come si vede, nel mondo arabo-islamico mutamenti importanti sembrano delinearsi (per il momento non si può dire niente di più, ma già non è poco). Louassini termina il suo articolo sull’"Osservatore" chiedendosi: "Perché tutto questo dibattito aspro ma aperto non interessa ai media occidentali?". Ecco una risposta: come si vede a questo giornale interessa. Egitto. Caso Regeni, no italiano all’Egitto nel Consiglio dei diritti umani Onu di Francesca Schianchi La Stampa, 31 ottobre 2016 L’Egitto è stato eletto venerdì scorso nel Consiglio per i diritti umani dell’Onu, ma senza il voto dell’Italia. La Farnesina rompe il riserbo su un’elezione a scrutinio segreto per metterlo in chiaro: il nostro rappresentante presso le Nazioni Unite, Sebastiano Cardi, non ha votato per Il Cairo. E non lo hanno fatto altri 19 Paesi: alla fine, il seggio è stato guadagnato con 173 voti su 193 votanti. Una precisazione motivata da articoli di stampa e richieste del mondo politico di rendere certo e pubblico il nostro no all’Egitto, in una votazione che ha eletto nell’organismo per i diritti umani delle Nazioni Unite con sede a Ginevra 14 Paesi (su 47 che la compongono) che entreranno in carica per tre anni a partire da gennaio. Un’opposizione alla candidatura egiziana che ha una ragione precisa: il caso di Giulio Regeni, il ricercatore friulano torturato, ucciso e trovato sul ciglio di una strada del Cairo nel febbraio scorso, a cui sono seguite indagini da parte egiziana lacunose e reticenti. Tanto da aver spinto il nostro Paese a richiamare l’ambasciatore dal Paese "per consultazioni" nell’aprile scorso e ancora fino a oggi. Una crisi diplomatica che ha ripercussioni anche sul piano internazionale, o almeno così spera l’Italia: la Terza commissione sui diritti umani dell’Assemblea Onu la settimana prossima dovrà esprimere alcune pronunce, una proprio sull’Egitto, e il nostro Paese - assicurano fonti diplomatiche - si sta spendendo perché ne esca un messaggio chiaro al Paese nordafricano. Con cui l’Italia ha anche qualche altro motivo di tensione: dalla posizione nei confronti del generale Haftar in Libia - sostenuto dal Cairo, è considerato uno dei principali ostacoli al governo di unità nazionale di Al Sarraj che anche l’Italia appoggia - alla recente polemica sulle moschee abusive chiuse a Roma, decisione criticata da una delle più importanti istituzioni religiose egiziane. Col voto di venerdì, l’Egitto che ancora non ha dato risposte sul caso Regeni entra a far parte dell’organismo creato in seno all’Onu dieci anni fa per promuovere e proteggere i diritti dell’uomo nel mondo. Compito che sarà affidato anche ad altri Paesi neoeletti che non hanno esattamente la fama di integerrimi guardiani della tutela dei diritti della persona, dell’uguaglianza, dei diritti politici, come l’Arabia Saudita, la Cina o Cuba. Non ce l’ha fatta invece, con grande sorpresa generale, un membro permanente dell’Onu come la Russia: i due posti dedicati all’Europa dell’est sono andati a Croazia e Ungheria. Brasile. Senza guardie, né armi, né barriere, viaggio nelle rivoluzionarie carceri Apac Ansa, 31 ottobre 2016 I detenuti si autogestiscono, studiano e imparano mestieri. Racconto per immagini alla Biennale di Venezia. Ci sono carceri rivoluzionarie dove non ci sono guardie, armi e barriere. Sono in Brasile e di certo sono un’eccezione. La fotografa bresciana Marina Lorusso le ha documentate entrando lì dentro. Ne è venuto fuori un viaggio di speranza in 18 fotografie che ora sono in esposizione fino al 27 novembre con ingresso libero a Gangcity - evento collaterale della 15. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia - organizzato da Università e Politecnico di Torino. Le Apac: Istituti detentivi le cui chiavi sono in mano agli stessi detenuti, chiamati recuperandi, che autogestiscono la vita comune e partecipano a progetti di formazione professionale guidati da associazioni senza scopo di lucro. L’indagine fotografica, promossa dall’ong italiana Avsi (Associazione Volontari per il Servizio Internazionale), racconta attraverso le immagini dei luoghi e degli individui che li animano come l’esperienza delle Apac rappresenti oggi un’effettiva risposta alternativa all’inefficienza dei sistemi di detenzione tradizionali. Le strutture Apac (dal nome dell’associazione che le gestisce: Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati) nascono nel 1972 nella città paulista di San José dos Campos per mano di un gruppo di volontari guidati dall’avvocato Mario Ottoboni. "Si tratta di piccoli centri di recupero per detenuti e di espiazione alternativa della pena che in oltre 40 anni di vita non hanno prodotto né una sola rivolta, né un singolo caso di corruzione o spaccio mentre le fughe si contano sulle dita di una mano - spiega Valdeci Antonio Ferreira, Direttore generale Fbac, Fraternitade Brasileira de Assistencia aos Condenados - Il tasso di recidiva di chi esce è del 15% contro l’85% del resto del Paese". Dopo le iniziali resistenze del Governo e del sistema giudiziario brasiliani, le strutture sono diventate oggi 147 in Brasile, per una popolazione di oltre 3500 recuperandi, in un Paese che conta 600.000 detenuti e un tasso di recidiva di 20 punti percentuali in più della media mondiale. "Oggi il metodo Apac è stato replicato in diverse città ed è attualmente testato in 22 paesi - conclude Ferreira - a dimostrazione del fatto che si sta lentamente sgretolando il preconcetto per cui un detenuto debba necessariamente soffrire violenze, abusi e degrado o debba morire. Un detenuto realmente riformato è un successo per l’intera società e nessuno è irrecuperabile". Il metodo Apac parte dal riconoscimento di aver commesso un errore e dalla decisione di cambiare per essere poi inseriti in un sistema basato sull’autodisciplina, sulla fiducia e sul rispetto. Nelle Apac, con l’aiuto di psicologi, operatori sociali e formatori i detenuti studiano e lavorano, aiutandosi a vicenda. Il metodo punta su: coinvolgimento della famiglia del detenuto, partecipazione della comunità esterna alla struttura, attenzione alla salute e possibilità di coltivare la dimensione religiosa. Lo scopo finale è di offrire al condannato le condizioni per pagare il suo debito con la giustizia e contestualmente recuperare se stesso. La mostra di Marina Lorusso è ospitata nello spazio Thetis all’Arsenale Nord di Venezia come parte integrante di Gangcity, progetto internazionale di ricerca sulle soluzioni al problema del degrado sociale connesso al degrado degli spazi. Libano. Approvata storica legge contro la tortura Il Dubbio, 31 ottobre 2016 Uno degli ultimi atti del parlamento libanese, in carica ancora per alcuni giorni - verrà sciolto probabilmente dopodomani 31 ottobre, dopo l’elezione del presidente della Repubblica - è l’approvazione di una legge sulla tortura. Il provvedimento prevede l’istituzione di nuovo ente, l’Istituto Nazionale per i Diritti umani, incaricato di sostenere le autorità nell’investigazione sull’utilizzo della tortura. La legge arriva quasi 8 anni dopo che il Libano, nel 2008, ha ratificato il protocollo opzionale della Convenzione contro il reato di tortura. Nel codice penale libanese, all’articolo 401, si condanna l’utilizzo della violenza delle autorità per ottenere confessioni ma non si vietano esplicitamente tutte le forme di tortura. Yemen. I sauditi bombardano il carcere di Hodeida, 60 morti tra detenuti e guardie Ansa, 31 ottobre 2016 Decine di persone sono rimaste uccise stanotte in un carcere yemenita in seguito ai raid della coalizione a guida saudita. Lo riferiscono i media internazionali. Il complesso carcerario si trova nella città portuale di Hodeida, sotto il controllo dei ribelli sciiti Houthi. Secondo funzionari delle autorità, i morti sono oltre 33 tra ribelli e prigionieri, per i media degli Houthi le vittime sono almeno 43. Nella struttura, colpita tre volte, c’erano 84 detenuti.