Renzi: "no all’amnistia, ma troppi detenuti nelle carceri" di Claudio Malfitano Il Mattino di Padova, 30 ottobre 2016 Prima volta di un presidente del Consiglio in un penitenziario. "Mangio il vostro panettone a Natale". "Ciao Zaccaria, mi raccomando, contiamo su di te". Se c’era un posto in cui non avrebbe mai pensato di dover firmare un autografo era dentro un carcere. Invece Matteo Renzi ha preso in mano la penna e scritto una dedica per il figlio di Mustapha, giovane detenuto marocchino. È la prima volta di un presidente del consiglio in carcere. Che inizia, in puro Renzi-style, con un tweet alle 7.09 del mattino: "Visito il carcere di Padova, un gesto inedito per un premier. Un pensiero a Marco Pannella". Poi un’ora di incontri e strette di mano tra operatori e detenuti. All’uscita il collegamento con Radio Radicale: "Non la penso come Pannella e Bernardini sull’amnistia. Ma il sovraffollamento è un problema. Il carcere è una questione politica con la P maiuscola. Se vogliamo affrontare il tema del rispetto della Costituzione bisogna partire anche dalla funzione educativa della pena". Il premier ha sfilato davanti al picchetto d’onore dalla polizia penitenziaria assieme al ministro della Giustizia Andrea Orlando, ai sottosegretari Gennaro Migliore, Cosimo Ferri e Federica Chiavaroli, al capo del Dap (dipartimento di amministrazione penitenziaria) Santi Consolo, al provveditore alle carceri del Triveneto Enrico Sbriglia, al prefetto Patrizia Impresa e al direttore del Due Palazzi Ottavio Casarano. Tappa centrale del tour di Renzi in carcere è stato il laboratorio della pasticceria della cooperativa Giotto: "Lo conosco bene il vostro panettone, lo mangio ogni anno a Natale". E per l’occasione i detenuti gliene hanno regalato uno maxi da cinque chili. "Da Renzi ho visto un’attenzione reale verso chi da una parte si dedica ad aiutare altre persone ad uscire dal cerchio della delinquenza e dall’altra a chi di questo sforzo può essere protagonista in prima persona", racconta il presidente di Officina Giotto Nicola Boscoletto, che prosegue: "Un’attenzione e un’umanità capace di riconoscere nella sua interezza il sistema carcere Padova fatto e sostenuto da molteplici attori istituzionali e non". "Chi segue un percorso formativo ha una recidiva bassissima", ha osservato Renzi, proseguendo poi il suo giro al call center, che gestisce le prenotazioni delle visite per conto dell’ospedale e dell’Usl. E poi i capannoni con gli assemblaggi delle valigie Roncato, il laboratorio di digitalizzazione e delle business key, le chiavette per la firma digitale. L’ultima tappa nella redazione di "Ristretti Orizzonti", il centro informativo multimediale del carcere, coordinato da Ornella Favero. Qui il premier ha ascoltato le storie di due detenuti e l’appello di Carmelo Musumeci. È uno dei 1.581 detenuti che scontano l’ergastolo "ostativo", il vero "fine pena mai". "Si può combattere la mafia anche dal carcere, attraverso la speranza", ha spiegato Musumeci, che all’interno del Due Palazzi si è laureato in Giurisprudenza e scrive libri e poesie. "Tenga duro, in bocca al lupo", ha risposto Renzi che dal Due Palazzi è uscito dopo aver stretto la mano a oltre cento detenuti. Mani che poi sono tornate a stringersi dietro le sbarre. Orlando: "spazi senza barriere per gli incontri tra detenuti e figli" di Claudio Malfitano Il Mattino di Padova, 30 ottobre 2016 "Saranno organizzati degli spazi senza barriere per gli incontri dei detenuti con i loro figli". È la promessa del ministro Andrea Orlando alle richieste dei detenuti, costretti a vedere i propri bimbi attraverso i separatori delle stanze dei colloqui coi familiari. È uno dei temi che sono stati affrontati nella visita al Due Palazzi di ieri mattina. Il premier Renzi ha anche incontrato i rappresentanti della polizia penitenziaria: "Abbiamo parlando anche delle carenze del personale. Stiamo invece lavorando per anticipare le assunzioni previste con il decreto sicurezza", ha promesso Orlando. La visita del premier è stata comunque apprezzata dal sindacato degli agenti penitenziari, il Sappe: "Un segno tangibile di grande sensibilità rispetto ad un mondo perennemente in tensione", ha commentato il segretario Donato Capece. "Il sistema carcerario deve essere ripensato in termini strutturali e non episodici, ha costi altissimi e non ha alcuna efficacia dato l’alto tasso di recidiva", ha aggiunto Pompeo Mannone, segretario della Cisl sicurezza. Per il segretario generale della Uilpa Angelo Urso, quello di Padova è "un importante segnale di attenzione". Un plauso è arrivato anche dall’associazione Antigone: "Bisogna veicolare sempre più risorse verso l’esecuzione penale esterna, verso le misure alternative, l’assunzione di educatori, assistenti sociali, interpreti, traduttori, mediatori". Pignatone: "la corruzione è sistemica e danneggia anche i cittadini" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 30 ottobre 2016 All’indomani dell’ultima operazione anticorruzione il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, denuncia la minaccia delle tangenti: "Un fenomeno multilaterale o addirittura sistemico, in cui intervengono, per trarne guadagni illeciti, oltre a pubblici ufficiali e corruttori, altri protagonisti che lucrano a danno delle casse pubbliche". Un pericolo per i cittadini: "Molto spesso l’imprenditore che paga le mazzette è tentato di rifarsi abbassando la qualità dell’opera. È ciò che con parole diverse dicono tanto papa Francesco che il presidente della Repubblica: la corruzione è una malattia che corrode la struttura vitale della società". "La corruzione oggi si manifesta sempre più spesso come un fenomeno multilaterale o addirittura sistemico, in cui intervengono, per trarne guadagni illeciti, oltre a pubblici ufficiali e corruttori, altri protagonisti (consulenti, professionisti, addetti ai controlli, eccetera) che lucrano ognuno qualcosa a danno, in sostanza, delle casse pubbliche", sostiene il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone all’indomani dell’ultima operazione anticorruzione condotta dal suo ufficio. Ci sono anche conseguenze dirette a danno dei cittadini? "Direi di sì, poiché molto spesso l’imprenditore che paga le mazzette è tentato di rifarsi abbassando la qualità dell’opera; "questo cemento sembra colla", dice uno degli indagati. Sono anche emersi episodi di reciproci ricatti tra gli stessi inquisiti, perché è inevitabile che se si entra in una rete di rapporti di natura criminale si corre il rischio di perdere la propria libertà di determinazione. È ciò che con parole diverse dicono tanto papa Francesco che il presidente della Repubblica: la corruzione è una malattia che corrode la struttura vitale della società". Il metodo mafioso stavolta sembra non entrarci. "No, ma l’indagine nasce dagli accertamenti eseguiti su un commercialista emerso in un filone minore di Mafia Capitale, che mette la sua capacità professionale in tema di fatture false, falso in bilancio, riciclaggio di somme pagate in nero, tanto a disposizione di organizzazioni mafiose o camorriste, quanto di esponenti di criminalità organizzata transnazionale (per esempio albanesi dediti al traffico di droga), o di imprenditori "normali". Il rischio è che questi soggetti detentori di un particolare know how agevolino i contatti tra i diversi fenomeni criminali con un aumento esponenziale della pericolosità degli uni e degli altri". Però siamo in presenza di un’indagine, poi magari si arriva al processo e tutto si sgonfia. "Io sto parlando della fotografia della realtà che emerge da questa e da tante altre inchieste, a prescindere dal giudizio di colpevolezza sulle singole persone. In questo caso, comunque, c’è già un giudice che ha sancito l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza". Ma secondo lei esiste il problema di inchieste che poi sfociano in sentenze di assoluzione, dopo anni di attesa per gli imputati? "Le assoluzioni rientrano nella fisiologia del sistema processuale. Giudicare su colpevolezza o innocenza degli imputati è una decisione di grande responsabilità, spesso anche complessa. Le sentenze non si ottengono con un’operazione al computer, specie per reati come quelli di corruzione, e per assicurare il massimo di garanzia al cittadino il nostro legislatore ha previsto tre gradi di giudizio. Accettando, di conseguenza, la possibilità di giudizi contraddittori". Con tempi un po’ troppo lunghi, non crede? "Un sistema di garanzie come il nostro non esiste negli altri Paesi europei. Il legislatore ha scelto di pagare anche un pesante prezzo in ter- mini di lunghezza dei processi, lunghezza che naturalmente dipende anche da altri fattori". L’ultima assoluzione che ha fatto rumore è quella dell’ex sindaco di Roma Marino. "Non parlo di casi particolari, e peraltro quella non è una sentenza definitiva. Ci potranno essere impugnazioni e altre pronunce. Noi rispettiamo le sentenze, anche quelle che non condividiamo perché, ad esempio, si pongono in contrasto con l’orientamento della Cassazione, ocon altre pronunce di merito sugli stessi temi". Caso Marino a parte, pensa che l’informazione dia troppo peso agli arresti o alle indagini preliminari, rispetto ai dibattimenti e alla conclusione dei processi? "Che le sentenze abbiano un’eco mediatica molto minore di quella riservata alle prime fasi dei procedimenti non dipende certo dai magistrati. Così come non dipende da noi il fatto che la politica faccia discendere le sue scelte dall’andamento dei processi". Vi hanno contestato di aver tenuto riservate alcune indagini a carico di certi politici, e non le fughe di notizie su altri. Che cosa risponde? "Che non è vero. Si continua a parlare di fughe di notizie da parte di Procure e polizie, ma in realtà le violazioni del segreto sono rarissime. Quelle che quotidianamente leggiamo sui giornali sono notizie non più coperte da segreto in base ai meccanismi del codice. O addirittura rese pubbliche, legittimamente, da chi fa una denunzia. Ricordo che io o altri colleghi avevamo suggerito di consentire la pubblicazione solo delle ordinanze del giudice, con la conseguenza di escludere la diffusione di notizie contenute negli altri atti processuali, comprese le informative della polizia e le richieste del pubblico ministero. Ma la proposta, oggetto di violente critiche da più parti, non ha avuto esito". A proposito di Mafia Capitale: com’è possibile che dopo tanto rumore, a quasi due anni dagli arresti, sia arrivata la richiesta di archiviazione per 116 indagati? "Ecco, su questo vorrei fare un po’ di chiarezza. Intanto sul piano quantitativo. Oltre ai 48 imputati nel processo in corso, per i quali il tribunale dirà se sono responsabili o meno dei reati contestati, ci sono già 14 sentenze di patteggiamento o di condanna, e una di assoluzione. Per altre 27 persone stiamo per chiedere il rinvio a giudizio dopo il deposito degli atti. In tutto 90 posizioni. Dei 116 per cui è stata richiesta l’archiviazione, esattamente la metà, 58, sono persone che rientrano tra quelle 90 posizioni e per le quali, come per Buzzi e Carminati, l’archiviazione riguarda solo qualcuno tra i molti reati inizialmente ipotizzati. Poi ci sono una ventina di iscrizioni nel registro degli indagati derivanti dalle accuse di Buzzi, necessarie per eseguire i riscontri che al momento ne hanno dimostrato l’inattendibilità. Il resto sono posizioni emerse nel corso delle indagini per reati diversi, e per cui riteniamo non ci siano elementi sufficienti a giustificare il processo". Qual è la conclusione di questo chiarimento "quantitativo"? "Che in questi numeri non c’è nulla di strano. Sono proporzioni che caratterizzano tutti i più importanti processi di mafia. Nell’indagine Crimine sulla ‘ndrangheta, conclusa con la conferma di quasi tutte le condanne in Cassazione, i rinviati a giudizio erano 161 e le posizioni archiviate 169". E sul piano "qualitativo"? "Rivendico le richieste di archiviazione, a riprova dell’attenzione e dello scrupolo con cui la Procura svolge il suo compito. Credo che dobbiamo condurre le indagini in tutte le direzioni e senza pregiudizi, cioè senza ritenere a priori qualcuno colpevole o innocente, e poi chiedere il rinvio a giudizio solo nei casi in cui riteniamo ci siano prove sufficienti a sostenere l’accusa in dibattimento. Come dice il codice. Anche questa valutazione non è semplice, e cerchiamo di farla con il massimo rigore, senza preoccuparci dei consensi o delle critiche che queste decisioni possono suscitare. Consapevoli che la nostra richiesta è solo il primo passo di un processo che vedrà il contributo delle parti e le decisioni di molti giudici". È la corruzione che ostacola la concorrenza sui mercati di Luigi Zingales Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2016 A molti può sembrare l’ennesima inchiesta sulle tangenti, che si esaurisce con un patteggiamento. Ma l’operazione Amalgama, condotta in maniera congiunta tra la procura di Roma e quella di Genova, mette in luce un grande problema del nostro Paese: la contiguità tra la criminalità organizzata e pezzi di imprenditoria e amministrazione pubblica. Basta guardare la lista degli indagati e arrestati: il figlio di un ex ministro, il figlio dell’ex ragioniere generale dello stato (nonché vicepresidente della Banca Popolare di Vicenza), due dirigenti di Salini Impregilo, e l’imprenditore calabrese Domenico Gallo che - secondo l’ordinanza del gip Cinzia Perroni - "risulta avere contatti con soggetti legati alla criminalità organizzata". Ci piacerebbe pensare che si tratti di un’eccezione. Purtroppo una ricerca recente condotta all’Università Bocconi ci dice che questa è la regola. In Lombardia (la cosiddetta capitale morale del Paese) il 34% delle imprese di ingegneria civile ha tra gli amministratori e soci almeno un indagato. Un quarto di questi è indagato per reati violenti o di sospetta origine mafiosa. Lo stesso studio invita ad abbandonare la distinzione classica tra economia legale e quella criminale. Esiste una commistione che mina la nostra incolumità e la nostra economia. La nostra incolumità perché dalle intercettazioni si desume che i direttori dei lavori collusi autorizzavano costruzioni non a norma in cambio di commesse. Ci stupiamo poi se crollano i cavalcavia delle nostre autostrade? La nostra economia perché in un’impresa collegata alla criminalità organizzata la produzione non è il fine, ma solo il mezzo per riciclare denaro. Poco importa che l’impresa sia efficiente, che cresca, basta che ricicli bene, senza farsi notare. In un mondo normale, imprese di questo tipo sarebbero costrette a uscire dal mercato a causa della concorrenza. Ma grazie ai finanziamenti illegali e alla corruzione degli appalti pubblici, le imprese criminali sopravvivono, minando la capacità di sopravvivenza di quelle legali. Come ha detto Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma, la corruzione "diventa anche un ostacolo per la concorrenza del mercato". Com’è possibile arginare questo fenomeno? Lo stesso studio della Bocconi evidenzia come le infiltrazioni criminali siano grandemente aiutate dall’uso di società fiduciarie che occultano i reali proprietari. Nell’inchiesta Amalgama la maggior parte delle tangenti non era pagata in denaro, ma in commesse in appalti a società possedute - attraverso fiduciarie - da parte dei direttori tecnici dei cantieri. Evitare questo è relativamente semplice. Basterebbe imporre per legge la trasparenza totale nella proprietà finale almeno di tutte le società fornitrici della pubblica amministrazione e dei loro subfornitori. Ovviamente questa trasparenza può essere aggirata con dichiarazioni false, ma se si aumentano le pene e si riduce l’iter per le condanne in caso di dichiarazione falsa, si riduce il problema. D’altra parte anche Al Capone fu incastrato per evasione fiscale di un bar di cui aveva rivendicato la proprietà. Ma anche senza nuove leggi, questa dovrebbe essere una norma di buona gestione per ogni società dove il management è separato dalla proprietà. Se non si può sapere chi c’è dietro ai fornitori di un’impresa, quale garanzia abbiamo che il management non rubi? Per questo stupisce che in queste indagini finiscano dirigenti di imprese come Salini-Impregilo, una società quotata che nel suo sito dichiara di voler "contrastare la corruzione in ogni sua forma" e di adottare un sistema di Controllo Interno in "conformità ai principi introdotti dalle leggi anti-corruzione e dalle Best Practices di riferimento a livello internazionale". Salini-Impregilo richiede come precondizione per ogni transazione la totale trasparenza della proprietà delle controparti? Se sì, come è possibile che alcune delle sotto commesse siano state affidate a società possedute dai direttori dei cantieri che dovevano controllare i loro lavori? Se no, cosa aspettano ad adottare questa regola di trasparenza? Giusto il favor rei per le sanzioni amministrative di Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2016 Secondo la Cassazione nessuno può essere punito se la legge posteriore non prevede la violazione. La riforma del 1997 ha scelto per le sanzioni amministrative un modello che ricalca fedelmente la disciplina delle sanzioni penali. Fra gli altri principi vi è quello della applicabilità della legge più favorevole, se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni differenziate. La Cassazione in un primo momento (6189/06; 24991/06) ha stabilito che si ha l’applicazione più favorevole solo quando la sanzione venga radicalmente meno. Ma poi ha eliminato ogni distinzione stabilendo che "in via generale, costituisce ius receptum il principio secondo cui, in forza dello ius superveniens più favorevole - correlato anche allo Statuto del contribuente - può affermarsi che, in tema di sanzioni tributarie, alla abrogazione del principio di ultrattività delle disposizioni sanzionatorie è subentrato il principio del favor rei nella sua duplice prospettazione; nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisce violazione punibile; se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa si applica la legge più favorevole". Il Tribunale di Como, con l’ordinanza emessa il 27 marzo 2015 (Gazzetta Ufficiale 27 luglio 2016, I Sezione Speciale, n. 30), ha sollevato questione di legittimità costituzionale nella parte di una norma che non prevede l’applicazione all’autore dell’illecito amministrativo della legge successiva più favorevole (articolo 1, legge 689/81). La disposizione, titolata "Principio di legalità", prevede che "Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi per i tempi in essi considerati". Essa viene censurata nella parte in cui non prevede l’applicazione della legge successiva più favorevole, per violazione degli articoli 3 e 117 della Costituzione. Secondo la Corte costituzionale (193/16), la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’articolo 117 non è fondata. Secondo la Cedu, le disposizioni che definiscono le infrazioni e le pene sottostanno a delle regole particolari in materia di retroattività che includono anche il principio della legge penale più favorevole all’imputato. Le norme Cedu devono essere applicate nel significato loro attribuito dalla corte Cedu. Ma spetta alla Corte costituzionale, si dice nella sentenza 193/16, valutare in che misura l’interpretazione della Cedu si inserisca nell’ordinamento italiano, con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto della peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi. Con riferimento al caso in esame, la giurisprudenza della Corte europea non ha mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerate, bensì solo singole e specifiche sanzioni, in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative in base all’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale. Non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestate dalla Cedu un principio generalizzato della legge più favorevole da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative. Anche con riferimento all’articolo 3 la questione, secondo la Corte, non è fondata. E qui, di fronte alla distinzione per principi fatta dalla giurisprudenza della Cassazione, la Consulta si avventura in un ragionamento minuzioso senza l’individuazione di principi che non sia la discrezionalità del legislatore. Esistono leggi che prevedono un trattamento più favorevole (come quelle in materia di previdenza e assistenza). Tale trattamento favorevole è fatto per la peculiarità degli interessi tutelati e la loro natura eccezionale non si presta ad una generale trasposizione di principi maturati nell’ambito di settori diversi dell’ordinamento. Il limitato riconoscimento della legge più favorevole risponde a scelta di politica legislativa in ordine all’efficacia dissuasiva della sanzione, modulata in funzione degli interessi tutelati. È discrezionalità del legislatore sindacabile dalla Corte (solo per manifestare irragionevolezza o per arbitrio). E la scelta in esame non può ritenersi in sé irragionevole. Come già detto, la sentenza della Corte appare per niente persuasiva rispetto al quadro sistematico della riforma del 1997. Il riferimento alla discrezionalità del legislatore è una rinuncia a ragionare per principi. La sentenza è palesemente ricavata dalla documentazione fornita ai giudici, che tendono a non vedere le questioni costituzionali e politiche, mentre la Corte deve orientare, guidare, legiferare. Il limite alla retroattività delle leggi più favorevoli è stata persuasivamente posto dalla Cassazione, che nella sentenza della Corte costituzionale viene completamente ignorata. Avvocati maledetti! "Inquinate la giustizia" di Piero Sansonetti Il Dubbio, 30 ottobre 2016 Dalle colonne del Fatto la fatwa dei settori estremisti della magistratura. I magistrati salgono sulle barricate contro la proposta del ministro Orlando di dare diritto di voto agli avvocati nei Consigli Giudiziari. Nei giorni scorsi c’erano state le feroci bordate della corrente di Davigo, che rappresenta la destra nell’Anm. Ora scende in campo il giornale più vicino ai Pm, il "Fatto quotidiano", con un articolo di Bruno Tinti (ex magistrato e commentatore autorevolissimo del giornale di Travaglio) il quale parla addirittura di "inquinamento avvocatizio". Proprio così: "inquinamento". La questione è abbastanza semplice. I Consigli Giudiziari sono gli organismi che amministrano la giustizia nei distretti e rappresentano - semplificando un po’ - una specie di articolazione territoriale del Csm. Gli avvocati fanno parte dei Consigli giudiziari, ma non hanno diritto di voto. Votano solo i magistrati. Il governo ha espresso l’intenzione di riformare i consigli e di dare il diritto di voto anche agli avvocati, riaffermando così il principio che non esiste un rapporto gerarchico tra magistratura e avvocatura, o di subalternità, ma che sono sullo stesso piano. Naturalmente è legittima la reazione di una parte della magistratura, che in questo modo vede scalfito il proprio potere e messo in discussione il proprio ruolo. Settori abbastanza grandi della magistratura in realtà non hanno mai accettato la riforma del 1989 (la cosiddetta riforma Pisapia) la quale stabiliva che la giurisdizione si esercita in un rapporto di parità tra difesa e accusa. Hanno sempre ritenuto invece che il concetto di indipendenza della magistratura, sancito dalla Costituzione, si dovesse tradurre in una idea di supremazia e di insindacabilità. Negli ultimi tempi, soprattutto nell’Anm, hanno preso il sopravvento le correnti che su questo punto hanno le posizioni più estreme. Camillo Davigo, che da pochi mesi è il capo dell’Anm, non ha mai nascosto la sua convinzione di superiorità, quasi genetica. Recentemente si è definito addirittura "giansenista", riferendosi ad una vecchia setta religiosa che riteneva che il genere umano fosse formato da reprobi, tranne una piccola quantità di eletti, e cioè di persone superiori. Davigo pensa evidentemente che gli eletti siano i magistrati. La posizione espressa ieri dai settori della magistratura che fanno riferimento al "Fatto", però, supera i limiti della legittima polemica. Definire gli avvocati "inquinatori" risponde a una idea della giurisdizione nella quale la difesa diventa semplicemente espressione di colpevolezza e l’avvocato è da collocare sullo stesso piano dell’imputato, contrapposto alla autorità innata e indiscutibile del giudice amministratore del bene. È vero che l’articolo di Tinti - che è un polemista molto brillante e capace, in genere, di provocazioni stimolanti - è in grandissima parte una feroce e ragionevole critica alla magistratura e al correntismo del Csm, ma questo non modifica l’impostazione di fondo, che più o meno risponde a questa convinzione: il peggior magistrato del mondo è comunque superiore al miglior avvocato. Sulla base di queste posizioni, del tutto estranee e lontanissime dalla Costituzione, è molto difficile evitare uno scontro tra politica e magistratura (che diventa poi uno scontro tra democrazia e autoritarismo). Sull’accoglienza dei migranti l’Italia non è all’anno zero di Agnese Moro La Stampa, 30 ottobre 2016 Spesso si descrive l’Italia come un Paese in cui l’immigrazione è un fenomeno recente. In parte è vero, anche se ormai sono passati 25 anni dallo sbarco sulle coste della Puglia di 27.000 albanesi. Mi sembra che questa presunta "giovinezza" rischi di far pensare ad una nostra inesperienza che, sommandosi al senso di privazione derivante dal perdurare della crisi economica, inasprisce timori e resistenze all’accoglienza. In realtà in questo quarto di secolo si è accumulato un bagaglio di conoscenze, esperienze e "saper fare" che potrebbe farci guardare con maggiore serenità ai tanti, inarrestabili, arrivi, da altre parti del mondo, di persone come noi. Socializzare queste acquisizioni ci darebbe il senso reale di dove siamo e di quali siano i nostri punti di forza. È anche per questo che mi pare particolarmente importante un libro come quello di Benedetta Tobagi "La scuola salvata dai bambini" che raccoglie, con la consueta competenza e vivacità dell’autrice, problemi ed esperienze di integrazione di bambini "stranieri" nelle nostre scuole primarie. Un quadro vivo, in movimento, ricco di umanità e di creatività. Così come mi sembra importante la decisione di iniziare la pubblicazione dei "Quaderni del SaMiFo" per comunicare quanto compreso e realizzato in dieci anni dagli operatori del Centro di Salute per Migranti Forzati - centroastalli.it/servizi/progetto-samifo - che a Roma - in collaborazione con il Centro Astalli e la ASL RM1 - promuove la tutela della loro salute. Viene offerta assistenza medica di base e specialistica: psichiatria, psicologia, ginecologia, ortopedia e medicina legale, vaccinazioni, cure per la tubercolosi. È un punto di riferimento anche per le vittime di tortura e di violenza intenzionale. Grazie alla sinergia tra soggetti del privato sociale e del servizio pubblico alle prestazioni sanitarie si affiancano interventi di protezione sociale, così da creare dei percorsi assistenziali integrati. L’accesso al servizio è sempre libero, e l’approccio è particolarmente sensibile all’identità culturale dei pazienti e alla questione di genere. E proprio alle donne migranti e ai loro specifici problemi è dedicato il primo dei Quaderni, con contributi di studiosi-operatori di diverse professionalità e discipline. Non siamo all’anno zero. Ma c’è tanto bisogno di farlo sapere. Per incoraggiarci a proseguire. Oristano: 45 detenuti scrivono al Ministero "inattuate le richieste del Garante nazionale" di Elia Sanna L’Unione Sarda, 30 ottobre 2016 Le richieste per il garante sarebbero rimaste sulla carta e 45 detenuti del carcere di Massama hanno scritto al Ministero, preannunciando nuove proteste. Hanno denunciato l’assenza delle iniziative finalizzate a migliorare le loro condizioni di vita quotidiane all’interno della struttura. A farsi portavoce della protesta è stata Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo, diritti riforme. Secondo i detenuti a Massama manca tutto per poter scontare una pena dignitosa di lunga durata, così come, nonostante le promesse tutto è come prima. Nel carcere di Massama - conferma Maria Grazia Caligaris - convivono 284 detenuti, quasi tutti di altre regioni, e in regime di alta sicurezza, per 260 posti. Si tratta prevalentemente di ergastolani che, nel rispetto della legge sull’ordinamento penitenziario, dovrebbero poter disporre di una cella singola e di un lavoro. Il maggior disagio è legato alla difficoltà di avere un dialogo costante con il direttore. Pierluigi Farci, infatti, dirige anche Is Arenas e ricopre il ruolo di vice provveditore. I detenuti denunciano un clima di tensione, annunciano un ulteriore inasprimento delle proteste, come rifiutare quel po’ di lavoro, la scuola, qualora non vengano assunte iniziative per migliorare le loro condizioni. Sanremo (Im): il Sappe denuncia "tensione nel carcere per una protesta dei detenuti" di Mario Guglielmi rivierapress.it, 30 ottobre 2016 Una trentina di detenuti, a termine dell’attività di socializzazione, attivando la protesta, forse proprio contro la Direzione dell’istituto, si è rifiutata di far rientro nelle loro celle. A sorvegliare e gestire la protesta c’era un solo agente. Attimi di tensione nel carcere di Sanremo a causa di un’animata protesta inscenata dai detenuti di una intera sezione detentiva. Sul caso interviene il Sappe - il sindacato della Polizia Penitenziaria - che non comprende le motivazioni dell’assenza della Direzione, dimostrando disinteresse a tali episodi. Il Sappe fa sapere che una trentina di detenuti, a termine dell’attività di socializzazione, attivando la protesta, forse proprio contro la Direzione dell’istituto, si è rifiutata di far rientro nelle loro celle. A sorvegliare e gestire la protesta c’era un solo agente. Da qui è chiaro - afferma il Sappe - che il pericolo è tangibile. Se i detenuti avessero voluto, sicuramente avrebbero avuto la meglio sull’unico poliziotto di turno e le conseguenze sarebbero state drammatiche, meglio non pensarci. La fotografia che ne deriva da quell’istituto è particolarmente sfuocata, la presenza di 242 detenuti mal si combina con l’organico di Polizia Penitenziaria che oggi lo vede carente di 65 unità con i 28 agenti distaccati in altre sedi. Gli eventi critici avvenuti dall’inizio del mese sono sintomatici per connotare la negatività di quell’istituto, infatti dei quasi 50 eventi avvenuti, segnaliamo un tentato suicidio, 3 risse, 16 autolesionismi e ben 3 proteste della popolazione detenuta. Per questo, conclude il Sappe, c’è bisogno di maggiore attenzione sul sistema penitenziario ligure su Sanremo bisognerebbe intervenire innanzitutto rivedendo i vertici dell’istituto e qui il Ministro della Giustizia Orlando dovrebbe fare chiarezza, non possiamo aspettare oltre o intervenire dopo la tragicità dell’evento per poi far ricadere le colpe sulla Polizia Penitenziaria. E qui gli episodi accaduti su tutto il territorio nazionale si sprecano. Roma: nigeriano morto dopo l’arresto. Il Gip: tornate a indagare sul caso di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 30 ottobre 2016 Era morto durante l’arresto, l’inchiesta sarà riaperta. Il tribunale vuole accertare se l’intervento tempestivo di un’ambulanza avrebbe potuto salvare Joseph Lugard Omosaiye, pusher nigeriano di 40 anni con tre figli e una stazza di 120 chili, morto nel giugno 2015 a Casal Morena con le manette ai polsi. Le ultime scene ricostruite da un impianto di videosorveglianza, puntate nei paraggi del commissariato La Romanina, lasciano aperti dei dubbi. In uno spezzone si vede persino un agente che insulta e sferra un calcio al nigeriano, sdraiato a terra, forse già morto. Ma sono altre le scene, ricostruite con le testimonianze di una serie di passanti, che forse hanno spinto il giudice ad accogliere l’opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dalla procura e contrastata dalla famiglia. Omosaiye urlava "Muoio, muoio", mentre le operazioni di arresto procedevano secondo routine. Il nigeriano a pancia in giù, con le manette strette dietro alla schiena e il piede di un poliziotto premuto sulle scapole mentre lui chiedeva aiuto. L’ambulanza venne chiamata un quarto d’ora dopo dagli agenti di una volante intervenuta per supporto, ma quando arrivò non c’era più nulla da fare. "Si ritiene necessario - ha scritto ora il gip Flavia Costantini - proseguire le indagini al fine di accertare, con consulenza tecnica, se un tempestivo intervento sanitario avrebbe potuto impedire o ritardare l’evento morte, nonché sentire il personale dell’ambulanza intervenuta sul posto per verificare quali fossero le condizioni dell’arrestato quando sono stati prestati i primi soccorsi". In caso di conferme gli agenti rischierebbero di finire a processo per omissione di soccorso od omicidio colposo. Il caso è del 17 giugno 2015. La polizia arriva alle 17.43 in via Zagarise, per bloccare Omosaye. Una cattura non facile. L’uomo si dilegua, affaticandosi. Cade (come sembrano provare le escoriazioni), viene riacciuffato e poi bloccato con le cattive maniere, visto che continuava a divincolarsi. La moglie, assistita dall’avvocato Stefano Troiano, però è sempre stata convinta che il marito è morto per l’arresto. Lo stesso pm titolare dell’inchiesta, d’altra parte, alla luce di alcune testimonianze, aveva avuto "qualche dubbio sulla condotta posta in essere dagli agenti operanti". Una passante interrogata aveva confermato: "L’uomo gridava di star male". Una seconda: "Urlava di stare male". Un’altra: "Diceva che aveva i polsi troppo stretti delle manette". L’ultima: "L’uomo di colore era a pancia in giù con le mani dietro la schiena. Un uomo gli teneva il suo piede sulla schiena... Gridava "chiamate la polizia" e poi "muoio, muoio, muoio". Il calcio gli viene sferrato dopo, però. Quando, ormai esanime, viene scaricato a fatica dalla volante. Roma: accordo tra Roma Università Tre e Ministero della Giustizia, 50 detenuti iscritti Ansa, 30 ottobre 2016 Un accordo tra Roma Tre e il ministero della Giustizia agevolerà l’accesso dei detenuti agli studi universitari, con corsi di insegnamento a distanza, percorsi formativi accessibili per gli studenti detenuti, spazi didattici dedicati negli istituti penitenziari, ingresso agevolato per i docenti in carcere, e dove possibile continuità di residenza stabile per favorire la continuità del progetto di studio. "Con questa convenzione - spiega il rettore Mario Panizza - vogliano favorire lo studio universitario dei detenuti. Circa 50 studenti detenuti nelle carceri laziali hanno deciso di iscriversi a Roma Tre dal 2012, attualmente sono circa 30, con risultati in molti casi particolarmente positivi, specie nei corsi di laurea in Giurisprudenza e Dams". "Lo studio universitario in carcere è un importante strumento di reinserimento e recupero - spiega il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia - in tutto il Lazio sono circa 100 i detenuti iscritti alle varie università e speriamo di aumentarne il numero". "Mai dire mai", la verità del carcere al cinema di Cristiano Cadoni Il Mattino di Padova, 30 ottobre 2016 Per un gioco del caso, per questione di centimetri, di minuti, di gradi di latitudine, per congiunzione astrale, per un passo di troppo, per una strada sbagliata, per un incontro sfortunato, per quella cosa che chissà se invece... "In un’altra vita, probabilmente, potrei esserci io dall’altra parte della telecamera", dice il regista Andrea Salvadore. E ci crede davvero, si capisce. Perché dopo aver visto il suo docu-film, girato nel carcere Due Palazzi di Padova e fra le detenute alla Giudecca di Venezia, ti resta addosso la sensazione che l’errore, quello che segna la vita, può capitare a tutti. E non c’è giustificazione gratuita dello sbaglio in questa consapevolezza. Semmai la presa d’atto che davvero non puoi "Mai dire mai", come il titolo del documentario stabilisce in modo perentorio e definitivo. Annunciato fra le novità del palinsesto di Tv2000 all’ultima Mostra del cinema di Venezia e prodotto con l’appoggio della diocesi di Padova, il lavoro di Salvadore è stato presentato in anteprima nazionale ieri mattina al "Due Palazzi", davanti ai protagonisti di quel documentario seduti in platea insieme al vescovo don Claudio Cipolla, ai direttori delle case di reclusione Ottavio Casarano e Gabriella Straffi, ai cappellani don Marco Pozza, fra Nilo Trevisanato e suor Franca Busnelli, al direttore di Tv2000 Paolo Ruffini, al rettore del Santo padre Oliviero Svanera, al vice prefetto Aldo Luciano, a volontari, operatori, guardie carcerarie e a una platea così ben assortita da giustificare le parole del vescovo: "Lo sguardo della città oggi è puntato sul carcere, qui l’esperienza dell’errore e della sofferenza è più profonda, qui tutti - non solo i detenuti - pagano il conto che la giustizia umana chiede". E Padova guarderà ancora al suo carcere domani, con l’arrivo del premier Matteo Renzi, e la settimana prossima quando il cardinale Pietro Parolin entrerà per celebrare una messa. È un giubileo che non finisce più e che si dispiega in entrata e in uscita. Ventisette carcerati andranno con il direttore e con don Pozza a Roma, il 6 novembre, per l’appuntamento con papa Francesco. E poi c’è questo docu-film che per due sere - il 6 e il 13 novembre - su Tv2000 porterà fuori dalle sbarre le storie di Lorenzo, Meghi, Carlo, Armand Davide, Raffaele, Enrico, Chakjib, Milva, Kasem e Guido. Storie che ribaltano il copione ormai logoro - ma non ancora archiviato, televisivamente - che vuole la cronaca nera sviscerata morbosamente: il delitto in tutti i dettagli, le scene nei plastici, possibilmente il sangue, i racconti con le lacrime, banalità assortite. Salvadore si prende il tempo - ed è un tempo cinematografico, più che televisivo - e lo spazio, per lasciare che le parole conservino il loro peso. "Faccio sempre un lavoro maniacale di preparazione, ma in questo caso non ho voluto sapere niente di chi avevo davanti", ha detto il regista. Così ogni detenuto è una vicenda che si sviluppa nella prospettiva più logica, quella dello sguardo verso il ritorno alla libertà. Non ci sono tagli secchi nel montaggio, gli sguardi in primo piano si offrono con il tempo giusto, non un secondo di troppo. Lorenzo, oggi 38 anni, milanese, racconta che suo padre era già in carcere quando lui è nato, che a scuola lo prendevano in giro, che lui però lo ha sempre visto come un uomo tutto d’un pezzo. A 12 anni i primi furti e l’emozione, a 14 la prima rapina in totale incoscienza, "pensando che mio padre sarebbe stato contento di me". Il carcere minorile, "dopo il quale mi sono sentito uomo" e poi San Vittore, "proprio dove era stato mio padre, che però non è mai venuto a trovarmi come facevo io con lui". Un figlio nato in una parentesi di libertà e però malato di tumore al cervelletto. La latitanza studiata in funzione di questa condizione imprevista, l’amore e il dolore, i viaggi impossibili dalla Spagna per depistare la polizia. E infine l’arresto, il giorno dopo il funerale del figlio. "E però sono fortunato, sono stato tante volte sul punto di sparare ma non l’ho mai fatto". Di Lorenzo si può dire che oggi è un altro uomo. "A mio padre oggi chiederei se è orgoglioso di me", dice in un messaggio finale. Non sono meno potenti - deflagranti, violente - le storie di Meghi o di Armand Davide o di Raffaele, che arrivano dopo. E si sottolinea ad alta voce che tutti, ora, vorremmo tutti liberi subito. "Qui dentro il carcere", riassume il cappellano don Marco Pozza, "ci sono case cadute e macerie. Ma con le pietre sparse si ricostruisce qualcosa che sarà diverso". Ed è chiaro che dirlo è molto più semplice che farlo. "Ma intanto è bene cambiare lo sguardo verso quello che succede qui dentro", conclude il cappellano. "Abbiamo convinzioni costruite sulla letteratura del carcere, la realtà è molto diversa". I fratelli Dardenne: "Dentro la vita dei migranti come se fosse un noir" di Chiara Nicoletti Il Dubbio, 30 ottobre 2016 Nelle sale "La ragazza senza nome". Protagonista Adèle Haenel. Essere grandi artisti significa anche sapersi mettere in discussione. Così i più famosi cineasti belgi, Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno deciso di riprendere in mano "La Fille Inconnue - La ragazza senza nome" e tornare a lavorarci dopo aver presentato il film a Cannes con un successo minore rispetto a quello a cui i registi due volte Palma d’oro sono abituati. Con sette minuti in meno e maggior dinamicità, la pellicola, da oggi nelle sale italiane, pone nuovamente al centro dell’attenzione una protagonista femminile, come era stato per Due giorni, una notte con Marion Cotillard. Ad Adèle Haenel il compito di raccogliere l’eredità dell’attrice francese premio Oscar e tenere le redini di un film che punta e grava totalmente su di lei. Finito il turno in ambulatorio la dottoressa Jenny Davin non apre ad una paziente arrivata oltre l’orario di visite. La scoperta della morte della donna, la cui identità si rivela sconosciuta, genererà nel giovane medico un profondo senso di colpa. Alla ricerca del modo di perdonarsi, di assoluzione per i propri peccati, la protagonista inizia un’indagine per scoprire non solo il nome di questa donna ma anche il mondo che le viveva intorno per restituirle veramente un volto, un carattere, degli affetti e per darle un degno e dovuto addio. Al racconto del quotidiano che i fratelli Dardenne padroneggiano come pochi, si aggiungono le sfumature del noir che rendono il percorso della protagonista costantemente imprevedibile. L’indagine è scandita dal lavoro di Jenny, dalla sua cura per i pazienti, dai gesti ripetitivi e dagli stessi e anonimi vestiti indossati senza attenzione. Il citofono dell’ambulatorio però, fa da contrappunto alla routine e ci ricorda il senso di colpa che pervade non solo la giovane dottoressa ma anche molti degli abitanti della città, ingrigiti dai segreti. Jean-Pierre e Luc Dardenne sono venuti a Roma a raccontare il loro processo creativo, la nuova fascinazione per il noir ed il ruolo di un cineasta nella società. Come nasce "La ragazza senza nome"? Luc Dardenne: L’idea è nata da un personaggio che avevamo in mente da diverso tempo, quello di un medico. Una dottoressa che per il lavoro che fa ha come missione quello di aiutare la vita a continuare il più a lungo possibile e di allontanar la sofferenza e la morte. Nel film invece si trova a sentirsi in colpa proprio perché è in qualche modo coinvolta nella morte di questa ragazza senza nome. Si sente responsabile di una invisibile, di una persona di cui non sappiamo nulla a partire dal nome. Luc: A partire dall’idea di questa dottoressa immediatamente abbiamo legato un altro personaggio, una nera africana che non ha nome. Da li nascerà tutta la ricerca della donna per darle un nome, la mettiamo in una situazione concreta che richiama ai tanti senza nome che si trovano in Europa adesso. Avete pensato subito che la scelta della vittima avrebbe dovuto essere un’immigrata o sono stati i fatti di cronaca a condurvi verso questa decisione? Jean-Pierre: Avevamo immediatamente pensato ad un’immigrata senza documenti e dunque clandestina e questa idea ci è venuta per la situazione che viviamo oggi. Vent’anni fa probabilmente non ci sarebbe venuto in mente di pensare ad una ragazza che muore senza documenti vicino ad un corso d’acqua. Ciò che la spinge è il senso di colpa ma anche il sentirsi paradossalmente legata a questa donna nella solitudine? Luc: Sì, possiamo dire che senta anche questo legame di solitudine ma quello più forte deriva dal senso di colpa che lei prova per non aver risposto a questo campanello che suonava. Questo il motivo per cui non ci siamo interessati della vita privata di questa giovane dottoressa al di fuori di questo contesto. Il senso di colpa le permette di accedere agli altri perché arriva a suscitare lo stesso senso di colpa anche negli altri che a loro volta superano i propri interessi personali in favore della verità. Può questa storia indurre lo spettatore ad incominciare ad interessarsi agli altri, a sentirsi responsabile del loro destino? Jean-Pierre: Posso rispondere soltanto restando nel nostro ruolo di cineasti. Quello che speriamo di suscitare con il film è che allo stesso modo con cui la ragazza senza nome è presente nella mente della dottoressa, anche lo spettatore possa arrivare a fare una serie di riflessioni senza riuscire a scacciare questa immagine. Solo mostrando gli immigrati come avete fatto, capaci di sentimenti esattamente come i nostri, si può arrivare alla vera accettazione? Jean-Pierre: Assolutamente, non abbiamo mai inteso fare un film dove mostriamo gli immigrati buoni e gli europei cattivi ma l’esatto contrario. Mostrare gli immigrati come noi, gli stupidi e i meno stupidi proprio come nella nostra realtà e unire tutti sotto il senso di colpa, porta ad un senso maggiore di comprensione e di conseguenza, accettazione. Come e perché avete scelto Adele Haènel? Luc: È grazie a lei che abbiamo finalmente fatto il film. L’avevamo incontrata a Parigi per caso e ci aveva colpito il suo volto così ingenuo, fresco e innocente, dotato di una franchezza nel modo di guardare, nel suo sguardo diretto. Ci siamo detti che se Jenny fosse stata più giovane, grazie al rapporto che è capace di instaurare con i suoi pazienti, con il suo sguardo potrebbe induli di farro a parlare. Il suo è un viso che suscita il desiderio di essere schietti e sinceri. A lei interessava fare il film e siamo stati felici di lavorare insieme a lei. Dopo Cannes avete deciso di rimontare il film, perché questa decisione? Jean- Pierre: Prima ancora di andare a Cannes avevamo in mente di tagliare una parte di una sequenza del film. L’accoglienza del film al Festival è stata tiepida e gli amici ci hanno detto che forse era un problema di ritmo. Era una cosa che ci assillava sin dall’inizio perché per noi era importante che ci fosse un equilibrio tra la vita privata di Jenny che coincide con l’indagine per dare un identità a questa ragazza e l’esercizio della professione medica. Rientrati da Cannes, ci siamo ritrovati a fare un taglio di sette minuti totali. Questa versione crediamo ci permetta di entrare maggiormente nella mente di Jenny. La mossa dell’Italia sui migranti: sanzioni agli stati che non accolgono di Francesco Verderami Corriere della Sera, 30 ottobre 2016 Dieci Stati non ne hanno ricollocato neanche uno. Le cifre sull’emergenza migratoria testimoniano la violazione delle regole comunitarie a danno dell’Italia. Le cifre sull’emergenza migratoria testimoniano la violazione delle regole comunitarie a danno dell’Italia. E i numeri sul ricollocamento dei richiedenti asilo smascherano l’ipocrita solidarismo dell’Unione verso Roma. Nei documenti redatti dal Viminale il ministro dell’Interno legge non solo "le ragioni della crisi dell’Europa" ma anche "la minaccia dell’interesse nazionale". Ecco cosa spinge Alfano a prefigurare - in assenza di novità sostanziali - "un passo formale del governo verso la Commissione", perché Bruxelles imponga agli Stati Ue il rispetto degli accordi presi. O li sanzioni in base ai poteri attribuitele dai Trattati. Per l’Italia "non è accettabile" che continuino a restare disattese le "Decisioni" numero 1523 e 1601 con le quali i partner europei si erano impegnati ad accogliere "per quota" una parte di migranti approdati sul territorio nazionale. "Non è accettabile" che su 47.857 richiedenti asilo da trasferire in altri Paesi comunitari ne siano stati finora ricollocati solo 1.392. "Ancor più grave che negare la solidarietà è assicurare la solidarietà e poi negarla", commenta il titolare del Viminale scorrendo la black-list degli inadempienti. "Solenne promessa" - Nell’atto d’accusa sono compresi tutti gli Stati dell’Unione, dato che nessuno ha tenuto fede alla "solenne promessa" fatta nella primavera del 2015, all’indomani dell’ennesima strage di innocenti nel Mediterraneo. Allora i leader europei si strinsero al fianco dell’Italia, "allora - ricorda il ministro dell’Interno - ci venne offerta la solidarietà in cambio di gesti di responsabilità. Dicevano: "Noi ci faremo carico di una parte dei migranti ma voi dovrete organizzare gli hotspot, prendere le impronte digitali, sigillare le frontiere". Quanto dovevamo fare, noi l’abbiamo fatto. Loro invece ci hanno voltato le spalle". Di fronte a questi gesti, anche chi - come Alfano - sostiene di essere "cresciuto nell’ideale europeista", vede "messo a dura prova" il proprio credo: "Questa non è l’Europa che sognavamo". Non aleggiava certo lo spirito europeista di Adenauer o di Schumann all’ultimo vertice dove si è parlato di immigrazione, se è vero che l’ungherese Orbán prima ha attaccato violentemente Juncker, poi si è allontanato: "Devo andare in bagno". Malgrado questo clima il governo italiano "non smette di operare", nel salvataggio in mare come nella gestione a terra dei migranti. "Non è un video-game", cerca di far capire il ministro dell’Interno: "Quotidianamente impegniamo uomini e risorse, tra il dramma di chi arriva e le sofferenze dei nostri concittadini". Interesse nazionale - Il fatto che, per tutta risposta, non solo Roma sia rimasta sotto l’osservazione di occhiuti burocrati di Bruxelles, ma sia stata "persino messa all’indice per lo 0,1 del bilancio", ha provocato la reazione. Così il responsabile del Viminale ha chiesto ai suoi uffici uno studio in tempo reale sul ricollocamento. E siccome ad oggi i partner dell’Unione non hanno accolto "nemmeno il 3%" dei migranti stabiliti dalle quote, si è convinto che "è l’ora di porre un limite": "Bisogna essere chiari con gli altri Paesi e con Bruxelles. Il problema non è lo sforamento di un decimale nei conti di uno Stato che deve ovviare a un’emergenza. Il problema è il clamoroso e collettivo inadempimento davanti a una emergenza, che lascia presagire l’inaffidabilità dell’Europa". Di qui la decisione di mettere l’Unione dinnanzi alle proprie responsabilità: "L’Italia con il suo impegno sta salvando l’Europa, ma il governo deve e vuole difendere anche l’interesse nazionale". Perciò Alfano ritiene che l’esecutivo debba prepararsi a chiedere formalmente alla Commissione una "verifica sullo stato di attuazione delle Decisioni assunte a livello europeo per il ricollocamento dei richiedenti asilo". Tradotto dal linguaggio tecnico è una mossa che prepara la richiesta di apertura di una procedura d’infrazione per gli Stati inadempienti. "Mancano strumenti giuridici" - Secondo i Trattati, spetta alla Commissione vigilare sul rispetto delle regole. Nel caso la Commissione abbia notizia di una violazione, può procedere d’ufficio. Finora non s’è mossa, ma potrebbe essere "attivata" da un governo nazionale attraverso una "formale segnalazione". A quel punto spetterebbe a Bruxelles avviare la verifica e imporre agli Stati membri di ottemperare all’impegno, pena una successiva sanzione. Ovviamente la Commissione dovrebbe stabilire se c’è stata inadempienza, e sul ricollocamento dei migranti i documenti del Viminale non lasciano adito a dubbi. "Purtroppo mancano gli strumenti giuridici", aggiunge con ironia mista ad amarezza Alfano: "Visto l’andazzo, noi dovremmo chiedere una procedura d’infrazione contro l’Europa. Dato che non si può fare, speriamo almeno che l’Europa si adoperi contro se stessa per mancata vigilanza". La prospettiva di avviare la procedura sulla disattesa applicazione delle Decisioni è un ulteriore (e diverso) strumento di pressione su Bruxelles e sui partner, rispetto all’ipotesi avanzata da Renzi di porre il veto sul bilancio europeo. Ma tanto il premier quanto il ministro dell’Interno si muovono con lo stesso intendimento: "Salvare l’Europa e difendere l’interesse nazionale". Perché l’immigrazione fa aumentare il Pil di Danilo Taino Corriere della Sera, 30 ottobre 2016 Non saranno le statistiche a risolvere le dispute e gli scontri sull’immigrazione. Se così fosse, la questione sarebbe in gran parte risolta. Uno studio pubblicato dal Fondo monetario internazionale ha cercato di stabilire le conseguenze dell’immigrazione sul Pil pro capite nei Paesi più sviluppati, in sostanza sugli standard di vita. Il risultato più notevole è che, nel medio-lungo periodo, un aumento degli immigrati pari all’1% della popolazione adulta di un Paese accresce il Pil pro capite generale di almeno il 2%. Avviene, in parte, perché i migranti sono di solito più giovani della media dei cittadini delle Nazioni ricche e quindi fanno salire la quota di persone in età da lavoro; soprattutto, però, avviene perché migliora la produttività, in quanto spinge i nativi a occupare lavori più specializzati. Una delle conclusioni interessanti dello studio dell’Fmi (che utilizza un approccio sviluppato in anni recenti da Alberto Alesina, Johann Harnoss e Hillel Rapoport) è che, a differenza di quanto in genere si pensa, il grado di istruzione degli immigrati non è l’elemento determinante per giudicarne l’effetto su un’economia. Per esempio, migranti con minori competenze spesso aumentano il numero di donne native che lavorano, in quanto vanno a sostituirle nelle prestazioni di assistenza famigliare. Inoltre, i benefici di più immigrati tendono a distribuirsi su tutta la scala sociale, anche se non allo stesso modo: per un 1% di aumento della quota di immigrati ad alta istruzione sulla popolazione, il reddito pro capite aumenta di quasi il 6% per il 10% più ricco dei residenti e di quasi il 2,5% per il restante 90%; se l’aumento dell’1% della quota è composto invece da persone di istruzione media o bassa, il reddito pro capite cresce del 2,5% per il 10% più ricco dei locali e del 2,2% per il restante 90%. Interessante notare che i migranti hanno livelli di competenza sempre più alti. Tra il 1980 e il 2010, i meno istruiti in arrivo sono restati di fatto stabili, anzi leggermente in calo, attorno al 5% della popolazione. I mediamente istruiti sono saliti dal 2% al 4,5%. E i più istruiti dal 2 al 5,7% (hanno superato la quota di chi ha basse competenze a metà del decennio scorso). Tutto questo è una media tra Paesi. Decisive perché i vantaggi si concretizzino sono le politiche di integrazione nel mercato del lavoro. Su questo sarebbe bene che i governi si concentrassero. Siria. Al-Nusra entra ad Aleppo ovest. Putin ferma i raid di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 ottobre 2016 Dura controffensiva delle opposizioni: con missili e kamikaze occupano parte dei quartieri governativi. A Mosul le milizie sciite attaccano da ovest, mettendo in pericolo i piani turchi e preparandosi ad entrare in Siria a sostegno di Assad. In Iraq gli islamisti sono sulle barricate, ad un passo dal crollo della città-Stato Mosul; ad Aleppo avanzano verso la zona governativa, nei quartieri ovest. In territorio iracheno la battaglia è comune - seppur con obiettivi diversi - contro l’Isis, in Siria ad attaccare indisturbato è l’ex al-Nusra, oggi Fatah al-Sham. Ideologie molto simili, ma nella capitale del nord siriana gli ex qaedisti non sono nel mirino del fronte anti-jihadista. Al contrario, sono strumento di indebolimento dell’asse Mosca-Damasco. Venerdì Fatah al-Sham ha lanciato un’ampia controffensiva contro i quartieri occidentali con autobomba, camion carichi di esplosivo, kamikaze e una pioggia di missili. Almeno 15 le vittime civili e 100 i feriti in quella che per le opposizioni è un’operazione diretta a rompere l’assedio di Damasco. Non ci sono solo gli islamisti: sotto la guida dell’ex al-Nusra ci sono unità dell’Esercito Libero Siriano, i salafiti di Ahrar al-Sham e le altre fazioni presenti ad Aleppo, una realtà composita che mette in crisi l’asse anti-Assad, con le opposizioni amiche al fianco di un gruppo etichettato come terrorista. Ieri le opposizioni hanno occupato parte del quartiere Dahiyat al-Assad e attaccato Bustan az-Zakhra, in città vecchia: secondo fonti delle opposizioni potrebbero portarsi sulla Castello Road. Si combatte in strada, tra le case, stessa guerriglia urbana e aerea che da mesi vivono anche i siriani dei quartieri orientali. L’esercito russo ha chiesto di riprendere gli attacchi aerei, interrotti 10 giorni fa dalla tregua unilaterale dichiarata da Mosca e Damasco. Terminato il cessate il fuoco di 11 ore al giorno, i caccia russi non si sono più alzati in volo. Ma il presidente Putin ha negato il via libera definendo la ripresa dei raid "inappropriata" e preferendo "continuare la pausa umanitaria". Al contrario in Iraq è il fronte sciita a contrattaccare e lo fa con una mossa che avrà riflessi anche nella vicina Siria. L’attacco arriva da ovest: dopo averlo annunciato venerdì, ieri le Unità di Mobilitazione Popolare - le milizie sciite legate all’Iran - hanno aperto un nuovo fronte su Mosul. Stavolta a occidente. Con i peshmerga che premono da nord e l’esercito regolare iracheno da sud e est, i miliziani sciiti chiudono il cerchio sulla città, in cui però dicono di non voler entrare per evitare divisioni settarie già esplose in altre zone. L’assalto non ha importanza strategica solo sul piano militare, nella controffensiva contro lo Stato Islamico. Ce l’ha anche su quello politico regionale. In primo luogo i gruppi armati sciiti si ritagliano uno spazio nella battaglia per Mosul, che da tempo la Turchia e gli Stati Uniti cercano di arginare per salvaguardare la maggioranza sunnita della provincia di Ninawa (non per tutelare la partecipazione politica della comunità locale, quanto per poter esercitare l’influenza necessaria ad una divisione amministrativa dell’Iraq, che da anni Washington propone). In secondo luogo, le milizie sciite si portano in un luogo geograficamente strategico. Attaccando l’Isis dal lato occidentale, si posizionano lungo il confine siriano ponendosi come primo obiettivo la città di Tal Afar. E questo avrebbe due effetti: da una parte impedirebbe l’ulteriore fuga di islamisti verso il territorio siriano e verso Raqqa, dove sono già fuggiti i leader del braccio iracheno e migliaia di combattenti, come ripetutamente denunciato da Damasco e Mosca che considerano il transito una palese tattica del fronte anti-Assad; dall’altra aprirebbe al passaggio di quelle stesse milizie sciite in Siria, a combattere al fianco del governo siriano. Un’eventualità che ieri il loro portavoce, Ahmed al-Assadi, ha lasciato intendere in un’intervista all’Afp: "Dopo aver ripulito la nostra terra, siamo pronti ad andare in qualsiasi luogo rappresenti una minaccia alla sicurezza nazionale". Tal Afar, da questo punto di vista, è centrale anche per la Turchia. È a 50 km da Sinjar, l’area yazidi liberata un anno fa dai peshmerga. Ma a Sinjar non c’erano solo i combattenti del Kurdistan iracheno: c’erano anche le Ypg kurdo-siriane e gli uomini del Pkk, i primi ad accorrere quando migliaia di yazidi finirono nell’agosto del 2014 sotto assedio dell’Isis sul monte Sinjar. E da lì Ypg e Pkk non se sono mai andati, giocando un ruolo centrale - seppur poco raccontato - nell’operazione del novembre 2015. Non è dunque un caso che pochi giorni fa il presidente turco Erdogan abbia tuonato contro il Partito Kurdo dei Lavoratori perché si tenga a distanza da Sinjar: non diventerà una nuova Qandil, ha detto Erdogan, il cui timore principale è vedere il confine siriano-iracheno in mano a kurdi nemici (non gli alleati del Krg di Barzani) e milizie sciite. Ovvero a soggetti che porrebbero fine al progetto di un corridoio sotto il controllo di Ankara lungo la frontiera turca con Siria e Iraq. Yemen. L’Onu vuole la testa del presidente yemenita Hadi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 ottobre 2016 Il principale alleato dell’Arabia Saudita rigetta la road map delle Nazioni Unite che ne prevede l’allontanamento. Intanto aumentano i casi di colera: almeno 1.410 tra Taiz, Aden e Sanàa. Il presidente yemenita Hadi ieri ha risposto alle Nazioni Unite e alla loro road map un po’ a sorpresa: "Il presidente ha ricevuto [l’inviato dell’Onu] Ismail Ould Cheikh Ahmed e ha rigettato la proposta", dice una fonte governativa. L’ha rigettata perché, per la prima volta, il Palazzo di Vetro ha chiesto la rimozione del principale alleato saudita. La road map - ancora non ufficialmente pubblica - prevede il ritiro dalle zone occupate e l’abbandono delle armi da parte dei ribelli Houthi (come stabilito dalla risoluzione Onu 2216), ma anche la creazione di un governo di unità senza la figura divisiva di Hadi. Il presidente dovrebbe cedere i poteri ad un premier scelto congiuntamente che poi formerebbe un esecutivo di unità. Un duro colpo per l’Arabia Saudita che, infatti, non commenta. Lo fanno invece gli Emirati Arabi, braccio destro di Riyadh nella coalizione anti-Houthi: Abu Dhabi ha dato il suo ok alla proposta Onu, che però senza l’approvazione saudita resterà lettera morta. E il conflitto va avanti con il suo carico di morte: l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha denunciato un aumento repentino dei casi di colera, 1.410, per lo più nelle zone di Aden, Taiz e Sanàa. Pakistan: la Corte suprema "il detenuto schizofrenico può essere impiccato" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 ottobre 2016 Dopo una serie di rinvii all’ultimo minuto Imdad Ali - il cittadino pachistano condannato a morte nonostante sia affetto da schizofrenia paranoide - ha davanti a sé un’altra data di esecuzione: mercoledì 2 novembre. Ali aveva iniziato a star male nella seconda metà degli anni Novanta. Suo padre soffriva a sua volta di schizofrenia: una volta si era lanciato contro un treno, pensando di essere invincibile. Per anni, la famiglia aveva chiesto aiuto per pagare le medicine necessarie per curare Ali. Che nel 2002, in una fase acuta del suo disturbo mentale, uccise uno studioso di religione. Dopo la condanna a morte, gli esami medici cui Ali è stato sottoposto sono giunti tutti alla medesima conclusione: il prigioniero è "insano di mente" e la sua condizione mentale è "cronica e disabilitante". Tuttavia, negli ultimi giorni la Corte suprema ha dato il via libera all’esecuzione sostenendo che la schizofrenia non è espressione di un disordine mentale. Sono così riprese le proteste, dalle Nazioni Unite, delle organizzazioni non governative (Amnesty International, Human Rights Watch e Reprieve in testa) ma anche di un folto gruppo di psichiatri del Pakistan.