Vorrei che tutti capissero il disagio che una lunga carcerazione può portare a una persona di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 26 ottobre 2016 Sarebbe stata una domenica come tante se non fosse entrato un ragazzo nella mia cella dicendomi "Hai sentito chi si è ammazzato stanotte? il ragazzo egiziano che lavora al casellario". Senza parole… La televisione continuava a rimbombare nella mia testa, l’aria si era fatta pesante, e io mi continuavo a ripetere che l’avevo visto ieri e come sempre mi aveva salutato molto gentilmente e sorridendo. Nonostante siano passate molte ore da questa tragica notizia, mi mancano le parole per esprimere quello che sto provando. Forse sarà per una piccola sensazione di colpa, perché in tutti questi anni non sapevo neanche come si chiamava, solo ora che si è voluto togliere la vita impiccandosi ho saputo il suo nome, Said. Scusa Said. Sono molte le voci che girano all’interno del carcere cercando di spiegare le motivazioni che hanno indotto Said a volerla far finita. Alcuni mi hanno spiegato che aveva dei problemi psicologici e che soffriva di depressione, altri mi hanno raccontato che non aveva più nessuno fuori che lo attendesse e quindi aveva paura della solitudine. Altri ancora mi hanno detto che nella mattinata di sabato gli era stato confermato l’ergastolo. Poi ci sono i racconti delle persone che l’avevano visto sorridente qualche ora prima di decidere di abbandonare il suo corpo a dei lacci legati alle sbarre arrugginite della sua finestra. Era come sempre, non c’era stato nessun motivo nel suo atteggiamento per destare allarme. Tutti così mi dicono. Ma io continuo a non trovare pace, non riesco a non pensarci. Provo a distrarmi leggendo, guardando la televisione, ma la mia mente è proiettata a Said, a quel corpo penzolante privo di vita. Perché sento un senso di colpa? Sono solo io che provo questo sentimento? L’indifferenza che ho avuto nei suoi confronti ogni volta che mi sono ritrovato a ritirare un pacco postale dalle sue mani mi fa stare male. Ma sono anche cosciente che non potevo fare nulla. Non lo conoscevo, non avevo un rapporto con lui e poi io sono un detenuto come lo era lui e non ho le competenze adatte per aiutare casi umani di questo genere. Però mi dico anche che sono all’interno di una Istituzione e che la mia vita è nelle loro mani. Io non voglio trovare a tutti i costi un colpevole, vorrei che le persone che operano all’interno di un istituto penitenziario capissero il disagio che una lunga carcerazione può portare a una persona. Scusa di nuovo Said perché non sapevo come ti chiamavi. Proprio ora che non ci sei più mi vengono mille curiosità e mille domande su di te. Vorrei sapere tutto della tua vita, succhierei molto bramosamente come un avido vampiro tutti i tuoi ricordi, i momenti belli e momenti brutti della tua vita. Sapevo che avevi un fratello e che anche lui aveva deciso di spegnere il più grande dono che abbiamo, la vita. Ma io capisco, io so Said cosa si prova nel momento della decisione. Volevi solo pace attorno a te, volevi la tua mente libera dai brutti pensieri, da mille paure… dalla solitudine. Le pacche sulla spalla ti davano fastidio, ma un fastidio mai mostrato e nascosto bene dal più dolce sorriso che potevi fare in quel preciso attimo. Provo a immaginare il tuo primo pensiero rivolto a questo gesto estremo, una semplice e remota ipotesi, ma alimentata sempre di più dal senso di solitudine che stavi provando. E in cuor tuo volevi che qualcuno si accorgesse di te, ma non sapevi neanche tu come. Provo a immaginare ogni tuo singolo movimento Said, tu che annodi i lacci l’uno all’altro e, tirandoli forte, li provi per paura che si rompano durante il tuo ultimo momento. Ti avvicini uno sgabello, ci sali sopra e infili la testa in quel cappio improvvisato. Fai dondolare lo sgabello fino a lasciarlo cadere con tutte le tue angosce e i tuoi ultimi respiri. Ti sforzi a fare meno rumore possibile perché tu non vuoi essere salvato, ma tu avevi il diritto di essere salvato. Tu dovevi essere salvato ancora prima che il tuo corpo ciondolasse come se alla corda ci fosse appeso il nulla, l’inesistente. Tu esistevi e io mi ricorderò sempre di non averti dato la giusta attenzione, che meritavi di avere come essere umano. Ti porterò nei miei ricordi per imparare a vivere meglio. L’indifferenza uccide e tu sei l’ennesima vittima. Mi dispiace tanto caro Said. L’ergastolo ti fa morire tutti i giorni, lui ha preferito farlo una volta e basta di Raffaele Delle Chiaie Ristretti Orizzonti, 26 ottobre 2016 In un risveglio di una domenica come tante, in carcere dove le giornate hanno tutte lo stesso peso, ancora imbambolati di sonno, nei corridoi gira voce che stanotte si è impiccato un detenuto, dopo pochi minuti si scopre anche il nome, "È morto Said", un ragazzo egiziano che noi tutti conoscevamo perché lavorava al casellario dove vengono smistati gli oggetti personali dei detenuti. Ancora increduli, io e i miei compagni ci guardavamo in faccia per capire perché. Alla tv se ne sentono tante di notizie che dei detenuti provano o riescono a togliersi la vita, ed è sempre un colpo preso da vicino per chi vive il carcere sulla propria pelle, quando invece la notizia ci colpisce da più vicino ancora e si conosce il detenuto di persona l’effetto è travolgente ed angosciante. Questa mattina come ogni domenica si è celebrata la messa all’interno dell’istituto, ma non era la solita messa, era una giornata in memoria di tante persone andate via da questo mondo in questa settimana, quando è stato nominato Said da un altro compagno detenuto, che ha voluto ricordarlo tenendo in mano una sua foto e descrivendo a chi non lo conosceva che persona buona era quel ragazzo sempre timido e taciturno, è stato un momento davvero straziante. Mentre si celebrava la messa avevo il volto di Said impresso nella mente, e mi domandavo perché avesse preso questa decisione di farla finita, fra le tante domande che ognuno di noi si pone in questi casi è che condanna avesse, se avesse cominciato ad andare in permesso, se avesse famiglia o altro. Il nostro amico Said era un ergastolano da 20 anni in carcere, probabilmente per arrivare a questa decisione forse non aveva avuto ancora neppure un’ora di permesso? E invece no, da un po’ di tempo i permessi gli erano stati dati. Allora mi dico perché? Il perché poi l’ho compreso, credo, Said non aveva proprio nessuno che lo aspettava fuori di qui, durante i permessi di cui usufruiva rimaneva in compagnia dei volontari nella struttura dei Piccoli passi che ospita i detenuti. Penso che per Said lì fuori, senza qualcuno che ti ama veramente, questo posto era diventato uguale a tutti gli altri e forse ha pensato che non valeva la pena pagare un debito senza alcun familiare che ti aspetti e ti aiuti a ricostruire quello che rimane degli affetti dopo 20 interminabili anni di galera. Una persona condannata all’ergastolo dice spesso che una condanna così ti fa morire tutti i giorni, lui ha preferito farlo una volta e basta, morendo in carcere definitivamente e restituendo per intero il debito che aveva verso l’istituzione, quell’istituzione che invece gli aveva dato una condanna che lo avrebbe fatto morire lentamente. Ma all’azione materiale di farsi la corda e stringersela al collo ci ha pensato lui stesso, un pensiero che forse cresce piano piano nel corso della detenzione col passare degli anni, dopo aver perso tutto dalla vita. Quello che mi spaventa realmente è che lui era una persona che non dimostrava di poter arrivare a tal punto, di solito chi arriva a questi estremi ha dei precedenti squilibri, dei disagi, lui sembrava l’opposto, sempre per i fatti suoi, invadente solo nel suo silenzio che alla fine ha spiazzato tutti. Ancora non posso crederci: un ragazzo pieno di educazione, sorridente a suo modo e con molto altro di bello, a quanto pare è stato bravo a nascondere il suo diabolico piano di togliersi la vita, stavolta ha vinto lui non l’istituzione che non è riuscita a fermalo prima. Ma tanto chi se ne fregherà di queste persone, se si toglieranno la vita o meno, in tanti che sentiranno una notizia del genere sicuramente diranno "uno in meno", ed uno in meno a cui pagare il fitto di una casa sbarrata che doveva farlo morire ugualmente, ma giorno dopo giorno. Mi sento di dire a queste persone che la morte di tutti noi detenuti messi insieme non vi libererà dal vostro odio, quello vi accompagnerà sempre. Said era un bravo ragazzo per quanto mi riguarda, non conoscevo i suoi reati e neanche il suo passato. Io ho conosciuto Said dopo tanti anni, quello che conta è che non era più la persona di quando ha commesso i suoi gravi reati. È facile giudicare una persona senza conoscerla, dovevate guardare il suo sguardo da agnello smarrito e poi forse fareste altre valutazioni, ormai è troppo tardi nessuno potrà più guardarlo da vivo, ha preferito oltrepassare il mondo e provare a ricominciare da capo a ricostruirsi i suoi affetti vicino ai suoi cari lassù. Ciao Said, sarai nei nostri ricordi, nelle nostre preghiere e sempre in mezzo a noi con il tuo sorriso. Ergastolano si uccide a Padova, a gennaio giornata di riflessione sul carcere a vita di Valentina Lombardi risorgimentoitaliano.news, 26 ottobre 2016 Si chiamava Ihab ed era recluso nello stesso carcere che fra tre mesi ospiterà la Giornata di dialogo con ergastolani e condannati a lunghe pene. Proprio ieri presentavamo la Giornata di dialogo con ergastolani e condannati a lunghe pene, in programma all’interno del penitenziario di Padova il prossimo 20 gennaio. Appena due giorni prima, nello stesso carcere, Ihab si toglieva la vita. Ad annunciarlo, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Si è impiccato alle sbarre della sua cella, usando i lacci delle scarpe. La notizia è stata battuta, ieri, dall’Ansa. Poche altre testate a tiratura regionale hanno ripreso il lancio d’agenzia. Solo una settimana fa, Ihab era stato in permesso premio, fuori dal carcere, la sua casa negli ultimi vent’anni. Probabilmente, non ha retto al ritorno all’interno della struttura. Fuori, del resto, ad attenderlo non c’era nessuno. Così racconta un altro ergastolano recluso a Padova, di cui Ristretti Orizzonti ha raccolto la testimonianza. "Soffriva di fobie persecutore", dice un altro ospite a vita del penitenziario. (Fonte: ristretti.org) Vent’anni dietro le sbarre sono tanti, troppi. Un peso insostenibile se si pensa che, oltre alla visita sporadica di sua sorella Amani, a trovarlo non andava proprio nessuno. A Ihab rimaneva il suo lavoro, nel magazzino del carcere. Oltre quello, il nulla, nonostante l’articolo 27 della Costituzione italiana stabilisca il valore rieducativo della pena. Per Ihab e per tutti i condannati all’ergastolo o a pene molto lunghe, richiamiamo nuovamente all’importanza di una seria riflessione sull’attuale finalità della pena nel nostro sistema carcerario. E torneremo a ripeterlo, in occasione della marcia per l’indulto e l’amnistia, in programma il 6 novembre a Roma. Troppa politica, così si dissolve la riforma penale di Giorgio Spangher Il Dubbio, 26 ottobre 2016 La riforma Orlando sulla giustizia penale si è impantanata ed è uscita dall’ordine del giorno di Palazzo Madama. Attorno ad essa si sta giocando tra i vari protagonisti una partita opaca, nella quale il tema della giustizia penale, della sua riforma e della sua efficacia, non è l’elemento decisivo. Sintomatici di questo assunto sono stati gli incontri dell’altro ieri del presidente del Consiglio e del ministro della Giustizia con Anm e Cnf. Già di per sé la presenza del capo del governo sposta l’asse della materia e il suo cuore. La riforma Orlando sulla giustizia penale (sostanziale e processuale) e sul diritto penitenziario, dopo essere rimasta a lungo parcheggiata al Senato, in vista dell’ultimo miglio (12 luglio/13 settembre) si è impantanata ed è uscita dall’ordine del giorno di Palazzo Madama. Attorno ad essa si sta giocando tra i vari protagonisti una partita opaca, nella quale il tema della giustizia penale, della sua riforma e della sua efficacia, non è l’elemento decisivo. Sintomatici di questo assunto sono stati gli incontri dell’altro ieri del presidente del Consiglio e del ministro della Giustizia con Anm e Cnf. Già di per sé la presenza del capo del governo sposta l’asse della materia e il suo cuore. Invero, sulla spinta di una logica "sindacale" che caratterizza l’attuale leadership della magistratura associata, un ruolo centrale assumono le questioni di carriera e di status del magistrato (ferie, età pensionabile, permanenza nelle sedi di prima assegnazione). Anche i magistrati hanno le loro campagne elettorali con le quali misurare i loro rapporti di forza, con conseguenze - in tema di potere - a molti livelli. C’è naturalmente anche il problema del funzionamento della macchina giudiziaria e del personale di supporto, già incrementato dagli stages dei giovani laureandi, per il quale comunque sono state date ampie garanzie da parte del premier. Sullo sfondo sembra scivolare il problema del termine per l’esercizio dell’azione penale, questione che vede interlocutore il ministro - e non il presidente del Consiglio come sulla tematica appena indicata. Invero si tratta di una rivendicazione che in termini processuali è pretestuosa, considerando che, con il deposito ex articolo 415 bis cpp, il pm è in possesso di tutti gli elementi per esercitare l’azione penale. Come tutti gli operatori di giustizia sanno, l’archiviazione dopo la discovery costituisce un caso di scuola. I casi di avocazione dei procuratori generali già esistono nel codice e non danno luogo a particolari problemi, anche perché molto spesso l’avocazione non è esercitata pur sussistendone i presupposti. Dove sta allora il problema? La realtà è riconducibile alla tenacia con la quale i procuratori - che già gestiscono il tempo dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato - vogliono, governando anche i tempi dell’esercizio dell’azione penale, decidere chi, come, quando va processato. Non si vuole alcun controllo sull’azione, contrabbandando una incontrollata discrezionalità con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ci sono poi le verità/falsità sulla sufficienza della maggioranza nell’affrontare una questione di fiducia sulla riforma, con il referendum costituzionale sullo sfondo: diventa questo un terreno scivoloso che va lasciato a chi conosce le vicende della politica. Interessano invece gli operatori della giustizia le legittime riserve che, in una riforma così significativa del diritto e della procedura penale, permangono su alcuni aspetti: video conferenze, dibattimenti a distanza e l’intera delega del trojan, punti sicuramente deboli, destinati a incidere negativamente su un modello di processo che voglia rispettare oggettivamente le istanze difensive. Cantone: sulla prescrizione serve una riforma strutturale di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2016 "Lo stop della riforma della prescrizione mi preoccupa meno perché c’è stato già un aumento delle pene dei reati di corruzione, con un relativo aumento dei termini di prescrizione. Tuttavia mi auguro una riforma strutturale della prescrizione, perché come magistrato non mi piacciono i processi che si chiudono con la prescrizione. I processi dovrebbero finire con una condanna o con un’assoluzione". Risponde così il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone a chi gli chiede se sia preoccupato della battuta d’arresto al Senato, e del rinvio a data da destinarsi (quasi certamente dopo il 4 dicembre), del ddl di riforma della giustizia penale, in cui c’è anche la riforma strutturale della prescrizione, peraltro sollecitata la settimana scorsa anche dall’Ocse con una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando e al presidente del Senato Pietro Grasso. Cantone è "l’ospite d’onore" del Convegno organizzato dal- l’Associazione Alunni della Luiss School of Government su "Lotta alla corruzione nella Pubblica amministrazione: strumenti di contrasto e casi di studio", presieduto dal rettore dell’Università Paola Severino, ex ministro della Giustizia del governo Monti, che ha legato il suo nome soprattutto alla legge 190 del 2012 sulla corruzione, e ai relativi decreti delegati, grazie ai quali - dirà Cantone - "io sono qui". Da lì, infatti, "c’è stata un’espansione della politica anticorruzione", dal versante penale a quello della prevenzione, osserva Bernardo Giorgio Mattarella, capo ufficio legislativo del ministero per la Semplificazione, peraltro confermando la "tendenza" denunciata da Cantone ad una "burocratizzazione" degli strumenti di controllo e di trasparenza da parte di chi è chiamato ad usarli. L’espansione della politica anticorruzione ha riguardato anche i soggetti, con la creazione dell’Anac e l’"arruolamento dei cittadini come esercito di guardiani", anche attraverso la "prudente sperimentazione" del "whistleblowing" (la segnalazione di eventuali frodi che possano danneggiare l’amministrazione o l’impresa). "Uno strumento molto efficace - rileva Severino - che richiede incentivi ma anche sanzioni, perché se nei paesi anglosassoni una bugia è considerata uno dei fatti più gravi in assoluto, in Italia purtroppo no". Richiesto di un giudizio - seppure indiretto - sull’efficacia nel contrasto alla corruzione della riforma costituzionale là dove riconsidera le competenze tra Stato e Regioni, Cantone spiega che la riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001, "ha complicato il sistema, moltiplicato i centri di spesa e anche il contenzioso davanti alla Consulta". Quindi, "ha aumentato il tasso di corruzione, per cui una semplificazione (dei rapporti Stato-Regioni, ndr) fa sicuramente bene, affinché sia chiaro che cosa devono o non devono fare le Regioni". Quanto, invece, al dibattito in corso sui tagli alle retribuzioni dei parlamentari e, in generale, dei pubblici amministratori, il presidente dell’Anac è contrario alle "logiche pauperistiche". "I soldi vanno utilizzati in modo assolutamente trasparente", dice, ma uno stipendio è "equo" anche in relazione all’importanza delle funzioni svolte, per cui è assurdo, ad esempio, che "alcuni sindaci guadagnino mille, duemila euro". "Queste logiche pauperistiche finiscono per aggravare la corruzione" e fra l’altro, aggiunge, comportano una selezione della classe dirigente basata sul censo più che sulle capacità. Insomma: "Occorrono stipendi giusti e rendicontazione efficace del proprio operato", conclude. Parole "coraggiose", in questo momento, chiosa Severino. "E io apprezzo molto questo coraggio". Intervista al pg di Roma Paolo Ielo: "Classe dirigente selezionata dai corrotti" di Gianluca Di Feo La Repubblica, 26 ottobre 2016 "Il rischio dell’Italia: una classe dirigente selezionata dalla corruzione". "Le indagini migliori sono quelle che si concludono con sentenze che trovano spazio nei repertori di giurisprudenza, non quelle che finiscono sulle prime pagine dei giornali". Un quarto di secolo fa Paolo Ielo era il più giovane pm del pool Mani Pulite. Adesso è il procuratore aggiunto di Roma, che al fianco di Giuseppe Pignatone coordina tutte le inchieste sulla corruzione. Assieme ai colleghi porta avanti l’accusa nel processo di Mafia Capitale, ma evita di entrare nel merito del dibattimento e delle polemiche innescate di recente dalle richieste di archiviazione per numerosi indagati. "A volte ci contestano di non fare questa o quella richiesta di processo. Ma chi muove le indagini deve avere per primo la capacità di capire dove può arrivare con quello che ha in mano. Inchieste che portino a processi azzardati sono un danno per tutti: per le procure che le propongono, per gli imputati e per la collettività perché c’è una perdita di credibilità della giustizia". In questi giorni, dopo un intervento di Giuliano Pisapia su "Repubblica", si è tornati a discutere della centralità del processo. "Le indagini di Mani Pulite sono tutte arrivate a sentenza, con un livello altissimo di condanne a parte i casi di prescrizione. L’idea del processo "all’azzeccagarbugli" che non finisce mai va abbandonata: è una pena per chi è innocente ed è una sinecura immeritata per chi è colpevole. Perché così troppi dibattimenti muoiono per la prescrizione". Quanto è lontana la corruzione della Milano di Mani Pulite da quella romana dei nuovi mazzettari? "Milano all’epoca era un laboratorio avanzato in cui si sperimentava una serie di forme corruttive. Finiva la prassi della quota degli appalti riservata alle cooperative e queste cominciavano a sedersi al tavolo delle tangenti, pagando come gli altri imprenditori. Un fenomeno che comincia a metà degli anni 80 a Milano e poi è stato in qualche modo esportato nel resto d’Italia. Certo, alcune indagini romane sono state una sorta di "ritorno al futuro": mi sono trovato davanti agli stessi meccanismi che avevo vissuto negli anni di Tangentopoli. Di sicuro quello che mettemmo in luce a Milano era un sistema organizzato, adesso invece c’è una situazione più balcanizzata. E per altri versi si è imposto il tema del rapporto tra istituzioni e forme di criminalità organizzata". Che nell’ultimo periodo pare una costante nazionale, dalle vostre indagini romane a quelle sull’Expo… "A Milano nel 1992 coglievi molto da lontano la possibilità che ci fosse intersezione tra fenomeni di corruzione e criminalità organizzata, la coglievi soprattutto sui modi con cui il denaro circolava. Allora come oggi i flussi illeciti, quelli che muovono il denaro della droga, del riciclaggio, dell’evasione e delle tangenti girano allo stesso modo. Ma adesso i boss si sono resi conto che conviene molto di più usare la corruzione. Perché comporta meno rischi, crea minore allarme e tutto sommato costa di meno". E queste tangenti diventate pure mafiose finiscono per condizionare la politica? "In Mani Pulite il tema centrale era il finanziamento dei partiti, mentre ora in prospettiva c’è un problema di selezione della classe dirigente. La corruzione porta con sé il rischio concreto di selezionare la classe dirigente pubblica in funzione della sua capacità di prendere mazzette e distribuire in modo distorto le risorse; dall’altro seleziona i soggetti imprenditoriali non in base alla capacità di lavorare bene ma di quella di pagare tangenti. Inevitabilmente, in un arco di tempo breve o lungo, avremo un Paese affidato a soggetti che non sanno produrre e dirigenti pubblici che non sanno amministrare: una selezione al ribasso". Rispetto a Tangentopoli ora sono state introdotte regole e strutture per prevenire la corruzione. Come funziona il rapporto tra prevenzione e repressione? "Da bambino capitava che qualcuno chiedesse: vuoi bene di più al papà o alla mamma? È una falsa domanda: prevenzione e repressione sono due momenti diversi con funzionalità diverse, che si potenziano reciprocamente. L’Anac presieduta da Raffaele Cantone sta facendo un ottimo lavoro. Ha messo a punto tecniche di analisi degli appalti per evidenziare alcuni elementi, che non necessariamente indicano la corruzione ma permettono di concentrare l’attenzione sulle anomalie. Ad esempio se una stazione appaltante non fa ricorso alla centrale di committenza, se ci sono troppi affidamenti diretti e varianti: tutto può essere valutato grazie a una formula elaborata dall’Anac, una sorta di algoritmo degli appalti sospetti". Oggi le indagini sono più difficili rispetto al 1992? "La balcanizzazione delle centrali di corruzione le rende più complesse. Siamo abbastanza bravi nella ricostruzione dei flussi finanziari. Ma se il denaro parte dall’Italia, va in Svizzera, poi a Hong Kong e da lì alle Cayman per poi rientrare, mi serve tempo per individuare tutte le tappe. Mentre fai le indagini, però, senti l’orologio che batte inesorabile e quando trovi i soldi e li sequestri, hai già consumato buona parte del tempo disponibile prima della prescrizione. Le intercettazioni telefoniche sono strumenti fondamentali ma l’idea che l’indagine si possa fare solo con intercettazioni a strascico - fuori dai casi di mafia - è sbagliata dal punto di vista investigativo, illegittima dal punto di vista delle regole di diritto e sostanzialmente inutile per chi le indagini le fa. E poi c’è il problema del ritorno al contante". Anche ai tempi di Mani Pulite circolavano tante valigette piene di banconote... "Ricordo che un imprenditore arrestato ci raccontò che usava sempre valigette dello stesso modello. Quando consegnava le mazzette, nessuno le restituiva. Una sola volta presero i soldi e riconsegnarono il contenitore. Lui, stupito, chiese come mai. Gli risposero: "Abbiamo una stanza piena di valigette, non sappiamo dove metterle". Ma nella vecchia Tangentopoli i finanziamenti ai partiti avvenivano soprattutto con bonifici tra conti svizzeri. Oggi invece c’è sempre un ultimo miglio in cui il denaro finisce in una valigetta. E durante le perquisizioni trovi funzionari che hanno la casa piena di mazzette cash: in un caso 600 mila euro, nascosti nella scrivania, nel comò, persino negli armadi". Il grande bavaglio della diffamazione a mezzo stampa di Gianni Montesano* Il Manifesto, 26 ottobre 2016 Taci o ti querelo, i dati inediti del ministero della Giustizia sulla diffamazione a mezzo stampa. Ingiunzioni, avvisi di garanzia, avvocati, spese esorbitanti e richieste di risarcimento abnormi. Poi l’attesa del processo con l’incubo di una condanna che può arrivare sino al carcere. Il tunnel che vivono i giornalisti querelati prende forma per la prima volta con il dossier elaborato con i dati ufficiali che il Ministero della Giustizia ha fornito ad Ossigeno informazione, l’Osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia promosso da Fnsi e Ordine dei Giornalisti. Nell’ultimo biennio i tribunali si sono espressi su 6.813 procedimenti l’anno, 5.902 procedimenti penali e 911 cause civili. A cui vanno aggiunti 1.300 carichi pendenti. Il che significa un ritmo di 567 procedimenti al mese, 19 al giorno. Il 70% dei procedimenti viene archiviato dal Gip. Il 20% finisce in assoluzione o non luogo a procedere, solo uno su nove produce una condanna; ma nel frattempo il cronista (e, quando c’è, anche il suo editore) viene messo sotto pressione. Ogni anno su 5.902 pronunciamenti penali si registrano 475 condanne, delle quali 320 al pagamento di multe e 155 a pene detentive. Queste ultime non superano quasi mai un anno di reclusione ma, complessivamente, assommano a oltre 103 anni di carcere l’anno. Questi dati illustrano la sproporzione fra la necessità di difendere l’onorabilità delle persone e l’utilizzo distorto del reato di diffamazione a mezzo stampa che diventa un vero e proprio bavaglio. Molte istituzioni internazionali hanno parlato di un "effetto raggelante" per i giornalisti che, o nel timore delle querele, o nel timore di subire altre condanne, si autocensurano, o si occupano di altro. Se ne è discusso a Roma nel corso della "giornata Onu per lo stop ai reati contro i giornalisti" svoltasi al Senato e organizzata da Ossigeno. Le richieste di risarcimento sono abnormi: una media di 45,6 milioni l’anno. Una cifra enorme che ha un effetto pesante per le aziende editoriali. Mentre i giornalisti italiani querelati spendono ogni anno almeno 54 milioni di euro per sostenere le spese di difesa legale. Una tassa per dimostrare la propria innocenza che nella maggior parte dei casi si scarica sulle loro spalle vista la crisi del settore e l’aumento di freelance e precari non tutelati. Per Alberto Spampinato, direttore di Ossigeno, "Bisogna mettere fine a questo e introdurre modifiche legislative: in primo luogo abolire il carcere e depenalizzare il reato di diffamazione a mezzo stampa". Il rapporto completo su ossigenoinformazione.it. *L’autore collabora con Ossigeno Informazione - Osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia promosso da Fnsi e Ordine dei Giornalisti Caso Cucchi: nuovo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione dei medici del Pertini di Anna Maria Greco La Stampa, 26 ottobre 2016 Il Pg Eugenio Rubolino chiede l’annullamento della sentenza di luglio e un nuovo processo d’appello. Due assoluzioni non bastano e per i medici che hanno avuto in cura Stefano Cucchi il sostituto procuratore generale Eugenio Rubolino fa ancora ricorso in Cassazione. Proprio oggi ha depositato alla Suprema corte l’impugnazione della sentenza del 18 luglio scorso, della terza Corte d’assise d’appello di Roma, che ha scagionato dall’accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perché il fatto non sussiste. Rubolino chiede nel ricorso l’annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello. E questo, sostenendo la "contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione" quando esclude, "con un’interpretazione arbitraria", che se i medici dell’ospedale Pertini avessero fatto una diagnosi diversa e di conseguenza cure appropriate il giovane arrestato per droga non sarebbe morto il 22 ottobre del 2009, dopo un ricovero di cinque giorni. Per il magistrato, sulla base delle perizie, si deve concludere che Cucchi "con un trasferimento in reparto idoneo e con le necessarie terapie probabilmente si sarebbe salvato". Su altri due punti il pg contesta l’assoluzione. Per "mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione", riguardo al "momento in cui poteva effettuarsi una corretta diagnosi". Per lui, anche i periti del giudice affermano che la brachicardia di Cucchi "può aver contribuito allo sviluppo di una morte su base aritmica". In sostanza, il trattamento del geometra romano di 32 anni con dosi massicce di antidolorifico "ha accelerato l’exitus". Inoltre, Rubolino contesta il giudizio sulle conclusioni dei periti sulla causa della morte. Che riconoscono al"dolore subito per effetto della frattura sacrale ed ai farmaci somministrati per lenire il dolore un ruolo di concausa nel contribuire" alla morte. In conclusione, per l’accusa, tra i traumi legati ad un pestaggio che Cucchi avrebbe subito e sul quale è ancora in corso l’accertamento e le "inappropriate terapie somministrate" per la brachicardia, che l’hanno accentuata, c’è una "riconosciuta concausalità" che ha portato all’esito finale. Di qui, la responsabilità dei medici. Nel processo chiusosi a luglio Rubolino aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all’epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Un processo seguito all’annullamento dell’assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso. In quell’occasione aveva affermato che Cucchi era stato "torturato come Giulio Regeni". Tutto è iniziato il 25 gennaio del 2011, quando 6 medici del Pertini, 3 infermieri e 3 poliziotti della penitenziaria sono stati rinviati a giudizio. Due anni dopo, la Corte d’assise ha condannato a 1 anno e 4 mesi di reclusione 4 medici dell’ospedale, mentre il primario, accusato di omicidio colposo, è stato condannato due anni. Una condanna a 8 mesi è stata decisa allora per il sesto medico, accusato di falsa testimonianza. Ad ottobre 2014, però, la sentenza d’appello ha ribaltato il verdetto, con l’assoluzione per tutti gli imputati. Ma i giudici hanno trasmesso gli atti al pm ed è nata, a gennaio 2015, l’inchiesta bis sulla morte del geometra trentenne e 8 mesi dopo sono stati iscritti nel registro degli indagati 5 carabinieri accusati di falsa testimonianza e lesioni aggravate. Intanto l’inchiesta principale è arrivata in Cassazione, dove l’accusa con Nello Rossi, ha chiesto la conferma dell’assoluzione di agenti, infermieri e un medico, ma un nuovo processo per annullare le assoluzioni del primario e dei 4 sanitari. Diritto di libertà personale ai migranti anche in un Centro di identificazione di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2016 Corte Ue - Inchiesta 3342/11, 3391/11, 3408/11 et 3447/11. Al migrante destinatario di un provvedimento che dispone il prolungamento del trattenimento presso un centro di identificazione ed espulsione devono essere garantiti i diritti in materia di libertà personale assicurati dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Di conseguenza, se il giudice di pace decide il prolungamento, convalidando la richiesta del questore, senza informare l’interessato e il suo legale e senza rispettare il contraddittorio è certa la violazione della Convenzione. Se poi lo Stato non accorda una misura riparatoria per il trattenimento illegittimo alla prima violazione se ne aggiunge un’altra. È la Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo con la sentenza del 6 ottobre nel caso Richmond Yaw e altri (ricorsi n. 3342/11, 3391/11, 3408/11 e 3447/11) che è costata una condanna all’Italia. Sono stati 4 cittadini del Ghana a rivolgersi a Strasburgo. Entrati in Italia in modo irregolare, erano stati colpiti subito da un provvedimento di espulsione e posti in un centro di identificazione ed espulsione. Il giudice di pace, su richiesta del questore, aveva disposto il prolungamento della permanenza nel Cie. I migranti avevano impugnato il provvedimento che sanciva il prolungamento poiché non erano stati avvertiti dell’udienza. Così, la misura limitativa della libertà personale era stata disposta senza che ne fossero informati e senza che lo fosse l’avvocato. Il provvedimento di proroga dei termini era stato poi annullato e anche la Cassazione aveva accolto le doglianze dei ricorrenti. Tuttavia, la Corte di appello di Roma aveva negato la concessione di un indennizzo per ingiusta detenzione. Di qui il ricorso a Strasburgo che ha dato ragione ai ricorrenti anche sotto questo profilo. Nessun dubbio - scrive la Corte - che un procedimento che dispone il prolungamento nel trattenimento nel Cie deve rispettare il principio del contraddittorio e assicurare la presenza degli interessati. Così non era stato nel caso in esame con una flagrante violazione della Convenzione, che ha spinto la Corte a qualificare la mancata comunicazione ai legali e agli interessati da parte del giudice di pace come una irregolarità grave e manifesta delle regole convenzionali. Evidente, poi, che se la misura che limita la libertà personale è illegittima scatta l’obbligo dello Stato di corrispondere un indennizzo a chi ha subito una violazione della libertà personale come garantita dall’articolo 5 della Convenzione europea. Per la Corte mancano sul piano interno strumenti adeguati che consentano alle vittime di ottenere con un grado di sufficiente certezza la riparazione. Di qui la condanna all’Italia anche sotto questo profilo e l’obbligo per il Governo di versare 6.500 euro a ciascun ricorrente più 10.500 euro, nel complesso, per le spese legali. Figli, la madre non è prevalente di Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2016 Tribunale di Milano - Decreto 19 ottobre 2016. No alla prevalenza materna come criterio di individuazione del genitore maggiormente adatto al collocamento dei figli. Il Tribunale di Milano, Sezione IX civile, decreto del 19 ottobre 2016 (giudice Buffone) blocca, con decisione, ogni fondamento di una pur ipotizzata prevalenza del criterio della "maternal preference" come guida al giudice nella scelta del miglior genitore per l’allocamento del figlio minore. A far da guida al Tribunale non può che essere, infatti, lo spirito della norma di riforma dell’articolo 337-ter del Codice civile che, in luogo della preferenza del genere dell’uno o dell’altro genitore pone - al centro del sistema - la "pari condivisione genitoriale". Il punto di caduta della competenza genitoriale deve, quindi, confermarsi essere solo quello della "specifica contrarietà" all’interesse del minore, del supporto di "quel genitore", perché non adeguato e non certo l’appartenenza al genere delle madri, in danno al genere dell’esser padri. Il decreto milanese specifica che "né l’articolo 337-ter del Codice civile, né la Carta costituzionale assegnano rilevanza od utilità giuridica a quello che taluni invocano come principio della "maternal preference" (nella letteratura del settore Maternal Preference in Child Custody Decision): al contrario, come hanno messo bene in evidenza gli studi anche internazionali, il principio di piena bi-genitorialità e quello di parità genitoriale, hanno condotto all’abbandono del criterio della maternal preference, a mezzo del "gender neutral child custody laws" ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere, sia il padre che la madre, in base al solo preminente interesse del minore, il genitore di prevalente collocamento non potendo essere il solo genere a determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale". Così come univocamente riconosciuto anche in Italia, con le norme che da ultimo hanno regolato l’intera materia del diritto di famiglia (Dlgs 154 del 2013). Nel definire con il rigetto l’istanza di una madre a veder modificata in suo favore la regolamentazione della allocazione di una figlia minorenne, il tribunale di Milano ha poi compiuto un interessante richiamo alla non applicabilità al caso de quo, della sentenza della Cassazione n.18087 del 14 settembre 2016 che, pur richiamando il criterio della maternal preference, lo aveva evidenziato solo come criterio "non tempestivamente contestato e quindi passato in giudicato" mentre aveva fondato la sua decisione su altri e diversi spunti richiamati nella parte motiva. Nel caso in esame, il decreto di rigetto ha poi trovato il suo fondamento sulla analisi della "personalità della madre" per come era emersa nel corso degli accertamenti processuali e sulla diversa e positiva personalità del padre, ricostruendo con molta attenzione, l’inadeguatezza materna dello specifico caso, osservando "dall’esame della dettagliata e tempestiva relazione del Servizio affidatario della minore, emergono elementi univocamente orientati ad escludere un rientro della minore presso la madre" che ha mostrato una tenuta personologica su cui difficilmente il Tribunale potrebbe fondare, oggi, il convincimento che la stessa collaborerebbe seriamente e diligentemente con gli enti preposti per tutti gli interventi a favore della minore, nonché per l’accesso alla figura del padre, come genitore non convivente. Fatture false, imputazione illegittima se i riscontri sono stati inadeguati di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 44897/2016. In tema di reati tributari, l’utilizzo di fatture false non può essere dimostrato solo con il disconoscimento da parte del presunto emittente della firma apposta in calce ai documenti. Per la dichiarazione infedele, invece, occorrono le prove dei trasferimenti finanziari tra le parti. La Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 44897 depositata ieri, richiede delle prove più rigorose per la responsabilità dei delitti fiscali. Il legale rappresentante di una Srl veniva imputato per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2 del Dlgs 74/2000). Secondo la ricostruzione dei fatti, la contribuente avrebbe indicato costi fittizi documentati da fatture contraffatte, al fine di ottenere un risparmio di imposta. Era anche imputato del reato di dichiarazione infedele (articolo 4 del Dlgs. 74/00), per non aver indicato in dichiarazione elementi attivi per 780mila euro, riferiti ad alcune fatture rinvenute presso la sede del committente. L’imprenditore veniva condannato, sia in primo grado sia in appello ed in particolare, la Corte territoriale rilevava che la falsità dei documenti fiscali era confermata dal disconoscimento della firma in calce agli stessi. In altre parole, il soggetto che risultava essere stato l’emittente delle fatture contestate, aveva disconosciuto la firma apposta. Con riferimento, invece, all’omessa indicazione di ricavi, il giudice di appello rilevava che dalle prove prodotte, non risultavano dichiarate alcune fatture. La decisione veniva così impugnata dinanzi alla Cassazione lamentando, in estrema sintesi, un’inadeguatezza delle prove a sostegno dei reati contestati. I giudici di legittimità, riformando la decisione, hanno innanzitutto considerato che in riferimento alle fatture false, la Corte di appello aveva confermato la responsabilità penale solo sul presupposto che l’asserito emittente di tali documenti avesse disconosciuto la firma. Tuttavia, la Suprema Corte ha rilevato che le fatture non sono documenti la cui perfezione è legata alla sottoscrizione da parte del soggetto emittente, con la conseguenza che tali affermazioni risultano del tutto irrilevanti ai fini probatori. Nella specie, peraltro, sarebbe stata facilmente documentabile l’eventuale falsità della transazione, attraverso riscontri bancari. Secondo alcune dichiarazioni dei testimoni, infatti, il pagamento avveniva sempre per contanti previo prelevamento da altro conto corrente riconducibile all’imputato. Analogamente, anche per il reato di dichiarazione infedele, la Cassazione ha ritenuto insufficienti le prove. L’accusa, infatti, era fondata solo sulla documentazione contabile rinvenuta presso l’impresa committente della società, tuttavia senza alcun riscontro dell’esistenza dei flussi finanziari. Solo così, infatti, si sarebbe potuto realmente provare l’effettività di ricavi non dichiarati. Da qui l’accoglimento del ricorso dell’imprenditore. I confini della legittima difesa reale e putativa. Rassegna di massime Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2016 Legittima difesa - Criteri di accertamento - Giudizio ex ante - Giudizio deve essere relativo e non astratto - Omicidio preterintenzionale (articolo 584 c.p.) - Richiesta di riconoscimento dei presupposti della legittima difesa - Sussistenza. L’accertamento relativo alla legittima difesa reale o putativa deve essere effettuato con un giudizio ex ante calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto e astratto. Tale valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possono avere avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali. (Nel caso in esame i giudici del merito, secondo la Suprema Corte, dovevano sottoporre a un più attento esame le circostanze fattuali in quanto era stato dimostrato che il taglierino si trovava nelle mani della vittima e che l’imputato, dopo essere riuscito a disarmarla, l’aveva colpita con un solo colpo di striscio, come reazione a un pugno ricevuto in quel contesto di concitazione in cui si stavano svolgendo gli avvenimenti). • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 14 ottobre 2016 n. 43564. Legittima difesa - Legittima difesa putativa - Configurazione - Richiesta di riconoscimento - Esclusione - Fattispecie relativa alla sostituzione della serratura dell’appartamento di proprietà del coniuge in via di separazione - Sostituzione dovuta a timore per problemi psichici del coniuge. La legittima difesa richiede la necessità di difendersi da un pericolo "attuale" di una offesa ingiusta da cui, come conseguenza, deriva la necessità della difesa. L’imprescindibilità del requisito dell’attualità del pericolo, inteso come convinzione (del soggetto agente) di trovarsi in presenza di un pericolo presente ed incombente, non futuro o già’ esaurito, è stata spesso affermata, dalla Suprema Corte, ai fini della configurabilità della legittima difesa putativa. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 22 settembre 2016 n. 39458. Legittima difesa - Lesioni personali reciproche - Richiesta di riconoscimento dell’esimente della legittima difesa - Sussistenza. In tema di legittima difesa, è regola di esperienza che colui che è reiteratamente aggredito reagisce come può, secondo la concitazione del momento, e non è tenuto a calibrare l’intensità della reazione, finalizzata ad indurre la cessazione della avversa condotta lesiva, salva l’ipotesi di eventuale manifesta sproporzione della reazione stessa. Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 31 maggio 2016 n. 23042. Legittima difesa - Minaccia aggravata - Detenzione di pistola e munizioni - Riprese di videosorveglianza - Richiesta di riconoscimento della legittima difesa (requisiti) - Rigetto La legittima difesa pretende requisiti che devono essere oggetto di rigorosa dimostrazione e che sono costituiti da un’aggressione ingiusta e da una reazione legittima; mentre la prima deve concretarsi in un pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del diritto, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo ed alla proporzione tra difesa ed offesa. L’elemento dell’attualità del pericolo costituisce il tratto caratteristico essenziale della difesa legittima, che la distingue, sia dalla mera difesa preventiva, diretta ad evitare esclusivamente le cause dell’azione illecita o dannosa, sia dalla vendetta privata; pertanto, con la locuzione "pericolo attuale" si deve intendere un pericolo "presente", "in atto", "in corso", "incombente", con esclusione, cioè, del pericolo già esauritosi e di quello ancora da verificarsi. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 27 novembre 2015, n. 47177. La mafia e i processi televisivi... lasciamo le sentenze ai giudici di Bruno Ferraro* Libero, 26 ottobre 2016 Vi ricordate di mafia capitale? Nel 2015 si dava per dimostrata l’esistenza a Roma di un’organizzazione criminale che, avvalendosi di metodi e di comportamenti di pretto stampo mafioso, aveva trasformato la Capitale d’Italia in una sorta di propaggine siciliana. Identici gli obiettivi, identici i mezzi, identici gli stili e le regole, totale analogia con fenomeni che, fino ad un recente passato, si ritenevano circoscritti ad alcune regioni meridionali (Sicilia, Calabria, Puglia, Campania) e che si assumevano in progressiva espansione in altre parti del tenitorio italiano. Lungi da me, ora come allora, l’idea di aderire o respingere tale prospettazione. Prudenza - Come giurista, è da sempre mia convinzione che occorre prudenza nel fare simili affermazioni, perché nelle aule di giustizia, ove fatalmente le vicende umane devono trovare la loro finale collocazione, occorrono prove, senza le quali il codice Vassalli, che ha preso il posto all’inizio degli anni 90 del codice Rocco, impone al giudice di non avere dubbi ma di assolvere perché il fatto non sussiste anche quando, con il precedente codice, avrebbe potuto usare la formula dubitativa. Di tale prudenza, però, si stenta a trovare traccia. Imperversano i "processi" televisivi, si viola continuamente la segretezza dell’indagine istruttoria, gli indagati vengono trattati come imputati, si dimentica che l’indagine preliminare serve solo alle Procure per farsi un’idea sulla possibilità di arrivare ad un giudizio, fioccano le archiviazioni, cresce il numero dei soggetti dati in pasto alle prime pagine dei giornali (ovviamente a sfondo colpevolista). Molti cittadini sono rimasti sconcertati di fronte al totale proscioglimento per i fatti degli scontrini fiscali di Roberto Cota in Piemonte e di Ignazio Marino a Roma, come pure per il proscioglimento di Gianni Alemanno dall’accusa di associazione a delinquere e di Vincenzo De Luca in Campania: prima ancora di Vasco Errani in Emilia, di Filippo Penati in Lombardia, di Gian Mario Spacca nelle Marche, di Nicola Zingaretti nel Lazio. Troppe assoluzioni e tutte insieme dimostrano che la macchina della giustizia non funziona o funziona male. Attenzione, però, a non fare di tante erbe un fascio. Giustizia civile e giustizia penale sono due settori diversi; magistratura giudicante e magistratura inquirente hanno funzioni diverse, essendo la prima chiamata a valutare la fondatezza delle richieste di condanna della seconda. Quando si materializzò lo scenario delle malefatte di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, i difensori del primo motivarono la richiesta di patteggiamento della pena con ineccepibili considerazioni giuridiche (tali ovviamente in via di stretto diritto, prescindendo dal merito delle accuse rimesso alla valutazione del giudice per le indagini preliminari), affermando che si era in presenza di un’associazione a delinquere semplice e non di stampo mafioso, non essendo state reperite armi, minacce, violenze fisiche o morali idonei a diversamente colorare i reati contestati: corruzione, turbativa d’asta ed intestazione fittizia di beni. L’informazione - Accanto alla prudenza dei mezzi di informazione auspico un’analoga e maggiore prudenza da parte delle Procure. I danni provocati da indebite fughe di notizie e/o comunicati stampa sono gravi ed irrecuperabili perché l’opinione pubblica esige che si trovino dei colpevoli ed è comunque suggestionata da pregiudizi colpevolisti. In passato si rispettavano le decisioni dei giudici, ora le stesse vengono discusse e sono approvate solo se collimano con le convinzioni dei cittadini, a loro volta orientate da analisti televisivi che "sentenziano" in assoluta libertà. Prendiamone atto e, soprattutto, ne prendano atto Governo e Parlamento nelle "riforme" costantemente sbandierate, come pure il Csm quando valuta l’operato dei giudici a fini di camera. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Abruzzo: "ineleggibile", il M5S mette al bando persino Rita Bernardini di Francesco Straface Il Dubbio, 26 ottobre 2016 "Ha condanne, non può essere Garante dei detenuti". Condividiamo le sue idee, ma Rita Bernardini resta ineleggibile. È la posizione dei consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle dell’Abruzzo. Per i grillini l’ossessione giustizialista non si ferma neppure davanti ai Radicali e alle loro disobbedienze civili. Le "condanne riportate dalla Bernardini" rappresentano un ostacolo insormontabile. "Anche se le battaglie portate avanti dall’ex segretaria di Radicali italiani sono condivisibili, Rita è, e resta, ineleggibile, in un’ottica di legalità a cui questo Paese dovrebbe costantemente ambire", hanno aggiunto i pentastellati. "Le sentenze, anche se relative ad atti di disobbedienza civile finalizzati ad affermare valori di principio condivisibili, sono un fattore determinante da cui non si può prescindere". E pensare che la candidatura alla carica di Garante dei detenuti è in ballo ormai da un tempo spropositato. "Il presidente della Regione Luciano D’Alfonso la prospettò a Marco Pannella già nell’estate del 2015", ricorda la diretta interessata. "Dopo la pubblicazione del bando l’abbiamo depositata e da allora è trascorso più di un anno". La questione sollevata dai grillini risale alle vecchie lotte radicali e a fatti "fatti di rilievo penale" che arrivano fino al 2014. L’ex parlamentare affiancò Marco Pannella in alcune azioni dimostrative, finalizzate a promuovere anche in Italia la legalizzazione della coltivazione di canapa a scopo terapeutico e a facilitare l’accesso ai farmaci. I Radicali chiedono da sempre l’applicazione di una legge nazionale. Ma finora hanno ottenuto soltanto denunce. "Non si tratta di un giudizio legato alla persona, che è stata sostenuta in alcune battaglie anche dal M5S - hanno ribadito i grillini, ma mera tutela del ruolo che la Bernardini andrebbe a ricoprire. Ruolo finalizzato e ispirato anche alla rieducazione dei detenuti e ciò ci sembra inconciliabile con il presupposto di aver ignorato una legge vigente". Come tradizione, dai pentastellati non arrivano aperture né segnali di elasticità. "Non possono ammettersi deroghe al rispetto della legge. Ci pare un controsenso insuperabile. Speriamo che Rita Bernardini comprenda la nostra posizione che non è certo contro di lei", hanno concluso i consiglieri abbruzzesi, per i quali il casellario giudiziale viene prima di tutto. Questo "precedente", che pure fa riferimento a una nobile causa, la estromette di fatto dalla corsa alla carica. La diretta interessata non nasconde la propria amarezza: "Grandi personalità hanno disobbedito alle leggi per affermarne di nuove, rispettose dei diritti umani e della ragionevolezza. Le posizioni dei Cinque Stelle mi sembrano un po’ contradditorie, soprattutto perché hanno ribadito recentemente a più riprese di volersi ispirare a Gandhi, che aveva fatto della disobbedienza civile e della nonviolenza una bandiera. Non credo che il Movimento nel suo complesso sia d’accordo". Da Rita Bernardini arriva anche una sfida: "Considerato che le candidature sono una ventina, da mesi chiedo una convergenza su un altro nome. Un Garante va scelto, a maggioranza qualificata. Se l’accordo non si trova evidentemente sono spaccati all’interno". Cosenza: detenuto muore nel carcere di Paola, suicidio o incidente col gas? calabriapage.it, 26 ottobre 2016 Quintieri (Radicali) e Bokkory (Alone Onlus): notizia tenuta nascosta, chieste spiegazioni al Dap. Un giovane detenuto, di nazionalità straniera, con problemi di tossicodipendenza ed al quale restava da espiare circa un mese di reclusione, nei giorni scorsi, è stato trovato morto all’interno della sua cella nella Casa Circondariale di Paola. Al momento non è dato capire se si tratti di un suicidio oppure di un incidente visto che l’evento critico sarebbe stato causato dalla inalazione del gas della bomboletta, del tipo consentito di cui i detenuti sono in legittimo possesso per riscaldare cibi e bevande. Pare, inoltre, che la Procura della Repubblica di Paola abbia disposto l’esame autoptico per accertare le cause del decesso. Lo dichiara Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani ed attivista per i diritti dei detenuti. Non ci sono notizie ufficiali e nessuno ha diffuso la notizia del tragico evento ma nonostante tutto, tramite i nostri informatori, siamo riusciti a venirne a conoscenza. E non è la prima volta che accade che si cerchi di nascondere decessi o altri "eventi critici" nella Casa Circondariale di Paola. Infatti ci sono stati altri gravi atti autolesivi anche con tentativi di suicidio nonché casi di aggressione al personale dell’Amministrazione Penitenziaria che non sono state rivelate all’esterno, contrariamente a quanto avviene in altri Penitenziari. Viene ripetutamente violato - prosegue l’esponente radicale - un provvedimento del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 18/10/2011, trasmesso con Circolare n. 397498 del 21/10/2011, col quale si stabilisce che "Per garantire una trasparente e corretta informazione dei fenomeni inseriti nell’applicativo degli "eventi critici" le principali notizie d’interesse saranno, inoltre trasmesse al Direttore dell’Ufficio Stampa e Relazioni Esterne per le attività di informazione e comunicazione agli organi di stampa e la eventuale diffusione mediante i canali di comunicazione di cui dispone il Dap (rivista istituzionale, newsletter, siti istituzionali)." Non è più tollerabile che venga nascosto quanto avviene all’interno degli Istituti Penitenziari. Ho sentito l’Ufficio Stampa e Relazioni Esterne del Dap e non sapevano nulla. Ho sentito anche la Sala Situazioni dell’Ufficio per l’Attività Ispettiva e per il Controllo ma mi hanno detto che, telefonicamente, non davano queste notizie, pretendendo una formale richiesta scritta alla quale, per il momento, non è stata data risposta. Nemmeno all’Osservatorio Permanente per le Morti in Carcere sapevano nulla. L’ultimo decesso inserito nell’elenco riguarda il suicidio del detenuto El Magharpil Said, 47 anni, avvenuto il 22 ottobre scorso nella Casa di Reclusione di Padova. Senza il decesso verificatosi a Paola, continua Quintieri, nelle Carceri italiane in questi mesi del 2016 sono morte 81 persone detenute, 29 delle quali per suicidio, mentre dal 2000 ad oggi sono 2.575 i detenuti "morti di carcere", 917 dei quali si sono tolti la vita. Una strage che non fa notizia e che non interessa a nessuno. A protestare e chiedere spiegazioni in ordine al decesso del detenuto straniero anche Shyama Bokkory, Presidente dell’Associazione Alone Cosenza Onlus che si occupa della tutela dei diritti degli stranieri, già Mediatrice interculturale e linguistica presso la Casa Circondariale di Paola, attività di volontariato stranamente fatta cessare dal Direttore Caterina Arrotta perché non vi erano più stranieri quando invece il Carcere di Paola è uno dei pochi in cui la presenza dei detenuti extracomunitari è particolarmente rilevante (83 su 210). La Bokkory ha scritto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed al Provveditorato Regionale della Calabria nonché all’Ufficio di Sorveglianza presso il Tribunale di Cosenza. Nelle ultime visite dei Radicali al Carcere di Paola, tenutesi il 16 luglio ed il 24 settembre, era stata riscontrata e denunciata alle Autorità competenti, tra le altre cose, l’assenza del Mediatore culturale per gli stranieri, la mancata attivazione nell’Istituto della "sorveglianza dinamica", la carenza degli Educatori ed il mancato accesso e visita del Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Nei giorni scorsi, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo con nota Prot. n. 346188 del 20/10/2016, in risposta alla relazione inviatagli dai Radicali all’esito della visita presso la Casa Circondariale di Paola, ha trasmesso la direttiva impartita alle articolazioni competenti con la quale ha chiesto di relazionare in merito alle criticità rilevate durante la visita e agli interventi all’uopo adottati. La direttiva del Capo Dipartimento Prot. n. 346169 del 20/10/2016 è stata inviata alla Direzione Generale del Personale e delle Risorse del Dap, al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Calabria di Catanzaro ed al Direttore della Casa Circondariale di Paola. Consolo ha chiesto che gli vengano riferite notizie riguardo al "perdurare dell’assenza del "mediatore culturale", nonostante all’esito della precedente visita del 16/7/2016 la Direzione dell’Istituto de quo avesse dato rassicurazione circa l’adozione di apposite iniziative, anche mediante le associazioni e gli enti presenti sul territorio tirreno, al fine di individuare una idonea figura professionale; avvio delle opportune verifiche volte a favorire l’eventuale applicazione del modello operativo della c.d. "sorveglianza dinamica", anche tramite il ricorso, con progetti specifici, ai finanziamenti della Cassa delle Ammende; carenza di personale appartenente alla qualifica professionale di Funzionario giuridico pedagogico, atteso che si asserisce che risultino in servizio solo n. 2 educatori, a fronte di una previsione organica di n. 6 unità totali (con conseguente opportunità di mobilità intra-distrettuale o inter-distrettuale finalizzata ad una progressiva soluzione della problematica) e sugli asseriti mancati accessi e ispezioni da parte del Provveditore, sia nell’Istituto di Paola che in altri Penitenziari calabresi". Napoli: il detenuto è in coma all’ospedale, ma non viene scarcerato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2016 Un detenuto in attesa di giudizio è in fin di vita in ospedale. L’avvocato ha presentato istanza di scarcerazione e cura in un luogo più idoneo, ma dopo quattro giorni l’istanza è stata rigettata. Secondo la Corte d’Assise di Roma permangono le condizioni per l’esigenza di cautela processuale attinenti al pericolo sia di fuga che di recidiva. Un rigetto che lascia di stucco l’avvocato difensore Dario Vannetiello del Foro di Napoli. Raggiunto da Il Dubbio, l’avvocato Vannetiello ha spiegato che giovedì scorso aveva inoltrato alla Corte la richiesta di "poter adottare con la massima urgenza tutte le iniziative opportune per salvare la vita del detenuto e, comunque, revocare la misura in atto o sostituire la stessa disponendo gli arresti domiciliari, anche sotto controllo del braccialetto elettronico, per curarlo presso un centro altamente specializzato per le cure della patologia da cui risulta affetto". L’avvocato fa notare che l’esigenza di custodia cautelare viene applicata per tre motivi: rischio di inquinamento prove, pericolo di fuga e rischio di reiterazione del reato. "Per l’inquinamento di prove ? spiega l’avvocato - il rischio è superato avendo già la condanna di primo grado, per le altre due esigenze è impossibile che ci sia il rischio visto che attualmente è in coma con tanto di ventilazione e alimentazione artificiale". Ma la Corte ha deciso che sussistono tuttora le esigenze di custodia cautelare e che il detenuto deve rimanere nell’ospedale dove è in cura visto che, per le sue gravissime condizioni cliniche, è assolutamente impossibile il suo trasferimento. Il detenuto in fin di vita si chiama Stefano Crescenzi, un romano di 37 anni condannato in primo grado alla pena di anni 23 di reclusione dalla Corte di Assise di Roma. Il reato è quello dell’omicidio di Giuseppe Cordaro avvenuto a Roma in via Aquaroni. A causa delle sue gravissime condizioni di salute, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha ritenuto che Crescenzi non potesse rimanere presso un ordinario istituto penitenziario e ha deciso il suo trasferimento dalla casa circondariale di Livorno presso il centro clinico della casa circondariale di Napoli Secondigliano. Il peggioramento, però, proseguiva. Infatti, subito, i sanitari del centro clinico della struttura penitenziaria di Napoli - Secondigliano si sono resi conto che non avrebbero potuto apprestare le cure al detenuto, le cui condizioni diventavano incontrollabili. Così, la direzione sanitaria del penitenziario partenopeo ha deciso il trasferimento all’ospedale Cardarelli di Napoli, e infine all’ospedale don Bosco di Napoli. Ma le condizioni non sono migliorate e, secondo l’avvocato, la struttura non è idonea per la cura della patologia da cui il ristretto è afflitto. La mamma del detenuto e i familiari chiedono solo di non farlo morire e avere almeno la possibilità di andarlo a trovare. Purtroppo risulta in custodia cautelare, per questo non possono andargli a far visita. L’avvocato, per far fronte a questa esigenza, ha inoltrato alla Corte la richiesta di far accedere i familiari presso la struttura ospedaliera dove si trova il detenuto, con il rispetto degli orari di visita in cui è consentito l’ingresso dei familiari dei degenti. "Quello che chiedono i familiari ? spiega Vannetiello ? è di non farlo morire, poi se Crescenzi ha sbagliato, pagherà il suo conto con lo Stato. Ma adesso lo Stato, e gli uomini che lo rappresentano, cioè i giudici della Corte di Assise di Roma, lo devono proteggere". Chiosa sempre l’avvocato: "Come potrebbe un moribondo in coma con prognosi estremamente riservata, darsi alla fuga o commettere reati? I familiari di Crescenzi hanno o non hanno il diritto di decidere loro dove e come e chi deve cercare di salvare Stefano?". E conclude amaramente: "Spesso ci si dimentica che dietro un nome ed un cognome, non c’è un numero, ma un uomo, come ci sono i familiari, i quali, spesso, non hanno neppure compiuto un’ illegalità, ma che subiscono quello che, in questi tragici momenti, nessun uomo dovrebbe subire, tanto meno da chi rappresenta la Giustizia. Tutto quello che sta accadendo è inaccettabile". Siracusa: Garante dei detenuti, emanato l’avviso pubblico per la selezione siracusanews.it, 26 ottobre 2016 È stato diffuso oggi l’avviso pubblico - a firma del sindaco, Giancarlo Garozzo, e dell’assessore alle Politiche sociali, Giovanni Sallicano - per la selezione del Garante dei diritti delle persone private della libertà, figura introdotta dal consiglio comunale lo scorso febbraio. L’incarico è a titolo gratuito; la sua durata è legata a quella del sindaco e resta in regime di prorogatio fino alla scelta del nuovo Garante. Può partecipare alla selezione chi ha esperienza o competenza nel campo della tutela dei diritti delle persone e delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena. Gli interessati non devono trovarsi nella situazioni di incandidabilità e ineleggibilità previste per i consiglieri comunali; il Garante decade se dovessero ricorrere tali condizioni durante il mandato. L’incarico è incompatibile con professioni svolte nell’ambito della giustizia e della sicurezza pubblica, con la professione forense e con le cariche elettive o di amministratore in enti, aziende o società partecipate del Comune. I candidati devono presentare domanda e curriculum entro 30 giorni al settore Politiche sociali (via Italia 105) e la nomina avviene con decreto del sindaco. La figura nasce per tutelare i diritti fondamentali dell’individuo detenuto o limitato della libertà personale anche nel periodo di reinserimento sociale, finalità che vanno perseguite collaborando con le istituzioni penitenziarie per una reale funzione educativa della pena. Il Garante assume iniziative per l’inserimento nel mondo del lavoro dei detenuti una volta tornati in libertà; supporta i detenuti e le famiglie nell’accesso ai servizi garantiti dal Comune e nell’accesso agli atti amministrativi; si rivolge alle autorità competenti in caso di violazione dei diritti; promuove iniziative di sensibilizzazione pubblica; è a disposizione delle famiglie e di quanti si occupano della rieducazione e del reinserimento sociale dei detenuti. Asti: pestaggio in carcere, due poliziotti penitenziari condannati in appello La Stampa, 26 ottobre 2016 Imputati un sovrintendente e un assistente della polizia penitenziaria che nel 2010 avevano aggredito e picchiato un detenuto. Sono stati condannati anche in Corte d’Appello per lesioni Carmelo Rositano e Nicola Sgarra, il sovrintendente e l’assistente della polizia penitenziaria che nel 2010 avevano aggredito e picchiato un detenuto, Mohammed Carlos Gola, 31, nell’infermeria del carcere di Quarto. La vittima aveva riportato varie ferite, riconosciute da un medico legale e guarite in 1 mese. In primo grado in tribunale ad Asti nel 2014 erano state disposte le pene di 2 anni e 8 mesi per Rositano e di 2 anni e 2 mesi per Sgarra. Ieri in Appello i giudici hanno invece condannato entrambi ad 1 anno, concedendo la sospensione condizionale. È stato ridotto da 10 a 5 mila euro il risarcimento che i due imputati devono versare a Gola, nel frattempo tornato libero ed attualmente residente a Portacomaro. L’accusa di ingiurie è caduta perché nel 2015 il reato è stato abrogato. È stata parzialmente accolta la tesi dei legali dei due agenti penitenziari, gli avvocati Enrico Calabrese e Maurizio La Matina, secondo i quali il pestaggio non era stato commesso per motivi religiosi. Gola è di fede islamica. "Sono soddisfatto - ha commentato Guido Cardello, avvocato di parte civile di Gola - Anche i magistrati dell’Appello hanno ritenuto veritiera la testimonianza del mio assistito. Ora confido che il Dipartimento della Penitenziaria allontani i due condannati dal loro incarico". Monza: nella terra del mobile anche in carcere imparano a fare i falegnami quibrianza.it, 26 ottobre 2016 I detenuti nel carcere di Monza potranno essere seguiti nella loro formazione professionale e conseguire la qualifica di "operatori del legno". Lo rivela il senatore Andrea Mandelli spiegando che è stato raggiunto un accordo tra Governo, Regione Lombardia e Federlegno. "Durante la mia visita al carcere di Monza, pochi mesi fa, avevo preso un impegno per cercare di migliorare la difficile situazione sia di chi lavora nell’istituto penitenziario sia dei detenuti. Finalmente, quell’impegno si è trasformato in realtà". Lo annuncia il senatore Andrea Mandelli (Forza Italia), rivelando che è stato raggiunto un importante accordo tra Governo, Regione Lombardia e Federlegno a favore della formazione professionale dei detenuti, che potranno conseguire le qualifiche proprie della filiera degli "operatori del legno". "In base all’intesa raggiunta - spiega Mandelli -, la Regione si farà carico della ristrutturazione dei locali del carcere adibiti a falegnameria, mentre Federlegno si occuperà del loro allestimento con moderni macchinari. È anche previsto l’intervento di un archistar per disegnare arredi che saranno autoprodotti e utilizzati per le celle dei detenuti. Il tutto, grazie all’utilizzo di fondi europei". "Si tratta, di un progetto virtuoso - conclude il senatore brianzolo - che prepara la strada per il reinserimento lavorativo di chi sconta una pena. Un ringraziamento sentito va al sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli, e all’assessore alla Formazione, istruzione e lavoro della Regione Lombardia, Valentina Aprea, per l’impegno profuso al fine di arrivare a questo traguardo". Trani: "Sport nelle carceri", oggi la presentazione del progetto radiobombo.com, 26 ottobre 2016 Calcio, pallavolo, pallacanestro, yoga e fitness: l’attività sportiva come strumento educativo all’interno degli istituti di pena per circa 200 detenuti delle strutture penitenziarie femminili e maschili tranesi, che partecipano dal 10 ottobre scorso al progetto nazionale "Sport nelle carceri", promosso a livello provinciale dalla Delegazione Coni della Bat. Il progetto sarà illustrato oggi, mercoledì 26 ottobre, alle 10.30, presso la casa di reclusione maschile, in via Andria, alla presenza del direttore, Bruna Piarulli, del delegato Coni Bat, Isodoro Alvisi, e del coordinatore locale del progetto, Marcello De Gennaro. "Con questo progetto - spiega Alvisi - si intende coordinare attività sportive presso le strutture penitenziarie maschile e femminile di Trani ritenendo lo sport, la salute ed il benessere, alcune delle componenti fondamentali nel processo di rieducazione dei detenuti. L’attività sportiva può rappresentare inoltre un elemento positivo per contribuire non solo al mantenimento di uno stato soddisfacente della salute psico-fisica, ma anche per migliorare la convivenza all’interno dell’Istituto, contribuendo ad abbassare il livello di tensioni e di conflitti". La squadra dei dirigenti e tecnici federali che il Coni Bat ha selezionato per intervenire nel progetto (cominciato il 10 ottobre per concludersi il 23 dicembre) e rendere operativo il percorso intrapreso, è composta anche da Pietro Corcella (Coordinatore Tecnico del Coni Bat); Giuseppe Pinto (calcio), Angelo Lorusso (volley), Giovanni Franco (tennis), Pasquale Palmitessa (basket), Rosa Convertini (yoga), Nicoletta Prodon (fitness). Migranti. La solitudine dell’indigeno italiano di Ezio Mauro La Repubblica, 26 ottobre 2016 "Qui non c’è niente. Niente per noi, che ci siamo nati: figurarsi per gli altri". Potrebbe finire sui manuali di storia dei nostri anni complicati questa frase di una cittadina italiana, probabilmente moglie e madre, abitante della frazione di Gorino sul delta del Po, che ha partecipato al blocco stradale del suo paese per impedire l’arrivo di dodici donne immigrate coi loro figli nell’ostello requisito dal prefetto. Le straniere sono state dirottate in tre altri centri del Ferrarese, Gorino continuerà a non ospitare nemmeno un immigrato, la protesta ha vinto. Smontate le barricate e il gazebo notturno i bambini possono tornare a scuola, i pescatori riprenderanno il mare. Tutto come prima? Non proprio. Quella frase dimostra che dall’egoismo del niente può nascere una vera e propria guerra per il nulla in cui viviamo. Che ci angoscia, ma che non vogliamo dividere con nessuno. Sono parole sincere, fotografie brutali delle mille periferie italiane quelle pronunciate al posto di blocco di Gorino. L’ospedale più vicino è a 60 chilometri, il medico viene in paese un’ora al giorno e se ne va, gli uomini sono fuori in barca dal mattino presto fino al tardo pomeriggio perché vivono di pesca, quell’ostello prima requisito poi restituito funziona anche da bar, è l’unico centro di ritrovo del paese, ha qualche camera per i pochi turisti che in stagione vogliono fermarsi per un giro sul delta. È una vita minima, s’immagina di sacrificio, attorno alla casa, la famiglia e la pesca. Dovrebbe farci riflettere il fatto che l’unica volta in cui il paese si sente comunità, agisce insieme, trova un’espressione collettiva, è davanti alla notizia che arriveranno dodici richiedenti asilo. Gorino non ha stranieri, tutti sono del posto. Ma ugualmente reagisce ribellandosi al sindaco di Goro, al prefetto, al colonnello dei carabinieri che promettono di far fermare le migranti una sola notte in paese. "Cosa vengono a fare qui? Abbiamo già i nostri guai, non ne vogliamo altri". Non ci voleva molto a prevedere quel che sta succedendo. La superficie sottile della civiltà italiana - la solidarietà cristiana, la fraternità socialista, il buon senso compassionevole liberale - si sta sciogliendo nei punti più deboli della nostra geografia sociale, i piccoli centri della lunga periferia italiana, i paesi di montagna e di campagna, le isole ghettizzate all’interno delle grandi città. Persone in buona parte anziane, estranee al circuito del consumo multiculturale, frastornate dalla globalizzazione, con gli immigrati si trovano nei giardini spelacchiati sotto casa un mondo che non hanno mai visitato e mai conosciuto, senza che le comunità siano state preparate a gestire il fenomeno, inquadrandolo nelle sue dimensioni, nelle prospettive, nel rapporto tra i costi e i benefici. Si sentono esposti, si scoprono vulnerabili, diventano gelosi del poco che hanno, egoisti di tutto: o appunto di niente, perché l’egoismo sociale funziona anche come forma identitaria di riconoscimento sociale e di auto-rassicurazione. Va così in scena una vera e propria lotta di classe in formato inedito, che mette di fronte la modernità esausta e logorata della democrazia occidentale con la primordialità dei mondi disperati che prendono il mare per cercare sopravvivenza, e nient’altro. Gli ultimi si trovano davanti i penultimi, che non vogliono concedere agli stranieri un millimetro di spazio sulla terra che considerano loro. Se non fossero scesi fino appunto al penultimo gradino della scala sociale (quello di un ex ceto medio che viveva del proprio lavoro, e che con la crisi si sente precipitare nella mancanza di impiego e di futuro) non si sentirebbero sfidati direttamente dai richiedenti asilo che bussano alla nostra porta: non si sentirebbero "concorrenti", invidiosi di quell’elemosina sociale che l’Europa elargisce con un’accoglienza riluttante, mandando i carabinieri a requisire sei stanze di un ostello vuoto in una stagione turisticamente morta. È l’ultima espressione del welfare state: nato come forma di solidarietà, come strumento di emancipazione e di integrazione - dunque di cittadinanza, diventa simbolo di divisione e di identità, come un privilegio da consumare soltanto noi, al riparo dagli occhi stranieri e alieni. Per capire bisogna avere il coraggio e la pazienza di guardare dentro l’impoverimento morale prodotto in ognuno di noi dalla crisi, che agisce sul sentimento di sé e degli altri. È un percorso scavato dalla paura e dall’insicurezza, due giganteschi motori politici di cui raccoglieremo i risultati avvelenati tra qualche anno. La crisi più lunga del dopoguerra, la mancanza di lavoro, l’erosione dei risparmi, la disoccupazione giovanile, il terrorismo jihadista nei nostri Paesi sono fenomeni che tutti insieme trasmettono la sensazione di un mondo fuori controllo, senza più governance, con la mondializzazione che diventa una minaccia, la politica e le istituzioni fuori gioco. L’insicurezza sociale determinava ancora domande politiche, l’attesa di una soluzione di governo. Quando l’insicurezza da sociale diventa fisica, cerca invece soluzioni pre-politiche o post-statuali, che rispondano a paure più che a bisogni, a una necessità di protezione più che di emancipazione, come se in gioco ci fosse non più la sicurezza del cittadino, ma l’incolumità dell’individuo. Questa miscela fatta di spaesamento e solitudine, panico del presente e angoscia del futuro, si scarica facilmente e immediatamente sull’immigrato. Soprattutto nelle piccole comunità, e nel caso di anziani soli davanti allo spettacolo della paura moltiplicato dalle televisioni, c’è il timore di perdere il filo di esperienze biografiche condivise, che è quel che forma identità e comunità. C’è il timore, cioè, di finire "globalizzati" a casa propria, spostati senza muoversi, mentre il mondo fa un giro completo intorno a noi che non sappiamo più padroneggiarlo, con le nostre mappe diventate inutili. "Noi non siamo razzisti", ripetevano davanti ad ogni microfono gli abitanti di Gorino sulle barricate. Ed erano sinceri. Ma siamo arrivati al punto che la coscienza di sé diventa esclusiva, la paura spiega l’egoismo, il destino degli altri non ci interpella: purché non qui da noi, finiscano dove vogliono, finiscano come possono, finiscano comunque. È la presa d’atto di una sotto-classe umana che non ha diritti e non può pretenderne, perché non assimilabile e dunque superflua, quindi inutile. Quanto alla sua pretesa di sopravvivere, alla sua ricerca disperata di libertà a costo della vita, è un problema che non ci riguarda: non noi, non ora, soprattutto non qui. In questo modo mutiliamo la nostra umanità e rinunciamo ad ogni politica nei confronti dei migranti. La sostituiamo con il bando. Ci basta bandirli per non vederli, respingerli per allontanarli, non farli avvicinare per proteggerci. Non capiamo che solo una Europa che abbia un ministro degli Interni dell’Unione e una politica estera unitaria può affrontare il fenomeno. Dovremmo pretenderla, imporla, costruirla, invece di mettere in campo misure burocratiche e fisiche di selezione, le liste delle lingue e dei dialetti, la richiesta di esaminare i denti dei ragazzi richiedenti asilo per capire se sono bambini, minori o adulti, i rilevatori di battito cardiaco e di CO 2 al porto di Calais quando arrivano i camion, per scoprire se ci sono esseri umani nascosti. Se la politica non contrasta il passo alla paura, rispondendo ai sindaci toscani che denunciano una sperequazione nelle quote di accoglienza, ascoltando il sindaco di Milano che chiede di uscire dall’emergenza perché ormai il fenomeno ha bisogno di misure strutturali, faremo crescere mille casi Gorino, tentativi disperati e inutili di privatizzazione della sicurezza nella dispersione di ogni sentimento di fiducia nello Stato, nel suo senso di giustizia, nella sua capacità di garantire insieme protezione e democrazia. Proprio nel momento in cui credono di poter far da soli, non lasciamo soli i cittadini di Gorino: lo sono già, in compagnia soltanto delle loro paure. Ma sul delta del Po, ieri è nata l’ultima nostra raffigurazione contemporanea, spogliata del cosmopolitismo, dell’identità europea, del multiculturalismo, del sentimento di cittadinanza del mondo. È l’indigeno italiano, ciò che certamente noi siamo ma che non ci eravamo mai accontentati di essere. Migranti. L’isteria populista non è la risposta giusta di Paolo Pombeni Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2016 Gran brutta storia. Un Paese senza nessun profugo che fa le barricate per impedire che vengano alloggiate una dozzina di donne rifugiate con i loro bambini è un segnale inquietante.Il ministro Alfano ha detto che "questa non è Italia", il vicario generale della diocesi di Ferrara ha parlato di comportamento che "ripugna alla coscienza cristiana". Parole che vorremmo rappresentassero il sentimento comune, ma se ci si prende la briga di girare sui commenti che i siti dei grandi giornali pubblicano in calce alle loro notizie si scopre che ormai esiste un’Italia che, pur con l’anonimato dei nomignoli usati in internet, trasuda ostilità e rancore contro un fenomeno che comincia ad essere percepito come un flagello biblico da cui nessuno ci difende. Che poi il solito Salvini si affretti a twittare una solidarietà a questo genere di sentimenti rientra nella sua parte nella commedia (ma forse sarebbe meglio dire nella tragedia). Eppure il tema va affrontato prima che ci esploda fra le mani, perché quello di Goro-Gorino è un precedente inquietante: non solo per i sentimenti oscuri che ha espresso, ma perché al momento quei sentimenti sono risultati vincenti. Stupisce che il sindaco di Goro si sia affrettato a manifestare comprensione ai suoi compaesani. Si dirà: ovvio, lo hanno eletto loro. Ma fare il sindaco non è un obbligo, è l’accettazione di un dovere. Quel sindaco farà pur parte di un partito, che ha un codice etico, e per di più è un pubblico funzionario con delicati incarichi, incluso quello di responsabile dell’ordine pubblico. Qualcuno sanzionerà quest’uomo che ha tradito il suo ufficio? Si è detto che non si potevano manganellare i manifestanti per sistemare con la forza le persone aiutate come profughi. Giusto. Ma esistono leggi che vietano i blocchi stradali e che puniscono chi si ribella ad ordini legittimi. Le si applicheranno con il dovuto rigore? Il sindaco di Ferrara e presidente della provincia Tiziano Tagliani ha dichiarato che Goro è comune "che ha ricevuto molto dalle istituzioni". Si chiederà conto allora della sua ingratitudine verso le istituzioni e si capirà finalmente che non è degno di ricevere chi poi non è disposto a dare? Qualcuno penserà che stiamo proponendo interrogativi retorici in un Paese in cui nessuno è mai davvero responsabile, in cui i blocchi stradali sono considerati un mezzo para-legittimo di protesta, in cui i sostegni che si ricevono dalla mano pubblica sono "diritti" a cui non corrispondono mai doveri. Eppure se non rovesciamo questa mentalità rischiamo molto visti i problemi che dobbiamo affrontare e tenuto in conto di quante forze sconsiderate sono disposte a cavalcare gli spiriti animali di gente impaurita dalle rappresentazioni irresponsabili che si stanno diffondendo. La gestione dei migranti è un problema enorme e negare che generi squilibri, tensioni, problematiche molto complesse è semplicemente senza senso. Non è però con l’egoismo forcaiolo e con le chiusure a riccio che tutto quello potrà essere evitato. Dunque non si consenta spazio a queste esplosioni di isteria populista: farebbero crescere fenomeni poi difficili da contenere. Migranti. Profughi come merce di scambio di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 26 ottobre 2016 Nell’arrivo della lettera della Commissione Ue, tutti in preda ad collettivo "Bartleby lo scrivano", fa rabbrividire che Renzi si vanti della diversità perché "noi li salviamo" in mare". Ci mancherebbe altro dopo i cimiteri marini in Egeo e Mediterraneo e di fronte alla tragedia dei nostri centri di "accoglienza". Ma quanti ancora ne muoiono: perché insieme ai salvati arrivano le bare dei sommersi. Preoccupa che Renzi scopra ora il peso antidemocratico dei Paesi dell’Est, pronto a porre il veto al bilancio Ue se non prenderanno la ripartizione dei migranti. E minacciando che "l’Italia potrebbe non sopportare il flusso" dei disperati? Ecco che i migranti diventano merce di scambio, paravento per giustificare gli sforamenti dello zerovirgola dei bilanci nazionali tagliati dall’austerità e sotto il vincolo del fiscal compact ormai costituzionale. Se la realtà delle leadership europee è questa, immaginate quale può essere la dimensione sociale. A Goro, nel Delta padano ferrarese - povero Bassani - fanno le barricate per impedire che 12 donne africane con otto bambini possano essere ospitati in un ostello in disuso; nelle contee britanniche rifiutano, come da governo della Brexit, i pochi minori in arrivo da Calais; fanno lo stesso nei distretti francesi dove giungono i deportati dalla "giungla". È una vergogna che il ministro degli interni Alfano per i fatti di Goro abbia permesso al prefetto di fare marcia indietro, mentre non esita a far intervenire la polizia ogni giorno contro le proteste sociali, come ieri alla mensa universitaria di Bologna. Il fatto è che la politica dell’Unione europea sui migranti, o innalza i muri come fanno non solo a Est ormai, o è alla disperata ricerca dei "posti sicuri" dove esternalizzare l’accoglienza. Con la "riscoperta" dell’Africa - come fanno Italia, Germania e Francia, con rapporti diretti con Paesi che violanoi diritti fondamentali degli esseri umani, come la dittatura eritrea, il governo sudanese, egiziano, etiope, oppure la "serena" Turchia del Sultano Erdogan. Fuggono dalla miseria prodotta dal nostro modello di sfruttamento delle loro risorse e dalle nostre guerre che hanno distrutto il Medio Oriente. E lì inesorabilmente vogliamo ricacciarli. Migranti. La rischiosa retromarcia del prefetto di Ferrara di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 ottobre 2016 Uno Stato degno di questo nome deve gestire i flussi e non subirli, proprio per proteggere i cittadini evitando che cedano alle paure e all’intolleranza. La marcia indietro del prefetto può rappresentare un pericoloso precedente. È la sconfitta dello Stato. Alla fine ha dovuto ammetterlo anche Michele Tortora, il prefetto di Ferrara che ha ceduto alle proteste degli abitanti di Gorino contro l’arrivo di una ventina di migranti. E così a notte inoltrata, quando le undici donne e gli otto bambini stranieri erano pronti a entrare nell’ostello scelto per l’accoglienza, ha deciso di cambiare la loro destinazione. È la sconfitta di chi chiede all’Europa di essere solidale, di aiutare il nostro Paese a gestire i flussi di profughi che a migliaia continuano a sbarcare e poi non sa gestire l’assistenza per venti persone, non è in grado di predisporre misure adeguate ad ospitare una ragazza incinta, altre giovani, alcuni minorenni già fiaccati da giorni e giorni di viaggio. Da mesi l’Italia è meta di decine di migliaia di persone che fuggono dalle guerre e dalla miseria. Trovare una sistemazione adeguata non è semplice, soprattutto tenendo conto delle resistenze di sindaci e amministratori locali. Ma questo non può diventare un alibi. Uno Stato degno di questo nome deve gestire i flussi e non subirli, proprio per proteggere i cittadini evitando che cedano alle paure e all’intolleranza. Nel 2015 ci fu una situazione analoga a Roma. Di fronte a proteste ben più organizzate, fomentate anche da esponenti della destra estrema, l’allora prefetto della capitale Franco Gabrielli dichiarò pubblicamente che non ci sarebbe stato alcun ripensamento rispetto alla scelta di sistemare 19 stranieri in una struttura in periferia. Poliziotti e carabinieri furono messi a protezione dell’edificio e alla fine - grazie alla linea della fermezza - la rivolta dei residenti si fermò. La marcia indietro del prefetto di Ferrara dopo la decisione presa appena qualche ora prima, può invece rappresentare un pericoloso precedente. Nessuno deve pensare di far prevalere la violenza per riuscire a stravolgere le regole. Droghe. Stanze del consumo, la lunga marcia della Francia di Susanna Ronconi Il Manifesto, 26 ottobre 2016 Lunedì 11 ottobre 2016, la città di Parigi apre la sua prima (e la prima in Francia) stanza del consumo, un luogo dove assumere droghe illegali con la assistenza discreta di personale professionale, tenendo basso il livello di rischio droga correlato e soprattutto nullo quello di morte per overdose. A dire il vero non è questa la prima volta dei francesi: nel 2009 l’associazione dei consumatori d’oltralpe, Asud, ne aveva aperta una utilizzando i propri locali, tra provocazione e buone prassi, forti dell’evidenza di efficacia di un servizio diffuso in Europa dal 1986, che ha nei decenni dimostrato - e letteratura scientifica ce n’è in abbondanza (vedi su eurohrn.eu e emcdda.europa.eu) - un forte impatto sulla riduzione di rischi e danni soprattutto per chi consuma per via iniettiva. Sette anni per passare dai pionieri (che sono, come già nel 1981 per la distribuzione di siringhe sterili in Olanda, proprio i consumatori) agli operatori, da un progetto autogestito a un servizio del sistema sanitario, passando per l’autorevole giudizio positivo dell’Istituto Francese della Salute e della Ricerca Medica, nel 2010. Sette anni anche di contestazioni di parte della popolazione adiacente l’ospedale Lariboisière, zona Nord di Parigi, nelle cui vicinanze è ubicata la stanza, che temeva per la sicurezza, ma che hanno trovato nella sindaca Anne Hidalgo, e nella ministra della Salute Marisol Touraine rassicurazioni e promesse di buona gestione e controllo. Del resto, gli studi di impatto delle stanze sul territorio condotti soprattutto in Germania, Svizzera e Olanda hanno dimostrato disagi scarsi o nulli, nessun significativo aumento della microcriminalità locale e, di contro, effetti significativi nella riduzione degli episodi di uso a scena aperta. Così dopo Grecia, Spagna e Portogallo, un altro paese del Sud Europa - storicamente più lenta e restia ad innovare sulla base dell’evidenza e dei diritti dei consumatori - apre a un servizio che opera dalla metà degli anni ‘80 e ha raggiunto nel 2014 le 88 unità in Europa, dato in crescita nel 2016 grazie a Portogallo, Francia, Irlanda. Che se ne dice in Italia? Nulla a livello istituzionale, rimasto fermo al veto del 2009 quando l’allora Dipartimento Politiche Antidroga bandì le stanze dallo stesso vocabolario, come l’analisi delle sostanze e l’eroina medica, per puro slancio ideologico. Molto a livello di associazioni e consumatori, che già nei primi anni 2000 attivarono azioni di advocacy in questo senso, arrivando molto vicino alla meta a Torino, dove nel 2002 il sindaco Chiamparino accettò di istituire una commissione Comune-ASL per valutare l’apertura di una stanza, finendo in un nulla di fatto: pesò un intervento di Livia Turco, allora ministra, che ne sostenne l’illegalità secondo la legge vigente. Cosa non vera: nelle stanze non si manipola e tanto meno si gestisce la sostanza, che è in mano ai singoli consumatori, ma si sovrintende soltanto all’uso igienico e corretto, si informa e si forma ad un uso più sicuro. La legge non vietava e non vieta di creare un servizio per prevenire overdose e altri danni, qualsiasi attento giurista può confermarlo. Oggi la questione è di nuovo sul tavolo, tra gli obiettivi del "Cartello di Genova", e chissà se la stagione della ragionevolezza che sembra aver aperto qualche spiraglio innovatore nel confronto tra società civile, associazioni, movimento per la riduzione del danno e DPA saprà portare anche l’Italia in Europa, rivalutando un approccio pragmatico, attento in modo bilanciato ai bisogni di consumatori, popolazione e salute pubblica. Grecia. Dove i baby migranti finiscono in galera di Flore Wisdorff La Repubblica, 26 ottobre 2016 Se un minorenne fugge dal suo Paese da solo e cerca rifugio nel Paese ellenico, rischia di finire in prigione. Motivo: mancano i posti in centri d’accoglienza più adeguati. Ora però le autorità e le Ong, sottoposte a forti pressioni, stanno operando per migliorare la situazione. Quando approdò in Grecia, il 17enne Ahmed si credeva al sicuro. Non immaginava certo che proprio qui sarebbe finito in galera. Stava per raggiungere il confine con la Macedonia, nei pressi di Idomeni, quando la polizia greca lo ha arrestato e rinchiuso per 40 giorni in un carcere insieme a detenuti adulti. Un giorno, mentre cercava di vedere la TV come gli altri carcerati, è stato improvvisamente agguantato dalle guardie: "Mi hanno trascinato nell’ufficio degli interrogatori, si sono messi a urlare e a darmi botte sulla schiena". Ahmed, smilzo adolescente siriano proveniente da Daraa, nel Sud della Siria, non è mai riuscito a capire quale colpa avesse commesso per essere punito in quel modo. "Nessuno mi ha spiegato perché mi tenevano in carcere". Dal marzo scorso vive ad Atene, presso un centro d’accoglienza. I suoi genitori erano fuggiti in Libano già prima della guerra, e suo fratello aveva trovato rifugio in Gran Bretagna. "Ero solo e volevo raggiungerlo". All’epoca, in febbraio, le frontiere erano ancora aperte. La legge greca stabilisce che dal momento in cui gli agenti di polizia fermano un profugo minorenne non accompagnato, devono risponderne fino a quando non venga accolto in una struttura adeguata. Ma i centri d’accoglienza sono stracolmi. Dunque, teoricamente è solo per proteggerli che in un primo tempo la polizia tiene i minori in stato di reclusione, non di rado in promiscuità con detenuti adulti. Attualmente, secondo i dati forniti dalle autorità locali, i posti esistenti nelle strutture adatte alle esigenze dei minori non accompagnati sono in tutto 1.110, contro 2.500 migranti ragazzini attualmente bloccati in Grecia. Secondo un rapporto pubblicato nel settembre scorso da Human Rights Watch, a causa della "cronica scarsità di posti adeguati" molti adolescenti e persino bambini soli vengono trattenuti" arbitrariamente e per periodi prolungati in stato di detenzione", spesso "in condizioni degradanti". Secondo la stessa organizzazione, a metà ottobre i profughi minori non accompagnati costretti a vivere come carcerati, talora per vari mesi, erano 381, di cui 13 trattenuti ufficialmente in "custodia cautelare" presso commissariati o posti di polizia. A quella data, altri 1246 si trovavano in campi o alloggiamenti insieme a connazionali adulti, ma senza alcuna protezione o assistenza specifica. Si tratta per lo più di adolescenti, provenienti nel 79% dei casi dalla Siria, dall’Afghanistan o dal Pakistan; ma non di rado sono ancora bambini: uno su cinque ha meno di 14 anni. Vittime vulnerabili in un Paese allo stremo - Questi migranti giovanissimi e soli sono particolarmente vulnerabili. In mancanza di tutela e di assistenza, sono spesso vittime di violenza sessuale, traffico di esseri umani o reti criminali. Human Rights Watch sostiene il loro diritto inalienabile a vivere liberi, e inoltre a poter fruire di un’adeguata assistenza psicologica e legale, e ad avere accesso alle attività ricreative che oggi sono negate a molti di loro. Per di più, sempre secondo il rapporto di quest’organizzazione, spesso non conoscono neppure la persona incaricata della loro tutela. Anche altre voci denunciano la situazione con durezza. Secondo un rapporto a cura di tre organizzazioni (Médecins sans Frontières, Save the Childen e l’Ong ellenica Praksis) la Grecia non riesce a garantire i diritti fondamentali dei minori. Dal canto suo la Commissione dell’UE descrive la situazione come problematica. In un recente discorso sulla situazione dell’Unione Europea e i suoi rapporti con la Grecia, il presidente Jean-Claude Juncker ha sollecitato "misure rapide e significative per tutelare i minori non accompagnati. Se non sapesse mostrarsi all’altezza di questo compito - ha aggiunto - l’UE tradirebbe i suoi valori storici". Le denunce si stanno moltiplicando da quando, l’estate scorsa, il problema è emerso con particolare evidenza. In passato e fino al marzo scorso la maggior parte dei profughi - minori, adulti, famiglie - attraversavano la Grecia per proseguire direttamente il loro cammino verso l’Europa centrale. Ma da quando la via del Balcani è chiusa, e dopo l’entrata in vigore dell’accordo tra UE e Turchia che vieta ai richiedenti asilo in arrivo sulle isole Egee di proseguire il loro cammino, questi profughi - compresi gli adolescenti e i bambini che hanno affrontato questo viaggio da soli - sono bloccati in Grecia. E in breve tempo il sovraffollamento delle strutture disponibili ha raggiunto il massimo. Le autorità greche, già molto provate e costrette ora ad affrontare anche il problema più complesso dei minori non accompagnati, sono allo stremo. "Sono stanco. Stanco di aspettare. Sto perdendo troppo tempo qui" - A Mitilini, capoluogo di Lesbo, conosciamo Hamdou, un ragazzo siriano di sedici anni. Lo incontriamo in un vasto giardino, tra piante di aranci e limoni, con sullo sfondo una villa a tre piani. Altri ragazzi giocano a ping pong. Hamdou è pallido, ma ha ancora il volto paffuto di un bambino. Da sette mesi è ospitato presso questo Centro d’accoglienza di Praksis con altri 23 adolescenti. Nella villa in stile neoclassico, con alti soffitti, condivide con 7 compagni una stanza con quattro letti doppi. Nel soggiorno i ragazzi dispongono di due computer, e hanno la possibilità di imparare l’inglese e il greco. Sono assistiti da una psicologa e da un consulente legale che segue l’iter delle loro domande d’asilo. Hamdou ha avuto fortuna. Ma non da subito. Approdato a Lesbo otto mesi fa, dopo la fuga dalla guerra in Siria, è passato per il Centro di prima accoglienza di Moria, a pochi chilometri da Mitilini, dove i ragazzi sono trattenuti in un "Detention Centre". "Era come stare in galera", dice Hamdou. E dire che aveva alle spalle una fuga drammatica e perigliosa. Sette ore di strada a piedi fino al confine turco, poi altri tre giorni di marcia per raggiungere la riva del Mediterraneo; da qui gli scafisti lo hanno portato a Lesbo. Al momento sono 75 i ragazzi tuttora rinchiusi in quel centro sovraffollato (che ospita complessivamente 6000 profughi) in un settore isolato e ristretto, circondato da mura e barriere. Vivono in container da 20 posti letto ciascuno, con davanti un misero cortiletto coperto di ghiaia, dove hanno almeno la possibilità di sgranchirsi le gambe. Nel marzo scorso, quando Hamdou si trovava in quella struttura, nessuno poteva uscire da lì. Ora gli assistenti sociali delle Ong provvedono almeno a organizzare per i ragazzi gite settimanali e brevi passeggiate quotidiane nei pressi del Centro. Ma il clima è molto teso. Come rileva Konstantina Belteki, assistente sociale di Praksis, "le condizioni di vita qui sono tutt’altro che buone, e incidono negativamente sullo stato psicologico dei minori." A fine settembre c’è stata un caso di abuso sessuale; quattro ragazzi sono stati arrestati. Hamdou ha passato 16 giorni in questa struttura, ma molti vi rimangono per periodi più lunghi, anche di 4 mesi. Secondo la legge greca i minori non accompagnati possono essere tenuti in condizioni di reclusione solo come ultima ratio, per un massimo di 25 giorni; ma a detta di Konstantina Belteki questo limite viene spesso superato. "Ci sentiamo prigionieri. E non ci fidiamo più di nessuno" - Giorgios Spyropoulos, responsabile del Centro d’accoglienza di Lesbo, dice che gli adolescenti continuano a sentirsi prigionieri anche quando vengono trasferiti in strutture aperte. L’iter delle domande d’asilo comporta tempi lunghissimi, tanto che molti di questi ragazzi non riescono più a vedere una via d’uscita; e soffrono più degli adulti dello stato d’incertezza in cui sono costretti a vivere. "Sono stanco. Stanco di aspettare. Sto perdendo troppo tempo qui" dice Hamdou. Vorebbe imparare il tedesco, dato che suo fratello vive in Germania. Ha fatto domanda di ricongiungimento familiare, ma sta ancora aspettando la risposta. Ma per Mariliz Dialatzi, la psicologa che assiste Hamdou e gli altri ragazzi del Centro di Mitilini, questi giovani sono forti. "Sapranno cavarsela, anche se molti hanno subito forti traumi. Sono riusciti, da soli, a compiere un viaggio irto di difficoltà e pericoli." Questi ragazzi non si comportano come la maggior parte dei loro coetanei. Sono molto più seri. Ma stanno male per le condizioni di costante frustrazione in cui vivono: una situazione di stallo che a quell’età è anche più difficile da sopportare. "Quando hanno intrapreso la fuga dal loro Paese - prosegue la psicologa - avevano davanti a sé un obiettivo ben preciso. Ora però si vedono davanti un gigantesco ostacolo: le domande d’asilo sembrano arenate. Come mai? Provano a chiederlo ai legali, ai funzionari, agli amici, e da ognuno ricevono una risposta diversa. Alla fine non si fidano più di nessuno" L’obiettivo a cui tendevano sembra dissolversi in una sorta di nebbia. È un’esperienza dolorosa, che a volte li conduce alla depressione o all’autolesionismo. L’egoismo dell’Europa - Gli Stati dell’UE potrebbero venire incontro a questi minori assicurando loro la precedenza nei programmi di rilocalizzazione dei profughi bloccati in Grecia. Era previsto il trasferimento di 64.000 migranti che dovrebbero già essere distribuiti tra gli Stati dell’UE, ma finora quelli che hanno potuto lasciare la Grecia non sono più 4.000, tra cui solo 75 minori non accompagnati. La Germania ne ha accolti appena quattro. La Commissione dell’UE chiede agli Stati membri di accelerare i tempi dei trasferimenti e di dare la priorità a questi minori. Anche organizzazioni come Human Right Watch, Save the Children e Médecins sans Frontières premono per accelerare l’iter delle loro domande di ricongiungimento familiare. Oltre tutto, ciò consentirebbe di liberare posti nelle strutture di accoglienza greche. Ma per le organizzazioni di difesa dei diritti umani è anche indispensabile migliorare le condizioni di accoglienza. A questo scopo, nel settembre scorso la Grecia ha ricevuto dall’UE 115 milioni di euro che hanno consentito l’avvio importanti lavori di riqualificazione dei centri d’accoglienza. Di fatto però, non si tratta sempre di alloggi nel senso proprio del termine. Spesso, per guadagnare tempo si ricorre all’allestimento di aree separate nei campi già esistenti, per creare settori protetti dove i migranti ragazzini possano essere seguiti 24 ore su 24 dagli assistenti sociali. A giudizio di Galit Wolfenson, esponente dell’Unicef inviata ad Atene da New York con l’incarico di assistere il governo greco nell’opera di riqualificazione delle infrastrutture, "una delle maggiori sfide è la creazione di nuovi alloggi". È soprattutto importante garantire agli adolescenti e ai bambini ospitati nei centri d’accoglienza la necessaria protezione e assistenza, anche sul piano psicologico. L’Unicef collabora con le autorità greche per la loro sistemazione a più lungo termine, anche presso famiglie affidatarie. L’inviata dell’Unicef sottolinea tra l’altro la necessità di una riforma delle leggi greche per la tutela dei minori. Attualmente i legali, incaricati da un giorno all’altro di assumersi la responsabilità di un numero eccessivo da casi, sono sovraccarichi di lavoro, tanto che spesso non trovano neppure il tempo di incontrare i ragazzi di cui dovrebbero occuparsi. Le regole dell’Unione Europea prevedono l’obbligo di nominare un tutore entro cinque giorni dalla presentazione della domanda d’asilo da parte di un minore non accompagnato. Ma a detta degli esperti di Human Rights Watch, molti di loro non sanno neppure di avere un tutore. Una piccola speranza - Anche in questo campo la situazione dovrebbe migliorare in un prossimo futuro. L’Ufficio Ekka del ministero degli Affari sociali, competente per i migranti, intende provvedere al più presto alla registrazione, formazione e valutazione dei tutori. "Le autorità greche - commenta la Wolfenson - hanno riconosciuto la necessità di intervenire". Ma per Ahmed, l’adolescente siriano che dopo aver subito 40 giorni di detenzione ha trovato accoglienza presso un centro di Atene, tutto questo ormai non ha più importanza. Per lui c’è stata un’insperata svolta positiva. Da alcune settimane gli hanno fatto sapere che la Gran Bretagna ha accolto la sua domanda di ricongiungimento familiare. Dunque potrà andare a Birmingham da suo fratello, che non vede da due anni. Cosa pensa di fare? "Intanto, imparare l’inglese", risponde. E aggiunge sorridendo: "Per il momento non ho altri progetti ". Siria. Crimini contro l’umanità, le accuse ad Assad di Asmae Dachan Panorama, 26 ottobre 2016 Un team internazionale sta raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti per istituire i primi processi contro il regime di Damasco. Almudena Bernabeu è Procuratore internazionale e direttrice del Transitional Justice Programme al Center for Justice and Accountability (Cja), in prima fila per chiedere l’incriminazione degli autori dei crimini commessi in Siria. "Alla luce di quanto emerso dal dossier Caesar (le fotografie dei corpi dei detenuti morti sotto tortura nelle carceri del regime, ndr), stiamo lavorando, soprattutto con la comunità siriana che ormai vive all’estero, per cercare di rintracciare i parenti delle vittime. Stiamo investigando sulle responsabilità che ci permetteranno di chiedere l’imputazione dei colpevoli di atti di tortura deliberati e sistematici e dell’uccisione di civili siriani". Il Procuratore rivela che si opera con i parenti delle vittime che risiedono all’estero o che hanno una seconda cittadinanza rispetto a quella siriana, per garantirne l’incolumità ed evitare ritorsioni. Ma anche tra i siriani all’estero molti hanno timore a esporsi. "Comprendiamo le loro paure - dichiara Benabeu, sono stati spesso presi di mira anche quando non erano coinvolti in nessuna forma di protesta. Credo, comunque, che la complessità della crisi siriana non permetta alcun cambiamento dall’esterno, ma solo attraverso iniziative intraprese dai siriani stessi. La mia speranza è di aiutare i siriani a ottenere giustizia. Abbiamo le capacità di avviare azioni legali e la mia speranza più profonda è che questa consapevolezza dia loro coraggio. Dobbiamo agire, non abbiamo più tempo". Il dramma delle torture, infatti, in Siria è tutt’altro che passato. Secondo il Centro di documentazione delle violazioni in Siria, Vdc, infatti, ci sono oltre 64mila persone nelle carceri siriane che subiscono abusi e ci si chiede qual è il loro destino e se mai nessuno fermerà le violenze di al Assad. "A essere onesta, sono oltre dieci anni che cerco di mostrare che il partito Bàath e che molti alawiti stanno abusando dei diritti umani. Bashar al Assad, suo padre, suo zio e il loro regime hanno terrorizzato e controllato il popolo siriano per troppo tempo e la gente vive nella paura e tace. Dobbiamo interrompere questo circolo vizioso e dare ai siriani la possibilità di un riscatto. Mi piange il cuore a vedere così tante vittime dimenticate. Ecco perché sono qui a lavorare al fianco del popolo siriano e vorrei fare del mio meglio per loro". Russia: la prima fuga riuscita dall’Alcatraz russo rainews.it, 26 ottobre 2016 Per la prima volta nella storia della sua esistenza, dalla colonia penale russa di massima sicurezza "Delfino nero", nei pressi della città di Orenburg, è evaso un detenuto. Il precedente tentativo risale al 1960, quando un gruppo di detenuti tentò di scavare un passaggio sotterraneo, ma furono scoperti dall’amministrazione penitenziaria. La colonia penale IK-6, chiamata anche "Delfino nero" per un monumento eretto nel cortile da detenuti, ospita i peggiori criminali: assassini e stupratori seriali, pedofili, cannibali e terroristi. Alcuni detenuti a suo tempo erano stati condannati alla pena di morte, ma dopo la moratoria introdotta dall’allora presidente russo Boris Eltsin, sono stati inviati in una delle due colonie penali con all’interno carceri di massima sicurezza: "Delfino nero" e "Cigno nero". L’evaso è Aleksandr Aleksandrov, classe 1984, condannato per rapina a mano armata. Si sa che gli rimanevano pochi mesi per finire di scontare la pena e pertanto è stato autorizzato a svolgere qualche lavoretto nel cortile recintato. Tuttora non è stato catturato. All’interno c’è la prigione di massima sicurezza con celle sia singole, sia per 2-4 detenuti. La luce nelle celle non si spegne mai, c’è la videosorveglianza e ogni 15 minuti nella cella entrano per ispezione i secondini. Le dimensioni di una cella sono 4,5 metri quadri e all’interno c’è una sorta di gabbia nella quale si alloggiano i detenuti. La gabbia separa i detenuti sia dalle finestre con le grate sia dalla porta d’ingresso. Tra gli "ospiti illustri" c’è lo studente-chimico, neonazista Oleg Kostarev che ha confezionato un ordigno rudimentale, facendolo esplodere in un mercato di Mosca nel 2006 e causando la morte di 14 persone, tra cui 2 bambini; il disertore dall’esercito russo Vadim Ershov ha tagliato la gola a 19 persone; Oleg Rylkov ha violentato 37 bambine, uccidendo 4 di loro. Il terrorista ceceno Ahmed Ismailov ha fatto esplodere un complesso governativo a Groznyj: nell’esplosione sono morte 83 persone.