Amnistia. Perché partecipo alla tragica e shakespeariana battaglia di Pannella di Luigi Amicone Tempi, 27 ottobre 2016 Sembra impossibile cambiare verso alla giustizia italiana cominciando da un’amnistia, passando per l’abolizione dell’obbligo dell’azione penale e dalla separazione delle carriere dei magistrati. Da quando non mi invitano più in televisione è con grande soddisfazione che frequento il Consiglio comunale di Milano. Consapevole di non avere alcun futuro politico. Ma interessato a dare una mano a ristabilire il primato della politica. Che è l’arte del vivere civile. Infatti, diversamente da quel mestiere antico della prostituzione al giustizialismo demagogico, che giura e spergiura di non voler guardare in faccia nessuno, costi quel che costi, anche a costo di far del mondo rovine, come dice un famoso adagio latino (fiat iustitia et pereat mundus) che la leggenda fa risalire a uno degli assassini di Giulio Cesare (e in effetti solo un assassino può amministrare la giustizia così, parandosi dietro "la legge è la legge"; questa fu la difesa di Eichmann e degli altri boia nazisti, "abbiamo obbedito agli ordini, abbiamo applicato la legge"), politica è l’attività - per dirla con Agostino - della città dell’uomo. È trasformare la guerra in mediazione e fair play. Fatta questa premessa olimpica, plaudo da precursore della Conferenza episcopale italiana e invito a partecipare in massa alla "Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà" organizzata dai radicali il 6 novembre a Roma. Intitolata a Marco Pannella e a papa Francesco. Precursori, sì, perché apprendiamo che quest’anno anche la Cei benedice i radicali. E aderisce alla loro marcia. Cosa che non può che farci piacere. Parola di chi ha gridato per molto tempo nel deserto che Pannella ha vinto, a sinistra e a destra, incarnando in sé la mentalità dominante. Ma che non è vero che non si possa stare con lui, buonanima, nell’unica battaglia (e non ultima, poiché radicale fu anche l’ingaggio di Lorenzo Strik Lievers per la scuola libera) che ha un segno di grandezza politica tragica e shakespeariana. Tragica, perché sembra impossibile cambiare verso alla giustizia italiana cominciando da un’amnistia, passando per l’abolizione dell’obbligo dell’azione penale e, non ultima, dalla separazione delle carriere dei magistrati. Tragica, perché come fai a parlare di carceri in un’Italia stordita da molti lustri di forcaioli incarogniti? Tragica, perché sembra impossibile rimettere i piedi per terra e scendere da un pianeta rimasto senz’aria. Agonizzante nel risentimento e inflaccidito nel tenerume. Dove il direttore non gode se non mette in prima pagina vittime e orsacchiotti. E il demagogo deperisce se gli sfugge l’oggetto del suo odio quotidiano. Fuori da questa maestà, la situazione è eccellente. "Eccellente", nel senso inteso dal sanguinario Mao, di "grande confusione sotto il cielo", "favorevole alla rivoluzione". Che è sempre un gioco a somma zero. Guardatevi intorno. Tutto è rivoluzione. Ma così rivoluzione, che se non spaventa più il fatto che devi avere molti quattrini per tenere il passo di una giustizia che magari prima ti assolve, poi ti condanna e, infine, botta di fortuna (ma anche no), conferma l’assoluzione (caso Mediatrade), spaventa che, in assenza della politica, democrazia e stato di diritto vanno a rotoli. E nessuno ci pensa. Tranne quando capita di riflettere su che fine hanno fatto - grazie ai verdetti "rivoluzionari" delle Corti - i pronunciamenti del popolo e le leggi del Parlamento. Dal referendum 2005 alla stepchild adoption 2016. E quanto più sali di grado nelle Corti, tanto più vale quello che diceva Kelsen. Ovvero che dietro il "diritto positivo" non c’è niente. Ma c’è Gorgone. "Il volto del Potere". Tragica, a causa del combinato disposto che ha portato a considerare magistrati come Piercamillo Davigo poco meno di un Hans Kelsen. E il fare legislativo un rimorchio degli indignados di turno. Tragica, perché dopo valangate di leggi anticorruzione e di gazzarre manipulitiste, siamo qui a raccontarci un gioco a somma zero. A dimostrazione che "più la repubblica è corrotta, più promulga nuove leggi" (Tacito). Per concludere la predica sul lato shakespeariano, dirò: sono anche tanti anni che tengo in bella vista il regalo di Carmen Giussani! Mi ricorda il mercante di Venezia, atto IV, scena I. E che "La misericordia è al di sopra del potere scettrato". Ps. E adesso mi piacerebbe correre a sviscerare la storia di una gara d’appalto vinta da un’azienda polacca che ha venduto a Milano ottimi autobus a un ottimo prezzo. E i particolari del ricorso (vincente) al Consiglio di Stato di chi ha perso la gara. Si chiama Fiat Iveco. E i suoi autobus sono costati 5 milioni di euro in più ai contribuenti. Ma non c’è più spazio. E forse è meglio così. I Radicali chiedono lo stralcio delle misure per le carceri dal ddl penale di Calogero Giuffrida blastingnews.com, 27 ottobre 2016 Rita Bernardini prosegue sciopero fame in vista della marcia per l’amnistia. I Radicali pronti per la marcia per indulto e amnistia chiedono lo stralcio delle misure per le carceri dal ddl penale. Prosegue lo sciopero della fame dei radicali in vista dalla manifestazione nazionale del 6 novembre a Roma per #amnistia e #indulto. Solo le misure straordinarie di clemenza ad efficacia retroattiva, auspicate anche da Papa Francesco in occasione del Giubileo straordinario della misericordia, possono sin da subito al problema del sovraffollamento carceri che ancora persiste nonostante i miglioramenti in termini di riduzione con la popolazione carceraria raggiunti con diversi provvedimenti del Governo Renzi, dal decreto svuota-carceri convertito in legge al decreto legislativo sulla depenalizzazione dei reati lievi. Indulto e amnistia, radicali pronti per la marcia del 6 novembre a Roma - A pensarla così sono i radicali che stanno proseguendo il digiuno che va avanti a turno ormai da quindici giorni. Rita Bernadini, presidente onorario dell’associazione Nessuno tocchi Caino e tra i dirigenti del Partito Radicale ha spiegato oggi che per lei Annarita Di Giorgio, Paola Di Folco, Maurizio Bolognetti e Irene Testa, tutti dirigenti radicali, è il quindicesimo giorno di digiuno in vista della marcia per l’indulto e l’amnistia in programma domenica 6 novembre nella Capitale. La manifestazione partirà da Regina Coeli e si snoderà fino al Vaticano dove il Pontefice celebrerà la messa per il Giubileo dei Carcerati. "Solo un provvedimento di amnistia e Indulto - ha ribadito oggi Rita Bernardini invitando a partecipare alla marcia dedicata a Marco Pannella e a Papa Francesco - è in grado di porre fine immediatamente allo scandalo ancora in corso - ha aggiunto la presidente onoraria di Nessuno tocchi Caino secondo quanto riporta l’Ansa - di carceri illegali tanto quanto di una #giustizia disamministrata e ormai al collasso". Ddl penale, Bernardini: stralciare parte sull’ordinamento penitenziario - Una situazione "scandalosa" che persiste ormai da tempo "nonostante - ha ricordato la Bernardini - il messaggio alle camere del 2013 dell’allora presidente Napolitano". Intanto, i ddl per la concessione di amnistia e indulto rimangono arenati in commissione Giustizia al Senato così come il ddl di riforma della giustizia penale. I radicali chiedono al Governo Renzi "di stralciare dal ddl sul penale" la parte relativa alle carceri e all’ordinamento penitenziario "per non vanificare - ha sottolineato Rita Bernardini - il lavoro scaturito dagli Stati Generali dell’esecuzione penale". Durante la manifestazione dei radicali sarà ricordato anche Dario Fo, già vincitore del premio Nobel per la letteratura, che ha sostenuto le battaglie di Pannella per indulto e amnistia. Associazione Antigone, 25 anni per i diritti raccontati in una graphic novel di Sara Dellabella L’Espresso, 27 ottobre 2016 In uscita il 28 ottobre per la Round Robin Editrice "Antigone, 25 anni di storia italiana visti da dietro le sbarre" di Susanna Marietti e i disegni di Valerio Chiola. Tre racconti che attraversano altrettanti decenni della recente storia d’Italia. Voltaire affermava che "il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri": proprio quello che fa l’associazione Antigone da 25 anni, facendosi promotrice di osservazioni e stimolo per una riforma del sistema carcerario italiano. In un anniversario così importante, che segna anche il tempo dei bilanci, l’associazione decide di raccontarsi in una graphic novel, in uscita il 28 ottobre per la Round Robin Editrice "Antigone, 25 anni di storia italiana visti da dietro le sbarre" di Susanna Marietti e i disegni di Valerio Chiola. Tre racconti che attraversano altrettanti decenni della recente storia d’Italia: il carcere emergenziale dei movimenti politici durante gli anni di piombo; il carcere delle stragi mafiose degli anni Novanta; il carcere dell’internamento di massa delle nuove povertà dei giorni nostri. Tre racconti che guidano il lettore in un Paese drammaticamente reale, che negli ultimi trent’anni ha vissuto di emergenze e che sul tema della sicurezza ha giocato molte campagne elettorali parlando alle paure della gente comune. Tre storie che ripercorrono soprattutto percorsi umani all’interno dei penitenziari italiani, dove spesso come racconta Carlo Musumeci da 35 anni detenuto alla pena dell’ergastolo, "va a finire che ci si dimentica da dove vieni e chi sei. Forse perché è l’unica maniera per continuare a sopravvivere. Purtroppo però sopravvivere non è come vivere". Nomi eccellenti dell’associazione come Massimo Cacciari, Luigi Manconi, Rossana Rossanda, Stefano Rodotà, Luigi Ferrajoli (solo per citarne alcuni) hanno avviato in questi anni una riflessione sul sistema carcerario italiano anche nel mondo della politica e nei salotti culturali italiani. Proprio all’abolizione dell’ergastolo fu dedicato il primo convegno pubblico dell’associazione alla Camera dei deputati, quando la Presidente era Nilde Iotti. Nei contributi finali al fumetto è Stefano Anastasia, tra i fondatori dell’associazione e recentemente nominato Garante dei Detenuti, a ricordare i primi anni di una battaglia che è soprattutto politica "sul finire degli anni Novanta è oramai chiaro in che direzione va il rapporto tra politica e giustizia: se vi fu un uso politico della giustizia da parte della politica, alla ricerca di consensi sulla sicurezza dei cittadini, con la minaccia di legge e ordine contro ogni forma di devianza". Perché ad ogni emergenza sociale in Italia è corrisposta una norma sull’inasprimento delle pene. Fu così dopo le stragi di mafia quando fu introdotto il carcere duro, fu così per i pacchetti sicurezza e anche quando di fronte ad un flusso crescente di sbarchi venne introdotto il reato di clandestinità per la quale l’Europa ha bacchettato l’Italia più volte ed oggi il governo vorrebbe cancellare, superando le resistenze del Ministro Alfano. Nella graphic novel si accenna alle violenze che i detenuti subiscono in carcere, alle forme di coercizione alle quali sono sottoposti. Giochi violenti che spesso finiscono nel sangue nelle mura fredde dello Stato. Tortura. Ilaria Cucchi è quella che tira fuori questa parola quando nella postfazione non racconta tanto la storia di suo fratello Stefano, oramai nota, ma dell’approccio della sua famiglia a questo vocabolo. Gente normale che fino al 2009 considerava lo Stato una sicurezza e che anche in quell’occasione aveva certezza che Stefano nelle mani delle Forze dell’Ordine non avrebbe avuto nulla da temere. La storia è andata in maniera diversa, nonostante le perizie che continuano a raccontare un’altra verità, molto più blanda e assolutoria. Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Giulio Regeni sono solo alcune delle morti sospette che hanno interessato le cronache negli ultimi anni, ma ce ne sono molte altre che rimangono taciute. Anche questa volta l’Europa, che non si occupa solo dei nostri conti pubblici, ci ricorda che in Italia manca il reato di tortura. Dopo trent’anni, e a 15 dal G8 di Genova, doveva arrivare il sì del Senato al ddl che introduce il reato di tortura. Invece c’è un nuovo stop. Molto poco renziano. Tutta colpa di un aggettivo ("reiterate"). Ma, soprattutto, della samba che sta ballando l’Ndc di Alfano. E che insidia pure la riforma della prescrizione Al Senato basterebbe mezza giornata per votare la legge che si è arenata nell’aula di Palazzo Madama lo scorso 16 luglio per le resistenze di Forza Italia e di Carlo Giovanardi. "Fino al referendum del 4 dicembre rimane argomento tabù e poi con l’inizio della sessione di bilancio… chissà" confida un senatore del Pd. Tuttavia l’attuale testo in terza lettura al Senato non convince neppure Luigi Manconi che come socio fondatore di Antigone e Presidente della Commissione diritti umani porta avanti le sue battaglie. Ha più volte dichiarato che l’impianto della legge in discussione non lo convince perché la tortura non si può derubricare ad un reato comune, anziché come un reato proprio del pubblico ufficiale per i quali viene prevista una semplice aggravante. Inoltre una legge che vada in questo senso si pone in contrasto con la Convenzione adottata dalle Nazioni Unite nel 1984 e ratificata dall’Italia quattro anni più tardi. Ma oramai anche Antigone è d’accordo che una legge anche imperfetta, farebbe fare al nostro Paese un importante passo avanti per il rispetto dei diritti umani. Sono solo sette articoli e non c’è più tempo da attendere. Morosini (Gip di Palermo): "il 41bis è necessario, ma non diventi una pena inumana" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 ottobre 2016 Il giudice Piergiorgio Morosini è stato titolare di numerosi processi a Cosa Nostra ed estensore di sentenze ai suoi capi storici. Segretario nazionale di Magistratura democratica, nel 2014 è eletto al Csm. Attualmente è membro della prima Commissione, quella sulle incompatibilità. Nel 2012 venne designato giudice dell’udienza preliminare al processo sulla "Trattativa Stato-mafia" in corso a Palermo. Consigliere, secondo molti commentatori, con il nuovo codice di procedura penale non sarebbe stato possibile celebrare il Maxiprocesso del 1986... Ai nostri giorni sarebbe più complicato imbastire un processo di quelle dimensioni. Anche se, ancora oggi, si celebrano processi di quel genere e con molti imputati. Penso al processo "Aemilia" sulle infiltrazioni della ?Ndrangheta in Emilia Romagna. O al processo "Mafia Capitale". Diciamo che oggi, con i riti alternativi come il patteggiamento o l’abbreviato, meno imputati vanno a dibattimento. I collaboratori di giustizia, partendo da Tommaso Buscetta, sono stati determinanti nei processi di mafia. Negli ultimi anni si è registrato un loro netto calo. Come ovviare? Il numero dei collaboratori di giustizia dipende dalle nuove caratteristiche del crimine organizzato. Oggi i gruppi mafiosi fanno maggiore attenzione ai soggetti con i quali condividere le informazioni più importanti e delicate per il sodalizio. C’è una compartimentazione maggiore. Ciò ha condotto anche ad un cambio di strategia investigativa. Facendo maggior ricorso alle intercettazioni telefoniche e ambientali. E questo ha mutato il modo di costruire le piattaforme probatorie sui singoli imputati. Faccio un esempio per quanto attiene la partecipazione ad una associazione mafiosa: un tempo la qualifica di "partecipe" era quasi sempre affidata al pentito che diceva "quello è un uomo d’onore", come si trattasse di un mero status; oggi con le intercettazioni si va alla ricerca di "condotte concrete" circa il contributo effettivamente dato all’associazione, e quindi si rispetta maggiormente il principio della materialità del reato. La stampa ha avuto un ruolo chiave nel Maxiprocesso. I processi di mafia hanno sempre avuto grande attenzione. Non solo il Maxiprocesso. Si pensi al processo per l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, tra i primi grandi delitti di mafia, o ai processi alle cosche siciliane degli anni 20, ai tempi del Prefetto Cesare Mori. Processi le cui cronache vennero riportate anche dal New York Times. Certamente oggi l’attenzione per i processi di mafia non è sovrapponibile a quella degli anni 80 e 90. Ci sono fenomeni nuovi con i quali la criminalità mafiosa si integra, ad esempio con i reati economici e di corruzione. Ed è a questo tipo di processi che oggi si rivolge l’attenzione dei media, come "Mafia Capitale" a Roma oquelli sulle infiltrazioni dei calabresi al Nord, in cui emergono con forza anche le responsabilità di segmenti delle istituzioni e della economia. Il Maxiprocesso è stato uno "spartiacque" nella storia italiana? Si, il Maxiprocesso di Palermo è stato un apripista. E presenta temi ancora oggi attuali. Infatti non era soltanto un processo sulla struttura criminale di Cosa Nostra e sui mandamenti, ma anche sulla influenza del crimine organizzato sulle banche e sulle imprese. Già nel Maxiprocesso entrano le condotte di riciclaggio, le assunzioni di dipendenti segnalati da gruppi mafiosi, ovvero tutte quelle condotte che mirano al controllo economico sociale di vaste aree. Dagli anni 90-92 si è, poi, sviluppata una maggiore attenzione investigativa sui rapporti crimine organizzato-istituzioni. Vale a dire quelle indagini sulla contiguità di "personaggi eccellenti" ad associazioni mafiose. Ma di certe "relazioni pericolose, si parla già nel Maxiprocesso. Il condizionamento mafia-politica, ad esempio la vicenda Dell’Utri. Esiste ancora? Si sono avuti una miriade di processi con sentenze di condanna di soggetti appartenenti alle istituzioni, alla politica, all’imprenditoria per i loro rapporti con il crimine organizzato. Sentenze che fotografano relazioni improprie. È indubbio che Camorra, ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, non sarebbero cosi longeve in Italia da almeno 150 anni se non avessero copertura in segmenti deviati del settore economico, delle istituzioni, delle libere professioni. Mafia Capitale è l’esempio di come per le organizzazione mafiose siano fondamentali le relazioni con soggetti imprenditoriali e con le istituzioni. Il crimine organizzato ha interesse a condizionare le pubbliche amministrazioni, la politica, le forze polizia. Sono soggetti riconducibili a certe realtà che rappresentano il "capitale sociale" delle organizzazioni criminose. Così, ad esempio, la vulnerabilità della Pa costituisce territorio di conquista delle mafie. Che hanno una vera "intelligence" per verificare se nei comuni, nelle regioni, ci siano soggetti corruttibili. La mafia cerca di contattarli e di coinvolgerli. Gherardo Colombo, intervistato da questo giornale, ha detto che inasprire le pene non serve. Concorda? Concordo. La legge Severino potrebbe invece essere di grande aiuto. Penso alla parte che si occupa della prevenzione della corruzione. Quella che prevede la rotazione, il controllo e la specifica formazione dei dirigenti pubblici. A tutti i livelli. Ma questa legge non funziona ancora bene, anche per carenza di risorse. La Procura nazionale antimafia. Serve ancora? È stata una intuizione di Falcone, importantissima e attuale. Il coordinamento delle indagini è fondamentale e va garantito. Al dinamismo dei gruppi mafiosi sul territorio, lo Stato deve rispondere con magistrati e polizia giudiziaria specializzati, che fanno gioco di squadra. Anche perché la mafia cercherà di agire dove questa specializzazione non c’è. Il regime 41 bis. Da molti è visto come strumento di tortura. Sbagliano? È importante come mezzo per evitare comunicazioni verso l’esterno per i boss. Non significa carcere "duro", cioè inflizione di una sanzione che comporta una maggiore sofferenza. Ma è soltanto una misura per evitare il contatto con l’esterno, senza che vada a discapito dei diritti del detenuto. Non deve, cioè, essere "un trattamento inumano e degradante". Alcuni hanno definito Giovanni Falcone un magistrato che voleva passare alla storia per aver combattuto la mafia quando lo Stato non voleva o non poteva farlo. E di aver trasformato le indagini in un gesto "epico". Cosa risponde? Falcone ha portato uno spirito innovativo nella giurisdizione. Ha sperimentato strumenti moderni quali la ricerca del riscontro all’attività dei pentiti, la grande capacità di lavorare in pool, la collaborazione con la magistratura straniera. Una metodologia completamente nuova. A ciò si aggiunge una grande passione civile. Rimane un esempio per i magistrati di oggi. Per la sua tecnica investigativa ancorata ai fatti concreti, fin dal maxiprocesso. Tiziana Maiolo, nel suo libro "1992, la notte del garantismo", ha affermato che se la sezione della Cassazione fosse stata presieduta da Corrado Carnevale, persona molto rigorosa, difficilmente il "teorema Buscetta" avrebbe retto... Per quanto è a mia conoscenza, posso dire che i 5 magistrati che composero quel collegio erano tutti magistrati esperti e di grande professionalità. La Cassazione mette sotto tutela i pm: "più controlli su come archiviano" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 ottobre 2016 Ok alle avocazioni delle Procure generali non solo per inerzia ma anche per dissenso sui risultati. I pg delle Procure generali come sorta di "super pm" controllori del contenuto delle archiviazioni chieste dai pm delle Procure della Repubblica. E dunque legittimati a togliere al pm un fascicolo non solo (come scontato) quando debbano rimediare alla sua inerzia investigativa, ma anche quando (pur alla fine di approfondimenti istruiti dal pm) non condividano le sue richieste archiviatorie e ravvisino "non infondata la notizia di reato", o "ritengano di prospettare un diverso inquadramento giuridico del fatto", o "intendano proporre un diverso taglio investigativo": è l’interpretazione, "estensiva" dei poteri di avocazione (riconosciuti dalla legge alle Procure generali delle Corti d’appello quando le parti lese si oppongano o il gip fissi udienza) con la quale la Procura generale della Cassazione respinge il reclamo della Procura della Repubblica di Milano contro l’avocazione di un fascicolo, che la Procura generale di Milano le aveva tolto in disaccordo con la scelta del pm di chiedere al gip di archiviarlo. Il caso - Nella Procura guidata da Francesco Greco, il pm del pool specializzato Maura Ripamonti aveva a lungo indagato sulla morte di un neonato in un ospedale, infine concludendo (come non di rado nelle colpe mediche) che nella condotta dei sanitari vi fossero stati "gravi profili di colpa", fondanti responsabilità e risarcimenti in sede civile, ma che i risultati delle perizie non consentissero di sostenere in un giudizio penale la prova che proprio quelle condotte avessero causato la morte del neonato. Dunque un caso non di inerzia, ma di valutazione di merito, sulla cui condivisibilità o meno spetta per legge al gip esprimersi nell’udienza di opposizione all’archiviazione su impulso dei genitori. Inerzia estesa - Qui la Procura generale, diretta da Roberto Alfonso, avoca il fascicolo con la pg Nunzia Ciaravolo. La Procura della Repubblica si appella alla Procura generale di Cassazione, dove però il pg Antonio Balsamo (con controfirma dell’Avvocato generale Nello Rossi) sposa la correttezza dell’avocazione richiamando una sentenza del ‘91 e "la più attenta dottrina": il concetto di inerzia "va inteso in senso estensivo", riferibile "non solo all’inattività ma anche al mancato esercizio dell’azione penale", e in senso "funzionale" ad "apprestare maggiore controllo sull’operato del titolare delle indagini e far sì che gli esiti portino a ridurre le ipotesi di eventuale dissenso tra pm e gip". Prevarrebbe, insomma, il principio "del favor actionis, che tende a favorire l’esercizio dell’azione penale quando sorge contrasto sull’accoglimento di una richiesta di archiviazione". Ma per legge non c’è già il gip a valutare se l’archiviazione chiesta dal pm vada respinta o accolta o integrata? Sì, ma "proprio la rilevanza costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale giustifica la previsione di una pluralità di controlli sulla sua effettività": esercitati "sia da un organo giudicante imparziale" e "privo di diretti poteri investigativi" (il gip), "sia da una diverso ufficio della stessa magistratura requirente" (il pg). Il pg di Milano - Nel gennaio 2016, invece, la Procura generale di Cassazione, con il pg Iacoviello, di fronte al pg milanese Isnardi che aveva tolto un fascicolo al pm Scudieri perché questi non aveva ravvisato un riciclaggio e aveva indagato solo 2 dei 4 possibili soggetti, annullò l’avocazione perché "una dilatazione del meccanismo" avrebbe rischiato di "delineare un potere decisorio e istruttorio immanente e alternativo a quello del Procuratore della Repubblica", finendo per "sfigurare l’architettura concettuale del processo" e risolversi in "un controllo sulle scelte investigative", all’insegna di "una aristocrazia intellettuale dell’Ufficio superiore". Il Presidente dell’Anac Cantone: più prevenzione anti-tangenti, ma è allarme fondi di Mauro Salerno Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2016 Si apre anche un fronte Anac nelle inchieste che stanno scoperchiando un fitta trama di corruzione negli appalti delle grandi opere. Il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone è pronto a intervenire azionando il meccanismo del commissariamento degli appalti finiti nella bufera giudiziaria, dopo aver verificato la gravità e la consistenza dei reati contestati. Ma dovrà agire in fretta, considerando l’allarme sulla scarsità dei fondi a disposizione dell’Autorità, lanciato nel corso di un’audizione in Senato sui controlli che l’Authority sarà chiamata a effettuare per garantire la legalità degli appalti per la ricostruzione di Amatrice. Il problema delle risorse - "Siamo alla canna del gas - ha detto Cantone - perché il codice dei contratti amplia a dismisura le nostre competenze. Non chiediamo soldi al Parlamento né al Governo, ma solo di utilizzare i fondi che già abbiamo, perché c’ è una norma del decreto Madia che ci impone un vincolo che ci rende impossibile operare". Senza l’eliminazione di questa tagliola, ha aggiunto l’ex magistrato "dall’inizio dell’anno non saremo più in condizione di svolgere la nostra attività". Nelle pieghe del bilancio dell’Anac si nasconde un "tesoretto" di 82,8 milioni parcheggiati nel fondo cassa, ricavati da una drastica riduzione delle spese di funzionamento. È a queste risorse che l’ex magistrato vorrebbe attingere. Una misura contenuta nelle prime versioni del "decreto Terremoto", che affida diversi nuovi compiti all’Autorità, le avrebbe sbloccate se non fosse stata alla fine stralciata. Ora c’è la possibilità che venga recuperata in fase di conversione in legge del decreto. "Ce lo auguriamo - ha risposto Cantone -. Ma se così non fosse sono certo che verrà lo sblocco di questi fondi avverrà con la legge di Bilancio". Un protocollo di intesa per la vigilanza dei primi appalti - Firmando nel pomeriggio un protocollo di intesa per la vigilanza dei primi appalti per fronteggiare l’emergenza post-terremoto, Cantone è tornato anche sull’inchiesta che ha portato a 31 arresti per corruzione nelle opere sul Terzo Valico e per la Salerno Reggio Calabria, aprendo all’ipotesi di commissariare gli appalti finiti nel mirino delle procure di Roma e Genova. "Abbiamo già chiesto copia delle ordinanze cautelari e valuteremo se ci sono le condizioni per chiedere il commissariamento di alcuni appalti: se necessario, siamo pronti a farlo", ha annunciato l’ex magistrato. L’indagine relativa ai lavori per il Terzo Valico, gestito dal Consorzio Cociv, riguarda l’aggiudicazione di commesse per oltre 324 milioni. In ballo ci sono però gare altrettanto milionarie. Almeno due per un totale di 391 milioni sono state bandite negli ultimi mesi e devono essere ancora formalmente assegnate. "Ho sempre avuto grande preoccupazione rispetto alla figura del general contractor: mi sarei augurato che il Codice degli appalti li avesse definitivamente eliminati, ma li ha significativamente ridimensionati e questa è una delle cose positive che ci sono nel nuovo Codice", ha concluso Cantone. Legnini (Csm): con 500 nomine vinta la sfida dei "prepensionamenti" di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2016 "Più giovani, più rosa, più cultura organizzativa". Il Vice Presidente del CSM Giovanni Legnini riassume con uno slogan il lavoro del primo biennio di Consiliatura che ha portato a rinnovare i vertici della magistratura con oltre 500 nuove nomine, tra incarichi direttivi e semi-direttivi, con una accelerazione imposta dal decreto legge 90/2014 (convertito in legge 114/2014) che ha segnato l’abbassamento dell’età pensionabile - da 75 a 70 anni - impegnando così la V Commissione in un tour de force. "La sfida che ci ha posto il legislatore di fare un ricambio straordinario è stata vinta: lo dicono i numeri e la qualità delle scelte", ha commentato Legnini in conferenza stampa, presenti tra gli altri gli ex presidenti della V Commissione, i consiglieri Maria Rosaria Sangiorgio e Lucio Aschettino, e l’attuale vertice Valerio Fracassi. "Il Testo unico sulla dirigenza - prosegue Legnini - ha giocato un ruolo positivo e fruttuoso prevedendo indicatori precisi da cui non si può sfuggire. Imponendo l’obbligo di formazione per gli aspiranti dirigenti. I corsi, gestiti e organizzati dalla Scuola superiore della magistratura, attualmente sono settimanali ma costituiscono un avvio promettente e segnano un cambiamento nella cultura organizzativa degli uffici". Anche per la Consigliera Sangiorgio "la legge del 2014 ha imposto di tener conto, nelle nomine, dei risultati raggiunti e non solo dei titoli, il che ha favorito l’aumento dei dirigenti donna". Da settembre 2014 al 21 ottobre di quest’anno sono stati conferiti 243 incarichi direttivi (di cui 15 decisi in Commissione, ancora in attesa della delibera Plenum) e 270 incarichi semidirettivi (di cui 20 in attesa della delibera Plenum). Il 31% delle nomine ha riguardato donne (il 25% degli incarichi direttivi, 57 posti; il 37% di quelli semidirettivi, 93 posti). Erano stati il 12% nel periodo 2006-10, il 26% dal 2010-14. "Un dato che va letto - spiega Legnini - considerando che già oggi la maggior parte dei magistrati sono donna". Si riduce inoltre "drasticamente" l’età media della dirigenza che passa da 68 a 59 anni, con una riduzione secca di quasi dieci anni. "Sono stati infatti aboliti i precedenti criteri di nomina che facevano perno sulle fasce di anzianità", chiosa Legnini. Il ricambio poi è stato "elevatissimo" in Cassazione, l’86% dei posti, mentre è stato del 71% in Corte di appello (il 40% per nomine semidirettive), al punto che per Legnini "si respira un vento nuovo nei distretti". In primo grado, invece, il ricambio è stato del 37% per gli incarichi direttivi e del 26% per i semidirettivi. Complessivamente, dunque (senza considerare i 35 non definitivi), in due anni sono stati conferiti il 47% degli incarichi direttivi in organico e il 30% di quelli semidirettivi (478 su di un totale di 1307 posti). L’attuale Consiglio ha così licenziato il 56% di nomine in più rispetto alla consiliatura 2010/12. "I tempi per le nomine direttive però rimangono troppo lunghi" ha proseguito Legnini, "anche se si sono ridotti, passando da 323 giorni nel biennio 2006-08, a 341 in quello 2010-12, fino ai 295 giorni del biennio attuale". Per le funzioni semidirettive invece si è passati dai 502 giorni della prima consiliatura ai 299 di oggi. Tempi, però, precisa il Consigliere Aschettino, che tengono conto "dell’intera procedura che va dall’apertura della pratica alla delibera di conferimento". "Guardando all’età - prosegue Aschettino - il rinnovo porterà stabilità per i prossimi 8 anni ai vertici della magistratura". Le consigliere Balducci e Casellati hanno infine sottolineato che "le nomine sono avvenute nella maggior parte dei casi all’unanimità grazie all’adozione di un criterio meritocratico". È reato poter spiare i dipendenti di Dario Ferrara Italia Oggi, 27 ottobre 2016 Resta reato installare telecamere in grado di spiare i dipendenti anche se il datore di lavoro non le utilizza. Scatta l’ammenda, quindi, per il datore che ha installato in sede telecamere in grado di spiare i dipendenti mentre lavorano, anche se poi l’occhio elettronico rimane spento: si tratta infatti di un reato di pericolo perché la norma dello statuto dei lavoratori persegue la possibile lesione della riservatezza degli addetti quando l’impianto non è autorizzato dai sindacati o dalla direzione territoriale del lavoro. È quanto emerge dalla sentenza 45198/16, pubblicata il 26 ottobre dalla terza sezione penale della Corte di Cassazione, con la quale è esclusa la depenalizzazione ex dlgs 8/2016 perché come sanzione risulta previsto l’arresto in alternativa all’ammenda. Ed è il codice privacy, nei fatti, a far scattare la punizione con il suo richiamo allo Statuto dei lavoratori. È stata, dunque, confermata l’ammenda di mille euro alle amministratrici della società coinvolta poiché l’ispettore del lavoro ha riferito che dai vari angoli del locale spuntavano telecamere collegate a un monitor che stava nella stanza attigua alla zona dove si svolgevano gli spettacoli. A integrare il reato basta, infatti, l’installazione di sistemi in grado di controllare a distanza i dipendenti, che non siano stati autorizzati dalle rappresentanze sindacali unitarie o aziendali oppure, in mancanza di accordo, dalla direzione territoriale del lavoro. Insomma, per la punibilità non è richiesto il concreto utilizzo. È vero, il codice privacy ha soppresso nell’art. 38, comma 1, dello Statuto dei lavoratori il riferimento all’articolo 4 della stessa legge 300/70. Ma è lo stesso dlgs 196/03 a colmare la lacuna con il combinato disposto dei suoi artt. 114 e 171, che confermano quanto disposto dall’art. 4 dello Statuto e rinviano ancora alle sanzioni di cui all’articolo 38, comma 1, della legge 300/70. Voto "mafioso" con limiti stretti di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 45152/2016. Ingaggiare due uomini di clan per vincere la competizione elettorale non fa scattare automaticamente l’aggravante del metodo mafioso al voto di scambio: è necessario infatti dimostrare che i potenziali elettori percepiscano "un’attività proveniente dal clan" e che dall’indagine emergano vantaggi diretti per l’associazione mafiosa dal procacciamento di voti pagati. La Prima sezione penale della Cassazione (sentenza 45152/16, depositata ieri) ha confermato l’assoluzione - almeno dall’accusa più grave - di un candidato alle elezioni provinciali di Crotone del 2009. Il politico locale, oggi ex assessore, si era rivolto a due appartenenti del clan Vrenna, finiti con lui a processo, per garantirsi l’elezione. Non aveva lesinato in mezzi il futuro amministratore, stando almeno alle sentenze di merito, versando 10mila euro al procacciatore del clan mafioso, investendo in buoni benzina da distribuire "agli zingari" fino ad organizzare - e pagare - le trasferte in pullman della tifoseria calcistica crotonese (e portare tutti i sostenitori il giorno dopo, prelevandoli, al voto di ballottaggio). Nei due gradi di giudizio il candidato e i suoi uomini di macchina del consenso erano stati condannati solo per corruzione elettorale, ma senza l’aggravante del metodo mafioso. La Prima penale, rigettando il ricorso della Procura di Catanzaro, ha nuovamente e definitivamente escluso l’applicazione del dl 152/1991 (legge 203/91), spiegando che l’aggravane mafiosa presuppone un comportamento "ostentato" per incutere timore e per essere percepiti, appunto, uomini di clan che rappresentano interessi del clan e non di un solo concorrente candidato. Resta confermata per tutti gli imputati, invece, la condanna per corruzione elettorale - ingaggi, buoni benzina e trasferte calcistiche. Secondo la difesa quelle attività di "propaganda" sarebbero equiparabili a "cene elettorali", ma la Corte ha differenziato queste seconde - caratterizzate dalla presentazione di un programma e quindi con il rischio di "non voto" dei partecipanti - dalla retribuzione vera e propria per una comunità di elettori. E sempre in tema di amministratori pubblici poco virtuosi, la Cassazione (Quinta penale, sentenza 45009/16 di ieri) ha convalidato e reso definitive le misure cautelari contro i consiglieri comunali di Messina indagati per truffa aggravata, falso per induzione e abuso di ufficio. I quattro consiglieri nel novembre scorso erano stati obbligati a presentarsi alla polizia giudiziaria negli orari di svolgimento del consiglio comunale - con obbligo di firma - e anche in occasione di sedute di commissioni comunali. Il gip aveva applicato questa misura dopo aver accertato che gli indagati avevano l’abitudine, frequente, di firmare la presenza alle attività amministrative - ovviamente assistite da congrui gettoni di presenza - salvo allontanarsene subito dopo. La Cassazione ha respinto la versione delle difese secondo cui il nuovo sistema elettronico di controllo delle presenze in Consiglio comunale avrebbe scoraggiato il reiterarsi delle condotte criminose. Caldaia non disattivata? Omicidio colposo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2016 Corte di Cassazione - sentenza 44968/2016. Rischia l’omicidio colposo il tecnico che controlla la caldaia e non chiude l’impianto, anche se verifica che non è idoneo. La Corte di cassazione (sentenza 44968) sottolinea la posizione di garanzia rivestita dal tecnico che lavorava per una ditta con la quale il proprietario aveva sottoscritto un contratto di manutenzione. Il ricorrente aveva effettuato un paio di controlli a distanza di tempo, dichiarando in un caso la conformità dell’impianto e in un altro segnalando le disfunzioni, a iniziare dalla collocazione in un ambiente non adatto al tipo di caldaia. Per lui, dopo la morte del proprietario della casa dovuta a intossicazione da monossido di carbonio, era scattata la condanna. Il ricorrente aveva fatto presente che altri dopo di lui avevano verificato l’impianto, sottolineando anche l’inerzia di comune e concessionaria del gas. La Cassazione precisa però che quando l’obbligo di impedire un evento ricade su più soggetti che devono intervenire in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva e l’evento non viene meno per effetto del mancato intervento da parte di un altro soggetto anche lui destinatario dell’obbligo di impedire il fatto. La presenza di coimputati in procedimenti connessi, non impedisce dunque ai giudici di affermare la responsabilità di chi per primo aveva visto la caldaia. Secondo il tecnico poi non esisteva una fonte giuridica che gli attribuisse l’autorità di interdire l’uso dell’impianto a un privato: poteri che dovevano, a suo avviso, essere individuati in capo a un soggetto pubblico. Per la cassazione non è così. La fonte normativa è nel Dpr 412/1993 (allegato h) secondo il quale il tecnico deve, nello spazio del rapporto indicato come "prescrizioni", chiarire che, non avendo eliminato i problemi che compromettono la sicurezza, ha messo fuori uso l’apparecchio e diffidato l’occupante dal suo utilizzo. Fatto questo deve anche indicare le operazioni necessarie per ripristinare le condizioni di sicurezza. Per i giudici la dizione "messa fuori servizio" indica chiaramente che questa dove essere effettuata dal tecnico che fa la verifica. Marcia per l’amnistia. Cara Virginia Raggi, ma perché non vieni con noi? di Angiolo Bandinelli Il Dubbio, 27 ottobre 2016 Onorevole Raggi, mi permetto di ricordarle che il 5 ottobre scorso, insieme ad alcuni dirigenti del mio partito, le indirizzai una lettera aperta per invitarla a partecipare di persona alla "Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà" indetta per il 6 novembre. Ma lei non ci ha ancora risposto. Onorevole signora Virginia Raggi, sindaca di Roma, leggo sui quotidiani la notizia del suo progetto di installare una funivia tra i quartieri Casalotti e Battistini. Nonostante io sia stato per circa due anni consigliere comunale di Roma, e frequentemente - prima e poi - mi sia occupato delle vicende della città, non saprei dare un giudizio su questa strabiliante iniziativa, anche se trovo affascinante l’idea di vedere i carrelli della sua funicolare penzolare in mezzo alla città, nel vuoto come tra due cime alpine. È vero che a Roma ci sono altre meraviglie da vedere e scoprire (per dire, lei ha mai visitato la piccola, stupenda Basilica di S. Clemente, non lontano dal Colosseo, qualcosa di unico al mondo?), ma la foto di quei carrelli sospesi in aria non mancherebbe nello smartphone di nessun turista: dopo il Colosseo, sarebbe la seconda attrattiva di Roma. Scherzo e me ne scusi, ma mi guardo bene dal polemizzare con lei, o criticarla, per le scelte urbanistiche o tecnico-strutturali che vorrà fare (speriamo nel più breve tempo possibile, siamo tutti un po’ impazienti), e capisco pure che lei - con la funivia o anche con la storia del complotto dei frigoriferi abbandonati ad arte, per screditarla, tra i cassonetti della mondezza - voglia distogliere un po’ l’attenzione dei cittadini romani dalle tragedie dell’Atac e dell’Ama; quindi auguri alla sua funivia e anche al suo lavoro complessivo - di cui, al momento debito, renderà conto non a me o ai miei amici radicali ma alla intera cittadinanza. Io mi permetto invece di ricordarle, con giustificata impazienza, che il 5 ottobre scorso, insieme ad alcuni dirigenti del mio partito le indirizzai (anche attraverso questo giornale) una lettera aperta per invitarla a partecipare di persona, a nome e in rappresentanza della capitale, alla "Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà" indetta - per il 6 novembre - per onorare la memoria di Marco Pannella e sostenere nel modo migliore Papa Francesco che in quella data celebrerà in piazza San Pietro il "Giubileo del detenuto", come appuntamento conclusivo del suo Giubileo della Misericordia. E a piazza San Pietro si concluderà, partendo dal carcere di Regina Coeli, la marcia. Al nostro invito lei non ha risposto, né siamo stati contattati da alcuno del suo staff. Temo sia non una distratta dimenticanza, ma una precisa volontà sua e della sua amministrazione, di non volere che Roma dia testimonianza di attenzione al dibattito che certamente la marcia farà ancora più crescere, circa la situazione delle carceri e della giustizia nel nostro paese. Posso anche capirla: il suo partito, o movimento, non ama sentir parlare di amnistia o di giustizia giusta, mi pare sia piuttosto collocabile tra gli intransigenti giustizialisti. Però sarebbe bello - ci creda - se lei, nella sua qualità di sindaca - volesse dare a questa città e a tutto il Paese un segnale di partecipazione alla invocazione di papa Francesco alla misericordia. Sarebbe un gesto di umile vicinanza e intelligente comprensione, che il suo leader non potrebbe mai rimproverarle. Suvvia, signora sindaca, ascolti l’appello di quei radicali che, da avversari rigorosi ma leali, non l’hanno mai né aggredita né irrisa (come accade anche oggi con la faccenda del complotto dei frigoriferi). Circola la voce che il 6 novembre lei sarà impegnata altrove. Invii almeno il gonfalone giallorosso: le garantisco che sarà collocato come primo tra i tanti che arriveranno, ci assicurano, da ogni parte d’Italia. Non è bello che Roma manchi all’appuntamento. Toscana: suicidi in carcere, la Giunta regionale approva all’unanimità mozione M5S controradio.it, 27 ottobre 2016 Approvato all’unanimità la mozione del m5s sulle misure di prevenzione dei suicidi nei carceri toscani. Vadi (Pd): "Necessità di interventi strutturali". La Giunta toscana si impegni "ad attivarsi nelle forme e nei modi più opportuni, e nel limite delle proprie competenze, nei confronti del Governo nazionale affinché si adottino nel carcere di Sollicciano, così come in tutte le carceri toscane, tutti i più necessari provvedimenti per implementare le opportune misure, anche di supporto psicologico, dedicate ai detenuti e finalizzate a scongiurare gli episodi di suicidio". È quanto si legge nella mozione presentata dal gruppo m5s e approvata oggi all’unanimità dal Consiglio regionale, dopo l’inserimento di un emendamento proposto dall’esponente Pd Valentina Vadi. L’emendamento impegna a Giunta anche ad attivarsi affinché sia posta maggiore attenzione al personale che lavora nelle strutture carcerarie. Gabriele Bianchi (m5s), illustrando il contenuto della mozione, ha sottolineato che "il livello di democrazia di un paese si vede dallo stato delle sue carceri". Jacopo Alberti (Lega Nord), ricordando come egli stia visitando in questo periodo le carceri toscane, ha concordato "sulla situazione devastante delle strutture" e ha invitato - invito poi accolto nell’emendamento - ad occuparsi anche della difficile situazione in cui versa la polizia penitenziaria. Tommaso Fattori (Sì Toscana a Sinistra) ha ribadito l’esistenza di un problema di modello organizzativo e come "servirebbero meno poliziotti e più educatori e personale che si occupi dei detenuti". Valentina Vadi (Pd) ha definito condivisibile il contenuto della mozione, insistendo "sulla necessità di interventi strutturali"; ha proposto poi l’emendamento sull’attenzione al personale che lavora nelle carceri nell’ottica di arrivare al voto unanime, come poi è avvenuto. Liguria: Sappe; carceri ancora sovraffollate, due interrogazioni parlamentari al ministro liguria24.it, 27 ottobre 2016 "È sempre la Liguria penitenziaria, con i suoi 1.409 detenuti ed un tasso di sovraffollamento pari a 127%, a mantenere la testa della classifica delle Regioni a maggior criticità"- è l’affermazione della segreteria regionale del Sappe, il Sindacato della polizia penitenziaria che intende riaccendere i riflettori sulla Liguria e lo fa a ridosso di ben due interrogazioni parlamentari sulle carceri liguri che hanno l’intento di richiamare l’attenzione del Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Nello specifico cosa accade: "A richiamare l’attenzione - afferma il segretario Michele Lorenzo - è nuovamente il carcere di Imperia dove negli ultimi 10 giorni si sono verificati 3 tentativi di impiccagione da parte di due extracomunitari e di un italiano, ovviamente sventati dal se pur esiguo personale in servizio, ma è anche accaduto che altri 2 extracomunitari si sono auto lesionati. Problematica è divenuta la gestione degli eventi critici di giorno ma soprattutto di notte dove il turno di servizio è assicurato da poche unità di Polizia Penitenziaria - fanno sapere i vertici del Sappe". Roma: detenuto di 48 anni si toglie la vita nel carcere di Rebibbia di Danio Gaeta Cronache di Napoli, 27 ottobre 2016 Da poco aveva interrotto il percorso di collaborazione con la giustizia. Era ristretto a Rebibbia. Ha deciso di farla finita. Schiacciato - forse - dal peso delle sue responsabilità e delle scelte fatte in vita. Diego Basso, 48enne originario di Pianura e detenuto da circa un anno nel carcere dì Rebibbia a Roma, la scorsa notte si è tolto la vita. Secondo quanto è stato accertato dagli agenti della polizia penitenziaria, il 48enne napoletano si è ucciso impiccandosi con un lenzuolo attaccato alle sbarre della prigione. Un gesto estremo. A nulla è servito l’intervento degli agenti che hanno cercato di salvare la vita al detenuto. vano anche il tentativo dei medici del servizio di emergenza presenti nell’istituto penitenziario. Quando ì soccorritori hanno provato a far qualcosa era ormai troppo tardi. La storia giudiziaria di Basso è molto controversa, segnata da continui colpi di scena. L’uomo da qualche tempo aveva avviato un percorso di collaborazione con la giustizia ed aveva raccontato ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli alcuni retroscena della malavita di Pianura. Omicidi, sparatorie e dettagli della lotta tra i Pesce-Marfella ed i Lago. Il 48enne - indicato come appartenente al gruppo Mariella - era indagato per l’omicidio di Francesco Esposito: un efferato delitto avvenuto proprio sul territorio dì Pianura nel lontano 2001. Da qualche tempo, però, l’uomo aveva deciso di interrompere il suo percorso di collaborazione con la giustizia e si era affidato ad un nuovo avvocato: il penalista del foro dì Santa Maria Capua Vetere Anna Savanelli. Nei prossimi giorni era attesa anche un’udienza a suo carico. Intanto i sindacati della Penitenziaria protestano. "Si tratterebbe del trentesimo caso di suicidio nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno". afferma il sindacalista Leo Beneduci che ritiene "fallimentare l’attuale gestione del sistema penitenziario", e chiede "un avvicendamento delle figure di vertice dell’amministrazione centrale, tenuto conto che, a fronte dì una diminuzione del 25% della popolazione detenuta negli ultimi 3 anni, sono aumentati risse, reati, danneggiamenti e aggressioni all’interno degli istituti di pena e i suicidi tra i reclusi sono tutt’altro diminuiti". Il suicidio in carcere di Diego Basso è solo l’ultimo di una lunga scia. Da tempo sindacati ed associazioni denunciano che le condizioni dei penitenziari italiani non sono adeguate. Camerino (Mc): dopo il terremoto evacuato il carcere, detenuti trasferiti a Roma Il Messaggero, 27 ottobre 2016 A seguito delle nuove violente scosse di terremoto, il carcere di Camerino è stato evacuato. I galeotti sono stati trasferiti nel penitenziario di Rebibbia a Roma. A dare la notizia il sindaco, Gianluca Pasqui. "Ci sono circa 40 persone che sono ricorse alle cure dei sanitari, alcune per ferite non particolarmente gravi e altre per malori dovuti allo choc". Il maltempo complica i disagi arrecati dalle forti scosse di terremoto. Diverse famiglie stanno trascorrendo la notte fuori dalle case, soprattutto tra Norcia e Cascia, ma anche a Foligno, Spoleto e in diversi altri comuni della provincia di Perugia. In azione Vigili del Fuoco, Protezione Civile, Forze di Polizia e Volontari. Diversi crolli sono stati già rilevati, soprattutto nella zona di Preci. Torino: proteste e incidenti nel carcere di Ivrea, feriti tre agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 ottobre 2016 Altissima tensione nel carcere di Ivrea. Da martedì sera fino al giorno dopo i detenuti hanno dato vita ad una eclatante contestazione per protestare contro le condizioni di vita detentive. È accaduto al carcere di Ivrea, in provincia di Torino, dove i detenuti, già nei giorni precedenti, si erano resi protagonisti di violente esternazioni nei riguardi della direzione dell’istituto. Per questo motivo erano stati trasferiti nella quarta sezione, dove hanno poi inscenato una protesta più dura: hanno dato fuoco a quanto avevano in cella e poi hanno gettato il materiale incendiato nei corridoi. Gli agenti intervenuti per trarre in salvo i reclusi sono stati aggrediti e tre guardie hanno riportato varie contusioni. La denuncia dell’accaduto arriva dall’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del segretario generale Leo Beneduci: "Sempre più evidente è l’incapacità degli enti dell’amministrazione penitenziaria di provvedere per una gestione oculata trasparente ed economicamente produttiva delle carceri italiane in cui soprattutto le normali attività non si svolgano se non al quotidiano prezzo del danno all’incolumità personale degli agenti di polizia penitenziaria in servizio". Le motivazioni delle proteste vanno dalle condizioni degradanti del carcere fino alla mancanza della tv in cella. L’associazione Antigone, dopo la sua ultima visita, ha redatto un rapporto che analizza le condizioni di vivibilità generale della casa circondariale di Ivrea. L’istituto penitenziario presenta condizioni strutturali piuttosto fatiscenti e poco adatte alla realizzazione di attività. Da un lato, necessiterebbe di massicci interventi di ristrutturazione, al contempo la presenza di vari circuiti (comuni, semi-protetti, primo livello tdp, transessuali, collaboratori di giustizia) rende difficile l’utilizzo al meglio degli spazi. Una delle due sezioni riservate ai nuovi giunti, per esempio, prevede un regime a celle chiuse e mancano gli spazi per svolgere attività al di fuori della cella. Qui le persone rimangono ben oltre il mese previsto, prima di essere collocate in altre sezioni. Si segnala inoltre la grande criticità determinata dalla coesistenza di detenuti omosessuali e transessuali, collocati in un’unica sezione, cosa che ha generato tentativi di violenze scaturiti in una denuncia. La prevista entrata in funzione della nuova sezione per articolo 21 e semiliberi, inoltre, non ha tuttora avuto luogo e continua ad essere utilizzata la vecchia sezione collocata all’interno della zona detentiva. Particolarmente preoccupante - annota sempre Antigone - è la carenza di personale trattamentale: sono presenti soltanto 3 educatori, mentre da più di un anno gli assistenti sociali non frequentano più l’istituto. Una sola psicologa è presente in istituto per 23 ore al mese. Purtroppo anche questo istituto penitenziario risulta sovraffollato. Secondo le ultime statistiche messe a disposizione dal Dap, risultano 225 detenuti su una capienza massima di 192. L’alto numero di isolamenti disposti dalla direzione, insieme ai frequenti atti di autolesionismo, suicidi o di morti per cause da accertare/naturali, evidenziano un clima generale teso all’interno dell’istituto. L’ultimo suicidio c’è stato a luglio di quest’anno, quando un cinquantenne si è infilato la testa in un sacchetto insieme a una bomboletta di gas che poi ha aperto. Roma: tre detenuti evadono da Rebibbia, si sono calati dal muro di cinta con le lenzuola Ansa, 27 ottobre 2016 Tre detenuti sono evasi dal carcere di Rebibbia Nuovo complesso. Sono tre uomini di nazionalità albanese. Sarebbero evasi calandosi con delle lenzuola blu arrotolate e legate ad alcune scope all’altezza di una garitta in un luogo dove, in passato, si sono registrate altre evasioni. La triplice evasione si è verificata stamattina tra le 6 e le 6.15. Nel reparto G9 del carcere, dove erano detenuti i tre albanesi, sono rinchiudi detenuti per reati comuni e i cosiddetti "precauzionali", ossia soggetti accusati di violenze sessuali o ex appartenenti alle forze dell’ordine che vanno tenuti separati da altri ristretti. In base alle prime ricostruzioni, i tre evasi sono riusciti a raggiungere il muro di cinta e da qui si sono calati con delle lenzuola. Nella notte erano stati trasferiti a Rebibbia i detenuti del Carcere di Camerino evacuati per il terremoto e in tutto sono 39 le persone spostate nel carcere romano. Milano: collaborazione tra aziende "ristrette" delle carceri e 4 FabLab laprimapagina.it, 27 ottobre 2016 Innovativi progetti presenti a Smau 2016 frutto della collaborazione tra le aziende "ristrette" operanti nelle case circondariali milanesi e 4 FabLab della rete dei nuovi laboratori accreditati dal Comune di Milano. Oggi la presentazione. L’assessore alle Politiche del Lavoro, Attività produttive e Commercio Cristina Tajani presenterà i progetti in occasione del secondo giorno di Smau. I progetti sono illustrati all’interno dello stand di 50 mq allestito dal Comune di Milano a Smau2016, per consentire alle imprese "ristrette" di ampliare i propri orizzonti e confrontarsi con le opportunità offerte dalle nuove tecnologie, dal mondo digital e dalle startup più promettenti. L’amministrazione promuove le impresse nate all’interno degli istituti di detenzione di Bollate, Opera, San Vittore e Beccaria attive nei settori del tessile, della cura del verde, dell’erogazione di cibi e bevande sino alla lavorazione del legno e dell’arredo. La realizzazione dei 4 progetti può contare su un finanziamento complessivo di 50 mila euro da parte dell’Assessorato alle Politiche per il lavoro, Attività produttive e Commercio. Milano: "borse di lusso prodotte in carcere? Vi spiego come ho fatto" di Laila Bonazzi marieclaire.it, 27 ottobre 2016 Il successo di un business fuori dagli schemi costruito con passione per la moda e per il sociale: Socially Made in Italy l’idea visionaria di Caterina Micolano. Si chiama Socially Made in Italy ed è stata un’idea (visionaria) di Caterina Micolano. È diventato un brand con filiera sociale garantita, che produce borse di lusso nelle carceri femminili di tutta Italia, dove assume detenute con contratti e stipendi regolari. Per farcela Caterina ha coinvolto la cooperativa Alice, una brava designer e maestri dell’artigianalità italiana. "Noi non salviamo nessuno", dice sempre, "ma da cittadini ci meritiamo un sistema carcerario che funzioni e che sia realmente rieducativo". A Milano è aperto anche il negozio Sartoria San Vittore, via Gaudenzio Ferrari 3, storico punto vendita della sartoria che opera all’interno del carcere milanese. Caterina ci ha raccontato la sua avventura dagli inizi, nella nebbiosa provincia piemontese. Tecnicamente sarei un’archeologa, ma da vent’anni faccio tutt’altro mestiere. Sono cresciuta nella provincia piemontese, in una cittadina immersa nella nebbia sotto tutti i punti di vista, di prospettive, di visioni. Abbiamo la nebbia ovunque. Per mantenermi agli studi di archeologia ho iniziato a lavorare in una cooperativa sociale della zona. Ero la classica giovane alternativa, passata dalle attività in oratorio alla passione per i movimenti no global. Nel mio primo impiego ero affiancata a un collega simile a me: entrambi senza alcuna formazione approfondita, ma con una gran voglia di salvare il mondo. Abbiamo iniziato con alcuni ragazzi con disagi psichici che rilegavano libri, imparando tutto da zero in maniera empirica. Mi piaceva l’idea di provare a restituire dignità alle persone attraverso il lavoro. Un grande esempio mi arrivava innanzitutto da mio padre, che mi ha trasmesso anche il senso del dovere: osservavo come lui, falegname, si appassionava a ogni singola curva del legno. Allo stesso modo lavoravo in maniera scrupolosa e in breve sono diventata un riferimento in Regione per la cooperazione sociale e l’inserimento lavorativo. Vocazione d’impresa. Mi sentivo poco a mio agio nei discorsi con i colleghi ai tavoli regionali e nazionali. Tutto ruotava attorno a come convincere le amministrazioni pubbliche o i privati a scegliere le nostre cooperative sociali al posto di aziende tradizionali. Semplicemente perché noi "facevamo del bene". A me veniva il prurito, ma vedevo che tutti annuivano, per cui il problema sembrava essere solo mio. Non volevo che ci trattassero meglio degli altri, volevo che scegliessero noi perché i nostri prodotti e servizi erano validi e concorrenziali. In quel periodo ho fatto un master di management del sociale con una tesi su un progetto per un marchio da realizzare con il settore moda. Lo volevo chiamare "Codice a sbarre". Perché la moda? Innanzitutto perché mi piaceva! E poi perché nel mio mondo di allora rappresentava il nemico da evitare, la vanità, il vuoto, di fronte a noi che invece eravamo i portatori di valori "veri". Per me la moda è comunicazione non verbale e, ben oltre le griffe, trasmette il nostro sentirci belli e a nostro agio. Tutti viviamo di stereotipi legati all’immagine: a quelle riunioni c’erano le scarpe o gli abiti giusti da indossare per essere considerati credibili. Quanto odiavo quei borsoni a righe con la tracolla. "Codice a sbarre" era una formula inedita per tutta la cooperazione sociale, che andava contro tutti i pregiudizi. Il primo fra tutti? Che non potessimo essere competitivi sul mercato. Per esempio: se una cooperativa sociale sbriga le pulizie o si occupa del verde, è solo il risultato che deve contare. Sapete quante tecniche di sanificazione deve offrire un’impresa di pulizie? Mica è roba da dilettanti, è rispetto di un mestiere. Così mi sono buttata nel difficile ambito delle sartorie carcerarie. Un disastro. Dopo corsi di sei mesi si pensava di aver formato delle sarte, con donne che mai, prima, avevano preso in mano un ago. Cura dell’estetica: inesistente. In fondo ci sarà un motivo se i designer studiano per il proprio lavoro. Avevo una filiera sociale garantita, ma avevo bisogno di partner altamente qualificati. Inventarsi un business plan. "Codice a sbarre" era piaciuto anche al Ministero della giustizia, tramite il quale ho incontrato a Milano la cooperativa Alice che da anni gestisce alcuni laboratori di sartoria in carcere, riuscendo a confezionare costumi per la Scala, programmi e spot tv. Dopo il primo incontro mi sono detta: "Finalmente qualcuno che la pensa come me!". Il Ministero ci ha chiesto di sviluppare insieme un progetto, coordinando i vari laboratori tessili nelle carceri. Abbiamo creato una rete nazionale e iniziato a lavorare su gadget, come shopper, bracciali e piccoli oggetti. Servivano competenze tecniche di base, ma abbiamo subito scoperto che è un mercato durissimo, perché in genere sono prodotti importati dall’estero a prezzi con cui non potevamo competere. Abbiamo tenuto aperta questa strada, ma io volevo di più. A una presentazione a Roma, abbiamo incontrato Silvia Venturini Fendi, presidente di AltaRoma, che con schiettezza ed eleganza ci ha più o meno detto: "Un bel progetto dal punto di vista sociale, ma non siete maturi. E mi spaventano non tanto le capacità delle detenute, quanto le vostre incompetenze". Una provocazione e una bella svegliata per me! Dopo qualche tempo mi ha richiamato per consigliarmi la persona giusta per noi, sua sorella Ilaria, che già produceva il suo brand Carmina Campus. Lezione di fashion management n°1: "Non potete competere con i macchinari industriali per produrre gadget, quando in realtà siete delle piccole sartorie. E in Italia sartoria significa Made in Italy, cioè eccellenza artigianale". Una volta metabolizzato questo concetto, l’asticella degli standard da raggiungere si è esponenzialmente alzata. E quindi è nato Socially Made in Italy, un marchio di accessori che vuole unire il messaggio della manualità italiana al valore supplementare della filiera sociale. Dall’inizio il nostro obiettivo è stato quello di essere economicamente sostenibili. Ilaria Venturini Fendi è il nostro "ufficio stile". Al momento produciamo nelle carceri femminili, ma nella mia testa non è escluso che la rete possa estendersi ad altre realtà. Abbiamo ridisegnato la mappa dei laboratori, facendo in modo che ognuno si specializzasse in una tecnica di lavorazione, dal tessuto al feltro, fino alla pelletteria. I più esperti istruiscono gli altri e poi abbiamo invitato formatori esterni di alto livello, come un esperto di pelletteria che lavora anche per Fendi. Fin da subito la selezione del personale si è basata su esperienza pregressa e capacità attitudinali, oltre che su un’imprescindibile serietà. La formazione dura circa un anno, in cui si riceve un compenso come tirocinio, e poi, eventualmente, si viene assunte dalla cooperativa come socie, con un regolare contratto. Nessun paragone con la serie tv Orange Is the New Black, dove le detenute sono praticamente schiave dell’azienda che produce lingerie. Gestione risorse umane. La decisione di produrre nelle sezioni femminili delle carceri non è stata "di genere": le donne detenute vivono oggettivamente una condizione discriminatoria. Sono circa il cinque per cento del totale e abitano in sezioni ricavate all’interno di carceri maschili (sono pochissimi gli istituti esclusivamente femminili). A parte alcune eccezioni, gli ambienti sono davvero opprimenti: sono come prigioni nelle prigioni. E in un momento di risorse limitate per finanziare la formazione, la maggior parte dei fondi finisce agli uomini. Alle "nostre" detenute chiediamo professionalità e serietà e cerchiamo di rieducarle alla bellezza, tramite ciò che producono, e anche attraverso la ritualità del prendersi cura di sé, che per le donne è fondamentale. Imparano a distinguere tra bello e brutto, cioè tra fatto bene e fatto male: il gusto è un’altra cosa. Sono state le loro mani a portarle dentro e saranno le loro mani a farle uscire. La più grande soddisfazione è sentirle dire: "Ho ricevuto un’opportunità, ma la seconda possibilità me lo sono costruita da sola". Noi possiamo metterci il cinquanta per cento, l’altra metà sta a loro. Noi non salviamo nessuno. Per quelle che arrivano da realtà dove la donna si deve occupare solo della famiglia, lavorare è praticamente un atto di ribellione. Ma la soddisfazione di pagare i libri di scuola ai figli le rende determinate e dona di nuovo un valore a un ruolo genitoriale compromesso. Controllo sostenibilità. Non vogliamo contribuire all’inquinamento già causato dall’industria moda. Per questo ci affidiamo a una rete di partner che sposino missione ecologica e qualitativa. Per esempio usiamo Italdenim, l’unico tessuto italiano che rispetta il protocollo Detox di Greenpeace. E da poco collaboriamo su alcuni nuovi prodotti con Alisea, azienda veneta che crea oggetti da materiale riciclato. Con loro stiamo sperimentando l’uso della grafite nelle serigrafie: una sostanza dagli alti costi di smaltimento diventa così motivo grafico, non è geniale? Oggi siamo pronti a produrre per terzi e la mia missione è raccontare alle aziende che non solo ormai siamo maestri nelle cuciture, anche in pelletteria, ma che garantiamo affidabilità e un’organizzazione produttiva che ha il sigillo del ministero della Giustizia. Quando vado a proporre il nostro lavoro, il mondo del carcere non ispira sempre sentimenti positivi: per me il bello arriva quando non mi chiedono da dove arrivano le borse, ma si entusiasmano per la loro bellezza e qualità. Di recente abbiamo allargato la formazione con il sostegno dal progetto È questione di merito, creato da The Circle Italia e FoxLife con il sostegno di Intesa Sanpaolo. Grazie a questi fondi abbiamo istituito tirocini e borse di lavoro a Catania, Brescia, Bollate, Monza e Vigevano. È vero che ormai mi chiamano "businesswoman", ma non dimentico mai la finalità di tutto questo. Noi cittadini ci meritiamo un sistema carcerario che funzioni, che sia realmente rieducativo, come dice la Costituzione. In fondo la pena è commisurata al tempo ritenuto necessario per il cambiamento di quella persona. Se esce e torna a delinquere abbiamo perso tutti, e buttato via dei soldi. E solo il dieci per cento di chi intraprende un percorso lavorativo in carcere commette ancora reati. Punto. Padova: al Due Palazzi proiezione in anteprima nazionale del docu-film "Mai dire mai" tv2000.it, 27 ottobre 2016 Proiezione in anteprima nazionale alla presenza dei detenuti e di mons. Claudio Cipolla. Anteprima nazionale all’interno della casa di reclusione Due Palazzi di Padova, oggi, mercoledì 26 ottobre, del docu-film "Mai dire mai" di Andrea Salvadore, promosso da Tv2000 e Diocesi di Padova. Il documentario, precedentemente annunciato tra le novità dell’anno di Tv2000, in occasione della 73a Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia, è un viaggio attraverso i volti e le storie di chi ha commesso un reato e non solo. Lorenzo, Meghi, Carlo, Armand Davide, Raffaele, Enrico, Chakib, Milva, Kasem, Guido sono dieci volti, storie di vita, ambiti familiari, universi. Dieci persone detenute (otto uomini e due donne) nel carcere "Due Palazzi" di Padova e alla "Giudecca" di Venezia. Le loro esperienze sono narrate in due puntate che saranno trasmesse da Tv2000 in seconda serata, il 6 e 13 novembre 2016, in occasione del Giubileo dei carcerati, nell’anno straordinario della Misericordia voluto da Papa Francesco. Alternano le narrazioni dei detenuti l’intervista al vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla, le esperienze dei cappellani del carcere di Padova, don Marco Pozza, e di Venezia, fra Nilo Trevisanato, il dialogo con i direttori delle case di reclusione Ottavio Casarano (Padova) e Gabriella Straffi (Venezia) e la voce di operatori di altre realtà che operano nelle due "case di pena". Una proposta importante, dirompente, coraggiosa, che senza sconti vuole raccontare umanità, errori e disperazione, dolori e pentimenti, luci e ombre, perdono e misericordia, riconoscere i fatti dando però spazio a speranze e possibilità a percorsi di giustizia riparativa. "Come si fa a raccontare in tv - ha detto il Direttore di Rete di Tv2000, Paolo Ruffini durante l’anteprima - l’incontro in carcere con uomini e donne che stanno scontando pene anche gravissime senza restare prigionieri di stereotipi che non ce le fanno incontrare davvero? Questo documentario prova a rispondere a questa domanda con l’essenzialità estrema e il rigore di Andrea Salvadore, che ci accompagna in incontri che mai avremmo fatto e mai più faremo". "Oggi il Due Palazzi - ha proseguito il vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla - è il centro della città e la presenza delle istituzioni è il segno dello sguardo di Padova in questo carcere. Qui è chiara ed evidente la presenza della sofferenza e dell’errore. In tanti hanno ammesso i propri sbagli e ora stanno pagando. Il fatto che la città sia presente, ascolti, usi la misericordia è davvero un miracolo. La guarigione non è riservata solo a chi ha commesso uno sbaglio ma anche alla stessa città. In questo mondo del carcere c’è bisogno di tenerezza e misericordia. E solo insieme si giunge ad una crescita. I percorsi di formazione fuori e dentro il carcere sono fondamentali: esiste un mondo in cui la misericordia deve essere sperimentata continuamente. Nell’ Anno della Misericordia 30 parrocchie hanno visitato questo carcere: hanno celebrato la messa e ascoltato i detenuti. Così si è creato un legame e dato umanità alla condizione in cui vivono i carcerati. Il documentario di Tv2000 spero sia l’occasione affinché la città si avvicini di più a questo mondo, ripensi se stessa mettendo al centro coloro che si trovano in difficoltà". "Con questo progetto Tv2000 - ha concluso Ruffini - lancia una sfida, innanzitutto a se stessa, affinché la tv non costruisca un mondo di plastica, ma sia capace di capire e raccontare il mondo e anche temi considerati tabù, portando i telespettatori in luoghi e situazioni che altrimenti non avrebbero conosciuto". All’anteprima erano presenti 60 detenuti del carcere Due Palazzi, il vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla, il direttore di Rete di Tv2000, Paolo Ruffini, il regista, Andrea Salvadore, il direttore della Casa di reclusione, Ottavio Casarano, il viceprefetto, Aldo Luciano, il consigliere comunale, Nicolò Calore, la delegata del Rettore per il progetto Poli Carcerari, Francesca Vianello e il generale di brigata, Lorenzo Oscar Silvestrelli in rappresentanza del Provveditorato regionale per il Triveneto. "Mai dire mai" è stato realizzato con la collaborazione della redazione di "Ristretti Orizzonti" e il consorzio "Officina Giotto" e grazie alla disponibilità di: Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria; Corpo di polizia penitenziaria, Casa di reclusione "Due Palazzi" di Padova, Casa di reclusione femminile della Giudecca (Ve), Diocesi di Padova, Patriarcato di Venezia, cooperativa sociale "AltraCittà", Asd Polisportiva Pallalpiede, cooperativa sociale "Rio Terà dei Pensieri", associazione "Il granello di senape". Ferrara: l’1 dicembre nella Casa circondariale un flash mob per la fine del Giubileo agensir.it, 27 ottobre 2016 Giovedì 1° dicembre, presso il Teatro della casa circondariale Costantino Satta di Ferrara, dalle ore 10 del mattino, si svolgerà il primo flash mob in un carcere maschile italiano. Circa 50 detenuti (volontariamente) danzeranno sulle note di "Pope is pop", brano e flash mob dedicati a Papa Francesco in onore del Giubileo e dell’integrazione. Realizzeranno il flash mob, insieme, detenuti dalle svariate provenienze geografiche e culture come greci, rumeni, marocchini, tunisini, inglesi, italiani… e di religioni differenti ossia cattolici, musulmani, ortodossi. L’evento si inserisce nell’iter pedagogico trattamentale che la casa circondariale Costantino Satta di Ferrara porta avanti nei confronti dei propri detenuti e "chiude" simbolicamente il Giubileo, facendo seguito al flash mob "Pope is pop" di apertura del Giubileo stesso che è stato realizzato nella casa circondariale femminile di Rebibbia, a Roma, nell’ottobre 2015. Prima del flash mob vi sarà la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa alla presenza di coloro che organizzano l’evento ossia il direttore del carcere Paolo Malato, Annalisa Gadaleta (comandante del Reparto), Loredana Onofri (responsabile Area educativa), Igor Nogarotto (autore di "Pope is pop"), Roberta Micci (coordinatrice della coreografia con i detenuti). Bimbi "rapiti" dallo Stato, business da un miliardo Simona Musco Il Dubbio, 27 ottobre 2016 30mila ragazzini strappati alle famiglie. Il richiamo dell’Unione europea. In Italia ci sono almeno 30mila ragazzini che sono stati allontanati dalle loro famiglie per i motivi più svariati. Povertà, tossicodipendenze, conflitti di coppia. La gran parte vive di loro vive in case famiglia che ricevono rette variabili a seconda della salute delle casse dei Comuni. In alcuni casi quei bambini valgono 20 euro. Nel migliore dei casi, invece, 500. Si paga di più al Nord, di meno al Sud, dove però il numero di bambini strappati alle famiglie è più alto. Su questo "traffico" è intervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo: "Uno Stato non può legittimamente interrompere il rapporto umano più fondamentale, che è quella tra genitori e figli". Deve essere l’extrema ratio, l’ultima spiaggia. E invece in Italia non è così. "Sono 15 anni che la Cedu stigmatizza il comportamento dell’Italia di recidere il legame tra figli e genitori", dice Anton Giulio Lana, avvocato e professore di tutela europea dei diritti umani, che di casi come questi ne ha seguiti diversi. Lana ha presentato lo scorso 17 giugno una relazione sul tema alla Camera dei deputati, evidenziando l’obbligo dello Stato di non interferire arbitrariamente e, piuttosto, tutelare la vita familiare. Un bilanciamento difficile che ha come obiettivo, sempre e comunque, l’interesse superiore del minore. È un esercito di invisibili. Circa 30mila ragazzini - ma qualcuno è pronto a giurare che siano almeno 50mila - allontanati dalle loro famiglie per i motivi più svariati. Povertà, tossicodipendenze, conflitti di coppia, egocentrismo. Le pratiche, nei tribunali dei minori, si accumulano. A Milano, ad esempio, possono essercene anche sei mila di faldoni in attesa di essere studiati. Loro, intanto, non vedono i genitori, nonostante le direttive europee, che privilegiano il ricongiungimento. Stanno in case famiglia - circa 1800 strutture da Nord a Sud - che ricevono rette variabili a seconda della salute delle casse dei Comuni. In alcuni casi quei bambini valgono 20 euro. Nel migliore dei casi, invece, 500. Si paga di più al Nord, di meno al Sud, dove però il numero di bambini strappati alle famiglie è più alto. Non sono nemmeno tutti uguali, come vorrebbe la Costituzione, questi piccoli soldati, che fanno guadagnare agli istituti circa un miliardo l’anno. I dati scarseggiano, nonostante le prescrizioni di legge: gli ultimi rapporti messi a disposizione dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali parlano di una cifra che si aggira tra i 30mila e le 40mila bambini, prevalentemente di età compresa tra gli zero e i due anni e i tra i 15 e i 17. A leggerli quei pochi numeri a disposizione fanno rabbrividire: il 61% dei piccolissimi finiscono in comunità. Non solo non tornano a casa, dai loro genitori, come vorrebbe la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma non ne trovano nemmeno una "nuova". Le sentenze pronunciate dalla Cedu contro l’Italia parlano chiaro: "Uno Stato non può legittimamente interrompere il rapporto umano più fondamentale, che è quello tra genitori e figli". Deve essere l’extrema ratio, l’ultima spiaggia. E invece in Italia non è così. "Sono 15 anni che la Cedu stigmatizza il comportamento dell’Italia di recidere il legame tra figli e genitori", dice Anton Giulio Lana, avvocato e professore di tutela europea dei diritti umani, che di casi come questi ne ha seguiti diversi. Lana ha presentato lo scorso 17 giugno una relazione sul tema alla Camera dei deputati, evidenziando l’obbligo dello Stato di non interferire arbitrariamente e, piuttosto, tutelare la vita familiare. Un bilanciamento difficile che ha come obiettivo, sempre e comunque, l’interesse superiore del minore. Le sentenze che condannano l’Italia ci dicono questo: che ciò che è venuto a mancare, nei casi analizzati, è proprio la tutela degli interessi del minore. "Il sistema italiano presenta dei limiti in tema di protezione della famiglia", spiega Lana. Anzi, il nostro paese ha più volte "invaso" lo spazio riservato al rapporto tra genitori e figli. Trasgredendo le sue stesse leggi, precisa l’avvocato. "Quella sulle adozioni internazionali - spiega - prevede all’articolo 1 che gli assistenti sociali facciano il possibile per ricongiungere il minore alla famiglia". I nostri tribunali, però, "sono inclini a passare subito alle eccezioni". Un business? Il dubbio più sconvolgente è che quello degli allontanamenti sia un modo per ingrassare le case famiglia. O almeno questo è il tarlo di Francesco Morcavallo, dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna. In un’intervista rilasciata a Panorama nel 2013, l’ex giudice, ora avvocato, lancia un allarme serio. "Chi sono i giudici onorari? Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato - spiega -. Certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. E` un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni". Una denuncia grave, che rimane ancora senza una risposta. Quello che è certo è che le sentenze contro l’Italia fissano dei paletti che ancora non vengono rispettati, evidenziando serie criticità. Come il fatto di aver tolto la patria potestà in maniera eccessivamente drastica "e tale da pregiudicare irreversibilmente i rapporti fra minori e famiglia". È questo il contenuto di una sentenza spartiacque, datata 2000. Scozzari contro Italia. È un caso emblematico, che avrebbe dovuto essere un promemoria per l’Italia per evitare errori simili. È la storia di Dolorata Scozzari, madre di due bambini, nati dal matrimonio col belga N., condannato nel suo paese ai lavori forzati. Dopo un periodo in Belgio, la donna si trasferisce in Toscana. Ed è qui che inizia l’incubo. Nel 1997 Dolorata scopre che il figlio è stato vittima di abusi da parte di un assistente sociale, che lo stava aiutando. L’uomo viene arrestato e condannato, mentre la famiglia di Dolorata viene aiutata dalla Caritas. Il Tribunale dei minori però decide di mandare i bambini in una comunità, Il Forteto, sospendendo la patria potestà ad entrambi i genitori. In due anni e dieci mesi, Dolorata vede i figli solo due volte. Ci sono di mezzo ricorsi e sentenze disattese, finché la Corte europea non mette nero su bianco l’assurdo. "Non si capisce su quale base il Tribunale dei minorenni abbia potuto prendere una decisione tanto severa e pesante di conseguenze psicologiche per gli interessati". E poi: "la pratica mostra che bambini sottoposti ad una tale misura non recuperano mai una vita familiare all’esterno della comunità. La Corte non vede alcuna valida giustificazione al fatto che il collocamento dei figli non sia munito di un limite temporale". E per questo ha condannato lo Stato al risarcimento di 200 milioni di lire. Sono bambini "rapiti della giustizia". E a volte condannati ad un inferno peggiore. Il caso Scozzari, infatti, dice di più. Alla riunione in Procura in cui si decise "la collocazione" dei bambini al Forteto, ha partecipato anche L. R. F., uno dei responsabili della comunità. Un uomo già condannato per maltrattamenti e abusi sessuali commessi su ospiti del Forteto, insieme a un altro degli assistenti sociali che si era già occupato del figlio di Dolorata. La Corte ha anche notato un’"influenza crescente dei responsabili del Forteto", sui bambini, con lo scopo "di allontanare questi dalla propria madre". Situazioni ambigue che avrebbero dovuto indurre il tribunale "ad esercitare una maggiore sorveglianza riguardo al controllo dei bambini all’interno del Forteto, e all’influenza dei responsabili su di loro e sulle loro relazioni con la madre". Questo, però, non si è verificato. E l’Italia non ha imparato nulla. Migranti. Onu: il 2016 l’anno con più morti in mare, sono 3800 fino ad ora Corriere della Sera, 27 ottobre 2016 L’Alto commissariato per i rifugiati conferma le stime. Molti risultano dispersi. Nell’anno in corso morta 1 persona su 88 che si sono messi in viaggio nel Mediterraneo. Mai così tanti migranti sono morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo: il 2016, secondo i dati Onu, è l’anno peggiore. 3800 dall’inizio dell’anno non ce l’hanno fatta. Di molti di loro sono stati recuperati i cadaveri, molti risultano dispersi. I dati li conferma il portavoce dell’Unhcr, William Spindler: "Possiamo ora confermare che sono almeno 3.800 i migranti" morti o dispersi dall’inizio dell’anno. I numeri si riferiscono a diversi incidenti in mare e in particolare alle testimonianze raccolte dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati presso le persone soccorse durante il week-end e fatte sbarcare in Italia, ha spiegato Spindler. "Abbiamo ricevuto resoconti in base ai quali numerose persone sono morte o non si trovano più dopo essere cadute in mare. Si tratta chiaramente di stime", ha aggiunto. L’anno scorso l’Unhcr aveva registrato per tutto l’anno un totale di 3.771 decessi nel Mediterraneo. Ma mentre nel 2015 erano state 1.015.078 in tutto le persone che avevano attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, quest’anno sono finora circa 327.800. A crescere è la percentuale dei decessi: nel 2016 una persona ogni 88 che hanno tentato la traversata ha perso la vita, un dato in netta crescita rispetto a 1 ogni 269 dello scorso anno. Nel Mediterraneo Centrale questo dato è addirittura più alto, con una morte ogni 47 arrivi. Migranti. Cancellata la super tassa sul permesso di soggiorno, è contro il diritto europeo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 ottobre 2016 Il Consiglio di stato dà torto per la seconda volta al governo. Abolito il contributo da 80 a 200 euro per il permesso di soggiorno, come richiesto dalla Corte di giustizia Ue. Alfano aveva raccomandato alle questure di continuare a farlo pagare. E adesso dovrebbero scattare i rimborsi. È l’Italia che ha violato le norme europee sul permesso di soggiorno, ed è un giudice italiano a dare torto al governo Renzi. La super tassa che il ministero dell’interno continua a chiedere ai migranti per ottenere il permesso di soggiorno va contro il diritto europeo. Così ha deciso il Consiglio di stato, respingendo gli argomenti dell’Avvocatura contro la sentenza del Tar che già a maggio aveva dato torto al governo e ragione alla Cgil e al patronato Inca, autori del primo ricorso. Eppure le questure d’Italia, come da precisa indicazione del ministro Alfano, hanno continuato a pretendere dai migranti un contributo minimo di 80 euro e massimo di 200 a secondo della durata del permesso di soggiorno che si intende chiedere o rinnovare. Sette volte la somma a carico di un cittadino italiano per la Carta d’identità, hanno calcolato i giudici, ricordando anche altri 73 euro di costi fissi ugualmente a carico dei migranti. Ieri la terza sezione del Consiglio di stato (presidente Maruotti, estensore Noccelli) ha stabilito che quella tassa andrà notevolmente abbassata, e anche che il governo dovrà trovare il modo di rimborsare i migranti che l’hanno pagata - recentemente il tribunale di Milano ha ordinato i primi 5 rimborsi proprio sulla base della sentenza del Tar (per una cifra variabile dai 50 ai 170 euro a testa, potenzialmente centinaia di milioni di euro nel complesso). La super tassa che il governo ha (invano) difeso era stata introdotta nel 2011 come uno degli ultimi atti dell’esecutivo Berlusconi, per destinare i ricavi ai rimpatri degli "irregolari". I giudici amministrativi si erano rivolti alla Corte di giustizia europea che nel 2015 aveva definito la super tassa "un ostacolo all’esercizio dei diritti" dei migranti. Migranti. Cie, Cara, Cas, Hotspots: dove la vera emergenza è l’accoglienza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 ottobre 2016 La situazione fotografata dall’ultimo rapporto di "LasciateCIEntrare". Stando alle ultime rivelazioni di LasciateCIEntrare - gruppo di associazioni che si occupa della detenzione amministrativa dei migranti - ad oggi lo stato di accoglienza in Italia, tranne rarissime eccezioni, è ancora estremamente carente. Secondo l’ultimo rapporto consultabile e scaricabile sul loro sito, i Cie rimasti operativi sono 4, ben al di sotto della loro capienza, e le condizioni di vita sono ulteriormente peggiorate. Nei Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria) e nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) dove sono riusciti ad entrare in occasione della mobilitazione promossa per la Giornata Mondiale del Rifugiato, hanno riscontrato un generale peggioramento delle condizioni di vita dei richiedenti asilo. A febbraio del 2016, la campagna di LasciateCIEntrare, aveva pubblicato il report "Accogliere: la vera emergenza", frutto del lavoro di monitoraggio su accoglienza, detenzione amministrativa e rimpatri forzati e che ha riguardato Cie, Cara, Cas, Hotspots, Centri per i minori non accompagnati, nonché in alcuni casi e per ragioni di emergenza, anche i sistemi di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Il quadro emerso è quello di un sistema accoglienza che in Italia non funziona, fonte di business e pensato in maniera tale da non produrre inclusione sociale, mantenendo gli ospiti, soprattutto i più vulnerabili, in condizioni di non raggiungere una propria autonomia. Un sistema - denuncia sempre LasciateCIEntrare - che andrebbe ripensato in maniera strutturale, nella definizione dei percorsi, degli standard minimi da garantire ai richiedenti asilo, della definizione degli spazi di accoglienza, dei rapporti fra istituzioni ed enti gestori. Nel giugno 2016, in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, la campagna di LasciateCIEntrare lancia la mobilitazione "#20GiugnoLasciateCIEntrare" i cui risultati sono riassunti nel rapporto pubblicato venerdì scorso. L’analisi rivela strutture ancora in gestione agli stessi imprenditori e operatori che operavano e operano al limite della legalità e del rispetto dei diritti umani, alcuni dei quali già "segnalati" nell’inchiesta e nel processo denominato "Mafia Capitale". In alcuni degli hotspot sono riusciti a entrare solo grazie alla disponibilità di alcuni parlamentari, negli altri è stato loro vietato espressamente l’accesso. Tuttavia non mancano realtà anche virtuose, ma quello che intende fare la campagna LasciateCIEntrare è continuare a denunciare un sistema ancora non "governato", incapace di rispondere in maniera strutturata al fenomeno dell’immigrazione. Il gruppo di associazioni denuncia che potrebbe esserci il rischio di un crollo imminente del sistema di accoglienza non perché connesso all’arrivo di troppi richiedenti asilo, ma perché organizzato in maniera disomogenea, priva di programmazione, affidata alla buona o alla cattiva volontà dei prefetti, condizionata dalla mancata applicazione di scelte politiche programmatiche ed efficienti. Quello che emerge dal loro dossier è un sistema allo sbando, incapace di guardare avanti e già pronto ad adeguarsi a volontà che poco o nulla hanno a che fare con il diritto internazionale. La denuncia di LasciateCIEntrare è molto forte: il timore che tale carenza sia la preparazione a una sorta di liquidazione del sistema di protezione, a un incremento dei rimpatri anche in paesi di transito o in cui i diritti della persona sono a rischio, ad una generalizzata esternalizzazione delle frontiere mediante accordi fra Ue e le peggiori dittature, per evitare l’arrivo di altre persone. Sono state 65 le richieste d’ingresso inviate dalla campagna LasciateCIEntrare alle diverse prefetture per visite ai centri d’accoglienza. A seguito delle richieste, le delegazioni della campagna sono riuscite a entrare solamente in 40 strutture. Mentre, nella altre, con diverse motivazioni, alle delegazioni non è stato autorizzato l’accesso. Come ad esempio nell’hotspot di Lampedusa dove il ministero dell’Interno ha vietato l’ingresso tramite una nota del 20 giugno 2016 con la seguente motivazione: "In considerazione della particolare fase di transizione organizzativa dovuta alla recente trasformazione in hotspot, sulla base delle indicazioni impartite dalla Commissione europea, non si ritiene opportuno, per il momento, consentire l’accesso al centro". Oppure nell’hotspot di Taranto dove sempre il Viminale ha riferito analogamente che: "alla particolare fase di transizione organizzativa dovuta alla recente trasformazione in hotspot, sulla base delle indicazioni impartite dalla Commissione Europea, non ritiene opportuno, per il momento, consentire l’accesso dei giornalisti al centro". E questo nonostante la richiesta di accesso fosse stata inviata come componenti della società civile e non come organi di stampa. In altri centri il divieto è arrivato direttamente dalle prefetture e le motivazioni principali per giustificare i dinieghi riguardano asseriti motivi di ordine pubblico. LasciateCIEntrare, inoltre, denuncia, sempre tramite il dossier, che alcune prefetture non hanno mai dato riscontro alle richieste di autorizzazione all’accesso, e la scelta degli attivisti è stata comunque quella di incontrare i migranti ospitati nei centri per verificarne le condizioni di accoglienza, e le criticità che da tempo lamentano e denunciano alla campagna. In alcuni casi, si legge, "ci si è ritrovati a incontrare i richiedenti asilo fuori dai centri e a riscontrare anche manifeste situazioni di ostilità da parte dei referenti degli enti gestori". Il dossier spiega che grazie alla disponibilità dell’europarlamentare Elly Schlein si sono effettuate visite a sorpresa negli hotspot di Lampedusa, di Trapani e nella caserma Caverzerani di Udine. A Roma è stato effettuato un ingresso a sorpresa nel Cas di Via dei Codirossoni con i parlamentari Stefano Fassina e Giulio Marcon. Mentre grazie alla disponibilità del senatore Marco Scibona, hanno effettuato una visita a sorpresa nel Cie di Torino. Il quadro evidenziato è estremamente negativo. In generale risulta una cattiva gestione dei centri, una carente assistenza sanitaria, poca attuazione della mediazioni culturali e percorsi di formazione quasi del tutto inesistenti. Il dossier denuncia che nel Cie di Ponte Galeria a Roma vengono ora detenute solo le migranti donne, in prevalenza provenienti dalla Nigeria e a rischio tratta. LasciateCIEntrare spiega che se nel 2015 si sono succeduti rimpatri nonostante le numerose istanze di sospensiva accolte rispetto ai provvedimenti di espulsione: nel 2016 questi sembrano essersi ridotti ma il rischio, stante gli accordi recentemente siglati con la Nigeria, che questi riprendano è forte. A Torino in più di una occasione sono transitati invece alcuni accusati di legami con il terrorismo e in quanto tali poi espulsi. Il gruppo di associazioni ritiene estremamente preoccupante (partendo comunque dalla presunzione di innocenza che viene comunemente non rispettata) che i Cie finiscano col fungere anche da luoghi di compensazione per simili problematiche. LasciateCIEntrare denuncia che nel 2016 diversi attivisti e membri della campagna hanno subito intimidazioni e pressioni per le relazioni pubblicate. Un esempio su tutti, la chiusura delle indagini preliminari a carico dei referenti dell’Associazione Ospiti in Arrivo di Udine per i reati d’invasione di edifici e favoreggiamento della permanenza di stranieri presenti illegalmente in Italia al fine di trarne "ingiusto profitto", "colpevoli" di aver accompagnato i migranti alla Caritas locale e aver "soccorso, sostenuto e fornito informazioni utili alle pratiche dell’asilo a richiedenti". La campagna di LasciateCIEntrare denuncia che pochi sono i parlamentari disponibili ad accompagnarli nelle ispezioni, pochissimi quelli che accettano di intervenire senza prima concordare intermediazioni con le prefetture e gli enti gestori. Una stagione ? conclude il dossier - assolutamente preoccupante, complessa e dura non solo per i rifugiati, ma per chi opera e cerca di trovare una soluzione all’accoglienza e al ripristino dei diritti umani all’interno della "Fortezza Europa". Migranti. Senza asilo ma non rimpatriati, l’esercito dei "diniegati" fantasma di Gabriele Martini La Stampa, 27 ottobre 2016 Sono almeno 50 mila a vivere nel limbo amministrativo. In Italia rischiano lo sfruttamento e l’illegalità. Invisibili. In Italia ci sono oltre 50 mila persone che vivono sospese in un limbo o che presto ci finiranno. Un esercito di fantasmi, destinato a crescere. Sono i "diniegati", migranti che hanno fatto richiesta di asilo, ma per i quali è stata respinta. La stragrande maggioranza di chi non ottiene alcuna forma di protezione non può essere rimpatriata perché sarebbe troppo oneroso e perché mancano accordi bilaterali con i Paesi di origine. E così restano nelle nostre città. Con in mano un foglio di via che impone di lasciare il territorio nazionale entro una manciata di giorni. Cosa che, puntualmente, non accade: il documento è l’ultima traccia lasciata dai migranti prima di inabissarsi in una zona grigia. Senza diritti né doveri, esposti allo sfruttamento e all’illegalità. Il problema è che, di fatto, non c’è alcun modo di entrare in Italia legalmente. Solo dopo essere arrivati i migranti possono mettersi in regola. In due modi. Il primo è quello di aderire al decreto flussi (o alla periodica sanatoria, ma non si fa più da anni). Teoricamente pensato per fare arrivare dall’estero un numero di migranti adeguato alle esigenze dell’economia, il regolamento prevede quest’anno 3600 ingressi di lavoratori non stagionali, insieme a 14.250 conversioni di permessi di soggiorno e a 13.000 ingressi per lavoratori stagionali. Ma è piuttosto difficile che un’azienda assuma una persona da un Paese straniero. Risultato: il decreto flussi è una sorta di sanatoria mascherata per chi si trova già in Italia, dopo esservi entrato illegalmente. La seconda strada è, invece, quella di fare richiesta di asilo. Ma non tutti scappano dalle guerre. E allora si pone il problema: che fare con chi non lo ottiene? Oggi un richiedente asilo resta in attesa di una risposta non meno di due anni: i primi 12 mesi filano via, in media, per istruire la pratica e ottenere risposta alla richiesta di protezione presentata alla commissione territoriale. Da inizio anno sono già 44 mila gli stranieri che si sono sentiti dire no. Oltre sei su dieci. In caso di diniego l’unica via è il ricorso a un tribunale ordinario: per arrivare a sentenza trascorrono almeno altri dodici mesi. In secondo grado la percentuale degli accoglimenti totali è dell’8%. Uno su quattro (23%) ottiene comunque un accoglimento parziale (ad esempio la protezione umanitaria). Poi ci sono estinzione, improcedibilità e inammissibilità. Ma la percentuale da tenere d’occhio è quella di coloro che anche in secondo grado si vedono rigettato il ricorso: sono il 56%, dicono i dati del ministero della Giustizia. I calcoli sono presti fatti. Da inizio 2014 i "diniegati" in primo grado sono stati oltre 100 mila. Se anche tutti avessero presentato ricorso a un tribunale, significa che oltre 50 mila migranti sono diventati o si apprestano a diventare fantasmi. Anche perché l’orientamento prevalente dei tribunali è che un eventuale ricorso in appello e successivamente in Cassazione non dà diritto alla sospensiva del foglio di via. L’Associazione nazionale magistrati denuncia la situazione causata dalla crescita esponenziale delle impugnazioni: "La materia resti di competenza della giurisdizione ordinaria, trattandosi di diritti fondamentali delle persone. Ma servono risorse umane e materiali idonee ad affrontare questa emergenza". Lo Stato come intende gestire il problema dei migranti fantasma? Il Viminale non fornisce numeri sui rimpatri. Quelli forzati sono costosi e complicati. Di fatto, se ne effettuano pochissimi. Esiste anche il rimpatrio volontario assistito, finanziato da fondi europei. Ai migranti che ne fanno richiesta viene pagato il viaggio verso il Paese d’origine e ricevono un supporto nel reinserimento e nella ricerca di un lavoro. Ma finora questa modalità si è rivelata un flop: dal 2009 al 2015 i rimpatriati volontari sono stati meno di 500. "Non possiamo far piombare nell’illegalità 50 mila persone. Il governo Renzi introduca un permesso di soggiorno umanitario per evitare che si crei un popolo di invisibili", chiede monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes. "Qui parliamo di persone che sono in Italia da ormai un anno e mezzo se non di più. Costringerle a rendersi irreperibili significa creare una situazione di insicurezza sia per i migranti sia per i cittadini italiani". Un involontario regalo al caporalato e alle mafie. Migranti. "Missione compiuta", Calais brucia e i conti non tornano di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 27 ottobre 2016 Fine ufficiale dell’evacuazione del campo, ma le cifre sono contraddittorie. Polemica sugli incendi nella baraccopoli. Adesso arrivano i bulldozer. "La missione è compiuta, non c’è più nessuno nel campo, tutti sono al riparo". In anticipo sui tempi, la prefetto del Pas-de-Calais, Fabienne Buccio, ieri a metà giornata, ha annunciato la fine dell’operazione di sgombero del più grosso campo profughi europeo. Ma la razionalità cartesiana che ha guidato la narrazione ufficiale dello sgombero del campo di Calais ha dovuto scendere a compromessi con la matematica. 3.242 adulti sono saliti sugli autobus nei tre giorni di operazione, 772 minorenni sono stati ospitati in container non lontani dal campo, 217 sono stati accettati in Gran Bretagna, perché hanno parenti nel paese, gli altri aspettano una risposta da Londra. Un collettivo di avvocati, che denuncia il fatto di non poter intervenire, afferma che c’è in corso una "selezione arbitraria" tra i minorenni. Per Buccio "5mila persone sono già passate dai controlli" sotto la tenda della "stazione" di smistamento, entro ieri sera il numero è salito a 6.600. Confusione di cifre, che non possono però nascondere che il ritmo del balletto degli autobus diretti ai 450 centri di accoglienza e di orientamento (Cao) sparsi in tutta la Francia, è stato più lento del previsto, perché dopo la ressa nelle code il giorno di avvio del piano, lunedì, i profughi sono poi stati più reticenti a entrare nel "dispositivo". Ancora ieri, molti non accettavano l’alternativa, ripetuta anche dai volontari: bisogna andarsene oggi, da domani ci sarà la polizia. Un gruppo di almeno 150-200 migranti sarebbe già pronto a tornare nella "giungla" secondo alcune testimonianze raccolte sul posto. "Tanti non sanno dove andare, questa notte non hanno neanche un posto per dormire. Sarà caccia all’uomo", denunciano i volontari di Secours Catholique. Dove sono finiti gli altri? Le associazioni avevano censito fino a 10.200 persone a Calais, altre cifre parlavano di almeno 8mila. Si sono perse le tracce di un terzo della popolazione del campo: molti sono fuggiti prima dell’inizio dell’operazione, altri durante. Secondo i calcoli delle associazioni Auberge des Migrants e Help Refugees almeno 3mila persone sarebbero "evaporate" ultimamente. I conti non tornano. Ieri, per di più, ci sono stati nuovi arrivi a Calais, probabilmente da Parigi o da altri paesi europei, ma la prefettura ha già fatto sapere che "la Francia non si farà carico" di questi nuovi arrivi. Ieri non è stato più possibile entrare nel campo, neppure per le associazioni di volontari che hanno un lungo passato di attività sul posto: la prefettura ha fatto valere l’applicazione di un decreto del 23 ottobre, che istituisce una "zona di protezione" al campo La Lande (la cosiddetta "giungla") e comunque c’è lo stato di emergenza che facilita il compito alle autorità. Il governo ha insistito sulla "calma" nello sviluppo delle operazioni. Ma ieri verso mezzogiorno ci sono stati momenti di forte tensione con nuovi incendi nel campo che hanno fatto seguito ai fuochi esplosi nella notte e sedati solo all’alba. Le autorità di polizia danno una spiegazione "culturale": all’origine degli incendi ci sarebbero degli afghani, che per tradizione metterebbero fuoco ai loro averi quando abbandonano un posto. Perplessità delle associazioni: "Gli incendi sono prima di tutto espressione di sofferenza e rabbia", spiega Vincent de Coninck del Secours Catholique. Quattro afghani sono stati fermati, con l’accusa di "incendio" o "tentativo di incendio". Un rifugiato è stato leggermente ferito a causa dell’esplosione di una bombola di gas. Delle donne africane hanno organizzato a metà giornata una manifestazione: "Dove sono i diritti umani?" hanno chiesto, perché il loro obiettivo resta la Gran Bretagna, ma la Francia (coadiuvata da agenti britannici) lo impedisce. La "missione compiuta" finirà con la distruzione definitiva del campo. Fino a ieri sera, erano stati utilizzati solo bobcat, pale o interventi a mano, per evitare di restituire in mondo visione un’immagine di violenza. Ma ora interviene la società che ha avuto l’appalto, si tratta di Vinci, gigante dei lavori pubblici, che farà uso di bulldozer. Medio Oriente. La pace si può raggiungere solo rispettando le parti in causa di Tzipi Livni* Corriere della Sera, 27 ottobre 2016 L’unico modo per porre fine alle ostilità tra i due popoli e quello di spartire la nostra terra in due Stati. La risoluzione approvata dall’Unesco rischia invece di trasformare il conflitto in una guerra di religione. La pace scaturisce dalla consapevolezza che due narrative contrastanti non possono "vincere" o "perdere". La pace si ottiene quando entrambe le leadership, da una parte e dall’altra, prendono la decisione reciproca di creare un futuro migliore per tutti. La prima volta che mi sono seduto al tavolo con la controparte palestinese, in veste di capo negoziatore israeliano, il dibattito è iniziato con il tentativo di convincere gli altri della fondatezza storica delle nostre richieste. Dopo ore e ore di interminabili discussioni che spaziavano dall’epoca biblica fino ai nostri giorni, si è capito che invece di cercare un accordo su quale causa fosse più giusta, occorreva adottare decisioni pratiche sul futuro dei nostri popoli in questo minuscolo lembo di terra, compreso tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, che per me corrisponde alla Terra di Israele e per loro alla Palestina. Il nostro scopo allora, come oggi, era di metter fine a questo conflitto nazionale per mezzo di una spartizione della terra in due stati per due popoli: lo stato di Israele, come risposta alle aspirazioni nazionali del popolo ebraico, e la Palestina per i palestinesi. È questo l’unico modo per porre fine alle ostilità tra i nostri due popoli. Mi è tornato in mente quell’incontro dopo la risoluzione su Gerusalemme approvata dall’Unesco il 18 ottobre. Questa risoluzione, in modo certamente implicito, anche se non dichiaratamente esplicito, ignora tutti i legami storici, religiosi e nazionali tra il popolo ebraico e i suoi luoghi più sacri, il Monte del Tempio e il Muro Occidentale. È vero che la risoluzione esordisce riaffermando l’importanza di Gerusalemme per le tre religioni monoteistiche della terra, tuttavia essa identifica il sito più importante per gli ebrei ricorrendo esclusivamente al nome islamico, localizzandolo cioè nettamente ed esclusivamente nella narrativa musulmana. La terminologia ha il suo peso e le sue conseguenze. Haram el-Sharif e Al-Aqsa corrispondono per me, ebreo, al Monte del Tempio, il luogo più sacro di Gerusalemme, il punto in cui sorgeva il Tempio di Salomone. Far riferimento al sacro Muro Occidentale, il muro cioè che anticamente cingeva il Monte del Tempio, con il nome di "Al-Buraq plaza" significa adottare esclusivamente la narrativa musulmana e, al contempo, trascurare la realtà storica del legame degli ebrei con questi luoghi. La città vecchia di Gerusalemme, e i suoi luoghi santi, rischiano di trasformare in un batter d’occhio questo conflitto da nazionale a religioso. Questo conflitto invece dovrebbe essere risolto affermando e rispettando i collegamenti storici e religiosi e le sensibilità di tutte le parti in causa, poiché minaccia di trasformarsi in una sanguinosa guerra di religione, facilmente strumentalizzata dagli estremisti dell’Islam radicale presenti nella regione, primo tra tutti l’Isis. Questo genere di "vittoria" per il movimento nazionale palestinese nell’arena internazionale rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro. Votando a favore, oppure astenendosi dal votare, gli stati membri dell’Unesco stanno commettendo un errore madornale. Se da un lato si preoccupano di mantenere lo status quo (obbligando anche Israele a farlo), dall’altro la risoluzione spalanca uno "status quo storico" ancor più controverso. Lo stato di Israele ha sempre rispettato i luoghi sacri dei musulmani e dei cristiani a Gerusalemme. Durante la Guerra dei sei giorni, una bandiera israeliana venne issata, nella frenesia del momento, sulla cupola dorata del Monte del Tempio, ma solo un’ora e mezza più tardi l’allora primo ministro Levi Eshkol diede l’ordine di rimuoverla per rispetto verso la moschea. I successivi governi democratici di Israele hanno attivamente tutelato la libertà di religione e preservato la situazione vigente nei luoghi sacri di Gerusalemme. Non chiedo al mondo di chiudere un occhio sulle azioni e le politiche di Israele, ma non dobbiamo permettere di cancellare, in modo così casuale, il collegamento della nazione con i suoi luoghi più sacri. In questo la comunità internazionale ha le sue responsabilità. Ho dedicato tutta la mia vita pubblica alla ricerca di una soluzione del conflitto e di un accordo tra Israele e i palestinesi. Non so ancora quando arriveremo a tale accordo, né in quali termini esso verrà stipulato. Ma so per certo, da quel primo incontro ad Annapolis, che il prerequisito fondamentale di un futuro accordo dovrà essere che le due parti hanno deciso di siglare la pace nonostante le loro diverse narrative storiche. Sono consapevole inoltre che la parola conclusiva di tale accordo dovrà mettere fine al conflitto israelo-palestinese e a tutte le rivendicazioni irrisolte. Ma se non si capisce che abbiamo bisogno di quella proposizione iniziale, non si arriverà mai a quella finale. *Parlamentare della Knesset, ex ministro degli Esteri israeliano (traduzione di Rita Baldassare) Turchia. Arrestati i sindaci di Diyarbakir, in migliaia in piazza contro Erdogan di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 ottobre 2016 Kisanak e Anli dell’Hdp portati via nella notte con l’accusa di sostegno al Pkk. Immediate le proteste in tutto il paese. Tensioni in Siria. Le strade si sono riempite subito: poco dopo l’arresto dei due co-sindaci di Diyarbakir in migliaia sono scesi in piazza in tutta la Turchia per protestare. Gultan Kisanak e Firat Anli, del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), opposizione di sinistra pro-kurda, sono stati portati via nella notte tra martedì e mercoledì: la Kisanak, primo sindaco donna della città, è stata presa all’aeroporto mentre rientrava dalla capitale; Anli a casa sua. Entrambi sono in stato di fermo, fa sapere il procuratore, perché accusati di sostegno a organizzazione terroristica, di aver tenuto comizi a sostegno del Pkk e aver trasportato con auto del comune i cadaveri di combattenti e manifestanti uccisi dalla polizia. Gli arresti fanno parte della più ampia campagna lanciata a settembre contro le amministrazioni locali kurde, in particolare quelle guidate dall’Hdp: 24 comuni sono stati commissariati, i sindaci sospesi. Così, dopo l’operazione militare iniziata a luglio 2015 che ha distrutto il sud est e migliaia di vite, il presidente Erdogan affossa ora la partecipazione politica. Ieri forti sono state le proteste a partire da Diyarbakir dove centinaia di persone hanno marciato verso la sede del comune e cominciato un sit-in a tempo indeterminato. La polizia ha cercato di disperdere la folla lanciando gas e usando i cannoni ad acqua. Manifestazioni si sono tenute anche a Istanbul, Van, Smirne, Ankara, Sirnak, decine gli arrestati. Internet è stato sospeso in tutto il sud est per alcune ore, una tattica - denunciano gli attivisti - per impedire di organizzare le proteste. Ma la tensione è alta anche oltre confine, in Siria, dove la strategia anti-kurda di Ankara fa il paio con quella interna. Ieri Erdogan è tornato sull’operazione terrestre in corso da fine agosto: andremo avanti - ha detto - fino alla presa di al-Bab. Non certo una comunità qualsiasi: lungo la frontiera occidentale, è a metà tra Jarabulus e Aleppo. Non solo, quindi, spezzerebbe l’agognata continuità territoriale tra i cantoni kurdi di Rojava, ma porterebbe truppe turche e forze anti-Assad (unità dell’Esercito Libero Siriano addestrate e armate in Turchia) a 35 chilometri dalla città che potrebbe decidere la guerra. Per prepararsi il terreno il governo turco ha accusato l’esercito siriano di aver colpito le opposizioni a sud est di Dabiq, la città appena strappata all’Isis. La reazione del fronte pro-Assad è giunta subito: uno dei comandanti delle milizie libanesi, iraniane e irachene ha minacciato Ankara di rispondere con la forza nel caso di un avvicinamento ad Aleppo. Intanto, sulla Russia è caduta una nuova accusa: aver bombardato ieri una scuola nella provincia di Idlib. Almeno 22 morti, di cui 14 bambini.