L’Anm minaccia lo sciopero. Orlando: niente leggi di parte di Sara Menafra Il Messaggero, 2 ottobre 2016 Se c’è la possibilità di trovare un’intesa, probabilmente lo si capirà soltanto oggi quando il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo saranno seduti a circa un paio di metri di distanza nel salotto di "In mezz’ora" su Rai 3 per un faccia a faccia. Di certo, soprattutto per la riforma della giustizia, il clima si sta facendo ormai incandescente. Anche perché ieri dopo la riunione dei capi degli uffici giudiziari, il sindacato delle toghe ha diffuso un documento col quale chiede un incontro urgente al Guardasigilli ma anche al premier Matteo Renzi a tutto campo e annuncia di essere pronto a forme di protesta. Il cuore del dissenso è per gli ultimi ritocchi alle regole del pensionamento delle toghe e la carenza di personale amministrativo. Il comitato direttivo, si legge nel documento, ha deliberato di "richiedere un incontro urgente congiunto con il presidente del Consiglio dei ministri e con il ministro della Giustizia, avente ad oggetto le proposte di modifica del di 168/2016 e le concrete future prospettive relative agli investimenti sulla giustizia". Soprattutto sul secondo argomento Andrea Orlando ha frecce al proprio arco, visto che ha appena dato il via ad un concorso per assumere mille unità che lavorino come per sonale amministrativo. In ogni caso, il comunicato si conclude annunciando mobilitazioni e il confronto "con le altre categorie del comparto giustizia per valutare ogni utile ed eventuale iniziativa". Sullo sfondo, la minaccia trasparente di uno sciopero della categoria. La partita davvero complicata da gestire è quella della riforma del processo penale. Complice l’assist arrivato dallo stesso premier Matteo Renzi che ha prima avallato ma poi ritirato l’appoggio alla fiducia sul disegno di legge in aula al Senato, ieri l’Anm ha messo nuovamente m evidenza i punti dolenti di quel testo. Due in particolare: l’ipotesi che il procuratore generale presso la corte di Appello avochi automaticamente a se i fascicoli per i quali, entro tre mesi dalla conclusione delle indagini, il pm non abbia deciso se esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione. E l’avvio obbligatorio di un procedimento disciplinare per coloro che tardino l’iscrizione al registro degli indagati delle persone su cui stanno concentrando le indagini. "Per fare solo l’esempio di Roma - dice il segretario Francesco Minisci - è impossibile che venti persone, quanti sono i magistrati in servizio presso la corte di appello, riescano a dar seguito a tutto il lavoro che cento pm non sono riusciti a fare". Il problema, però, è che quegli interventi sui quali le toghe storcono il naso sono stati fondamentali in Senato per trovare una tregua con l’ala più garantista della maggioranza, a cominciare da Ncd. Se il testo dovesse tornare in commissione o perdesse un pezzo sarebbe difficile trovare nuovamente un punto di equilibrio interno alla maggioranza. Non a caso, due giorni fa. Orlando, al congresso delle Camere penali, ha detto chiaramente: "Non si può pensare che ci sia una riforma che piaccia integralmente a uno dei soggetti della giurisdizione. E credo che questo sia il caso che dimostra quello che sto dicendo". Insomma, il guardasigilli è convinto della sua linea, concordata anche col ministro Angelino Alfano: per tutelare l’intesa raggiunta almeno sugli articoli più importanti, bisogna mettere la fiducia. La parola definitiva arriverà giovedì prossimo, quando l’aula del Senato deciderà il destino del testo. Se metterlo in votazione o archiviarlo definitivamente, o rimandandolo in commissione o mettendolo in coda alle proposte in votazione. Magari fino all’indomani del 4 dicembre. Anm: "No a norme che ostacolano le indagini, uffici giudiziari alla paralisi" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2016 Chiesto incontro a Renzi e a Orlando. "Ci sono uffici con scoperture del personale amministrativo del 52%. Quale azienda potrebbe mai funzionare con scoperture cosi?" chiede il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo ai capi degli uffici giudiziari venuti a Roma per testimoniare, con parole e numeri, che la "paralisi" della giustizia, la "bancarotta", "il punto di rottura" sono ormai dietro l’angolo. Davigo è persino più "moderato" dei colleghi, molti dei quali (soprattutto chi fa capo ad Area, la corrente più progressista) vorrebbero che l’Anm proclamasse subito uno sciopero (con gli avvocati e i cancellieri), pur riconoscendo al ministro della Giustizia Andrea Orlando di aver "invertito una tendenza". Il presidente dell’Anm frena e, al termine di una riunione convocata dopo la lunga mattinata di audizioni, il Comitato direttivo centrale dell’Anm decide, per ora, di chiedere un "incontro urgente" al presidente del Consiglio Matteo Renzi e a Orlando per discutere di investimenti, del decreto sulle pensioni e della riforma del processo penale; nel frattempo verranno messe a punto le eventuali iniziative di protesta - a cominciare dallo sciopero (anche a scacchiera) - da attuare con avvocati e cancellieri sulla "cronica carenza di risorse". La decisione finale sarà presa il 14 ottobre. L’Anm di Davigo da atto a Orlando di "essersi dato da fare, invertendo una tendenza" ma considera le iniziative intraprese finora "fumo negli occhi, giochi di prestigio, slogan" mentre la realtà di fatto è che alcuni Tribunali rischiano di chiudere perché a corto di personale e di materiali. Ne va meglio alle Procure, sulle quali incombe anche la spada di Damocle della riforma del processo penale che, con le norme sulla cosiddetta "indagine breve" (il Pm deve chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio davanti al Gup entro 3 mesi dalla chiusura delle indagini, pena l’avocazione del Procuratore generale) "aggraverà il lavoro" degli uffici, dice il segretario dell’Anm Francesco Minisci, che auspica un "ripensamento" su questa norma e su quella che impone al Pm di iscrivere "immediatamente" la notizia di reato, pena la segnalazione ai titolari dell’azione disciplinare. "Come potrà la Procura generale di Roma, con 9 magistrati a fare il lavoro che con 100 magistrati non è riuscita a fare la procura della Repubblica? - si chiede Minisci. Il nostro obiettivo è far bene le indagini, non gli slalom". A Renzi e a Orlando, quindi, l’Anm chiederà anche, spiega Minisci, di "eliminare norme che, se approvate, avranno come unico risultato quello di far saltare le indagini, soprattutto quelle più impegnative e delicate". "Ci chiedono velocità - osserva il Procuratore di Torino Armando Spataro con riferimento alle norme sull’indagine breve - ma non si può chiedere velocità in questa situazione di carenza di personale e di materiali. Bisogna farsi sentire anche su questo punto". Peraltro, in alcune realtà, come Torino e Milano, non è arrivato nessun rinforzo, nemmeno con la mobilità. Spataro richiamale responsabilità (costituzionali) del ministro della Giustizia in materia di organizzazione del servizio, compreso il funzionamento degli strumenti informatici: ma su questo versante il ministero è stato latitante. "L’unica risposta è l’impegno ad assumere 1.000 unità di personale. Ma ne mancano 9mila". Davigo (Anm): giustizia a rischio collasso per carenza di personale di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2016 Soddisfatta per la frenata del ddl sul processo penale al Senato, che martedì rischia di finire su un binario morto almeno fin dopo il referendum per le incertezze del Governo sulla fiducia, l’Anm insiste nel pressing sul Governo sui mali nascosti della riforma. Per rilanciare l’allarme sul "rischio collasso" degli uffici giudiziari per la carenza di risorse e personale amministrativo l’Associazione magistrati guidata da Piercamillo Davigo ha riunito oggi a Roma i vertici di tribunali, procure e corti d’appello. A rischio l’apertura al pubblico degli uffici giudiziari - Una platea di addetti ai lavori voluta dal Comitato direttivo Anm per certificare lo stallo della Giustizia italiana, a un passo dalla crisi funzionale, incapace "di provvedere a convalide e convocare le udienze" ma anche semplicemente "di aprire gli uffici" ai cittadini. Mancano infatti 9mila unità di personale amministrativo, e la scopertura media degli organici è del 21%, con punte del 50 per cento. "Quale azienda potrebbe funzionare con scoperture del 52% del personale?" chiede polemicamente Davigo in apertura. Il nodo delle "indagini brevi" - Il confronto a distanza è con il ministero della Giustizia, cui spetta di fornire le risorse logistiche e di personale agli Uffici giudiziari, e con il guardasigilli Andrea Orlando, che da mesi sta cercando di mandare in porto la controversa riforma del processo penale. Il ddl, ora alla seconda lettura a Palazzo Madama, non piace al sindacato delle toghe che chiede alla maggioranza di "ripensare completamente norme sbagliate e che avranno l’effetto di buttare al fiume le indagini, soprattutto in tema di corruzione". Tra i punti più critici della riforma c’è soprattutto la norma sulle cosiddette "indagini brevi", che fissa tempi stretti per l’esercizio dell’azione penale alla conclusione delle indagini, con trasferimento delle indagini dalle procure ordinarie alle procure generali in caso di mancato rispetto dei termini. Così, ha attaccato Davigo, "si obbligano i magistrati delle procure a vuotare gli armadi anziché fare le indagini" Reclutamento 1.000 amministrativi "è un segnale, ma non basta" - Negli interventi dei capi degli uffici giudiziari non sono mancati giudizi positivi sugli sforzi di Orlando e per "l’inversione di tendenza in atto in molte realtà. Ma il quadro continua a rimanere negativo, insiste Davigo, convinto che le misure messe in campo dal ministero siano "del tutto insufficienti" per risollevare la Giustizia italiana: "Do atto delle buone intenzioni del ministro ma devo ricordare che la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni". Almeno sul fronte degli organici qualcosa si è però mosso. Preoccupato di arginare le critiche delle toghe alla "sua" riforma, il guardasigilli è corso ai ripari nei giorni scorsi annunciando entro novembre l’assunzione straordinaria di 1.000 cancellieri e la pubblicazione del bando di concorso periodico per l’arruolamento di oltre 300 magistrati. "Un buon segnale", ammette Davigo, "ma nel frattempo ne andranno in pensione altrettanti", a causa dei tempi lunghi necessari a perfezionare l’immissione in ruolo del personale amministrativo. Ricorso alla mobilità Pa "iniziativa priva di senso comune" - Da bocciare anche quelle che il leader Anm chiama "inaccettabili giochi di prestigio", come il drastico taglio dell’età pensionabile delle toghe "con lo slogan "largo ai giovani", che in realtà non sono mai arrivati. O il ricorso alla mobilità del personale pubblico, annunciata da Orlando al termine di un incontro con la ministra della Pa Marianna Madia. Il ricollocamento secondo Davigo non segue infatti alcun "criterio di pertinenza", confermando il giudizio negativo dell’Anm che considera le iniziative del ministero "scoordinate e prive di senso comune". Meglio puntare su un "piano pluriennale di assunzioni", altrimenti quelle appena annunciate resteranno "una goccia nel deserto". E smettere "di considerare la giustizia un costo" - conclude Davigo - perché "se avessimo il personale potremmo riscuotere sanzioni che non vengono riscosse". Oggi la quota delle riscossioni si ferma al 3 per cento. I killer visti con gli occhi dei bambini di Diego De Silva Il Mattino, 2 ottobre 2016 "Mi raccomando i bambini" - sembra abbia urlato un poliziotto della Mortuaria alla folla di minorenni radunata intorno ai morti ammazzati nella strage di camorra di Miano, - "sono accompagnati dai genitori?". C’è, in questo accesso di disperazione paterna, nell’implicita richiesta di censura che contiene, un incontenibile bisogno di protezione dall’estetica del male, il tentativo (apparentemente incongruo, in una circostanza così tragica) di oscurare lo spettacolo, bendare gli occhi dei bambini per preservarne la purezza o almeno evocare la presenza di un adulto che faccia da filtro rispetto a una percezione così cruda della realtà. Due persone sono morte, trucidate davanti agli occhi attoniti di un gruppo di ragazzini che giocava a pallone in strada. La scenografia di questa esecuzione, anche soltanto a immaginarsela, è terrificante quanto la strage in sé. L’idea che un attentato così feroce abbia incrociato un pubblico di minorenni impegnati nel più antico e innocente dei giochi, che da un momento all’altro fanno la conoscenza della morte nella sua forma più crudele - quella della condanna, - e dunque di una realtà criminale (non parallela, ma) incistata nella vita ordinaria (che infatti funziona secondo i dettami di una propria, implacabile economia), suona come la più efferata violazione di un divieto ai minori, la scena autentica di un film verissimo in cui può capitare d’essere scritturati come comparse (o vittime casuali) in qualsiasi momento. Che cosa succede (è questa la domanda che qualsiasi genitore si pone davanti a un episodio simile) alla psiche di un bambino che impatta in una scena del genere? In che modo la prima fila occasionale in cui s’è trovato modificherà la sua crescita? Quanta fiducia perderà nel quartiere in cui vive, nella gente che lo circonda, nel mondo in cui si aspetta di crescere? Come cambierà (perché cambierà) il suo rapporto con la società adulta e con l’altro da sé? La morte è complicata da immaginare, soprattutto da bambini. Noi adulti non sappiamo spiegarcela, ma col passare degli anni e i lutti che ci tocca elaborare, più o meno impariamo a farci i conti e a subirla, e così la comprendiamo (letteralmente: la inglobiamo nella vita come un accadimento di questa), perché siamo capaci di concepire l’ineluttabile. Un bambino, no. Un bambino non accetta ciò che non comprende, perché rifiuta ciò che non sa immaginare. È soltanto quando gli muore qualcuno che conosce (un nonno, un parente, un vicino di casa che conosceva bene), che la morte smette di essere un’entità astratta e assume una forma reale, diventa un fantasma che impara a riconoscere. Il momento della conoscenza della morte, del suo incontro, è un passaggio culturale che vuole la presenza di un padre (o di una madre), che racconti quel trauma, lo motivi, in qualche modo lo spieghi. È questa funzione paterna che richiamava il poliziotto a Miano chiedendo, nell’immediatezza del dopo-strage, la presenza dei genitori accanto a quel pubblico di bambini esterrefatti e incuriositi da una morte cinematografica e reale insieme. Ecco cosa s’intende, quando si parla più meno genericamente della mancanza di uno Stato. È questo Stato-padre, il grande assente nei quartieri dove si muore per strada senza particolare rumore mediatico. Ci sono molti modi per violentare un bambino. Uno è quello di offrirgli la morte senza filtri, pornograficamente, nella peggiore delle forme, infettando il suo immaginario, infondendogli il senso profondo e ambiguo della paura e lanciandogli un messaggio inequivocabile: è questo il mondo in cui vivi, imparalo prima che puoi, facci i conti, e scegli da che parte stare. Toscana: Radicali "il governatore Enrico Rossi aderisca alla marcia per l’amnistia" gonews.it, 2 ottobre 2016 Questa mattina si è svolta davanti al Consiglio regionale della Toscana la manifestazione organizzata dai radicali fiorentini dell’Associazione "Andrea Tamburi" per chiedere al governatore della Regione Enrico Rossi di prendere in mano la situazione e affrontare i problemi delle carceri toscane direttamente con i sindaci e i direttori delle Asl interessate. I recenti suicidi avvenuti negli istituti di Lucca, Sollicciano e Grosseto riportano alla luce la situazione preoccupante negli istituti penitenziari della Toscana, dove i casi di autolesionismo e i tentati suicidi raggiungono le cifre più alte registrate in Italia. Sappiamo infatti che assicurare la salute in carcere significa assicurare il benessere fisico e psichico, ma così purtroppo non accade: il 32% della popolazione carceraria soffre di disturbi psichiatrici, il 27-30% è tossicodipendente. Dichiarazione di Massimo Lensi e Maurizio Buzzegoli: "Noi crediamo che le parole del governatore toscano Enrico Rossi siano un segnale importante che, con la manifestazione intendiamo sostenere. Auspichiamo che la risposta dei Comuni e delle ASL sia veloce e si possa fare un piccolo passo in avanti per migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri toscane. Crediamo anche che questo sia solo il primo passo in una lunga strada che porti finalmente le Istituzioni a farsi carico con la dovuta responsabilità di un problema, che qualcuno vorrebbe ridurre a fatto umanitario, ma che è invece di tutta evidenza un problema politico, sociale e istituzionale. In questo senso sarebbe quanto mai auspicabile che il Governatore Rossi e la Regione Toscana decidessero di far propria questa visione, aderendo alla marcia per l’amnistia dedicata a Marco Pannella e Papa Francesco, è convocata per il prossimo 6 novembre". Toscana: il Provveditore regionale Martone "a Pianosa, trenta ettari coltivati a vite" Il Tirreno, 2 ottobre 2016 La volontà di creare un vigneto, da coltivare insieme ai detenuti, sull’isola di Pianosa "c’è", attualmente "c’è un impasse che credo sia però solo momentanea. Stiamo lavorando per fare la mappatura dei vari terreni e vedere quali sono di competenza del ministero della Giustizia, quali del Demanio e quali dell’ente Parco dell’Arcipelago toscano. In accordo con il Comune di Campo nell’Elba, che è commissariato, vogliamo chiedere la concessione di 30 ettari" da destinare alle viti. Lo ha detto il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana Giuseppe Martone, a margine di un incontro a Firenze organizzato dai Frescobaldi insieme al ministro per le Politiche agricole Maurizio Martina e dedicato, tra l’altro, al progetto Gorgona. Sull’isola carcere, infatti, Frescobaldi ha piantato due ettari di vigneti che sta coltivando insieme ai detenuti giungendo proprio in questi giorni alla quinta vendemmia. A Pianosa, dove il carcere è chiuso dal 2011, il progetto potrebbe essere replicato, ha spiegato Martone, "tanto è vero che il ministero della Giustizia sta lanciando un progetto che riguarda l’economia agricola" nelle isole carceri della Sardegna e della Toscana. Nei mesi scorsi l’amministrazione penitenziaria e l’impresa vinicola hanno avviato i contatti per esportare a Pianosa il modello già sperimentato a Gorgona. Un’idea allettante per dare nuovo impulso all’isola ma che dopo l’impulso iniziale ha subito un rallentamento. Bologna: lo chef Rubio dietro le sbarre per insegnare il mestiere ai detenuti di Micol Lavinia Lundari La Repubblica, 2 ottobre 2016 Alla Dozza un seminario di cucina con sette esperti perché i carcerati possano crearsi un futuro. Da Casa Italia, dove ha cucinato per gli azzurri delle Paralimpiadi di Rio de Janeiro, al carcere della Dozza di Bologna, per vestire i panni dell’insegnante. Chef Rubio sarà uno dei sette protagonisti di un seminario di cucina rivolto ai detenuti di Bologna, che provano così a costruirsi un futuro lavorativo per quando scatterà il fine pena. Alle lezioni del seminario parteciperà una ventina di carcerati. Non certo gente alle prime armi: sono i membri delle due brigate che già si muovono dietro i fornelli, perché hanno affrontato un corso di formazione per addetti alla preparazione dei pasti. Ora arrivano nuove lezioni, una sorta di master o corso di perfezionamento, una carta in più da spendere una volta lasciato il carcere. Questo che sta per iniziare è solo uno dei momenti di formazione pensati all’interno del carcere della Dozza per coinvolgere i detenuti che devono scontare lunghe pene cercando di impegnare in modo costruttivo il loro tempo dietro le sbarre: altri carcerati sono impegnati nell’officina o in sartoria. Le lezioni di cucina avranno inizio il 6 ottobre e avranno, quando possibile, una cadenza settimanale. La cooperativa sociale Siamo qua ha invitato non solo il popolare Chef Rubio ma anche protagonisti della ristorazione cittadina fra cui Vincenzo Vottero Vintrella (Antica Trattoria del Reno), Massimiliano Poggi (Al Cambio, Ristorante Massimiliano Poggi), Francesco Oppido (Ranzani13), Carlo Alberto Borsarini (La Lumira). I detenuti che invece formano la redazione della testata on-line "Ne vale la pena" si occuperanno di raccontare l’esperienza ai propri lettori. Brescia: quelle piastrelle in cui vivono i nostri cari uccisi nelle stragi di Agnese Moro La Stampa, 2 ottobre 2016 A Brescia da quattro anni si sta costruendo un Memoriale per le vittime delle stragi, del terrorismo e della violenza politica. Un percorso scandito da più di 400 formelle - una per ogni vittima - che, una volta completato, si snoderà da piazza della Loggia (centro nobile della città e luogo della terribile strage del 28 maggio 1974) fino al Castello, dove i bresciani resistettero agli austriaci e dove furono imprigionati e torturati i partigiani. A oggi, con 180 formelle installate, è stata superata piazza Tito Speri - memorie del Risorgimento - raggiungendo le pendici della collina del Castello. Ieri, alla presenza dei familiari delle vittime e del Sottosegretario Claudio De Vincenti, ne sono state inaugurate 21. Ricordano altrettante persone che, come fa notare Manlio Milani, presidente della Casa della Memoria di Brescia, rappresentano uno spaccato della società che fu allora colpita dalla violenza. Ci sono poliziotti, carabinieri, studenti, un notaio, un magistrato, uno statista, una guardia giurata e un agente della polizia penitenziaria. I promotori di questa iniziativa sono cittadini che si sono offerti di contribuire anche economicamente alla sua progettazione e realizzazione. In particolare, l’avvocato Piergiorgio Vittorini, firmatario del progetto, un gruppo di amici, rimasto discretamente anonimo sotto la denominazione, tutta bresciana, di "Bu e Bei" (Buoni e Belli) e il Rotary "Brescia Vittoria Alata". La Casa della Memoria, con il Comune di Brescia e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio, ha elaborato l’idea e la sua messa in opera. Ed è la società civile che, dopo averlo voluto, seguita a sostenere la realizzazione del Memoriale, finanziando l’acquisto delle formelle con donazioni, piccolissime o grandi (l’elenco dei donatori sul sito della Casa della memoria di Brescia www.28maggio74.brescia.it). Chi vuole può contribuire o usando il conto corrente n. 2410106 intestato a Associazione Casa della Memoria via Crispi, 2 - 25121 Brescia c.f. 98117150171, o con un bonifico utilizzando l’Iban: IT 54 V 03332 11200 000002410106 Banca Passadore & C Filiale di Brescia Piazza della Loggia, 8, causale "Progetto Memoriale". Ogni formella è stata affidata a una scuola che se ne prende cura. Per noi familiari è la consolante certezza di lasciare i nostri cari in buone mani. Fotografia. "Dieci anni e ottantasette giorni", il tempo nel braccio della morte di Lothar Müller Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2016 I giorni in un carcere texano in attesa dell’esecuzione sono come segni uguali a se stessi: il progetto di Menazzi. Lo sfondo appare come un panno che ha delle pieghe. Le lineette vi sembrano intessute. Sono simili, ma non proprio della stessa lunghezza. Sono disposte l’una accanto all’altra a gruppi di sette, verticalmente, ma non proprio a piombo. Su di loro sono tracciate grandi linee trasversali, una volta in modo più o meno orizzontale, un’altra in modo un po’ sghembo, in qualche caso si sporgono oltre le sette lineette. La somiglianza è comunque sempre maggiore della differenza. Le unità composte dalle linee verticali così biffate riempiono l’intera immagine. L’insieme ha l’aspetto di una scrittura, con righe fatte di parole composte tutte dall’identico numero della medesima lettera. Ma l’occhio non scorre su di loro da sinistra a destra come sulle righe di un libro. Le pieghe inducono lo sguardo a scorrere dall’alto verso il basso, le unità biffate poste una sotto l’altra sembrano connettersi in dieci colonne traballanti. Nessuno può fotografare lo scorrere del tempo. Ma questa fotografia si intitola "Dieci anni e ottantasette giorni", TenYears and EightysevenDays, ZehnJahre und siebenundachtzigTage. E così percepiamo ognuna delle lineette come un segno per un giorno e senza volerlo ci rifiutiamo di vedere nella linea trasversale un altro giorno, l’ottavo. Non può essere contato; il suo compito può essere solo quello di rendere percettibile che è di nuovo passata una settimana. E che qui la misurazione del tempo non avviene attraverso uno strumento meccanico di precisione. Non la vediamo, ma immaginiamo come artefice di tutti questi segni una mano, sempre la stessa. Apprendiamo che la fotografia è nata dal titolo che porta. In media trascorrono dieci anni e ottantasette giorni dal trasferimento di un condannato nel braccio della morte fino alla sua esecuzione. Il luogo che dobbiamo associare a questa immagine è il braccio della morte nel carcere statale Polunsky Unit a sudovest di Livingston, in Texas, lo stato federale americano con il maggior numero di condanne capitali eseguite. Qualche anno fa il regista tedesco Werner Herzog ha girato nel braccio della morte della Polunsky Unit e nel carcere di Huntsville, dove hanno luogo le esecuzioni, il documentario In to the Abyss (2011) e la mini-serie Tv On Death Row (2012). La cinepresa mostra, passando davanti a un tavolo con delle Bibbie, il corridoio che porta alla stanza dell’esecuzione, ne riprende la branda, riprende le interviste con i condannati. Nella fotografia Dieci anni e ottantasette giorni non ci sono persone, né colpevoli né innocenti, non ci sono criminali e non ci sono domande su crimini la cui crudeltà toglie il fiato, non ci sono volti che fissano una cinepresa mentre parlano delle loro vittime. Ci sono solo linee che rappresentano numeri. Questa fotografia è il contrario di una fotografia documentaristica. Essa si rivolge all’immaginazione. Nessuno può fotografare lo scorrere del tempo. Tanto meno un tempo calcolato in media. E nessuno può esperire un tempo calcolato in media. Ma il titolo sconfina nell’immagine. E con lui sconfina anche la parola "braccio della morte". La strada che porta a questo sconfinamento è lo sguardo di chi osserva. Senza il titolo, senza la parola "braccio della morte", queste linee potrebbero ricordare le tacche che Robinson Crusoe dopo essere scampato al naufragio incide nel palo quadrangolare che gli serve da calendario. Robinson trascorrerà sulla sua isola quasi 28 anni. Questo non lo sa, quando inizia a incidere le tacche. Nel diritto americano la pena del carcere a vita esiste in senso letterale: sentence without parole". Chi riceve questa pena è condannato a morire in carcere. Nella lista dei detenuti della Polunsky Unit la categoria "sentence without parole" precede immediatamente la categoria "death". L’abisso che separa l’una dall’altra si apre guardando la fotografia Dieci anni e ottantasette giorni. È l’abisso che passa tra le pene corporali e quelle temporali. Il carcere a vita è la condanna temporale ultimativa, nella quale la lineetta segue alla lineetta, la linea trasversale alla linea trasversale, fino alla fine. La pena capitale è la pena corporale ultimativa. Nel braccio della morte è al tempo stesso una pena temporale. Una pena temporale impregnata della pena corporale ultimativa. Questo trasforma le linee. Per qualcuno condannato a dieci anni di carcere ogni linea rappresenta l’avvicinarsi della fine del periodo di detenzione, per quanto grande ne sia la distanza. Per il condannato a morte senza prospettiva di grazia ogni linea rappresenta l’avvicinarsi dell’esecuzione, per quanto incerta sia la sua data. In ogni linea è presente la futura esecuzione. Solo un condannato a morte può sapere come un uomo - a cui potrebbe appartenere la mano che vediamo dentro le linee della fotografia - viva questo tempo di attesa che si nasconde nelle stesse linee. L’idea più semplice che possiamo farcene è quella della vittima della giustizia, del condannato ingiustamente, la cui innocenza, come spesso accade, viene alla luce solo dopo la morte. Il condannato ingiustamente a morte non può però essere l’argomento decisivo contro la pena capitale. L’argomento decisivo è stato fatto valere dall’illuminista italiano Cesare Beccaria: non può essere un atto di giustizia che lo stato tolga la vita a un suo cittadino, qualsiasi crimine gli si possa imputare. Per questo, quanto più a lungo consideriamo la fotografia, l’immaginazione popola quel paesaggio di linee con immagini spaventose, provenienti dalla persona che riteniamo esserne l’artefice. La legge per cui il tempo scorre per lui è stata però fatta dallo Stato. Anch’esso è invisibilmente presente nella fotografia. Dalla sua statistica scaturisce il titolo. Ed è lo Stato a far sì che l’ultima linea mostrata sia quella prossima all’esecuzione. Lite sui migranti, torna la supertassa di Franco Vanni La Repubblica, 2 ottobre 2016 Il Consiglio di Stato smentisce il Tar del Lazio che aveva bocciato i 200 euro chiesti per il permesso di soggiorno. Ma la Corte di giustizia europea è pronta ad aprire una procedura contro l’Italia: "Stranieri discriminati". È braccio di ferro fra giustizia europea e governo italiano sul costo dei permessi di soggiorno per i migranti. Da una parte la Corte, con sede m Lussemburgo, che un anno fa ha bollato come "irragionevolmente alta" la somma di 245 euro che gli stranieri devono pagare come "contributo" per ottenere il permesso di lungo periodo. Dall’altra, il ministero dell’Interno che in una nota firmata il 16 settembre scorso invita "i signori questori della Repubblica" a pretendere dagli stranieri gli importi previsti dal testo unico sull’immigrazione. Una contesa che potrebbe costare caro all’Italia. "Abbiamo notizia certa del fatto che sulla questione del costo dei permessi sarebbe stata avviata da parte dell’Europa la fase pre-contenziosa della procedura di infrazione", dice l’avvocato Alberto Guariso, che assieme al collega Livio Neri assiste alcuni degli immigrati che hanno fatto ricorso prima al Tar e poi al Tribunale civile per l’elevato costo delle pratiche necessarie a ottenere i permessi di soggiorno. Una circostanza che l’Avvocatura dello Stato non smentisce. La Corte di giustizia ha indicato che il giusto costo per la concessione dei permessi sarebbe "quanto pagato per i cittadini italiani per prestazioni analoghe". Vale a dire, al massimo 30,46 euro, importo previsto per le alcune operazioni anagrafiche online. La nota del ministero, che in questi giorni sta raggiungendo tutte le questure d’Italia, fa invece riferimento a un provvedimento del Consiglio di Stato emesso due settimane fa, che sospende gli effetti di una pronuncia del Tar del Lazio dello scorso maggio favorevole agli immigrati che hanno fatto ricorso contro "una tassa dal costo - dicono - semplicemente assurdo". L’udienza di merito al Consiglio di Stato sulla questione del prezzo dei permessi è fissata per il prossimo 13 ottobre. Ma il ministero si è portato avanti. Non solo pretende che gli immigrati tornino a pagare la "super tassa" per potere stare in Italia. Ma da indicazione ai questori di pretendere quelle somme anche a chi ha presentato la domanda in data precedente alla sospensiva del Consiglio di Stato. "Le Signorie Loro - si legge nella circolare - avranno cura di adempiere alla medesima attività di verifica anche laddove le istanze siano state presentate in data anteriore il 14 settembre e non abbiano ancora visto la definizione". L’avvocato Guariso commenta: "È assurdo chiedere agli stranieri di versare somme che la Corte di giustizia ha già dichiarato illegittime. Lo Stato dovrà inevitabilmente restituire i soldi a chi ingiustamente li ha dovuti pagare". Il mito dell’uomo forte di Marco Bascetta Il Manifesto, 2 ottobre 2016 Non passa giorno che in qualche angolo d’Europa non si produca un nuovo episodio di regressione. Nel senso di una revoca dei livelli di libertà, integrazione, apertura culturale e politica precedentemente raggiunti. Il fatto che questi episodi siano di natura diversa rende ancora più inquietante il clima che alimentano. Tre sono le direttrici all’interno delle quali prendono forma: il tema della sicurezza, quello dell’immigrazione e quello della competitività di mercato. Mentre attendiamo, con poca speranza di essere smentiti, che una maggioranza di ungheresi si pronunci contro la quota obbligatoria di accoglienza dei rifugiati, stabilita da Bruxelles, il governo svedese, a guida socialdemocratica, si accinge a ripristinare, per il 2018, la leva obbligatoria, pilastro storico dello Stato nazionale. Necessaria, si sostiene a Stoccolma, per tenere adeguatamente in funzione la macchina difensiva del Paese, (neutrale e fuori dalla Nato), indispettito dai ripetuti sconfinamenti dell’aviazione russa sul suo spazio aereo. È un piccolo esempio di come la questione dei confini (di fronte a minacce non proprio tra le più consistenti) si ripercuota sulla vita dei cittadini, sui loro obblighi e sulle loro libertà. Come, del resto, accade con le frequenti sospensioni e i limiti imposti alla libera circolazione delle persone sancita da Schengen, nonché con sempre nuove normative discriminatorie nei confronti degli stranieri anche se comunitari. Vuoi per far fronte all’ondata migratoria, vuoi per l’emergenza terrorismo, vuoi per sbarazzarsi dei cosiddetti "turisti del welfare". A Budapest non si vota in realtà sulla questione dei migranti e neanche contro la tecnocrazia comunitaria, ma essenzialmente con lo scopo di legittimare una torsione autoritaria del sistema politico, già da lungo tempo in atto. Non a caso, da Varsavia a Vienna, la chiusura nei confronti dei rifugiati si accompagna alla riesumazione dei valori e delle gerarchie tradizionali, alla compressione dei diritti civili, a visioni organiciste, confessionali e identitarie dello Stato. Le "vie nazionali", che nell’est dell’Europa avevano espresso l’ambizione di acquisire autonomia e spazi di libertà nei confronti della dominazione sovietica, ricompaiono trasfigurate in polemica con i modelli occidentali della democrazia. Non per criticarne le insufficienze o le derive oligarchiche, ma per denunciarne il "lassismo", il "cosmopolitismo", la "fiacchezza identitaria". E contrapporvi il mito salvifico dell’"uomo forte". "Pericolo migranti" a Budapest. Il voto che spaventa l’Europa di Marco Imarisio Corriere della Sera, 2 ottobre 2016 Oggi il referendum sul piano di ricollocamento dei rifugiati nei Paesi Ue. Cartelloni del governo in tutta la città, quartiere musulmano compreso. Il presidente degli islamici: "Stanno avvelenando l’anima di questo Paese". "Tudta?" Ma certo che lo sanno. I cartelloni blu firmati dal governo che ricordano come i migranti siano portatori di malattie gravemente infettive e passino il loro tempo a molestare le donne ungheresi sovrastano il piccolo negozio dove Ameer Raki vende spezie da oltre trent’anni. Impossibile ignorarli. Comunque ti giri, li vedi. "Non c’era alcun bisogno di metterli anche qui. Evidentemente ci tengono molto a farci sapere che dobbiamo andarcene". Era un ragazzo quando arrivò qui dalla Siria. C’era ancora l’Unione Sovietica, a quel tempo nessuno immaginava che le statue di Lenin e Stalin sarebbero diventate curiosità, attrazioni per turisti chiuse nel recinto di Memento Park. Ma per il signor Raki nulla è cambiato come in questi ultimi mesi. Anche la scorsa notte le bande dei filonazisti hanno bussato alla sua porta, lasciando sullo zerbino volantini appena più espliciti di quelli ufficiali. "Tudta?" Lo sapete che i terroristi del Bataclan erano migranti giunti dalla Siria? Nei manifesti che promuovono il no al referendum è uno degli slogan più frequenti, leggibile su ogni palo della luce lungo le principali strade di Budapest. Quelli che l’ultradestra diffonde nei pochi isolati abitati da immigrati islamici si limitano a promettere imminente vendetta per Parigi, Bruxelles, Nizza. Clima d’assedio - "Volete che l’Ue imponga una rilocalizzazione coercitiva dei cittadini non ungheresi in Ungheria senza l’approvazione del Parlamento ungherese?" Comunque vada, le conseguenze e il messaggio del referendum di oggi che tanto preoccupa l’Europa, la terza possibile spallata dopo Grecia e Brexit, appaiono evidenti nel clima di assedio che si respira nelle strade dell’ottavo distretto della capitale, il quartiere conosciuto anche come Józsefváros, l’unico che ha al suo interno una piccola comunità islamica. La moschea è un palazzo anonimo, senza alcuna scritta o minareto che la rendano riconoscibile. "Stanno avvelenando l’anima di questo Paese" dice Zoltan Sulok, il presidente dei Musulmani di Ungheria. Il mese scorso ha scritto all’uomo dietro tutto questo, il primo ministro populista, nazionalista e fiero d’esserlo, Viktor Orbán: le chiedo aiuto per proteggere fisicamente i nostri fedeli. Non ha mai ricevuto risposta. Il referendum è quasi un pretesto. L’accoglienza e la distribuzione in tutta Europa di 160.000 richiedenti asilo siriani, eritrei e iracheni, oggi ospitati da Grecia e Italia. All’Ungheria ne andrebbero 1.300, la quota più bassa. In un Paese con una popolazione di quasi dieci milioni di abitanti, dove sono registrati appena 21.000 residenti di origini extraeuropee. Il governo concede 15 ingressi al giorno, a gente che in media si ferma nel Paese al massimo per una settimana, diretta in Germania o in Scandinavia. Il trauma dell’estate 2015, quando la stazione Kelety di Budapest si riempì di quasi 400.000 mila persone in transito sulla rotta balcanica ma dirette altrove, non può essere l’unica spiegazione per questa sfida all’Europa. Un referendum su un accordo nato morto, dall’esito scontato, che rischia anche di non raggiungere il quorum. Populismo e isteria - "Facciamo votare sui migranti un popolo che non sa neppure come è fatto un migrante". Ride amaro, il professor Zoltan Kiszelly, considerato il più importante politologo del Paese. Sul tavolo del suo ufficio c’è una copia del quotidiano Magyar Hirlap, controllato dal governo come quasi tutti gli altri giornali. L’editoriale evoca "la punizione" di Trianon, il trattato che nel 1920 tolse all’Ungheria due terzi del suo territorio. "Evidentemente non bastava - prosegue l’articolo - ora ci vogliono mettere al collo il cappio dei migranti". Kiszelly si stringe nelle spalle. Al populismo di governo, dice, serve una buona dose di isteria, che viene inoculata in ogni modo. "Orbán gioca per diventare il capo del blocco dei Paesi dell’Est. Fare la voce sempre più grossa contro l’Europa è una mossa che paga sempre". Paura, sospetto e odio - L’appuntamento è in Szell Kalman, tra la vecchia Buda e i quartieri residenziali. Alcuni militanti del partito "Insieme" parlano al megafono invitando all’astensione. La piazza è vuota. L’opposizione non esiste. Si vedono solo i manifesti ironici del "Partito dei cani a due code", un gruppo satirico che fa il verso alla campagna governativa. "Lo sapete che c’è una guerra in Siria?" Agoston Mraz, fondatore del think tank Nezopont, vicino a Fidesz, il partito al potere, si presenta carico di fogli con diagrammi e grafici. "Lui vuole una nazione ancora più coesa e omogenea. Il referendum gli permette di allargare la sua base, perché voteranno no anche elettori di sinistra e quelli dell’estrema destra di Jobbik". Arriva anche Erno Simon, il responsabile ungherese dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. È appena tornato dal confine. "Orbán soffia sulla paura, sul sospetto, persino sull’odio, per trarne un vantaggio personale. Ma una volta che apri il vaso di Pandora, è difficile richiuderlo". Nel centro di Budapest non c’è traccia della propaganda del governo. Il perimetro delimitato dal percorso dei bus turistici è sacro, prima gli affari. Ma appena fuori è tutto un florilegio di messaggi che accusano l’Europa di voler costringere l’Ungheria "ad accogliere un branco di stupratori". Due giorni fa, racconta Ameer Raki mentre chiude a doppia mandata il negozio, sua moglie è stata affiancata al semaforo da un motociclista mentre era in bicicletta. L’ha guardata. Le ha detto torna nel deserto, sgualdrina. Poi è ripartito. Pena di morte, quattro persone decapitate in Arabia Saudita La Repubblica, 2 ottobre 2016 Condannate per omicidio e spaccio di droga. Impiccagioni in Malesia, mentre in Pakistan fucilano un malato di mente. In Kenia, invece, la Corte Suprema dichiara incostituzionale la pena capitale obbligatoria. Dal report periodico diffuso da Nessuno Tocchi Caino si apprende che il 26 settembre scorso una donna etiope è stata giustiziata tagliandole la testa in relazione all’uccisione di una bambina saudita. Lo rende noto il Ministero degli Interni di Riad. La donna è stata identificata come Zamzam Abdullah Boric ed è stata giustiziata a Riad. Boric avrebbe tagliato la gola alla vittima "lasciandola in bagno finché non è morta", ha dichiarato il Ministero, senza chiarire né movente né occupazione dell’etiope. Altre tre decapitazioni: due pakistani e un saudita. Il 29 settembre sono stati giustiziati altri tre prigionieri, in tre casi distinti. Amjad Hussein Ashraf Shah, di nazionalità pakistana, è stato giustiziato nel governatorato di Gedda per traffico di eroina. Un altro pakistano, Ayub Khan Manqal Khan, è stato messo a morte nella Regione Orientale, sempre per traffico di eroina. In un comunicato del Ministero degli Interni saudita si legge che il Governo Custode delle due Moschee Sante è impegnato nella lotta contro le droghe, che danneggiano individui e società, per cui i responsabili di questi crimini saranno tutti puniti. L’ultimo dei giustiziati, il saudita Saqr bin Shawi bin Meklhaf Al-Saadi Al-Sulbi, è stato messo a morte nel governatorato di Rafha per aver ucciso con un coltello il connazionale Talal bin Saad bin Farhan Al-Saadi, in seguito ad una lite. L’Arabia Saudita ha un numero di esecuzioni tra i più alti al mondo. Sia in termini assoluti che in percentuale sulla popolazione. Il record è stato stabilito nel 1995 con 191 esecuzioni. Il 18 dicembre 2014, l’Arabia Saudita ha votato contro la risoluzione per una moratoria delle esecuzioni capitali all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. MALESIA - Impiccato in carcere per omicidio. Il 23 settembre scorso un uomo è stato impiccato nel carcere di Kajang, in Malesia, dopo essere stato riconosciuto colpevole dell’omicidio e stupro di una ragazza, commessi nel 2003. Si tratta di Ahmad Najib Aris, 40 anni, ex addetto alle pulizie delle cabine degli aerei, che è stato giustiziato alle 6 del mattino per i crimini commessi contro Canny Ong, analista di information technology. Il corpo del giustiziato - ha reso noto un portavoce carcerario - è stato sepolto nel cimitero islamico di Sungai Kantan, a Kajang. Il 23 febbraio 2005 l’Alta Corte di Alam Shah aveva condannato a morte Ahmad Najib per aver violentato e ucciso Ong, 29 anni, al km 11 della Jalan Klang Lama, il 14 giugno del 2003. In carcere è stato un detenuto modello. Nel marzo 2009, una decisione unanime della Corte Federale aveva confermato la sua condanna a morte per i crimini commessi su Ong, i cui resti carbonizzati furono trovati in un tombino nei pressi di un cantiere autostradale. Il suo ex avvocato Mohamed Haniff Khatri Abdulla ha detto che funzionari delle carceri hanno commentato benevolmente il comportamento di Ahmad Najib. "Mi hanno detto che in realtà è diventato un buon musulmano. Guidava la preghiera ed era solito insegnare alle persone la religione. Ha preso la decisione della Corte come il destino voluto da Dio", ha aggiunto. KENYA - L’Alta Corte dichiara incostituzionale la pena di morte. Il 24 settembre scorso, l’Alta Corte del Kenya ha stabilito nei giorni scorsi che la pena di morte obbligatoria in relazione ai reati capitali è incostituzionale. Una petizione era stata presentata dal detenuto e studente di legge Wilson Kinyua, e da altri 11 prigionieri nel braccio della morte del Carcere di Massima Sicurezza di Kamiti. In una sentenza storica pronunciata il 15 settembre 2016, è stato stabilito che le sezioni della legge non soddisfano il requisito costituzionale di fissare precisi e distinti gradi di differenziazione di aggravanti per il reato di rapina e tentata rapina, per rispondere adeguatamente alle accuse e preparare la difesa. Si invoca un processo equo. I firmatari, guidati da Wilson, hanno sostenuto che per applicare la pena di morte si dovrebbe prima avere la possibilità di difendersi nelle udienze attraverso un processo delle attenuanti. La sentenza stabilisce che i fattori attenuanti e altri requisiti pre-sentenza debbano essere ricevuti ed esaminati dai tribunali al fine di un processo equo, abolendo la condanna capitale obbligatoria attualmente prescritta per un reato capitale. Ma l’abolizione è ancora lontana. La Corte, tuttavia, non si è pronunciata in favore dell’abolizione della pena di morte su tutta la linea affermando che "la pena di morte non è una punizione crudele, inumana e degradante. Tuttavia, semplicemente non può essere inflitta a qualsiasi persona riconosciuta colpevole di reato capitale". Si tratta chiaramente di un risultato deludente per Wilson, tuttavia sono stati fatti passi straordinari per cambiare la legge in modo tale che l’impatto positivo sarà sentito in tutta la comunità carceraria. La sentenza è stata anche sospesa per 18 mesi in modo che la legge venga rivista per le incongruenze presenti e modificata di conseguenza, una sentenza che i firmatari desiderano sfidare, chiedendo una risoluzione immediata per i loro casi. PAKISTAN - A morte anche un malato di mente. Il 27 settembre scorso un gruppo internazionale per i diritti umani ha reso noto che la Corte Suprema del Pakistan ha confermato la pena di morte nei confronti di un uomo malato di mente accusato di omicidio, ribaltando la precedente decisione di sospendere la sua esecuzione. La Corte Suprema - si legge nella dichiarazione di Reprieve - ha respinto l’appello sostenendo che una grande percentuale di detenuti soffre di malattie mentali e di non potere lasciar andar via tutti. Imdad Ali si trova nel braccio della morte da quando è stato condannato in un caso di omicidio nel 2001. Ali doveva essere giustiziato il 20 settembre, dopo che il Presidente ha respinto la richiesta di clemenza, tuttavia all’ultimo minuto una decisione della Corte Suprema ha sospeso l’esecuzione. Reprieve ha esortato il governo del Pakistan ad eliminare la condanna a morte contro Ali, sostenendo che la sua esecuzione violerebbe sia il diritto pakistano che quello internazionale. INDONESIA - Condannato per omicidio e stupro. Il 29 settembre scorso, il capo di una banda è stato condannato a morte in Indonesia in relazione all’omicidio e stupro di gruppo di una studentessa. Zainal ha subìto la pena capitale da un tribunale dell’isola di Sumatra, mentre nello stesso casi altri quattro uomini sono stati condannati a 20 anni di carcere ciascuno. L’omicidio e stupro di gruppo della 14enne, che fu aggredita da diversi uomini e ragazzi ad aprile mentre tornava da scuola, ha scioccato il Paese. In seguito al ritrovamento nei boschi del corpo della ragazza legata e nuda, la polizia ha arrestato 13 persone, mentre un presunto colpevole è ancora in libertà. Zainal è stato condannato a morte per omicidio premeditato. "Questa sentenza è stata pronunciata perché l’imputato ha convinto gli altri a commettere il crimine," ha detto in aula il giudice Heny Farida della città di Curup. Colombia, scorie di guerra di Geraldina Colotti Il Manifesto, 2 ottobre 2016 William Alberto Acosta Menendez è un avvocato colombiano che difende i prigionieri politici e il processo di pace. Da anni in prima fila nelle lotte sociali, è il rappresentante legale della ong Corporacion Semilla y memoria, e membro della Coalicion por el trato digno de los prisioneros politicos Larga vida a las mariposas. Semilla y memoria è un’organizzazione che da oltre 8 anni segue i prigionieri politici. La questione dei prigionieri politici è un punto dolente degli accordi. Qual è la loro condizione carceraria? Nei dipartimenti del Huila, Tolima e Quindio vi sono oggi 800 prigionieri, in maggioranza prigionieri di guerra, prigionieri di coscienza e vittime di montature giudiziarie. Abbiamo oltre 400 prigionieri di guerra membri della guerriglia marxista Farc-Ep in delicate situazioni di salute e in isolamento, che lo stato continua a considerare un nemico, e per questo infligge loro un trattamento inumano, che trasgredisce le norme minime del regolamento penitenziario e viola i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. Come trattamento punitivo, si impone ai prigionieri politici il trasferimento in centri di detenzione molto distanti dai luoghi di residenza, per allontanarli dai propri affetti e piegarne le convinzioni. In alcuni casi, vengono tenuti in isolamento, in altri li si obbliga a convivere con i delinquenti comuni e con i paramilitari, a rischio della loro integrità, perché il paramilitarismo gode di grandi protezioni statali, sia nelle carceri che fuori. E il resto della popolazione detenuta? Nelle carceri della regione come in tutto il paese esiste una sistematica violazione dei diritti umani, con uno speciale accanimento nei confronti dei prigionieri politici, confinati in centri penitenziari lontanissimi da quelli previsti dalla legge per la risocializzazione. La maggior parte delle carceri sono vere e proprie "università" del crimine e discarica sociale. I detenuti non vengono trattati come esseri umani ma come scorie della società, e le carceri come luoghi in cui continua la guerra e la repressione. Carceri e sistema giudiziario sono funzionali alle politiche di guerra e di asservimento portate avanti in tutti questi anni. Il problema del sovraffollamento in tutti gli istituti del paese è stato condannato da diverse istituzioni e enti di controllo, ma senza esito. In merito alla situazione degradante in cui versano le carceri, una sentenza della Corte costituzionale dichiara "insostenibile" la violenza provocata soprattutto dal sovraffollamento. Nel carcere di Ibagué Coiba - Picaleña, costruito per ospitare circa 4.446 persone, en sono recluse 6.038. In quella di Neiva, che dovrebbe recludere 993 persone, ve ne sono circa 1.664. E sono cifre del 2014. Inoltre, vi sono problemi di acqua, che viene somministrata solo per due ore, una al mattino e una al pomeriggio, con conseguenti problemi sanitari e di salute pubblica. La situazione sanitaria è drammatica, perché le cure mediche sono inesistenti. Le medicine arrivano solo dopo una sentenza dei giudici che impongono all’Amministrazione penitenziaria di rispettare la legge. Le morti dei detenuti non provocano sanzioni né proteste. La lentezza dei processi costituisce uno dei punti più dolenti nella violazione sistematica dei diritti umani, unitamente alla chiusura della magistratura nella concessione delle misure alternative e nelle attività di reinserimento. Inoltre, non esiste una politica carceraria di genere, le donne incinte o con figli non godono di garanzie sanitarie minime per la loro condizione: a partire dalla mancanza di acqua, vera e propria tortura per ogni essere umano. Qual è il ruolo della sua Ong nel processo di pace? La Corporacion è una delle organizzazioni che ha funzioni di consulenza nella commissione di pace delle Farc. Dedica i propri sforzi alla richiesta di libertà e trattamento umanitario per i prigionieri politici presso le istituzioni nazionali e internazionali. Da tempo stiamo costruendo una pedagogia di pace negli istituti penitenziari, un elemento chiave per i prigionieri politici. Un esercizio che, in alcuni casi, è stato accompagnato dall’Ufficio dell’Alto commissariato per la pace in Colombia. Al contempo, chiediamo il miglioramento delle condizioni sanitarie. Attualmente abbiamo un indice alto di popolazione con handicap e un’altra percentuale di prigionieri che convive con malattie altamente complesse, alcune delle quali incompatibili con la detenzione che però lo stato non considera e rimangono in carcere. In questo momento, per migliaia di combattenti e per il popolo in generale sono molte le aspettative sollevate dalla firma dell’accordo finale per la fine del conflitto e la costruzione di una pace stabile e duratura. I prigionieri delle Farc-Ep sperano di incontrare le famiglie che non vedono da anni per via del regime di isolamento. Questo accordo colma di speranza i famigliari e tutti quelli che, insieme alla guerriglia e alla società colombiana ora si dedicheranno, senza le armi, alla costruzione di una Colombia più giusta, uguale e senza esclusione. Qual è stato il peso dei movimenti e delle organizzazioni popolari nei negoziati di pace? L’apporto delle organizzazioni di massa è stato determinante. La maggior parte di noi ha costantemente alzato la bandiera della pace con giustizia sociale. Quella per una Colombia degna e con migliori opportunità è sempre stata la rivendicazione dei settori più impoveriti della società. È però importante sottolineare che intendiamo la pace come transizione dalla disuguaglianza all’uguaglianza, dalla esclusione all’inclusione, verso uno stato che offra maggiori opportunità, garantisca il diritto alla salute, all’educazione, a una casa dignitosa, uno stato che rispetti i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. Ed è importante altresì precisare che le organizzazioni popolari chiedono di rimuovere le cause che hanno portato le Farc a prendere le armi, e che oggi persistono. Le Farc hanno sempre cercato la pace, che finora non si è raggiunta per gli interessi meschini delle oligarchie colombiane che non permettono la trasformazione delle campagne, la partecipazione politica, che non producono benessere per i settori impoveriti. Abbattere gli alti indici di povertà in Colombia e ridurre la disuguaglianza sociale è sempre stata la consegna dei rivoluzionari e della popolazione colombiana. Cosa pensa del referendum, qual è il clima nel paese? La generazione odierna vive uno dei momenti più importanti della storia recente, il consolidamento della pace con giustizia sociale. Il referendum sugli accordi dell’Avana è un meccanismo di partecipazione che permette alla popolazione di esprimersi. La maggioranza appoggia il si perché è un’opportunità per costruire una Colombia di pace. Non si tratta solo di appoggiare gli accordi e l’abbandono delle armi da parte delle Farc, ma i cambiamenti profondi che implica per la nazione: nelle campagne, nella partecipazione politica, nel problema del narcotraffico e delle coltivazioni illecite… Anche se la consegna delle armi e il rientro nella vita civile delle Farc-Ept non conclude la pace giacché vi sono altri fattori in gioco, come il paramilitarismo, che mettono paura alla popolazione civile, si tratta di un importante passo avanti. Vista dalla prospettiva dei settori che sempre sono stati esclusi, la trasformazione delle Farc in movimento politico sarà un fattore di coesione e articolazione delle forze di sinistra più vive nella società, produrrà profonde trasformazioni della democrazia colombiana. Qual è il peso dei settori che avversano la pace? In questo conflitto armato che dura da 52 anni vi sono stati ingenti sforzi per arrivare a una soluzione politica, durante diversi governi: il movimento insorgente ha proposto il dialogo fin dall’inizio, ma si è sempre scontrato con gli interessi economici della borghesia e dei governi di turno. Il perdurare del conflitto armato ha generato ricchezza per pochi e povertà per la maggioranza. Gli attori che sempre hanno promosso la guerra, i settori della borghesia colombiana che sempre si sono visti beneficiati dal conflitto armato non appoggiano il referendum e hanno fatto campagna per il no. Questo settore, guidato dall’ex presidente della repubblica Alvaro Uribe Velez ha disegnato una strategia piena di menzogne nei riguardi degli accordi dell’Avana, strategia appoggiata dai media come la Tv Rcn. Il peso dell’uribismo e dei nemici della pace è forte, tuttavia crediamo che non avrà un’influenza decisiva sulla maggioranza che vuole la pace. In fondo, oggi sono settori minoritari che difendono i loro interessi, da sempre basati sulla guerra. Uribe e il suo governo hanno dato inizio ai primi contatti per attivare un negoziato attraverso il presidente venezuelano Hugo Chavez, ma senza alcuna intenzione di dare soluzione alle cause del conflitto armato. Per questo quei contatti non ebbero seguito. E oggi Uribe dice che gli accordi consegneranno il paese al "castro-madurismo" e al "terrorismo". Penso che queste posizioni verranno sconfitte. Le cifre delle violazioni dei diritti umani mostrano la necessità di avanzare verso scenari di riconciliazione tenendo come asse centrale le vittime del conflitto armato.