Il premier Renzi in visita al carcere "Due Palazzi" di Padova Rassegna stampa a cura di Ristretti Orizzonti, 28 ottobre 2016 Renzi a Padova, in carcere e poi in Ateneo. L’incontro con Bitonci. Corteo No Global, di Angela Pederiva (Corriere della Sera) Un detenuto gli chiede l’autografo per il figlio. Una (fredda) stretta di mano con il sindaco. Al Bo l’incontro con gli scienziati richiamati all’università. "Potenzierò il personale al carcere Due Palazzi di Padova". Questa la prima promessa del premier Matteo Renzi oggi in visita a Padova. Una visita prima annunciata, poi incerta, quindi cancellata, infine ripristinata. Prima tappa il carcere, poi l’aula magna del Bo. Ad attenderlo, in centro, una quarantina di No Global che hanno protestato contro la Buona Scuola con megafono, striscioni e trombette. All’arrivo all’università oltre al rettore Rosario Rizzuto anche il sindaco Massimo Bitonci con cui c’è stata una (formale) stretta di mano. La giornata padovana del premier è partita dal Due Palazzi. Dopo un colloquio con il personale della polizia penitenziaria, Renzi ha visitato i laboratori gestiti della cooperativa Giotto, come ad esempio la pasticceria, la legatoria, il call center, la parte informatica. "Ha parlato molto e salutato i detenuti dei laboratori, uno per uno, incoraggiandoli e raccomandando loro di impegnarsi e uscire da questa situazione - hanno riferito i parlamentari Pd Alessandro Zan e Giorgio Santini -. Ha preso un impegno, visto che è un carcere sofisticato, di verificare con il Dap, presente alla visita con il capo Santi Consoli, la distribuzione dell’organico". Visita alla redazione di `Ristretti orizzonti´ "dove ha ascoltato testimonianze sull’ergastolo e le condizione difficili delle visite da parte dei familiari. Su questo tema il ministro Orlando e Renzi hanno fatto riferimento ad una iniziativa di legge per sperimentare la totale mancanza di barriere per i figli dei detenuti". "Una visita bellissima, ha dedicato quasi tutto il tempo a camminare, salutare e incontrare tanto il personale di polizia dell’amministrazione penitenziaria, quanto gli operatori delle cooperative e i detenuti. Avrà stretto la mano a 150 detenuti almeno", ha detto Nicola Boscoletto, presidente dell’Officina Giotto. "Una grande attenzione che ha stupito tutti - ha continuato. Renzi ha ascoltato i vari problemi e detto che avrebbe fatto presente a chi di dovere, dando una parola di conforto a chi ne aveva bisogno, soprattutto a chi è condannato a pene lunghe o per reati ostativi. Un detenuto nordafricano gli ha chiesto anche un autografo con dedica per il figlio e ho intravisto che scriveva di impegnarsi con lo studio e nella vita". Poi alle 10.15 trasferimento al Bo per un evento sui "cervelli di ritorno" che l’ateneo presenta così: "Ricerca, scienza, formazione e internazionalizzazione: il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il rettore Rosario Rizzuto incontrano gli scienziati provenienti da tutto il mondo richiamati a svolgere le proprie ricerche all’Università di Padova". Imponenti le misure di sicurezza previste. In aula magna ci sarà anche il sindaco Massimo Bitonci, malgrado l’irritazione per quello che definisce "uno sgarbo istituzionale", ovvero il mancato coinvolgimento di Palazzo Moroni nella visita: "Quando Renzi è stato a Treviso e a Verona ha incontrato in pompa magna Manildo e Tosi. Capisco che a Padova c’è un sindaco della Lega, ma al posto del premier non mi sarei certo comportato così". Renzi a Padova: visita al carcere e poi al Bo, di Claudio Malfitano e Albino Salmaso (Il Mattino di Padova) Annullato l’appuntamento di ieri per il sisma, oggi al Due Palazzi e poi in ateneo. La visita al carcere Due Palazzi e poi l’iniziativa al Bo per accogliere i ricercatori che dall’estero tornano in Italia. Mattinata padovana oggi per il premier Matteo Renzi, che è arrivato alle 9, con un’ora di ritardo sulla tabella di marcia. Dopo di lui, il ministro Andrea Orlando, reduce da un viaggio in Vietnam. Prima di arrivare a Padova, Renzi aveva twittato un pensiero speciale per Marco Pannella. La visita in carcere è durata un’ora. Renzi ha incontrato prima i rappresentanti della polizia penitenziaria, incoraggiandoli per il lavoro che fanno e promettendo che arriverà nuovo personale. Ha spiegato che nella Finanziaria ci sono 1,9 miliardi per il comparto pubblico, parte dei quali potranno essere usati per nuove assunzioni. Poi ha visitato la pasticceria, il call center, la parte informatica. Mentre ha saltato la visita in sezione. Ha stretto la mano a tutti i detenuti dei laboratori. Anche incoraggiandoli a uscire da questa situazione e reinserirsi nella società. Alla redazione di Ristretti Orizzonti ha sentito due testimonianze sull’ergastolo, tra cui quella di Musumeci, detenuto che ha preso più lauree studiando in carcere. Gli hanno parlato delle difficoltà delle visite dei parenti: soprattutto la tristezza dei bambini in carcere con i papà detenuti. Il ministro Orlando ha promesso di sperimentare la mancanza di barriere per i figli dei detenuti. Alle 10 il premier ha lasciato il Due Palazzi per dirigersi verso l’Università. Per il premier anche gli omaggi della cooperativa Giotto che, a Padova, con l’apporto dei detenuti, produce ottima pasticceria. Fra l’altro, a Renzi è stato donato un maxi-panettone. Alle 10 Renzi è arrivato nell’aula magna dell’Università di Padova, al palazzo Bo, per l’incontro con i ricercatori e i nostri ex "cervelli in fuga" che sono stati riportati in patria. Ieri sera (giovedì) erano stati annullati gli appuntamenti elettorali di Renzi in Fiera a Padova, nel corso dei quali avrebbe dovuto sostenere le ragioni del sì al referendum sulle riforme costituzionali. Il premier ha preferito visitare invece le zone colpite dal terremoto di mercoledì sera, annullando tutte le iniziative politiche. La presenza di oggi a Padova invece era in programma come visita istituzionale ed è stata confermata ieri sera, dopo una riunione operativa per gestire i due eventi. Alle 9 Renzi è arrivato al Due Palazzi, dove visita il complesso del carcere penale con tutte le iniziative messe in piedi negli anni per il reinserimento dei detenuti, che fanno di Padova un’eccellenza nazionale. A partire dal laboratorio di pasticceria messo in piedi dalla Cooperativa Giotto, i cui dolci (soprattutto i panettoni natalizi) sono conosciuti in tutta Italia. Ma in carcere la realtà sociale realizza anche corsi di giardinaggio, un laboratorio di montaggio di biciclette e un call center. Tutte attività che aiutano i detenuti a trovare un lavoro e inserirsi nella società, una volta scontata la pena. Al Due Palazzi Renzi visita anche la redazione del giornale del carcere "Ristretti Orizzonti" e probabilmente passerà anche sotto la Porta Santa voluta dal vescovo don Claudio Cipolla nella piccola cappella del penitenziario. Ad accompagnare Renzi nella visita al Due Palazzi anche Santi Consolo, il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, responsabile di tutti i carceri d’Italia. Presenti le autorità cittadine, dal prefetto Patrizia Impresa al sindaco Massimo Bitonci. Nel corso della mattinata il premier è atteso anche al Bo. Arriverà in cortile antico, dove ad attenderlo ci sarà il rettore Rosario Rizzuto, assieme al sindaco Massimo Bitonci e al prefetto Patrizia Impresa. In aula magna poi incontrerà due giovani ricercatori che dall’estero hanno deciso di tornare a Padova per fare ricerca. Si tratta di Matteo Millan, che a 33 anni diventerà professore associato al dipartimento di Storia, e Petra Ritter, neuroscienziata che torna da Berlino per continuare a studiare le interazioni dei neuroni. L’incontro sarà condotto dal filosofo Telmo Pievani, che è stato nominato delegato alla comunicazione del Bo. Matteo Renzi in visita a Padova. Prima in carcere, poi al Bo (Il Gazzettino) Dopo l’annullamento del comizio in programma per ieri alle 21 in fiera - il presidente del consiglio ha visitato i paesi del centro Italia colpiti dal sisma - oggi mattinata tutta padovana per Matteo Renzi, in una città blindata per le annunciate proteste dei centri sociali. Alle 8.30 il presidente del consiglio è arrivato al carcere Due Palazzi, dove ha visitato i laboratori di pasticceria gestiti dalla cooperativa Giotto. Il premier, accompagnato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, è rimasto all’interno del carcere per un’ora. Tante le mani strette ad altrettanti carcerati che lavorano nei laboratori della casa circondariale. Renzi ha affrontato lo spinoso argomento delle visite dei minori ai parenti in carcere: che i bambini vengano a contatto con un ambiente che rischia di traumatizzarli - in sintesi il pensiero di Renzi - è ingiusto e sbagliato, occorre quindi pensare a strutture alternative per consentire l’incontro tra i minori e i padri e le madri detenuti. Renzi ha anche espresso considerazioni sul numero delle guardie carcerarie - sindacati lamentano da anni le condizioni di lavoro e il numero sempre più esiguo di guardie nelle strutture - affermando che la loro presenza deve essere incrementata. Renzi a Padova, visita al carcere e poi incontro Università (Ansa) Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha visitato a Padova il carcere Due Palazzi di Padova, ha avuto un incontro con alcuni dei detenuti e visitato i laboratori e la pasticceria della prigione. Ora è all’Università di Padova per incontrare alcuni ricercatori. "Ha parlato molto e salutato i detenuti dei laboratori, uno per uno, incoraggiandoli e raccomandando loro di impegnarsi e uscire da questa situazione - hanno riferito i parlamentari Pd Alessandro Zan e Giorgio Santini -. Ha preso un impegno, visto che è un carcere sofisticato, di verificare con il Dap, presente alla visita con il capo Santi Consoli, la distribuzione dell’organico". Visita alla redazione di Ristretti Orizzonti "dove ha ascoltato testimonianze sull’ergastolo e le condizione difficili delle visite da parte dei familiari. Su questo tema il ministro Orlando e Renzi hanno fatto riferimento ad una iniziativa di legge per sperimentare la totale mancanza di barriere per i figli dei detenuti". Renzi in visita al carcere di Padova ("gesto inedito per un premier") (Askanews) Il presidente del Consiglio Matteo Renzi è giunto al carcere penitenziario Due Palazzi di Padova dove incontrerà alcuni detenuti e visiterà il laboratorio di pasticceria. Renzi, primo premier a visitare un carcere, ha dedicato l’iniziativa al fondatore dei Radicali Marco Pannella, di recente scomparso. "Visito il carcere di Padova: gesto inedito per un premier. Un pensiero a Marco Pannella", ha scritto su Twitter. Dal carcere, Renzi si sposterà all’Università per incontrare alcuni ricercatori e intervenire all’inaugurazione dellìanno accademico. Prima di lasciare Padova Renzi si collegherà in diretta con Radio Radicale per commentare la sua visita al penitenziario. Renzi incontra detenuti al carcere di Padova: "Impegnatevi e ne uscirete" (Askanews) È terminata la visita del presidente del Consiglio, Matteo Renzi e del ministro Andrea Orlando al carcere "Due Palazzi" di Padova. Il presidente del Consiglio si è soffermato per un colloquio con il personale della polizia penitenziaria dopodiché ha visitato i laboratori gestiti della cooperativa Giotto: la pasticceria, la legatoria, il call center, la parte informatica, quella di servizi alle Camere di Commercio e i laboratori per gli imballaggi. "Il premier ha parlato molto e salutato tutti i detenuti dei laboratori, uno per uno, incoraggiandoli e dicendo "ragazzi mi raccomando dovete impegnarvi e uscire da questa situazione" - hanno raccontato i parlamentari del Pd Alessandro Zan e Giorgio Santini -. Ha preso un impegno, visto che è un carcere sofisticato, di verificare con il Dap, presente alla visita con il capo Santi Consolo, la distribuzione dell’organico". "Infine ha visitato la redazione della testata Ristretti Orizzonti dove ha ascoltato testimonianze sull’ergastolo e le condizione difficili delle visite da parte dei familiari. Su questo tema il ministro Orlando e Renzi hanno fatto riferimento ad una iniziativa di legge per sperimentare la totale mancanza di barriere per i figli dei detenuti". Renzi e Orlando in carcere Padova, visita laboratori e detenuti (Agi) C’era anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, con il premier, Matteo Renzi, alla visita al Due Palazzi di Padova, il carcere di cui il presidente del Consiglio ha visitato i laboratori, gestiti dalla cooperativa Giotto, incontrato la polizia penitenziaria e i detenuti. Proprio con loro, spiegano i parlamentari del Pd Giorgio Santini e Alessandro Zan "ha parlato molto" cercando di incoraggiarli. "Ragazzi mi raccomando dovete impegnarvi e uscire da questa situazione", ha detto il premier secondo quanto riferito dai parlamentari. Infine ha visitato la redazione di Ristretti Orizzonti dove ha ascoltato testimonianze sull’ergastolo e le condizioni difficili delle visite da parte dei familiari. Su questo tema il ministro Orlando e Renzi hanno fatto riferimento ad una iniziativa di legge per sperimentare la totale mancanza di barriere per i figli dei detenuti. Banda Biscotti e Dolci Libertà: il made in carcere si mette in rete di Luciana Squadrilli La Gazzetta dello Sport, 28 ottobre 2016 I panettoni tradizionali e le tavolette di cioccolato di Dolci Libertà da Busto Arsizio, il caffè e le tisane delle Lazzarelle da Pozzuoli, i formaggi tipici laziali e quelli innovativi di Cibo Agricolo Libero da Roma, il pane a lievitazione naturale di Farina nel Sacco da Torino, il croccante di mandorle e le creme spalmabili di Sprigioniamo Sapori dalla Sicilia ma anche le borse in PVC da materiale riciclato di Rio Terà dei Pensieri da Venezia e altro ancora. ?Cos’hanno in comune questi prodotti oltre al fatto di essere buoni (o belli?) e di fattura artigianale? Nascono tutti da aziende e cooperative che si trovano all’interno di carceri e istituti penitenziari di tutta Italia. Ognuna ha il suo nome e le sue specificità ma da circa un anno sono aggregate sotto il comune nome di Freedhome, associazione che, riprendendo la garbata ironia che contraddistingue i nomi di quasi tutte le attività coinvolte, si è data il payoff "creativi dentro". Partita da un’idea di Marco Gilardello, creatore anche del laboratorio dolciario Banda Biscotti nella Casa Circondariale di Verbania, l’associazione è presieduta dalla combattiva Irma Carpiniello che coordina le Lazzarelle, le detenute di Pozzuoli che lavorano nell’omonima torrefazione nata non solo per dare un’opportunità lavorativa alle detenute ma anche per tentare di combattere il racket del caffè "imposto" nei bar del Napoletano. A brevissimo l’apertura di una sede fisica con il negozio in via Milano 2/c a Torino, il "primo store di economia carceraria" ricavato in un locale ceduto in comodato gratuito dal Comune di Torino al Provveditorato Regionale e ristrutturato dalla cooperativa Extraliberi, in cui i detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutigno di Torino (la stessa di Farina nel Sacco) lavorano come stampatori con tecniche serigrafiche. Da luglio scorso, inoltre, Freedhome è diventata ufficialmente una rete d’impresa che unisce 13 realtà su tutto il territorio nazionale: sostanzialmente, si tratta di una forma imprenditoriale basata sulla "collaborazione, lo scambio e l’aggregazione tra imprese" come modello di business alternativo rispetto a quello individualistico e frammentato che caratterizza spesso il tessuto economico italiano, soprattutto nel mondo alimentare. E in questo caso, decisamente non mancano gli obiettivi condivisi e alcuni criteri di base - prima di tutto etici, ma anche imprenditoriali - che hanno portato a questa scelta. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Mancino, fondatore (oltre che di DOL-Di Origine Laziale, attività di selezione e distribuzione di prodotti tipici regionali) del caseificio Cibo Agricolo Libero all’interno della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, a Roma. Nonostante il recente ingresso nell’associazione - che accoglie volentieri nuove adesioni da parte di altre imprese carcerarie - Mancino ne è già parte integrante, avendo dalla sua l’esperienza imprenditoriale di successo con DOL oltre alla creazione dei caseificio, l’unico a oggi della rete Freedhome, dove si realizzano formaggi "storici" come il Conciato, avvolto da erbe aromatiche, ma pure interessanti esperimenti come il Fico, stagionato tra foglie di fico. "Essere diventati rete d’impresa ci permetterà di partecipare come un’unica realtà a iniziative e bandi come quelli per il recupero degli spazi abbandonati ai fini della reintegrazione sociale attraverso il lavoro, dandoci maggiore forza e permettendo anche economie di scala". Anche se le motivazioni etiche sono alla base della creazione di simili iniziative, che puntano al coinvolgimento dei detenuti ma anche ad offrire loro realistiche opportunità di reinserimento sociale e lavorativo una volta fuori, non va dimenticato infatti che queste realtà sono prima di tutto imprese commerciali che devono avere una loro sostenibilità economica: "Le detenute - chiarisce Vincenzo - pagano il vitto; avere un lavoro regolarmente retribuito per loro è una cosa importante, oltre al fatto di imparare un mestiere specializzato e di essere impegnate durante il giorno, evitando di passare ore e ore a pensare alla loro situazione. Molte di loro scontano ovviamente delle condanne giuste ma in altri casi sono "vittime" di altre persone, solitamente uomini. Non solo, soprattutto in un carcere femminile, lavorare porta a creare una diversa interazione con le colleghe, con le guardie e con me o altre persone esterne. In questo modo, il reinserimento diventa più facile; non dimentichiamo che la reintegrazione sociale è un diritto sancito dalla Costituzione". Ma cosa spinge chi sta "fuori" a investire tempo, denaro e sforzi in questi progetti? "Nel mio caso è nato da una visita a Rebibbia per un concorso di cucina tra le detenute nel corso del quale mi fu fatta visitare la struttura, allora abbandonata, che oggi ospita il caseificio, rinnovato e allestito interamente da me - racconta Vincenzo. Mi resi conto che quelle donne non avevano nessuna prospettiva e mi venne questa idea. Ma non va negato, anche noi "investitori" abbiamo dei vantaggi, come per esempio quello di poter contare su dipendenti motivati e "fissi". Qui non succederà mai che una delle ragazze non si presenti a lavoro una mattina senza avvertire, o che si licenzi senza preavviso perché magari trova il lavoro troppo faticoso". Cose che succedono spesso fuori. Proprio come e più delle le imprese "normali", poi, le attività nelle carceri devono affrontare anche difficoltà burocratiche non indifferenti, dalla costituzione della società alle autorizzazioni per le attività di comunicazione: "Fare entrare una troupe televisiva per delle riprese è stata una vera e propria impresa" racconta ancora Vincenzo. Resta, infine, un’ultima domanda: perché scegliere di acquistare i prodotti "made in carcere"? Per quel che riguarda il settore alimentare, la risposta più semplice al di là delle considerazioni etiche è "perché sono buoni": super controllati, genuini e a base di ottime materie prime spesso provenienti dal commercio equo e solidale o da cooperative etiche, come il caffè della Cooperativa Shadhilly usato dalle Lazzarelle a zucchero di canna e cacao di Altromercato utilizzati dalla Banda Biscotti insieme a farina macinata a pietra in un mulino piemontese a basso impatto ambientale e al burro d’alpe della Latteria sociale Antigoriana di Crodo. Ma anche sapere che il lavoro alla loro origine è "pulito" e ha uno scopo preciso, non guasta. Davigo e le barricate che tengono in vita l’odiata "ex Cirielli" di Errico Novi Il Dubbio, 28 ottobre 2016 Oggi l’Anm decide se togliere il veto al ddl penale, che supera la vecchia legge sulla prescrizione. Con molta fatica si celebra un nuovo processo per il caso Eternit. O meglio, un’udienza preliminare che deve stabilire se va processato l’unico imputato, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, all’epoca titolare degli impianti del Monferrato le cui emissioni avrebbero fatto morire di cancro 300 persone. Il nuovo tentativo in cui confidano le famiglie delle vittime (l’udienza ieri è stata aggiornata al 4 novembre) rischia di non reggere l’obiezione avanzata da Astolfo Di Amato, difensore dell’imprenditore: "La giurisprudenza dice che quando c’è un’accusa per strage i singoli omicidi sono assorbiti dal reato di strage. Quindi, se il primo processo ha riguardato un massacro, adesso i singoli omicidi non possono più essere presi in considerazione". Il "primo processo" di cui parla l’avvocato Di Amato è strato anche l’innesco della riforma della prescrizione. Di fronte all’esito del precedente giudizio, fu innanzitutto Renzi a impegnarsi con le famiglie di Casale Monferrato a modificare le norme sull’estinzione dei reati. Qualcosa è stato fatto, nello specifico dei delitti ambientali, con la legge 68 del 2015: il termine dei processi per il reato di "morte come causa di inquinamento" è stato raddoppiato esattamente come avviene per i reati di mafia e terrorismo. Certo, la base riferimento continua a essere quella della ex Cirielli, che è in ogni caso meno favorevole al punto di vista dell’accusa rispetto alle norme inserite nella riforma penale. Queste ultime prevedono che si sospenda per 18 mesi il decorso della prescrizione sia dopo l’eventuale condanna in primo grado che dopo la condanna in Appello. Previsione che allunga di fatto di almeno tre anni la durata massima di tutti i processi, compresi i giudizi per reati ambientali come quello in corso a Torino. Eppure questa riforma che per molti versi è stata accolta come un intollerabile eccesso da parte dell’avvocatura, è paralizzata anche dalle resistenze dell’Associazione magistrati. Oggi Davigo decide se dissequestrare la riforma penale. Lo farà insieme con il direttivo dell’Anm, ovvero il parlamentino del sindacato delle toghe. La riunione è fissata per le 15 è servirà a trarre un bilancio del confronto di lunedì scorso con il premier Renzi e il guardasigilli Orlando. Al vertice di Palazzo Chigi Davigo ha incassato aperture su alcuni punti che non sembravano più in discussione, per il governo: nuovo innalzamento a 72 anni dell’età pensionabile per tutti i magistrati e ritorno all’obbligo di permanenza di 3 anni, nella prima sede assegnata, per le toghe appena usciti vincitori dal concorso. Si tratta di "conquiste" non da poco, alla luce del no a ogni mediazione opposta dal governo sul decreto che ha appena toccato le pensioni della Cassazione. Eppure l’Anm rischia di restare in trincea su quello che soprattutto i pm considerano l’unico vero punto critico: l’avocazione del procuratore generale nel caso in cui il pubblico ministero non decida entro tre mesi dalla fine delle indagini se chiedere o no il rinvio a giudizio. È quello che nel ddl del ministro Orlando avrebbe dovuto essere originariamente l’articolo 18 della riforma, ora scivolato al numero 17 ma comunque inviso al sindacato dei giudici. Oggi si dovrà rispondere all’esecutivo, disponibile a eliminare la norma solo di fronte a una controproposta dell’Anm che garantisca allo stesso modo tempi più veloci per le indagini preliminari. Difficile trovarla, probabile dunque che il sindacato delle toghe resti fermo nel suo no al ddl. Col risultato davvero paradossale di tenere inopinatamente in vita la ex Cirielli, l’odiatissima norma che tuttora regola i tempi dei processi e di cui l’Anm rischia di diventare incredibilmente un estremo, ostinatissimo baluardo. Tortura. Gonnella (Antigone): "il Governo si impegni a far approvare la legge" di Giuseppe Picciano La Discussione, 28 ottobre 2016 Per l’associazione Antigone il reato di tortura in Italia è un vulnus che va sanato. E cita la sentenza del tribunale civile di Genova con la quale riconosce a Tanja, una delle tante persone che subì violenza nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001 a Genova, danni morali e fisici per 175mila euro. "Condotte di vera e propria tortura". "Ancora una volta - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - un giudice italiano ci ricorda come in Italia non si possa fare giustizia. Era già accaduto per le torture nel carcere di Asti. In quel caso il giudice mise nero su bianco che le violenze subite da due detenuti erano torture ma che, per l’assenza di una norma ad hoc, non erano perseguibili come tali". Episodi, presidente, che hanno varcato i confini nazionali per giungere a Strasburgo, è così? "Esatto, quelle torture sono ora al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, anche grazie alla collaborazione di Antigone nel predisporre i ricorsi, così come lo sono le violenze nella caserma di Bolzaneto e lo sono state in passato quelle alla scuola Diaz. In quest’ultimo caso i giudici di Strasburgo condannarono l’Italia proprio per quelle torture, sollecitando il nostro Paese a dotarsi di una legge. Una sollecitazione cui l’Italia ha risposto con l’affossamento della legge in discussione in Parlamento, sostituendo la sua approvazione ad un tentativo di patteggiamento con i due detenuti di Asti e i trentuno ricorrenti delle violenze a Bolzaneto: 45mila euro ciascuno per rinunciare al ricorso e alla presumibile condanna. Una compensazione che la Corte nel caso di Asti e i ricorrenti nel caso di Bolzaneto hanno rispedito al mittente. Si aspettano dunque, a breve, le sentenze per entrambi questi casi". Lei ha definito l’Italia il "paradiso dei torturatori". "Perché nonostante la legge in discussione da oltre due anni, nonostante l’impegno internazionale assunto nel 1988, quando l’Italia ratificò la Convenzione Onu contro la tortura, nonostante l’impegno assunto da Renzi all’indomani della condanna per le torture alla scuola Diaz, il nostro paese resta il paradiso dei torturati. Giorni fa con decine di organizzazioni della società civile italiana siamo stati in piazza Montecitorio per chiedere subito la legge. L’Italia non può essere ancora terra di impunità per chi si macchia di crimini contro l’umanità". La confusione normativa che frena la giustizia di Marino Longoni Milano Finanza, 28 ottobre 2016 Il decreto legge sull’efficienza della giustizia (dl n. 168), convertito in legge dal Senato mercoledì 19, contiene una serie di misure tese a sveltire i processi in Cassazione (come la possibilità di decidere direttamente in camera di Consiglio la maggior parte dei processi civili), regole sul processo amministrativo telematico, che diventa obbligatorio dall’ 1 gennaio 2017, e una serie di disposizioni organizzative volte a rendere più efficiente la burocrazia di Cassazione e tribunali amministrativi. Un ulteriore piccolo passo di un percorso che, a prescindere dal colore politico dei governi degli ultimi anni, intende rendere più efficiente e rapida l’amministrazione della giustizia. In altri termini: evitare che una barca un po’ antiquata e stracarica di incombenze naufraghi sotto il peso di un numero sempre crescente di cause che si trascinano con tempi spesso non più tollerabili. Le strategie attuate per raggiungere l’obiettivo sono state diverse: aumento dei costi di accesso alla giustizia (per scoraggiare cause meramente strumentali), riduzione di formalità e procedure, espulsione dal processo penale dei reati bagatellari, adozione del processo telematico, limiti precisi alla prolissità degli atti di avvocati e magistrati, obbligo di addebitare le spese alla parte soccombente (per limitare le cause vessatorie o dilatorie). Misure che hanno contribuito a evitare il collasso del sistema giudiziario. È indubbio però che lo strumento principe individuato per migliorare la qualità del servizio (cosa indispensabile per rendere il Paese più attraente per gli investitori stranieri) sia l’esternalizzazione. A piccoli passi, tutto ciò che non è vitale tenere sotto il controllo diretto del ministero della Giustizia è sempre più spesso gestito in outsourcing. Scelta obbligata, che ha già visto l’introduzione della mediazione obbligatoria, di quella facoltativa, della negoziazione assistita dagli avvocati nel diritto civile, delle procedure conciliative per i consumatori. Il decreto 168 fa un piccolo passo anche in tal senso con la creazione dell’ufficio del processo, che coadiuverà i giudici amministrativi in compiti non giudicanti come la ricerca della giurisprudenza o la preparazione di alcuni atti. Va riconosciuto che, in materia processuale, gli sforzi fatti seguono una linea abbastanza coerente e dovrebbero essere in grado, nel medio periodo, di velocizzare la macchina giudiziaria. Ma quasi nulla si è fatto per migliorare la legislazione nel merito, che resta spesso del tutto disorganica, tanto che, anche per i legali più preparati, spesso non è facile prevedere l’esito della controversia. La confusione normativa aumenta il flusso delle cause in entrata (non potendo prevedere cosa deciderà il giudice, perché non provarci?) Si potrebbero citare i limiti di un’organizzazione giudiziaria antistorica nella distinzione tra giudice amministrativo e civile: perché la P.A. deve avere un giudice particolare? Oltretutto il giudizio amministrativo è l’unico a non avere ancora il giudice unico, si decide sempre collegialmente. Con tutti gli sprechi che ciò comporta. E ancora: perché non pensare all’unificazione del rito civile, ancora differenziato nei vari processi del lavoro: sommario, cognizione, le sanzioni amministrative e così via? Sarebbe una bella semplificazione. Confisca europea più ampia di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2016 Confische "europee" per il reato di auto-riciclaggio, per i delitti di terrorismo internazionale, e ancora per il danneggiamento di sistemi informatici, nella corruzione tra privati, per l’uso fraudolento di carte di credito e bancomat, e infine per i falsari di banconote. Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri in esame definitivo il decreto legislativo di attuazione della direttiva 2014/42/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 sul congelamento e la confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, Dlgs proposto dal ministro Andrea Orlando. La norma va a incrementare le fattispecie sanzionate dalla confisca allargata, sia su terreni nuovi per la criminalità organizzata (p.es. le frodi informatiche) ma anche su reati più tradizionali - confisca obbligatoria anche per i patteggiamenti in materia di droga - e pure sul terreno societario (corruzione tra privati). Paradossalmente però la misura più urgente, numeri alla mano, era quella relativa ai falsari di banconote, considerato che secondo i dati ufficiali della Banca d’Italia negli ultimi tre anni sono state ritirate dalla circolazione nazionale oltre 2 milioni e mezzo di banconote false. Meno invasivo, anche se più percepito, il danno sociale da uso fraudolento di bancomat e carte di credito, che ha riguardato solo lo 0,019% delle transazioni (contro lo 0,074% in Gran Bretagna e lo 0,069% in Francia), ma comunque sono state registrate 365.806 transazioni non riconosciute, per un valore di 65 milioni di euro. L’intervento sul Codice penale, su quello civile (per la corruzione tra privati) e sulle leggi speciali in materia di confisca - l’unica misura sanzionatoria realmente deterrente - va così a chiudere l’aggiornamento normativo sull’utilizzo della misura ablatoria in ambito comunitario, dopo l’entrata in vigore del Dlgs 7 agosto 2015, n. 137 sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca. Il Dlgs 137 contiene la disciplina del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisione di confisca adottata da altro Stato membro, ed è coordinato con l’altro provvedimento (Dlgs 15 febbraio 2016, n.35) sull’esecuzione nell’Unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio. Le nuove figure di reato soggette a confisca obbligatoria e confisca allargata sono destinate ad aumentare il "gestito" del Fondo unico della giustizia, alimentato appunto dai provvedimenti giudiziari, che oggi ammonta a 3,7 miliardi di euro. "Quello approvato dal Cdm è un provvedimento importante - ha detto il sottosegretario Cosimo Ferri a margine del Consiglio dei ministri - perché alza la guardia su nuove forme di criminalità organizzata transnazionale, per esempio quella dedita alle truffe informatiche, e integra e armonizza la normativa italiana a quella europea, con grande beneficio per l’efficacia delle misure di sequestro e di confisca disposte dalle autorità giudiziarie dell’Unione". Con il reato estinto confisca legittima solo se emerge la responsabilità del privato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezione III?penale - Sentenza 27 ottobre 2016 n. 45428. L’estinzione del reato di abuso edilizio non autorizza il gip a disporre contestuale demolizione e confisca dei beni in sequestro. Questo il significativo principio espresso dalla Cassazione n. 45428/2016. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con una situazione davvero particolare in cui il giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Bari, dopo aver disposto l’archiviazione di un procedimento penale a carico di un cittadino, essendo il relativo reato di abuso edilizio estinto per prescrizione, aveva imposto la contestuale demolizione e confisca dei beni in sequestro. Contro la sentenza ha proposto ricorso il privato eccependo da un lato l’esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi amministrativi e per altro verso, la pretermissione del principio della previsione di innocenza. La Cassazione ha ritenuto motivato il ricorso sulla base di quanto disposto dalla Consulta con la sentenza n. 49/2015. La Corte costituzionale ha rilevato che nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità. Quest’ultimo anzi è stato ritenuto doveroso qualora si tratti di disporre una confisca urbanistica. Quindi decidere se l’accertamento vi sia stato oppure no è una questione di fatto, dalla cui risoluzione dipende la conformità della confisca rispetto alla Cedu. Gli euro-giudici - A tal proposito i giudici di piazza Cavour hanno richiamato la Corte di Strasburgo che ha assolto un privato concludendo per la violazione del diritto, dato che era mancato un congruo accertamento di responsabilità. Il giudice europeo deve, pertanto, essere messo nella condizione di valutare con cognizione la natura della sentenza dichiarativa della prescrizione, affinché sia posto in luce il contenuto dell’accertamento che essa può assumere ove il legislatore lo richieda quale condizione per applicare contestualmente una sanzione amministrativa. Si tratta, quindi, non della forma della pronuncia, ma della sostanza della verifica. La stessa Corte di Strasburgo, peraltro, pronunciandosi in altra occasione sulla compatibilità con la presunzione di non colpevolezza di una condanna alle spese adottata nonostante la prescrizione del reato, ha escluso di poter decidere la controversia sulla base della sola natura in rito della sentenza adottata dal giudice nazionale, senza invece valutare come quest’ultimo avesse motivato in concreto (sentenza 25 marzo 1983, Minelli contro Svizzera). Il provvedimento ablatorio va sempre motivato - Pertanto anche a fronte di una decisione definitiva, ma in mancanza di qualunque motivazione che consenta di comprendere se il provvedimento ablatorio sia stato disposto legittimamente oppure no l’ordinanza deve essere annullata. A maggior ragione - spiega la Cassazione - in presenza di un’archiviazione per prescrizione il gip non avrebbe potuto disporre né la confisca, non essendo un compito a lui spettante, né tantomeno la demolizione vista la declaratoria di prescrizione. Per concludere è stata annullata l’ordinanza impugnata senza rinvio ed eliminata la confisca nonché l’ordine di demolizione dell’area in sequestro. Davvero un boss non merita un funerale? di Mimmo Gangemi (scrittore) Panorama, 28 ottobre 2016 A Platì, in Calabria, esequie pubbliche vietate a un ‘ndranghetista. E un prete polemizza con il questore. "A morte, o ssaje che dd’è?... È ‘na livella", tratto da A livella di Antonio De Curtis, Totò. D’accordo. Di là però, nel mondo dei più. Dopo che Caron dimonio, con occhi di bragia, ha traghettato le anime dei dannati sul fiume Acheronte, se sono anime di dannati, che non è dato agli uomini decidere se un’anima lo è né conoscerne la destinazione per l’eternità, qualunque sia stata la condotta di vita. Di qua, nell’inferno che talvolta sa diventare la vita, non sempre è così. Non s’è vista la livella nel caso di Giuseppe Barbaro, di Piatì, 54 anni, di famiglia ‘ndranghetista. Barbaro scontava carcere per reato ostativo, e dal carcere sarebbe dovuto uscire tra circa un anno, con i propri piedi, seppure soccorsi da un bastone per i tanti acciacchi di salute. "Invece, nel carcere ha ingurgitato il fiato che non ha restituito, venendone fuori a piedi in avanti. Stavolta la morte ha fatto l’uovo", per parafrasare un film del ‘68 con Gina Lollobrigida, la bellissima Ewa Aulin e Jean Louis Trintignant. E con quell’uovo c’è chi forse ha padellato una frittata, rivoltandola male. Il Questore di Reggio pare infatti che abbia vietato la celebrazione del funerale in chiesa. Deve essere vero, se ha scatenato la protesta del Parroco di Piatì, Giuseppe Svanera, che si è rivolto al Ministro dell’Interno Angelino Alfano, denunciando che "l’Ordinanza (del Questore, ndr) ha infranto il principio di non ingerenza fra Stato e Chiesa... di cui all’art. 7 della Costituzione...". E anche annotando la sentenza 28168/2010 del Tar Campania in cui si evidenzia che "le funzioni e cerimonie religiose possono essere vietate dal Questore per motivi di ordine pubblico, ai sensi dell’art. 26 del R.D. n. 773/1931, solo se si tratta di quelle praticate fuori dai luoghi destinati al culto". Ma qui si sarebbe trattato di un funerale da celebrare in chiesa. Quindi? Un calvario gli ultimi anni di vita di Barbaro. Di carcere in carcere trascinandosi malanni impietosi, dalla cardiopatia ischemica cronica all’ectasia dell’aorta discendente, un pregresso ictus cerebrale e tant’altro, assieme al pensiero angosciante di un destino ineludibile che gli gravava addosso al breve orizzonte. Non so se da malato terminale avesse diritto agli arresti domiciliari, di finire i suoi giorni nel letto di casa, con la mano stretta tra quelle calde e rassicuranti dei familiari. Non so se debba prudere la coscienza a chi ha deciso che non era in condizioni di salute gravi e tali da essere incompatibili con il regime carcerario, inducendo così a rigettare l’istanza dei domiciliari, visto che, come racconta in un articolo l’avvocato della famiglia, aveva manifestato al figlio la paura, derivante dalle condizioni precarie, d’affrontare il viaggio a Torino per un processo e visto che, a meno di quarantotto ore dal ritorno, è stato trovato morto. Non so, perché non appartiene a noi mortali scavare dentro gli animi, discernere il disegno divino. So però che la morte, se non pareggia i conti terreni, vi stende sopra un velo pietoso. So che, di fronte alla morte, l’uomo non ha più competenza sull’uomo, al cospetto di ben altro Giudice sta andando incontro. E so che alla morte tocca la livella di Totò. Più d’uno s’indignerà che io difenda la morte, non la vita, si badi bene, di un ‘ndranghetista. Perché non capisce che così difendo l’uomo e i suoi diritti, così difendo i principi e i valori della convivenza, così difendo una terra dove sempre più si assiste impotenti e passivi a una deriva autoritaria che rischia di minare la libertà di belli e di brutti, in una terra attorno alla quale si va consolidando l’arbitrio, per il pensiero malato e razzista che qui, siccome regnerebbe inciviltà, non debbano valere le regole del resto della nazione invece civile, che qui sia l’Eritrea degli Ascari, una favela d’Italia da non tenere in alcun conto e su cui non sprecare pensieri e risorse. Inseguo libertà con queste esternazioni. E che io abbia un po’ di timore a farlo, la dice lunga sull’aria che qui si respira. Prima di sfiorare qualcuno, pensiamoci bene di Lugi Ferrarella Sette del Corriere, 28 ottobre 2016 Il nigeriano morto per la caduta dopo aver ricevuto un pugno o la ragazza morta perché "afferrata" al collo ci insegnano i rischi delle azioni e reazioni. Non che ci fosse bisogno di aspettare che lo venisse a ricordare la Cassazione: in passato uno degli insegnamenti minimi delle mamme ai figli in famiglia, e poi dei maestri agli alunni a scuola, e poi magari anche degli allenatori agli juniores negli spogliatoi, era che non si devono mai mettere le mani addosso a qualcuno. E che, qualunque sia l’intensità di una contrapposizione, non lo si deve manco sfiorare con un dito: perché, anche solo per quel primo e magari in sé piccolo gesto d’impeto, quando si alza la mano su qualcuno non si sa mai come va a finire. Saggezza spicciola che in tribunale nei casi più gravi richiama, altrimenti, l’omicidio preterintenzionale: quello commesso da chi, con atti diretti a percuotere o a provocare lesioni personali a una persona, ne causa senza volerlo la morte. È l’ipotesi di reato per la quale, ad esempio a Fermo, in estate era stato arrestato l’italiano che, di fronte alla reazione di un nigeriano a insulti razzisti, lo ha colpito con un pugno che di per sé non lo avrebbe ucciso, ma che ha causato la caduta nella quale il nigeriano ha battuto mortalmente la testa a terra. E prima, e dopo, c’era anche stata, e ancora ci sarà, una quantità di estemporanee risse alcoliche fuori dalle discoteche, di contingenti liti mortali tra bulli di strada per motivi futili, di imprevisti diverbi tra automobilisti per banali questioni di viabilità, di improvvisi scontri per bande tra ultrà allo stadio. Magari loro non lo sanno, ma parla anche a tutti i potenziali protagonisti di queste situazioni la recente sentenza di Cassazione che traduce giuridicamente, in un quasi didascalico riepilogo della nozione di omicidio preterintenzionale, l’antico precetto educativo del non mettere mai le mani addosso agli altri. Il caso di cui si occupava, infatti, era quello di un fidanzato che a Ravenna proclamava di non aver avuto l’intenzione di uccidere nel 2013 la convivente, né di aver mai potuto immaginare che sarebbe morta per il solo fatto che egli la stesse afferrando al collo in una lite domestica. Senza, si badi bene, che la donna fosse morta per strangolamento, escluso dalla perizia. Senza che alcuna droga o farmaco ne avesse favorito come concausa il decesso. E senza - rilevava la perizia - che la donna soffrisse di particolari patologie al cuore. Eppure era morta per un arresto cardiaco. Conseguente, però, all’effetto cardio-inibitorio innescato dalla stimolazione del seno carotideo (dilatazione dell’arteria carotide interna nel suo tratto iniziale) causata nella donna dall’afferramento del suo collo ad opera del convivente. Ecco che costui, riepiloga dunque la Cassazione nel confermare la condanna per omicidio preterintenzionale a 9 anni e 4 mesi (già scontati di un terzo per la scelta del rito abbreviato), è stato "l’autore del necessario e non altrimenti eliminabile innesco della serie causale che ha portato alla morte della donna, e cioè di quella stimolazione manuale del seno carotideo cui è conseguita la turba del ritmo cardiaco che ha portato infine all’arresto cardiaco". causa ed effetto. Ai fini dell’integrazione dell’omicidio preterintenzionale non è cioè necessario che la serie causale che ha prodotto la morte rappresenti lo sviluppo dello stesso evento di percosse o di lesioni voluto da chi le compie. Al contrario, non interrompe il rapporto di causa-effetto, tra afferramento del collo e morte della donna, "il fatto che la vittima, aggredita fisicamente in un punto sensibile e intrinsecamente fragile del corpo, quale certamente è il collo, possa giungere a morte in ragione del fatto che tale condotta inneschi una catena causale condizionata nel suo svolgimento da fattori preesistenti di debolezza strutturale o da vere e proprie malformazioni congenite". E questo perché "la sussistenza di una causa naturale preesistente rivelatasi idonea a favorire l’esito mortale, ma da sola insufficiente a determinarlo o comunque incapace di determinarlo senza il concorso dell’azione umana, non esclude che quest’ultima debba essere considerata causa dell’evento". L’antiproibizionismo e le condizioni dei carcerati da Comitato "Esistono i diritti" La Repubblica, 28 ottobre 2016 Cara Repubblica, proprio perché convinti che diritti umani e diritti civili sono due facce della stessa medaglia, dopo esserci battuti per una legge regionale sulle unioni civili, siamo oggi impegnati su due fronti: il sostegno ad una legge che, prendendo atto del fallimento delle politiche proibizioniste, legalizzi la produzione, l’uso e il consumo della cannabis e delle droghe così dette leggere, per la prima volta presentata in parlamento da un fronte transpartitico di circa 300 deputati e senatori, e le condizioni della popolazione carceraria nella nostra regione dopo i casi di suicidio di detenuti avvenuti in questo anno. Sul primo punto abbiamo già ottenuto un importante successo in consiglio comunale, lo scorso 11 ottobre, con l’approvazione di una mozione che impegna il sindaco a rappresentare ai parlamentari la volontà del consiglio comunale a sostenere la via della legalizzazione e ad avviare un confronto per giungere all’approvazione di questa legge. Contestualmente si è svolta una campagna di raccolta firme su un disegno di legge di iniziativa popolare, promosso dai Radicali Italiani e dall’associazione "Luca Coscioni", a sostegno del disegno di legge parlamentare. La necessità di legalizzare le droghe leggere è sostenuta anche dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti il quale ha apertamente dichiarato come il proibizionismo non abbia affatto ridotto il fenomeno e quanto le mafie lucrano sul traffico, minacciando la salute dei consumatori che diventano complici della criminalità organizzata e che rischiano la galera per il semplice possesso di un pianta di cannabis o qualche dose di erba. Il disegno di legge prevede anche una semplificazione del regime di produzione, prescrizione, distribuzione e dispensazione dei farmaci derivati dalla cannabis, oggi ancora fortemente limitati e sempre più richiesti per combattere malattie neurodegenerative e tumori. Ecco, cara Repubblica, come i nostri due obiettivi siano legati da un filo sottile ma visibile: Quanti consumatori di marijuana si trovano nelle nostre prigioni? E qual è oggi la condizione di vita nelle nostre carceri? La situazione carceraria in Sicilia è molto critica e abbiamo inviato una lettera, lo scorso agosto, a tutti i deputati regionali affinché chiedano al presidente Crocetta di riferire in aula sulla perdurante e reiterata negazione dei diritti fondamentali dei cittadini detenuti e sulla mancata chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Cara Repubblica il 6 novembre sarà celebrato il giubileo dei carcerati e a Roma si terrà una manifestazione, organizzata dal Partito Radicale, "in nome di Papa Francesco e di Marco Pannella". È importante che abbia aderito la C.E.I. e molti comuni italiani e chiederemo che anche il comune di Palermo ci sia perché non vogliamo avere speranze ma "essere speranza", per costruire una società più umana, più libera, più giusta. Per il Comitato "Esistono i Diritti" Gaetano D’Amico, Rossana Tessitore, Alberto Mangano, Antonella Sgrillo, Aldo Penna Cari proibizionisti, beati voi che amate l’ignoranza... di Maria Antonietta Farina Coscioni* e Carla Rossi** Il Dubbio, 28 ottobre 2016 Joseph Goebbels, il capo della propaganda nazista, lo aveva ben compreso: "Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità". È quello che accade un po’ tutti i giorni. Federica Colonna, in un suo studio su "Politica e informazione: la verità è morta e sepolta", apparso su Strade online, ci ricorda che viviamo tempi in cui si viene indotti a credere " (?) in quello che ti convince di più, indipendentemente dalle prove che possiedi. È il mantra della politica e della comunicazione post-verità, alla quale i social media fanno da cassa di risonanza e della quale siamo tutti un po’ vittime". Questo Mantra è tipico di chi, per esempio, sostiene le leggi proibizioniste sulla droga in generale, e sulla cannabis in particolare, anche quando le "prove" scientifiche sono a disposizione di quanti vogliano "conoscere la verità": c’è ormai una pressoché generale concordanza a livello mondiale nel riconoscere il fallimento globale dell’approccio proibizionista. Eppure? Un esempio di "verità" negata (e di sotteso approccio squisitamente ideologico e preconcetto) alla questione, viene da un recente convegno, "Cannabis, non è mai leggera. Droga, mafia, legalità", organizzato dai senatori Carlo Giovanardi e Maurizio Gasparri (che, beninteso, nulla hanno a che spartire con Goebbels, ma fanno uso della sua "tecnica"). Scopo dichiarato del convegno: mettere in guardia dalla pericolosità della legalizzazione della cannabis e riaffermare che legalizzare sarebbe semplicemente un favore alle organizzazioni mafiose e criminali. Se queste tesi si fondassero su elementi "scientifici", frutto di attente e rigorose analisi e ricerche, benvenute. Il confronto e la discussione sono sempre utili. Ma quando si fa ricorso, come hanno fatto i relatori, unicamente a ideologia e preconcetto, cosa si può mai opporre? Quando si riportano dati che non corrispondono alla realtà, quando si dimostra letterale ignoranza, e passi per certi politici, che da tempo hanno dimostrato d’essere quello che effettualmente sono, ma ben più grave quando quella "ignoranza" è condivisa anche da procuratori e giuristi come Nicola Gratteri. La non conoscenza del tema di cui parlano è innanzitutto evidente nell’utilizzare liberalizzazione (Giovanardi in particolare) o legalizzazione indifferentemente, mentre sono concetti completamente opposti e causano situazioni altrettanto opposte. I dati sulle conseguenze della legge proibizionista attuale, e tanto più della Fini-Giovanardi, mostrano in realtà che la liberalizzazione di fatto è una loro conseguenza, si può dimostrare, obbligata. Per completezza (e anche per motivi etici) però commentiamo subito un’idea generale sostenuta da tutti gli intervenuti, che compare anche nel titolo del convegno, ed è estremamente dannosa, come si può dimostrare con i dati. Tale manifestazione di grande ignoranza è nel rifiuto a priori degli aggettivi legati internazionalmente alle droghe: "lieve" o "grave", "leggera" o "pesante". Si dice che tutte le droghe vanno considerate "pesanti" e, quindi, equiparate in qualsiasi legge. Questo concetto qualunquista è assolutamente contrario ai risultati scientifici. Esistono da almeno otto anni scale di tossicità delle diverse sostanze proposte indipendentemente da due scienziati: David Nutt (UK) e Jan van Amsterdam (NL), da cui si può affermare che, pur non essendo identiche, entrambe le scale mantengono la cannabis tra le sostanze meno tossiche, anche rispetto all’alcol e al tabacco e alle buprenorfine e benzodiazepine. Solo per fare un esempio il valore sintetico di tossicità dell’alcol è 2,18 e quello della cannabis 1,18, dell’eroina 2,51 e della cocaina 2,07 (minore dell’alcol). Invece l’ equiparazione ideologica di tutte le sostanze è stata l’idea alla base della Fini-Giovanardi e ha creato conseguenze devastanti in Italia, riguardanti soprattutto l’uso tra i giovani, che è stato misurato. L’equiparazione delle pene per ogni tipo di sostanza spacciata ha spinto, per convenienza, gli spacciatori italiani al dettaglio a vendere contemporaneamente diversi tipi di sostanza e quindi indotto Gratteri a sostenere la tesi che, se anche non si dovessero fare interventi di repressione contro lo spaccio di cannabis per la legalizzazione, non si risparmierebbero risorse, perché la cannabis si spaccia insieme alle altre sostanze, e dalle stesse persone. In parte è stato vero e questo è il risultato della Fini-Giovanardi: dal 2006, più di quanto accadeva in precedenza, ma non sempre come dice Gratteri, si sono spacciate diverse sostanze contemporaneamente. Il fenomeno è dimostrato soprattutto, da un lavoro internazionale basato sulle indagini sulla popolazione studentesca in cui risulta che il "poliuso", generato dal polispaccio, è a un livello altissimo in Italia: i giovani 16enni italiani hanno un livello di "poliuso" maggiore di quelli di tutti i paesi (38 in tutto) dell’indagine Espad 2011. Va però aggiunto che solo una parte di luoghi di spaccio è un "supermercato" di sostanze. Ora la Fini-Giovanardi non è più in vigore dal 2014 e si analizzeranno i dati Espad del 2015 per verificare se il poliuso giovanile in Italia si è ridotto per la riduzione della convenienza del polispaccio di nuovo con la Jervolino-Vassalli. Ma, rispetto alla frase qualunquista di Gratteri sui supermercati delle sostanze, vale quello che dicono i numeri "veri" relativi allo spaccio, che in questo caso, sono stati stimati e riportati nel libro che abbiamo curato "Proibizionismo, criminalità, corruzione". Negli ultimi anni il numero medio di lavoranti di livello medio-basso nell’offerta di cannabis è 250mila, nella cocaina 190mila e nell’eroina 90mila. Se si analizzano i dati relativi alle denunce e ai sequestri nei rapporti Dcsa, si scopre che sono molto meno di metà i casi in cui si sequestra più di una sola sostanza, quindi almeno 150mila spacciatori di cannabis lavorano solo su questa sostanza, ovvero più della metà verrebbero "legalizzati" o eliminati e sostituiti da venditori legali. In parole e conti rozzi si eliminerebbe almeno la metà delle operazioni di riduzione dell’offerta e, quindi, si avrebbero a disposizione risorse per più importanti interventi, come dice la Direzione Nazionale Antimafia che, del resto, possiede i dati più affidabili e completi perché linkabili tra vari data sets, come nessun altro Ente possiede, e ha dimostrato di saperli usare scientificamente senza cappelli ideologici": Se è vero che legalizzare le droghe leggere porterebbe "ad una perdita secca di importanti risorse finanziarie, per le mafie e per il sottobosco criminale che, ad oggi, hanno il monopolio del traffico" dall’altra parte ci sarebbe una contestuale acquisizione di risorse finanziarie per lo Stato, attraverso la riscossione delle accise. E anche per la lotta al terrorismo (elemento prioritario dell’agenda politica internazionale) potremmo assistere "al prosciugamento, in una più ampia prospettiva di legalizzazione a livello europeo, di risorse economiche e finanziarie per il terrorismo integralista che controlla la produzione Afghana di cannabis". In conclusione, (scrive la Dna) potremmo assistere "ad un vero rilancio ? attraverso la liberazione e l’acquisizione delle predette risorse ? dell’azione strategica di contrasto, che deve mirare ad incidere sugli aspetti (davvero intollerabili) di aggressione e minaccia che il narcotraffico porta sia alla salute pubblica (attraverso la diffusione di droghe pesanti e sintetiche) che all’economia ed alla libera concorrenza (attraverso il riciclaggio) ". Un altro punto comune a molti relatori è il riferimento alla cannabis modificata, con THC più elevato, messa in circolazione e quindi più "pesante", osserviamo che istintivamente sembrano considerare la pesantezza e leggerezza delle sostanze quando risulta comodo per giustificare l’opposizione alla legalizzazione. Ma proprio questa informazione rende ancora più urgente la legalizzazione in quanto la sostanza legalizzata sarebbe sottoposta a controllo, mentre quella venduta al mercato nero non lo è e viene modificata per rendere più "legati" i consumatori. Consideriamo ancora i numeri snocciolati dal procuratore Gratteri che sostiene che non ci sono tossicodipendenti in carcere, perché non si viene arrestati se si possiede un grammo di cocaina (in parole povere: se si viene scoperti con poca droga e quindi classificati consumatori). Affermazione confondente per chi ascolta. Stranamente in questo caso un giurista utilizza l’art. 75, relativo al consumo, per supportare il dato falso sulla non presenza di tossicodipendenti in carcere, sostenendo che lo stato di tossicodipendente (meglio si dovrebbe dire di "consumatore"), non implica l’incarceramento; ne deriva, come dice il procuratore, che se un tossicodipendente è in carcere deve aver pure commesso qualche azione violenta (anche un omicidio) sotto l’effetto delle sostanze. Non è così. I tossicodipendenti in carcere sono circa un terzo dei detenuti; sono finiti in carcere non tanto per azioni violente commesse sotto l’effetto di droghe, quanto per crimini connessi alla necessità di autofinanziare l’acquisto delle loro droghe. Su questo i dati "veri" sono forniti e pubblicati a cura delle regioni e del Direzione Amministrazione Penitenziaria. A disposizione ci sono anche dati europei. Infine, la Strategia europea 2013-20 sostiene che si debba: "Ingrandire lo sviluppo, la disponibilità, e la copertura delle misure di riduzione della domanda di droga nelle prigioni, in modo adeguato e basato su una corretta valutazione dello stato di salute e delle necessita dei detenuti, con lo scopo di raggiungere una qualità di cura equivalente a quella a cui si provvede nella comunità e in accordo con il diritto alla cura della salute e alla dignità umana come onorata nella Convenzione europea sui diritti umani e nell’atto costitutivo europeo dei diritti fondamentali. Dovrebbe essere assicurata la continuità di cura in tutte le fasi del sistema di giustizia criminale e dopo il rilascio". Ancora: Gratteri afferma, parlando degli effetti della legalizzazione del 2012 nello stato americano del Colorado, che nel 2012, 2013 e 2014 si è registrato un aumento dei crimini 6,2%, e una crescita dei reati di 10861 per implicazioni violente, e 33411 contro il patrimonio nel 2013; inoltre si è impennato del 66% per cento il numero degli incidenti mortali dovuto alla marijuana, e un aumento dei consumi nel 2013-2014 del 32% per cento rispetto il biennio precedente. Peccato solo che il primo punto di vendita legale per uso non medico della marijuana risalga al primo gennaio 2014 e occorre tener conto che chi diffonde quei dati è quel Tom Gorman, direttore di Rocky Mountain High Intensity Drug Trafficking Area program, che il Denver Post ha etichettato, un "soldato della Guerra alla droga" (drug-war soldier) che non si ricorda che la battaglia è finita. I sostenitori della marijuana terapeutica chiamano lui il comandante di una "guerra ai pazienti", dato che dietro le quinte lui sta aiutando a maneggiare la legislazione dello stato per distruggere la crescita del settore dispensario statale. Gorman è autore di rapporti annuali nei quali dichiara anche (sue opinioni non suffragate da dati scientifici) che ogni volta che si legalizza una sostanza l’effetto immediato è quello che un numero sempre maggiore di persone ne faccia uso, con la conseguenza che più persone consumano una droga più crescono gli effetti negativi sulle loro vite; e aggiunge che chi beve alcol, non per forza si ubriaca, mentre chi fuma marijuana lo fa per sballo, parole riferite "pomposamente" da Gratteri al convegno. Al contrario: i dati ufficiali sull’uso tra i giovani in Colorado sono più rassicuranti, come rilevato dai risultati di un’indagine statistica che ha coinvolto 17mila ragazzi delle scuole medie e superiori, e un rapporto ufficiale del marzo 2016, dove si evidenzia come i guidatori sotto influenza di marijuana, anche insieme ad alcol o altre droghe non siano aumentati tra il 2014 ed il 2015. Stessa tendenza per i reati contro il patrimonio, il cui tasso è diminuito del 3% dal 2009 al 2014, mentre quello per i crimini violenti si è ridotto del 6% nello stesso periodo. Non servono commenti ulteriori per mettere in luce la scarsa conoscenza del fenomeno di cui parlano gli oppositori alla proposta di legge in discussione, ma ci sarebbero altri esempi di non verità utilizzati nel convegno. Per chi vuole approfondire le conseguenze delle leggi proibizioniste, ma soprattutto a quanti ne vogliono parlare e discutere, consigliamo la lettura integrale del libro "Proibizionismo, criminalità, corruzione" che abbiamo curato con prefazione di Giovanni Maria Flick (UniversItalia, Roma 2016). Pensiamo che sarebbe utile anche al procuratore Gratteri. Quanto ai senatori Giovanardi e Gasparri, vorremmo sperarlo, ma non osiamo. * presidente Istituto Luca Coscioni ** presidente Centro Studi Statistici e Sociali Roma: terremoto, il terrore dei detenuti intrappolati mentre il carcere trema di Maria Rosaria Spadaccino Corriere della Sera, 28 ottobre 2016 La presidente della Camera, Laura Boldrini, in occasione di una visita il 22 luglio 2013 (erano presenti 1.050 detenuti) lo definì "magazzino di carne umana". Le voci erano tante, insieme al frastuono provocato forse da pentole, scarpe, tazze sbattute ritmicamente, sferragliate sulle grate delle finestre. Prima più lentamente, poi sempre più freneticamente. "Erano moltissime urla, poi sono diventate grida rabbiose, ma dopo poco sembrava un urlo unico, straziante: "Terremoto" "C’è il terremoto", così racconta Patrizia, ristoratrice, la notte del sisma nel rione. Le urla dei carcerati - L’altra sera esplode in modo straziante il dolore corale del carcere di Regina Coeli, le grida terrorizzate di chi non può scappare, di chi può vedere il tetto sbriciolarsi sulla testa restando chiuso dentro la gabbia come un topo. Peggio di un topo. I detenuti della casa circondariale di Trastevere hanno gridato nel vuoto il loro terrore per la scossa delle 19, ed hanno rotto nuovamente il silenzio piovoso di via Lungara dopo le 21. Li hanno sentiti nitidamente nella vicina "Casa delle Donne", dove era in corso una mostra all’interno della rassegna "Raw-Roma arte week", ovvero "La settimana dell’arte contemporanea"; li hanno uditi i residenti che sono corsi in strada terrorizzati dalle scosse. L’edificio seicentesco - Ma ancor più angosciati per le urla provenienti dall’edificio seicentesco, che ha già alcune sezioni chiuse perché necessitano di ristrutturazioni urgenti, tanto che sono state svuotate per la loro inadeguatezza abitativa. "Devo dire che sentire quelle persone urlare in quel modo rabbioso - continua Patrizia - è stato davvero impressionante. Noi eravamo in strada avevamo paura, ma ci siamo sentiti fortunati, eravamo liberi di muoverci. Loro a poche decine di metri da noi erano imprigionati dalle sbarre e dalla paura". La visita di Laura Boldrini - Regina Coeli è il carcere di Roma, quello che "se non sali i suoi tre scalini non sei vero romano", fu convertito nell’uso attuale nel 1881. La sua capienza massima tollerabile è di 750 detenuti, dato numerico spesso ampiamente superato, tanto che la presidente della Camera, Laura Boldrini, in occasione di una visita il 22 luglio 2013 (erano presenti 1.050 detenuti) lo definì "magazzino di carne umana". Roma: caccia ai tre detenuti evasi con le lenzuola dal carcere di Rebibbia di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 28 ottobre 2016 La fuga nella notte, dopo aver divelto le sbarre. I ricercati sono tre albanesi: uno è un ergastolano condannato per omicidio. Sono scappati da una garitta già utilizzata in passato per altre evasioni. Verifiche in corso sui trasferimenti. Tre detenuti sono evasi dal carcere di Rebibbia Nuovo complesso, l’istituto di pena della Capitale che si trova lungo la via Tiburtina. Si tratta di tre uomini di nazionalità albanese: Basho Tesi, 35 anni, condannato all’ergastolo per omicidio, armi e sfruttamento della prostituzione; Pere Ilir 40 anni, condannato per traffico di droga e armi e tentato omicidio (fine pena dicembre 2041); Hasanbelli Mikel, 38 anni, in carcere per sfruttamento della prostituzione e traffico di droga (fine pena marzo 2020).I tre avrebbero approfittato della confusione in carcere legata all’arrivo nella notte dei detenuti dell’istituto di pena di Camerino, trasferiti a Roma in emergenza dopo i crolli nel penitenziario marchigiano causati dalla doppia scossa di mercoledì. Secondo la prima ricostruzione i tre sono scappati calandosi con delle lenzuola all’altezza di una garitta in un luogo dove, in passato, si sono registrate altre evasioni. I tre, da quanto è possibile ricostruire, sono fuggiti segando le sbarre della cella, che si trova al piano terra della struttura carceraria, e hanno appeso una maglietta per coprire il varco realizzato nell’inferriata. Nei letti avevano sistemato delle sagome di cartone per aggirare i controlli. Quindi hanno raggiunto il muro di cinta e si sono calati con delle lenzuola annodate tra loro e con dei bastoni, probabilmente dei manici di scopa. Sindacato polemico - "Personale mancante, strutture fatiscenti, nessuno strumento di supporto alla vigilanza. Ancora una volta a Rebibbia, dopo i fatti dello scorso febbraio, la combinazione di questi elementi determina una ennesima evasione e getta in una grave confusione il carcere romano". È quanto afferma il segretario nazionale della Fp Cgil, Salvatore Chiaramonte, in merito a quanto accaduto stanotte al carcere Rebibbia di Roma, aggiungendo che: "Da tempo, troppo tempo, le nostre denunce sulle condizioni fatiscenti del carcere romano, così come della gran parte del sistema penitenziario, sono colpevolmente sottovalutate. Il risultato è che, ancora una volta, tre detenuti approfittano delle falle del sistema per poter evadere". Quanto accaduto alla casa circondariale romana, infatti, prosegue il dirigente sindacale, "non ci sorprende". A Rebibbia, "dei 992 poliziotti penitenziari necessari, ne risultano presenti 930. Di questi, però, 180 agenti sono distaccati, per la gran parte, in uffici amministrativi, occupati in compiti che potrebbero essere assolti da altri lavoratori pubblici. Il tutto quindi per un totale a Rebibbia di soli 750 poliziotti penitenziari. Un numero tale che, parametrato ai circa 1.400 detenuti presenti, produce un rapporto pari a un solo agente che spesso deve vigilare su 170 detenuti, come accaduto questa notte, attraverso una modalità spacciata per vigilanza dinamica". Milano: un milione di euro per togliere le gabbie degli imputati dal tribunale di Franco Vanni La Repubblica, 28 ottobre 2016 Lastre di vetro antiproiettile, montate su un telaio metallico. Strutture in grado di separare gli imputati ritenuti pericolosi da giudici, testimoni e avvocati, ma più rispettose in confronto alle gabbie da zoo in uso oggi in Tribunale. Potrebbero essere proprio le "celle trasparenti", progettate dall’architetto Carmelo Maugeri, a sostituire le 48 (secondo un primo censimento) gabbie oggi presenti nelle aule delle sezioni penali del Palazzo di giustizia. A chiedere la rimozione delle sbarre sono stati nei mesi scorsi la Camera penale e l’Ordine degli avvocati di Milano. Con lettere ed esposti, le associazioni forensi hanno rivolto il loro "appello di civiltà" alla conferenza permanente degli uffici giudiziari milanesi e allo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "È impossibile garantire il giusto processo se una delle parti è chiusa in una gabbia", dice Corrado Limentani, penalista e consigliere dell’Ordine. Sulla stessa linea le dichiarazioni del presidente, Remo Danovi, per cui "le esigenze di sicurezza, che nessuno mette in dubbio, non possono essere soddisfatte a danno della dignità delle persone". Se da un punto di vista di principio nessuno a Palazzo di giustizia si esprime apertamente contro la sostituzione delle gabbie, a preoccupare i capi degli uffici sono i costi. Secondo una prima spannometrica stima, le nuove celle trasparenti potrebbero costare anche 20mila euro l’una. Moltiplicando la cifra per il numero delle strutture da rimpiazzare, si arriva vicini al milione di euro. "Non è certo la prima volta che un’importante questione che riguarda l’amministrazione della giustizia si scontra con problemi di spesa, ma una soluzione va trovata", dice l’avvocato Enrico Moscoloni, segretario dell’Ordine, che prende parte alle riunioni della conferenza permanente incaricata di decidere sull’edilizia del Palazzo di giustizia e sul funzionamento degli uffici. Il tema della sostituzione delle gabbie con strutture più dignitose fu posto dal Partito radicale già negli anni Settanta, ai tempi del terrorismo politico e dei sequestri di persona. Nei decenni successivi, la questione è stata più volte sollevata da avvocati e parenti degli imputati, tanto che una decina di anni fa una prima (e per ora unica) cella trasparente fu installata nell’aula H del tribunale. Anche allora si ritenne che - per quanto adatta all’uso, sicura e ben ventilata - la struttura fosse troppo costosa, e il programma di sostituzione fu interrotto sul nascere. Un mese fa, a margine di un incontro a Roma sulle carenze di organico in procure e tribunali, un dirigente del ministero della Giustizia fece informalmente sapere agli avvocati milanesi che la questione delle gabbie "è di competenza dell’ambito territoriale, in un’ottica di autonomia". Tradotto: se a Milano volete sostituire le gabbie fate pure, pagate l’intervento con i fondi a disposizione dell’amministrazione a livello locale. Poi, nel caso, provate a chiedere risarcimento agli uffici centrali. Napoli: caro prezzi nel carcere di Secondigliano, è rivolta di Giuseppe Letizia Cronache di Napoli, 28 ottobre 2016 Lettera di protesta dei detenuti: i costi di alcuni prodotti di prima necessità sono quasi raddoppiati in pochi giorni. Lo sfogo dei reclusi: non abbiamo possibilità di scelta, è una vera ingiustizia sociale. I detenuti non ci stanno e hanno scritto una lettera di protesta: troppo alti i prezzi degli alimenti venduti nel carcere di Secondigliano, in un sistema di monopolio (dove i reclusi non hanno scelta). Anche beni di prima necessità hanno "prezzi alti e superiori alle media", nonostante gli acquirenti siano persone spesso con grandi difficoltà economiche. I detenuti parlano di un fenomeno diffuso: il caro prezzi, "ma noi non abbiamo alternative, non possiamo comprare altrove". Alla lettera allegano il prezzario e sottolineano il costo di alcuni beni: 500 grammi di provola 4,30 euro, un chilo di banane 99 centesimi, cento grammi di prezzemolo 0,26 euro, una bottiglia di olio extravergine da un litro 4.99 euro, 250 grammi di caffè 2,70 euro, un chilo di scarole in confezioni 2,30 euro. una singola bottiglia d’acqua da un litro e mezzo va da 0,37 a 0,55 euro. E così via. I detenuti evidenziano nel prezzario anche alcuni articoli da cucina, come la bomboletta gr. 190 (2,05 euro) e una serie di articoli natalizi: biglietti augurali (1.35 euro), datteri gr. 250 (1,49 euro) e i mustaccioli gr. 400 ( 4,50 euro). E ancora: carta igienica 10 rotoli (2,42 euro), l’accendino bic (1.02 euro). È il cosiddetto "sopravvitto", affidato in appalto ai privati: il detenuto può comprare alcuni beni di prima necessità e altre piccole cose che possono servire nel quotidiano, compilando un modulo. Nella lettera di protesta i detenuti spiegano che "alcuni prezzi sono stati quasi raddoppiati in poco tempo, come le banane, e se andiamo a protestare i prodotti vengono eliminati dall’elenco della spesa, che già offre poco". Un rapporto di Antigone del maggio 2015 traccia uno spaccato dell’istituto penitenziario di Secondigliano: il servizio mensa copre l’intera popolazione detenuta e prevede un costo a persona di 3,74 euro al giorno (colazione, pranzo e cena). Il sopravvitto si aggira intorno ai 200.000 al mese. Nonostante il sovraffollamento carcerario sia inferiore rispetto a quello di altri istituti, la capienza regolamentare del centro viene regolarmente raddoppiata. Sebbene le celle siano piccole e progettate per una sola persona. quasi tutte vengono utilizzate per prassi consolidata da due detenuti, attraverso l’utilizzo di letti a castello. I bagni sono piccoli e privi della doccia interna. Le celle hanno uno spazio ristretto e insufficiente per due persone. Questo costringe i detenuti a gravi situazioni di difficoltà, soprattutto durante il periodo estivo. L’accoglienza del carcere è destinata in buona parte anche ai detenuti imputati. Questo crea notevoli problemi organizzativi e non sempre consente una fattiva e concreta progettualità. La situazione è - ad oggi - temperata dall’adeguamento del Centro al "sistema a celle aperte" che consente ai detenuti maggiore libertà di movimento e la possibilità di trascorrere diverse ore fuori dalle celle, all’interno delle sale ricreative, scolastiche e dei cortili esterni all’isti tuto. Il direttore: controlli periodici sulla spesa verifiche nei market "Facciamo dei controlli periodici sui prezzi, ci obbliga la legge". Il direttore del carcere di Secondigliano spiega come stanno le cose. Liberato Guerriero è perentorio: "Non abbiamo margini decisionali, regolarmente compariamo i prezzi con quelli dei supermercati nella zona e dove troviamo discrasie, interveniamo nel più breve tempo possibile". E ancora: "Non è la prima volta che mi segnalano un aumento dei prezzi. Noi attiviamo subito i nostri controlli interni". E senza prender fiato: "Su questa questione c’è una grande attenzione. Oltre ad essere una questione morale, per tutelare i detenuti". Il rapporto di Antigone del 2015 racconta che "le condizioni strutturali del centro sono parzialmente migliorate negli ultimi anni". Anche sotto l’aspetto strutturale: "Grazie, ad esempio, ad alcuni interventi di manutenzione che hanno interessato infiltrazioni esistenti su diversi piani. I lavori ancora in corso riguardano le docce comuni e l’impianto elettrico, per l’installazione del comando interno ad ogni cella, finora non esistente. Nel reparto Liguria sono stati installati pannelli solari sul tetto, allo scopo di migliorare l’utilizzo dell’acqua calda per tutti i detenuti, ancora insufficiente". Torino: lavoro volontario e accessorio in città per i detenuti del "Lorusso e Cutugno" agoramagazine.it, 28 ottobre 2016 Città di Torino, direzione della Casa Circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino e Amiat, società del Gruppo Iren sottoscrivono un Protocollo di Intesa per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità nell’ambito della cura e manutenzione di spazi pubblici urbani, in favore della comunità locale, da parte di soggetti in stato di detenzione presso la Casa Circondariale. La durata del Protocollo è di circa sei mesi. Le attività saranno organizzate in tre moduli, di sette settimane ciascuno, coinvolgendo per ogni modulo circa trenta detenuti. Le persone in regime carcerario che beneficeranno della possibilità di lavorare all’esterno del carcere saranno individuate dalla Casa Circondariale; le attività saranno svolte a titolo volontario e gratuito. I costi assicurativi per la copertura di eventuali infortuni e malattie professionali, oltre alla Responsabilità Civile verso terzi, saranno a carico della Città di Torino che si potrà avvalere delle polizze già attive, a nome dell’Amministrazione. La Città di Torino integrerà i moduli di lavoro volontario con attività in regime di lavoro accessorio per la durata di una settimana, attraverso un contributo della Compagnia di San Paolo e la collaborazione della "Casa di Carità Arti e Mestieri" di Torino che sarà il datore di lavoro ed erogherà i voucher a favore dei detenuti coinvolti. Sempre la Città fornirà alla Casa Circondariale i titoli di viaggio offerti gratuitamente da Gtt. I detenuti opereranno con la supervisione dei referenti del progetto indicati da Città e Amiat, in costante collegamento con la Casa Circondariale. Amiat metterà a disposizione know how, personale, abbigliamento, adeguate attrezzature e strutture necessarie. Dal progetto AxTo, realizzato dall’Amministrazione comunale per accedere ai finanziamenti del Governo per la riqualificazione delle periferie, potrebbero pervenire altri fondi per estendere da 30 a 40 il numero massimo di persone private della libertà personale da utilizzare per ciascuno dei tre moduli e la realizzazione di un programma di sostegno economico temporaneo, rivolto a persone in difficoltà attraverso la forma del lavoro accessorio, o altra forma meno precaria: 70 persone disoccupate, da individuarsi con apposito bando pubblico. Varese: "Sì, sono loro. Ci hanno aiutato a scappare" di Simona Carnaghi La Provincia di Varese, 28 ottobre 2016 "Sì sono loro". Ha riconosciuto due degli imputati in aula Georgie Bunoro, uno dei tre protagonisti della rocambolesca fuga da film andata in scena al carcere dei Miogni nel febbraio del 2013 a Varese. Alla sbarra ci sono cinque agenti della polizia penitenziaria accusati di aver favorito l’evasione dei tre in cambio di sesso e soldi. "Sì - ha detto Bunoro in aula - avevano contatti con le ragazze. Frequentavano i locali dove le ragazze di Miclea (altro evaso) lavoravano". Il coinvolgimento degli agenti della polizia penitenziaria di Varese esplose nel novembre 2014 quando i cinque presunti fiancheggiatori furono arrestati. Dopo l’evasione le indagini coordinate dal pubblico ministero Annalisa Palomba, si era indirizzate subito verso la pista interna, ma solo negli ultimi mesi gli inquirenti hanno confermato i sospetti di un favoreggiamento. In particolare, una donna, durante i colloqui, riuscì a far entrare una lima nascosta in una cintura e addirittura un cellulare che aveva occultato nella vagina. Pare che alcuni agenti sapessero della ragazza ma abbiano chiuso un occhio in cambio di favori e denaro. La ragazza stessa ha testimoniato e le sue dichiarazioni sono state acquisite dal tribunale. Gli arresti arrivano con ordinanza di custodia cautelare. La fuga dei tre detenuti avvenne il 21 febbraio 2013: si trattava di Mikea Victor Sorin, 29 anni, condannato per sfruttamento della prostituzione, Daniel Parpalia e Marius Georgie Bunoro, 28 e 23 anni, che erano ancora in attesa di giudizio per furto aggravato. Erano nella stessa cella e insieme avrebbero pianificato la fuga. Segarono le sbarre di un bagno e nel cortile fecero una torretta con i cassonetti della carta, scavalcando il muro di cinta con delle lenzuola. Furono fermati poche ore dopo. Gli arresti sono stati effettuati dai carabinieri del nucleo operativo radiomobile di Luino e Varese, dalla polizia penitenziaria, dalla polizia di Stato e dalla guardia di finanza. Effettuate nove perquisizioni sempre a carico di appartenenti alla polizia penitenziaria. Alcuni agenti sono stati prelevati nel carcere di Varese, dove erano stati messi di turno questa notte in vista dell’operazione. Alle persone arrestate gli inquirenti contestano i reati di procurata evasione, corruzione, falso ideologico, minaccia, intralcio alla giustizia. Nel corso del processo, che va avanti da alcuni mesi in molti hanno dichiarato "Tutti quella notte hanno sentito cosa stava accadendo. Era impossibile non sentire quei rumori. L’acqua lasciata aperta non li copriva". Stando ai testimoni l’intero carcere avrebbe sentito quei rumori. Miclea, tra l’altro, il giorno prima, con la scusa di festeggiare un onomastico, avrebbe regalato agli altri detenuti sigarette e altri beni di conforto in suo possesso. Comprese le guardie che quella notte erano in servizio, secondo quanto asserito dall’accusa, in alcun modo avrebbero potuto ignorare, se non volutamente, tutto quel baccano. Secondo il racconto dei testi i Miogni, per molto tempo, avevano riecheggiato dei rumori dell’evasione senza che nessuno degli addetti alla sorveglianza andasse a controllare cosa stesse accadendo. Secondo l’accusa, inoltre, le stesse guardie ritardarono di circa un paio d’ore l’allarme in modo da dare ai fuggiaschi un buon vantaggio sugli inseguitori e potersi mettere in salvo varcando il confine con la Svizzera. E in Svizzera sono stati arrestati due dei tre evasi. L’ultimo si è costituito spontaneamente essendo ritrovato solo e senza mezzi. Gela (Cl): due fratelli ex detenuti lavorano gratis per protesta Giornale di Sicilia, 28 ottobre 2016 Due ex detenuti disoccupati di Gela, i fratelli Rocco ed Angelo Bassora, dopo avere scontato 16 anni di carcere, il primo, 10 anni, il secondo, per estorsione e spaccio di stupefacenti, hanno deciso di protestare, con uno sciopero inverso, cioè lavorando gratuitamente, contro l’impossibilità di trovare un’occupazione a causa dei loro precedenti. Puliscono le aree pubbliche della città senza ricevere un centesimo. Per vivere si affidano ai 90 euro al mese che il Lions Club eroga loro come contributo per mantenere pulita la villetta dell’Acropoli, e ai proventi di qualche vincita con biglietti della lotteria "gratta e vinci" buttati via da giocatori distratti. "Qualche volta ci va bene", dice Angelo Bassora raccontando ai cronisti che, qualche settimana fa, nel cestino di una tabaccheria, hanno trovato un biglietto strappato, sul quale invece era riportata la vincita di mille euro. A bloccare ogni loro possibilità di trovare lavoro interverrebbe il protocollo di legalità voluto dal governatore, Rosario Crocetta, quando fu sindaco di Gela. Le ditte non possono assumere i Bassora perché rischierebbero di apparire collusi con la mafia in quanto ai due è stata riconosciuta l’aggravante di avere agevolato le cosche, anche se loro giurano di non essere mafiosi. Per Rocco Bassora "è come se avessero condannati al carcere a vita noi e le nostre famiglie". A nulla sono valsi gli sforzi di avere costituito da tre anni un’associazione di ex detenuti e una cooperativa di servizi denominata "la Rinascita". Novara: detenuti al lavoro per ripulire la zona del Cim, rimossi quasi 2mila chili di rifiuti novaratoday.it, 28 ottobre 2016 Lungo la viabilità di accesso al Centro intermodale merci di Novara sono state trovate e rimosse anche diverse discariche abusive. Nuovo intervento di pulizia della città da parte dei detenuti del carcere di via Sforzesca, che nella mattinata di ieri sono intervenuti, con il supporto di Assa e sotto il controllo della polizia penitenziaria, nell’area del Cim. Lungo la viabilità di accesso al Centro intermodale merci di Novara sono stati rimossi 1750 chili di rifiuti urbani ed ingombranti. L’intervento di pulizia dell’area è stato svolto dai detenuti volontari usciti in permesso premio, insieme al personale Assa, e rientra nella Giornate di recupero del patrimonio ambientale. Nella stessa zona il personale Assa e i detenuti avevano già svolto un massiccio intervento anche poco più di un anno fa. In particolare, i lavori di ieri mattina hanno interessato via Panseri, via Gargano e le zone limitrofe, compresi i ponti sotto la tangenziale e gli sterrati laterali. In queste aree sono state trovate e rimosse diverse discariche abusive, alcuni pneumatici e due discariche di materiale contenente amianto, che sarà rimosso e smaltito con specifica procedura già avviata. È stata poi effettuata in parte anche la mondatura delle infestanti per creare varchi per l’attività svolta e per mettere in evidenza la segnaletica coperta dalla vegetazione. Genova: carcere di Marassi invaso dalle cimici, riscontrati morsi sui detenuti liguria24.it, 28 ottobre 2016 "Dopo aver rilevato ieri, lesioni da morsi di cimici su un detenuto cinese, ristretto in prima sezione nel carcere di Marassi a Genova, si spera vivamente che le competenti autorità del Provveditorato e del Dipartimento, nonché le autorità sanitarie locali, si attivino con immediatezza per garantire le necessarie attività disinfestanti presso l’istituto penitenziario in cui si è accertata una importante presenza di cimici". Questo il pressante invito del Segretario Regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, Fabio Pagani. "Denunciamo e sosteniamo l’allarme lanciato da tempo - prosegue - non solo cimici da letto, ma anche una massiccia presenza di nidi, residui nidiacei e di escrementi di piccioni negli ambienti penitenziari. Si è dovuto procedere alla chiusura preventiva e cautelare per la disinfestazione di diverse camere detentive ed è del tutto evidente che in una situazione igienico-sanitaria già compromessa dal sovraffollamento ogni ulteriore elemento critico potrebbe far precipitare la situazione". Roma: da Rebibbia a Montecitorio, i detenuti nei luoghi in cui si fanno le leggi di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2016 Mettiamo da parte facili battute allusive su deputati e carcere, tipo la montagna che va da Maometto, o un rapporto iniquo tra puniti e impuniti. Nei fatti, dopo un lungo periodo di lavori preparatori, si è realizzata una delle più rilevanti iniziative promosse dalla scuola interna al penitenziario di Rebibbia. Siamo nell’ambito di "Libertà e Sapere", un progetto di ampliamento dell’offerta formativa con cui da oltre un decennio tentiamo di stabilire collegamenti e promuovere lo scambio di saperi tra mondo recluso e società esterna, attraverso le sue migliori espressioni culturali, istituzionali, politiche, artistiche. Stavolta si trattava di portare i detenuti impegnati nelle discipline giuridiche in visita a Montecitorio, sede della Camera dei Deputati. Inutile sottolineare il carattere di assoluta novità e l’estrema importanza che una cosa del genere assume per l’istruzione in carcere. Massa Carrara: teatro e letteratura per i detenuti di Maria Nudi La Nazione, 28 ottobre 2016 La casa circondariale apuana diventa un grande palcoscenico. Quando il teatro e la letteratura hanno il significato della rinascita, della consapevolezza della propria vita e del percorso che si sta facendo e quando gli attori che si esibiscono hanno alle spalle esistenze difficili: è il significato profondo che hanno l’attività teatrale e la compagnia teatrale del carcere di via Pellegrini. E se questa attività è possibile si deve ad un gruppo di lavoro, che ha l’obiettivo attraverso il teatro di portare fuori dalle mura la popolazione carceraria: la direttrice Maria Martone, lo staff con il quale lavora l’educatrice Lucia Scaramuzzino, Angela Pellegrino che ha il compito delicato di tenere la contabilità, il comandante della polizia penitenziaria Andrea Gavarrino. Un gruppo di lavoro che è sostenuto dal professor Gennaro Di Leo, docente di materie letterarie al liceo classico, e dalla generosità di un istituto di credito la Banca della Versilia, Lunigiana e Garfagnana (la Bcc), che grazie al suo presidente Enzo Stamati ha affiancato i progetti del penitenziario donando un assegno sostanzioso, 9mila euro da utilizzare per le attività teatrli che vengono svolte a quattro mani con il liceo classico e con la collaborazione preziosa di Giuseppe Capuozzo, compositore, autore di documentari. Ieri mattina è stata fatta la consegna ufficiale: la direttrice Maria Martone ha voluto ringraziare la banca per come sta sostenendo l’iniziativa non soltanto dal punto di vista economico che è importante, ma per il sostengo morale, emotivo con il quale sta partecipando. Ieri per la banca oltre al presidente Stamati era presente anche Marco Aspidi, direttore di filiale. Ringraziamenti che sono stati accolti con grande affetto e stima dal presidente Enzo Stamati che ha sottolineato il grande impegno, la grande sensibilità della direttrice e del suo staff. Tutti insieme per portare il carcere fuori dalle mura per mitigare la grande distanza, spesso frutto di preconcetti e diffidenza, tra i detenuti e la società civile. "Siamo riusciti - ha spiegato ieri mattina la direttrice Martone - a realizzare opere teatrali che hanno fatto conoscere il carcere in modo diverso". Dalla lettura classica, ha spiegato il professor Di Leo, i detenuti possono acquisire una maggiore consapevolezza e possono fare un percorso di rinascita facendosi domande sulla loro vita attraverso la conoscenza dei personaggi che interpretano. Il prossimo appuntamento teatrale sarà per il prossimo anno. Isernia: seminario "Giustizia e Misericordia. Percorsi per una giustizia riparativa" agensir.it, 28 ottobre 2016 La Consulta regionale abruzzese-molisana degli Uffici di pastorale sociale e del lavoro della Conferenza episcopale di Abruzzo e Molise (Ceam) promuove un seminario formativo sul tema della detenzione per sollecitare una nuova cultura giuridica e la scelta di soluzioni umanamente percorribili per gestire i penitenziari. "Giustizia e Misericordia - Quali percorsi educativi per una giustizia riparativa" il tema scelto. L’appuntamento è sabato 29 ottobre, dalle ore 9,30 alle ore 13,30, presso il salone della parrocchia "S. Giuseppe Lavoratore", a Isernia. Nel corso del seminario ci saranno interventi di volontari e detenuti, che testimonieranno il percorso di riabilitazione e il cammino riparazione personale e sociale. Interverranno Giuseppe Pergallini, direttore Ufficio regionale di pastorale sociale e lavoro; monsignor Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Bojano e delegato per la Pastorale del lavoro della Ceam ("Giustizia e Misericordia, vertice del Giubileo"); don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri in Italia ("Giustizia e Misericordia nel cammino della redenzione in carcere"); previste testimonianze ed esperienze dal mondo carcerario su "Legame tra carcere, società e riconciliazione". Le conclusioni saranno affidate a monsignor Camillo Cibotti, vescovo di Isernia-Venafro. Migranti. Gli stranieri in Italia sono meno degli italiani all’estero di Tecla Biancolatte Il Mattino di Padova, 28 ottobre 2016 Aprono aziende, lavorano come badanti, comprano casa, fanno figli. Ecco come vivono i 5 milioni di immigrati residenti nel nostro Paese. Il ritratto dal dossier statistico Idos. Per la prima volta dopo tanti anni, il numero degli italiani emigrati all’estero supera quello degli immigrati residenti nel nostro Paese. I primi sono 5 milioni e 200.000, i secondi 5 milioni. Il sorpasso lo racconta il Dossier statistico immigrazione del Centro studi Idos presentato a Roma, al teatro Don Orione, il 27 ottobre mattina. Ogni minuto nel mondo - si legge nello studio -24 persone sono costrette a lasciare la propria terra, per sfuggire a guerre, persecuzioni, disastri naturali, povertà. A fronte di questa mobilità migratoria internazionale, l’Italia non ha subito alcuna "invasione" : lo scorso anno sono sbarcate sulle nostre coste 154.000 persone, il 9 per cento in meno rispetto al 2014, quando i più numerosi erano soprattutto i siriani che hanno poi preferito la rotta del Mediterraneo orientale. Sono istruiti ma fanno lavori al di sotto delle loro competenze. Comprano casa e alle zone ghetto preferiscono quelle abitate dagli italiani. Ecco l’identikit dei 5 milioni cittadini di origine straniera che vivono nel nostro Paese. L’immigrazione in Italia fotografata dal dossier ha il volto di chi compra casa, mette su famiglia, bada ai nostri anziani, crea impresa, chiede e ottiene la cittadinanza italiana. In tutto si contano 1 milione e 150 mila stranieri diventati negli anni italiani. Un salto nel futuro: si stima che nel 2050 il numero salirà a 6 milioni. In un paese come il nostro dove nel 2015 si contano più morti che nascite, sono gli immigrati a dare nuova linfa vitale alla demografia con 72.000 nuovi nati. Rispetto al 2014 l’incidenza degli immigrati sui residenti non è aumentata di molto (+8.3), mentre si registrano aumenti significativi sulle compravendite di case (+8,7), sui matrimoni misti (+9,2), sulle imprese (+9,1). Da dove vengono e dove risiedono. Gli immigrati provengono in maggioranza da Romania (22,9%), Albania (9,3%), Marocco (8,7%), Cina (5,4%), Ucraina (4,6%). La prima regione per numero di stranieri residenti è la Lombardia, la seconda il Lazio, mentre la prima provincia è Roma. Se si tiene conto però dell’incidenza sulla popolazione la classifica cambia: prima regione è l’Emilia Romagna (12%) e la prima provincia è Bologna, seguita da Modena e Reggio Emilia. Trend in continua crescita: le attività gestite da cittadini di origine straniera hanno superato quota 550mila. Sono quasi un decimo di quelle iscritte nei registri delle Camere di Commercio. Boom di imprenditori bangladesi. Lavoro. Gli stranieri occupati nel nostro paese sono 2.359.000, quasi il 3 per cento in più rispetto al 2014. La loro incidenza sul mercato del lavoro è del 10,5, mentre la media Ue si ferma a 7,3. Sempre più stranieri diventano imprenditori: sono 550.000 le attività registrate nel 2015, il 5 per cento in più rispetto a 12 mesi prima. A fronte di un buon livello di istruzione, solo il 6 per cento degli immigrati occupati svolge una professione qualificata e, in media, lo stipendio è più basso del 28 per cento rispetto a quello degli italiani, divario che si amplifica fra le donne. Gli occupati stranieri per il 30 per cento sono operai, ed è immigrato un terzo di chi lavora in agricoltura. Cinque donne immigrate su dieci sono occupate nel lavoro domestico, otto su dieci nel caso delle ucraine. Secondo l’Inps, il 76 per cento di badanti e colf sono di origine straniera. Il dato ufficiale è di oltre 670.000 stranieri, ma se ne stimano almeno altrettanti senza regolare contratto. Rimesse. Nel 2015 gli stranieri hanno mandato a casa 5,3 miliardi, un mare di soldi che rappresenta il più grande sostegno economico per il Paese di origine. Per queste transazioni, usano poco le banche preferendo i servizi di money transfer". Bilancio costi benefici. I dati parlano chiaro, il nostro Paese con gli immigrati guadagna 2,2 miliardi di euro. I conti sono presto fatti: gli stranieri portano alle nostre casse 16,9 miliardi, mentre lo Stato per loro ha speso 14,7 miliardi. Migranti. Non solo Goro. Da Vigevano alla Puglia la protesta dei no-migrants di Irene Mossa Il Manifesto, 28 ottobre 2016 Un presidio di protesta contro il loro arrivo, organizzato dai militanti della Lega Nord. Non hanno ricevuto una bella accoglienza i 16 profughi arrivati martedì a Vigevano. Un presidio di protesta contro il loro arrivo, organizzato dai militanti della Lega Nord. Non hanno ricevuto una bella accoglienza i 16 profughi arrivati martedì a Vigevano e alloggiati in un edificio della cittadina pavese. L’ospitalità ai rifugiati, provenienti da Gambia, Guinea e Costa D’Avorio, è gestita dalla cooperativa Milano Solidale in accordo con la prefettura. Tutto regolare, ma davanti alla palazzina che li ospita in via della Pace, il clima è tutt’altro che pacifico. Molti vigevanesi non sono d’accordo, a partire dal sindaco del Carroccio Andrea Sala: "La prefettura ha agito senza informarci pur sapendo della nostra contrarietà - ha detto - probabilmente per evitare lo scontro con il Comune. Voglio evitare che queste persone siano gli apripista di una massiccia ondata". A Vigevano i cittadini non hanno eretto barricate, come hanno fatto a Goro per impedire a 12 donne africane e ai loro bambini di entrare in paese. Ma se ciò che è accaduto nel ferrarese è molto grave - anche perché ha visto la vittoria degli abitanti contro l’ordinanza del prefetto - episodi simili sono sempre più frequenti, sintomo di un’intolleranza diffusa. A Marina Romea, in provincia di Ravenna, il Carroccio ha annunciato un presidio per domani contro l’accoglienza di 26 profughi nell’hotel Solaria. Proteste anche a Oggiono, in provincia di Lecco, perché un complesso residenziale non sia destinato ai rifugiati. Il "no" ai migranti non arriva solo al Nord: a Bitonto, in provincia di Bari, per l’opposizione degli abitanti sono stati bloccati i lavori di riqualificazione di un edificio da destinare all’accoglienza. Ora il principale timore è che i fatti di Goro possano diventare un pericoloso precedente e che altri Comuni si ribellino ai nuovi arrivi. Il ministro Alfano promette che non sarà così, ma c’è la consapevolezza di una situazione molto difficile al punto che il Viminale ha convocato per il 10 novembre tutti i prefetti per una riunione sull’emergenza migranti. Realtà dei migranti e sovra-percezione barbarica di Walter Massa* Il Manifesto, 28 ottobre 2016 Tonino Perna, ragionando su Calais, nei giorni scorsi si domandava da queste colonne "chi invade chi?". Una domanda che merita una risposta articolata, non semplicistica, che in parte lui stesso ha provato a dare. E sulla quale ritengo utile tornare dato che oramai l’assenza di buon senso nel dibattito pubblico sull’accoglienza pare essere l’unico dato di fatto incontrovertibile. Unito, sembra, a una generale ignoranza sulla materia tanto che secondo una recente ricerca del Centro Studi di Confindustria la presenza di cittadini migranti nel nostro Paese appare "sovra-percepita": da una presenza reale nel 2015 dell’8,2%, la percezione dell’opinione pubblica si attesta al 26%. C’è dunque una dominanza del mondo dell’opinione su quello della matematica, se la vogliamo mettere così, e ciò non aiuta a trovare soluzioni adeguate a problematiche oggettivamente complesse ma che, al tempo stesso, toccano la vecchia Europa e il nostro Paese solo minimamente. È la stessa Unhcr a dirci che nel 2015 sono stati oltre 65 milioni le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo, di cui poco più di 1 milione in Europa e circa 200mila in Italia. Si può parlare dunque di invasione? Di difficoltà nella gestione di grandi numeri? Se entriamo nello specifico dobbiamo registrare che ad oggi, in tutto il Paese, sono poco più di 145mila le persone accolte nelle strutture di accoglienza. E noi siamo 60 milioni. Una percentuale attorno allo 0,24%. Di nuovo, poco? Tanto? La statistica direbbe insignificante ma, nonostante ciò, il tema accoglienza è considerato il problema per eccellenza. Si è costruito un immaginario secondo il quale se non accogliessimo quelle 145 mila persone questo Paese starebbe meglio. Ci sarebbero pensioni migliori, città più pulite, più lavoro, più servizi sociali, più asili nido. Ma sappiamo, sempre scorrendo i dati e la storia di questo Paese, che non è così. Dove stanno i problemi allora? Senza voler scomodare la sociologia una prima risposta c’è, concreta e molto matematica: dal 2007 al 2013 questo Paese ha tagliato il fondo per le politiche sociali di quasi l’80%: si è passati da 2 miliardi di euro a 280 milioni senza che nessuno se ne sia accorto. Almeno così pare. Quel fondo alimentava i trasferimenti agli enti locali, oggi - non casualmente - in ginocchio, senza risorse, strangolati dal patto di stabilità e sui quali ricade per intero il peso dell’accoglienza. Tutto ciò nonostante l’apporto dei cittadini migranti sia diventato imprescindibile, come dimostrano tutti gli indicatori economici pubblici e privati. Ma allora, di nuovo, perché prendersela con i richiedenti asilo? Perché sono il capro espiatorio preferito dalla politica da 25 anni a questa parte e anche perché, in questi anni, lo Stato non è stato in grado di strutturare un vero e proprio sistema di accoglienza (per non parlare di un vero piano sull’immigrazione) degno di questo nome, ma ha preferito, nella migliore delle tradizioni nostrane, la logica emergenziale per gestire un fenomeno epocale. La responsabilità sta qui e sta nella "furbizia" di quei sindaci (purtroppo tanti) che non si sono assunti la responsabilità di concorrere all’accoglienza, scaricando su quei pochi che lo hanno fatto tutte le problematiche del caso. Di comuni come Gorino o Capalbio ne abbiamo troppi in giro per il Paese e anche qui la matematica può chiarire meglio di tante parole: se ciascuno degli 8.003 comuni italiani avesse dato il suo piccolo contributo oggi quelle 145 mila persone sarebbero accolte in piccoli nuclei da 18 (la famosa accoglienza diffusa), che si tratti di Gorino o di Milano. E con una semplice operazione perequativa potremmo gestire il tutto con più serenità e maggiore capacità d’integrazione. Sarebbe un paese forse meno accattivante per media e classe politica in generale - che invece preferiscono le invasioni barbariche - ma forse più efficace nell’affrontare con serietà i problemi del nostro tempo e del nostro Paese. Anche a sinistra dobbiamo avere il coraggio di prendere questa strada, riportando il tutto alla realtà. Senza giustificazionismi di sorta che assomigliano sempre più a una resa culturale all’egoismo e al razzismo. *Presidenza nazionale Arci, coordinatore "sistema di accoglienza" Iran. La scrittrice Golrokh Ebrahimi Iraee in carcere per un racconto mai pubblicato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 ottobre 2016 Il 4 ottobre l’avevano avvisata per telefono: con le buone o con le cattive, la scrittrice iraniana Golrokh Ebrahimi Iraee avrebbe dovuto presentarsi alla prigione di Evin, nella capitale Teheran, per iniziare a scontare una condanna a sei anni di carcere per "offesa alle figure sacre dell’Islam" e "diffusione di propaganda contro il sistema". Venti giorni dopo, hanno usato le cattive, irrompendo nell’abitazione della donna senza alcun documento ufficiale e portandola in carcere. Golrokh Ebrahimi Iraee è stata condannata unicamente per aver scritto un racconto, peraltro mai pubblicato, sulla lapidazione: una donna vede il film "La lapidazione di Soraya M." - basato su una storia vera - e s’indigna a tal punto da dare fuoco a una copia del Corano. Il racconto era stato scoperto il 6 settembre 2014, nel corso di un’ispezione delle Guardia rivoluzionarie nella casa dove Golrokh Ebrahimi Iraee viveva col marito e attivista Arash Sadeghi. In quell’occasione erano stati sequestrati computer, cd rom e altri oggetti personali della coppia. Sadeghi si trova nel carcere di Evin dal giugno 2016 condannato a 15 anni di carcere per "diffusione di propaganda contro il sistema", "collusione contro la sicurezza nazionale" e "offesa al fondatore della Repubblica islamica". Le prove della sua colpevolezza sarebbero costituite da post su Facebook e mail a giornalisti e attivisti per i diritti umani all’estero così come all’emittente Bbc Persian. Dopo il 6 settembre 2014, Golrokh Ebrahimi Iraee era stata trattenuta per 20 giorni a Evin senza poter incontrare avvocati e familiari, subendo estenuanti interrogatori bendata e col volto al muro mentre ascoltava le urla del marito, torturato nella cella accanto. Il processo è stato del tutto irregolare. Dei due avvocati nominati dall’imputata, una è stata costretta dalle minacce ad abbandonare il caso mentre alla seconda è stato impedito di assumerlo. La seconda udienza si è svolta mentre Golrokh Ebrahimi Iraee era in ospedale per un intervento chirurgico. Nel loro commento all’ultimo rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Iran, le autorità di Teheran hanno confermato che la lapidazione è ancora prevista per il "reato" di adulterio e che tale sanzione è "efficace come deterrente e per proteggere la morale". Amnesty International è al corrente di almeno un caso di una donna, Fariba Khaleghi, in attesa di esecuzione dopo essere stata condannata alla lapidazione. Gran Bretagna. Tra i carcerati quelli 18/25 anni rischiano quanto i minorenni di Ivano Abbadessa west-info.eu, 28 ottobre 2016 Alla stregua dei detenuti minorenni, anche i maggiorenni under 25 dovrebbero scontare la pena in carceri ad hoc. Perché, nonostante non siano più dei ragazzini, si lasciano influenzare negativamente dai compagni di cella più maturi e navigati. Una debolezza che, secondo una commissione di esperti del Parlamento inglese, è causata dal fatto che il cervello maschile, rispetto a qualche decennio fa, raggiunge la maturità con 5/7 anni di ritardo. Una vulnerabilità che spiegherebbe, almeno in parte, perché nella fascia di età 18-25 anni il tasso di recidiva è così elevato che il 75% una volta uscito dall’istituto penitenziario nel giro di due anni finisce nuovamente dentro. Filippine. Nelle carceri i detenuti sono rieducati con il ballo tpi.it, 28 ottobre 2016 Sin dal 2007, la danza e l’esercizio fisico sono stati adottati nei penitenziari del paese come metodi per ristabilire ordine e disciplina. Tutto ebbe inizio nel 2007, quando due detenuti rinchiusi presso il centro di detenzione e riabilitazione nella provincia di Cebu, nelle Filippine, decisero di cimentarsi nel ballo ricalcando i passi inconfondibili di Michael Jackson nel celebre brano Thriller. Crisanto Niere e Wenjiel Resane, da trafficanti di droga divennero delle vere e proprie star di internet. Il video che immortalava i due compagni di cella girato nel mese di luglio 2007 venne caricato poi su YouTube, e il risultato fu strabiliante: oltre 50 milioni di visualizzazioni. Per la coreografia, i due uomini si servirono del supporto di altri 1.500 detenuti, e l’effetto fu piuttosto apprezzato. Da allora il ballo è stato adottato come parte integrante del programma di riabilitazione per i detenuti nelle carceri filippine. Nel corso degli anni non sono mancati veri e propri spettacoli organizzati all’interno dei penitenziari. Ancora oggi questi metodi vengono messi in pratica, come mostra un video pubblicato da Al Jazeera. Centinaia di detenuti trascorrono le loro giornate alla ricerca di un qualcosa che possa distrarli dalla routine all’interno delle prigioni, spesso al limite della loro capienza. E l’unico rimedio sono i balli di gruppo. Non solo coreografie messe a punto sui brani più celebri, ma anche nuove attività fisiche che mescolano l’aerobica alla danza, come la zumba. Nove anni fa, l’allora consulente per la sicurezza delle carceri filippine, Byron Garcia, era stato interpellato dalle autorità governative per risolvere i problemi derivanti dalla gestione del penitenziario situato nell’isola di Cebu. Scontri accessi fra gang rivali erano all’ordine del giorno e la corruzione fra le guardie carcerarie dilagava a macchia d’olio. Per far fronte a tutto ciò e ristabilire la disciplina e l’ordine, Garcia decise di introdurre nel programma di rieducazione e riabilitazione dei detenuti anche esercizi fisici, che si sono poi evoluti in vere e proprie sessioni di ballo. Con l’introduzione di queste nuove regole si sono registrati dei graduali miglioramenti: i focolai settimanali di violenza si sono ridotti ed è migliorata la salute dei detenuti. Dopo l’esperienza di Cebu, con i suoi detenuti divenuti un fenomeno su YouTube, altre prigioni filippine hanno cominciato a valutare questo nuovo strumento per ristabilire l’ordine al loro interno. Nel 2011, 425 detenuti presso il carcere Pagbilao nella provincia di Quezon hanno ricevuto addirittura un premio di 500 dollari messi in palio dall’emittente televisiva nazionale per la migliore interpretazione della canzone Papaya Dance. Con l’attuale presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, il suo giro di vite contro trafficanti di droga e la sua lotta per sconfiggere il crimine il problema del sovraffollamento delle carceri è tornato quanto mai attuale. Recentemente, un reportage realizzato dall’agenzia Afp ha mostrato le condizioni drammatiche in cui versano i detenuti rinchiusi nella prigione di Quezon, a Manila. Questa struttura penitenziaria costruita sessant’anni fa accoglie ora quasi 4mila detenuti, cinque volte più della capienza massima consentita.