Il suicidio di un ergastolano fra le sbarre di Carmelo Musumeci (ergastolano, Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 25 ottobre 2016 "L’ergastolano ha un vantaggio sugli altri uomini: non si preoccupa di quello che gli potrà accadere domani perché il suo futuro non potrà mai diventare un domani". (Diario di un ergastolano: carmelomusumeci.com). Non ci posso fare nulla, molti non saranno d’accordo con me, ma ho sempre pensato che la morte in carcere è sempre una opportunità a portata di mano. Molti prigionieri quando s’impicca un loro compagno pensano che era un pazzo. Io invece penso che i pazzi siamo noi che continuiamo a vivere perché per molti di noi la morte è l’unica possibilità per evadere dal carcere. In un quarto di secolo ho conosciuto tanti prigionieri che si sono tolti la vita. Per non dimenticarli ho scritto spesso qualcosa su di loro. Questa volta è toccato a un ergastolano. Durante la notte, El Magharpil Ihad Said si è suicidato. Aveva scontato circa 20 anni di carcere. Da un po’ di tempo, usciva in permesso premio, ma il suo fine pena rimaneva sempre nell’anno 9.999. Lavorava nel magazzino del carcere. Da una settimana era rientrato da un breve permesso. Aveva passato due giorni da uomo libero nella struttura protetta "Piccoli Passi" qui a Padova. Oggi, durante l’ora d’aria nel cortile del passeggio, come purtroppo accade spesso in questi casi, alcuni di noi abbiamo commentato la sua morte. La pena dell’ergastolo è l’arma dei "buoni" per ammazzare i malvagi senza sporcarsi le mani di sangue. Said lo conoscevo bene, era sempre triste, ma quando sorrideva il suo sorriso gli illuminava il volto. Mi dispiace che se ne sia andato in questo modo. D’altronde come si può pensare al domani quando non hai nessuna certezza di rifarti una vita, quando non sai quando uscirai dal carcere, o meglio lo sai, mai. (Angelo) Spesso un uomo ombra per continuare ad esistere deve morire un po’ tutti i giorni. Io muoio al mattino quando apro gli occhi e rinasco alla sera quando li richiudo. Said ha preferito morire una volta per tutte. Diciamoci la verità, per noi la morte è il modo più sicuro per scappare dal carcere e dalla sofferenza. I filosofi non consideravano la scelta di suicidarsi un crimine o un peccato, ma solo un modo di abbandonare la scena quando la vita diventava inutile. E per Said la vita oltre che inutile gli era diventata anche insopportabile. (Roverto) Penso che Said ne avesse già abbastanza di questo mondo perché ogni prigioniero resiste a stare in carcere fino a un certo numero di anni che cambia a secondo degli uomini. Poi ad alcuni non gli rimane altro che impiccarsi alle sbarre della propria cella. Io ho già superato di molti anni questo limite, ma non ho ancora avuto il coraggio di togliermi la vita in quel modo perché ne ho visti troppi di prigionieri appesi alle sbarre delle loro finestre. E sono terrorizzato di fare quella fine. Una volta ho tentato di salvarne uno senza riuscirci tenendolo per i piedi. (Aurelio) L’ora d’aria finisce e ognuno di noi se ne torna in cella a capo chino e io penso che non c’è un prigioniero che non pensi a togliersi la vita per uscire prima, perché la libertà e la morte sono così vicine che basta allungare la mano per toccarle. E i più coraggiosi, a secondo dei punti di vista, lo fanno. Buona morte Said. La scelta di impiccarsi di Angelo Meneghetti (ergastolano, Ristretti Orizzonti) Alla mattina, come mi aprono la cella, scendo al pian terreno a prendere il carrello del vitto, per poi distribuire latte, caffè e thè. Finito il giro ridiscendo per riportare il carrello in cucina e me ne ritorno in cella. Ma oggi, appena entro nella sezione, dei detenuti mi chiamano e mi dicono che durante la notte si è appeso alle sbarre un ergastolano. Vengo a sapere che si tratta di un ragazzo egiziano di nome Said, lavorava al casellario e usufruiva dei permessi premio da qualche anno. Dialogo per pochi minuti con qualche detenuto e gli dico: vedi che Said ha scelto la strada più breve, si è accorto che non poteva avere un futuro certo, essendo stato condannato alla pena perpetua, pace all’anima sua. Quei due, tre detenuti mi rispondono che Said era un debole, guardo dritto nei loro occhi, penso un attimo e capisco che sto parlando con dei detenuti che hanno un fine pena certo, e non sono dei prigionieri veri come gli ergastolani. Gli ricordo che Said ha fatto la sua scelta, non ha aspettato di essere un vecchio per morire nel reparto dei semiliberi, ha capito che non sarà mai un uomo libero. Ma mi accorgo che loro non capiscono il significato delle mie parole e me ne torno in cella per farmi un caffè. Mentre sorseggio il caffè, penso alla scelta che ha fatto Said, ha avuto il coraggio di togliersi la vita anche se era ancora giovane, non era un debole solo che ha capito come funziona il sistema giudiziario italiano, dove gli ergastolani sono destinati a scontare quella inumana pena fino all’ultimo giorno della loro vita, per questo tanti ergastolani la chiamano "la pena di morte viva". Immagino che tanti diranno che togliersi la vita è un gesto sbagliato, ed è vero che è sbagliato in quanto la vita è il più gran dono che ci ha concesso Dio, ma è dura quando pensi che non sarai mai libero e nel corso degli anni hai perso i famigliari più cari, o come in certi casi dove sono gli ergastolani ad essere stati abbandonati proprio dai loro famigliari, che nel corso degli anni hanno capito che il loro caro non ritornerà mai a casa da uomo libero. Sapevo che Said era in carcere da oltre 20 anni, usufruiva da qualche anno dei permessi premi, forse anche lui era rimasto solo o abbandonato dai suoi cari e, in quelle poche ore che trascorreva in libertà, deve essersi reso conto che con la condanna perpetua sulle spalle aveva perso tutto e non aveva un futuro per continuare a vivere la sua vita. Un altro condannato alla pena di morte viva dell’ergastolo si suicida di Antonio Papalia (ergastolano, Ristretti Orizzonti) La notte tra sabato 22 e domenica 23 ottobre, nella casa di Reclusione di Padova, un uomo originario dell’Egitto di nome Said, si è tolto la vita, era uno dei tanti condannati alla pena di morte viva cioè all’ergastolo, si è impiccato alle grate della finestra della cella, con i lacci delle scarpe. Non avrei mai pensato che un giorno sarebbe arrivato a questo punto uccidendosi, io lo conoscevo in quanto era un lavorante del casellario e lo vedevo ogni volta che andavo a ritirare qualcosa che mi arrivava da casa. Questo gesto di togliersi la vita credo sia da attribuire alla condanna senza speranza qual è l’ergastolo, che oggi è in vigore nella nostra bella Italia, alla faccia dell’articolo 27 della nostra Costituzione, che dice che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. In realtà chi è condannato all’ergastolo ha la sola speranza di crepare tutti i giorni, senza nessuno sconto né di vita e né di morte, lasciato in una squallida tomba di poco più di tre metri e per tre metri. A mio parere farebbero prima a ripristinare la pena di morte, cosi noi risparmieremmo parecchie sofferenze alle nostre famiglie, visto che non viene rispettato l’articolo in questione, lasciando morire ogni giorno i condannati all’ergastolo. Anch’io sarei più volte tentato di farla finita, se non l’ho fatto è per non dare ulteriore dolore alla mia famiglia, che mi sta dietro da più di 24 anni. L’opinione pubblica a volte grida che l’ergastolo non lo sconta nessuno e che dopo poco li mettono fuori, il sottoscritto è appunto da ventiquattro anni che si trova in carcere ininterrottamente senza usufruire mai di nulla, e non sono il solo, come me ci sono centinaia di detenuti con la condanna 9999 destinati a una morte lenta un pezzettino al secondo. Noi ergastolani viviamo respirando e nutrendoci come cavalli chiusi in box messi all’ingrasso per poi essere macellati, in effetti siamo già dei morti che camminiamo come zombi tra ferro e cemento, senza futuro e senza poter progettare qualcosa per il domani, l’unica cosa certa è aspettare che arrivi la morte per poi essere consegnati alle nostre famiglie in quattro assi di legno, come sarà consegnato l’ergastolano Said che si è tolto la vita tra sabato e domenica. Non aveva più nulla da sperare di Biagio Campailla (ergastolano, Ristretti Orizzonti) Erano all’incirca le 23,30 del 22 ottobre 2016 quando nella Casa di reclusione di Padova, precisamente nella sezione 4/A/ cella n° 4, un 42enne detenuto di origine egiziana ha deciso di togliersi la vita. Con i lacci delle scarpe legati alle sbarre della finestra del bagno, messi a mo’ di cappio intorno al collo, si è lasciato morire. Ihab Elmagharpil Said era condannato alla pena dell’ergastolo, aveva già espiato 19 anni di carcere per un omicidio in una rissa commesso nel milanese negli anni 90. Anche il fratello maggiore, sempre per quella vicenda, era stato condannato a 16 anni. Dopo qualche mese di carcerazione anche lui aveva scelto di togliersi la vita. Dopo la morte del fratello Ihab non si era mai ripreso, non accettava questo gesto che l’aveva lasciato solo. Ihab qualche mese fa aveva fatto ricorso alla corte d’Appello di Milano per farsi convertire la pena dell’ergastolo in 30 anni di reclusione. Qualche giorno fa gli era arrivato il rigetto, veniva così confermata la pena dell’ergastolo. Per Ihab le speranze si erano spente. Ihab da qualche anno otteneva dei permessi premio, come prevede la legge, ma in un certo senso non lo facevano stare meglio quei permessi. Non aveva nessun familiare che lo veniva a trovare durante il permesso, tranne ogni tanto la sorella maggiore Amani proveniente dall’Egitto. Il mio nome è Biagio, anch’io sono detenuto ergastolano. Posso raccontare un po’ di vita di Ihab. Tutte le mattine alle 8,10 mi reco presso la redazione di Ristretti Orizzonti, incontravo Ihab al cancello di fronte al mio, anche lui si recava al lavoro presso l’Ufficio Casellario dell’istituto. Lui sempre con il suo sorriso gentile mi salutava, mi chiedeva sempre se c’erano notizie sull’abolizione dell’ergastolo. Anche la mia risposta era sempre la stessa: "Stai sereno che ce la faremo". Lui mi lasciava sempre con il suo sorriso gentile e mi diceva: "Speriamo". Ma pronunciava quella parola con gli occhi tristi e spenti. Tante volte lo incontravo al campo sportivo la domenica, sempre con le cuffie che ascoltava musica, la sua caratteristica era il sorriso gentile ed educato. Tante volte lo vedevo smarrito, come stesse vivendo in un’altra dimensione. Tante volte sembrava strano, lo avvicinavo e gli chiedevo se stava bene. Annuiva con la testa, e mi diceva: "Se un giorno uscirò, dove potrò andare che sono da solo?". Mi rattristiva quando lo vedevo disperato, ma poi tutto passava. Il 26 luglio 2016 ci siamo incontrati nella casa di accoglienza "Piccoli Passi" durante il nostro permesso. Quando sono arrivato ho trovato la mia famiglia ad aspettarmi. Lui invece era da solo. Gli ho detto di avvicinarsi e l’ho invitato a rimanere con noi, a pranzare. Gli dissi che era come fosse la sua famiglia. Lui sempre in modo educato e molto umile, nello stesso tempo anche timido, mi ha risposto: "Biagio ti ringrazio tantissimo, ma voglio rimanere con i volontari, tu stai con la tua famiglia". Io ammiravo tanto la sua gentilezza, il suo essere discreto e dignitoso. Dopo qualche ora lo avvicinai e lo invitai a prendere il telefono dei miei familiari e telefonare alla sua famiglia. Lui mi rispondeva di stare sereno, e che aveva telefonato alla sorella Amani e che non voleva disturbarla ancora, io gli dissi che poteva chiamare altri suoi familiari. Mi rispose che non aveva più nessun altro della famiglia. Il mio cuore si strinse sempre di più. Durante la giornata non volevo lasciarlo da solo, così lo invitai a fare una passeggiata nel piazzale della casa d’accoglienza. Gli dissi di fare come in carcere, avanti e indietro. Accolse questa mia richiesta. Iniziammo a parlare; ad un certo punto mi disse: "Biagio, noi con questa pena moriamo tutti i giorni, vorrei morire in un solo attimo. Ma tu Biagio, non devi farlo, devi vivere per la tua famiglia che ti aspetta da anni". Gli risposi che non doveva perdere le speranze, che le cose sarebbero cambiate e anche lui, un giorno, avrebbe avuto una famiglia. Sapeva che gli mentivo, ma lui mi voleva credere per confortarci entrambi. Mi confidò che sperava tanto in questa richiesta inoltrata alla corte d’Appello di Milano. Ma il rigetto ha chiuso tutte le sue speranze. Questo forse l’ha spinto a voler essere subito libero nell’aldilà. Ciao caro Ihab Elmagharpil Said. L’ergastolo se lo stava divorando di Bruno Turci (Ristretti Orizzonti) Lo hanno trovato lì, nel bagno, ormai morto. Era notte, a quell’ora i detenuti stavano tutti chiusi nelle loro celle, dormivano e dormendo si liberavano di quel fardello che è la galera. I sogni non te li ruba nessuno, ti portano via e ti fanno sentire libero. Said, invece, forse non sognava più. L’ergastolo se lo stava divorando, imprigionando la sua mente in una depressione spaventosa. Soffriva di fobie persecutorie. Alla fine non ce l’ha più fatta. Anche quella notte probabilmente non riusciva a dormire, non riusciva più a sognare. Allora ha preferito scappare via, liberarsi da questa tortura che è la morte viva di una pena che non finisce mai. Si è impiccato alle sbarre della finestra del bagno che è separato dalla cella. Lo ha fatto in silenzio, come era nel suo stile, senza dare fastidio a nessuno. Si chiamava El Magharpil Ihab Said era nato il 25/02/1972 in Egitto. Si trovava in carcere dal 1998. Aveva una sorella che lo seguiva dall’Egitto, dove vivono altri suoi familiari. Lo avevo conosciuto nel 2006 nella Casa di Reclusione di Milano-Opera. Era una persona tranquilla non gli avevo mai sentito dire una parola fuori posto, era una persona educatissima, un po’ solitaria, ma cordiale con tutti. L’ho, poi, ritrovato qui, in questa Casa di Reclusione a Padova. È stato qualche tempo in redazione a Ristretti Orizzonti, tuttavia, viveva un disagio mentale che non lo lasciava vivere sereno… certo che non è facile vivere sereni in certe condizioni. Un paio di anni fa aveva vinto dei ricorsi in Tribunale e aveva ottenuto di uscire in permesso premio per qualche giorno ogni due mesi. I permessi possono fare davvero bene alle persone condannate all’ergastolo o comunque a lunghe pene, tuttavia, il permesso può diventare una tortura se nel percorso di reinserimento nella società non vi è una evoluzione, cioè, se non vi è un graduale accompagnamento alle misure alternative, ad esempio al lavoro all’esterno. Talvolta nell’immaginario comune dell’opinione pubblica, la società civile per l’appunto, il permesso premio pare che sia il punto d’arrivo, non c’è nulla di più sbagliato, il permesso premio è soltanto il primo passo di un percorso rieducativo per il recupero delle persone condannate. Se utilizzato con coscienza è la migliore opera di prevenzione. Said, invece è morto perché viveva una situazione di grande disagio e non bastava un permesso premio per farlo star meglio. Sono molti i Said che si sono suicidati o hanno tentato di farlo in questi anni di sovraffollamento. Era rientrato due giorni prima dal permesso e stava male… quanti Said sono necessari, ancora, perché si avvii un cambiamento significativo delle pene e della detenzione? Giustizia, tregua Governo-Anm di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2016 Si allontana il minacciato sciopero dell’Anm ma si allontana ancora di più l’approvazione della riforma della giustizia penale. Che l’Aula ha già parcheggiato su un binario morto per almeno altre due settimane ma che potrebbe persino tornare il commissione Giustizia se Governo e maggioranza fossero realmente disposti a discutere la controproposta chiesta ieri alle toghe sull’unico punto che li divide: la cosiddetta "indagine breve" imposta al Pm, che "entro tre mesi" dal deposito degli atti deve chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione, pena l’"avocazione obbligatoria" dell’inchiesta da parte del Procuratore generale. Ad adombrare la marcia indietro in commissione (sia pure per modificare la norma) è stato Matteo Renzi durante l’incontro svoltosi ieri a Palazzo Chigi con una rappresentanza dell’Anm presieduta da Piercamillo Davigo, poi seguito da un altro incontro con una delegazione del Consiglio nazionale forense, presieduto da Andrea Mascherin. Il premier era affiancato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Non è stato un dialogo tra sordi" ha commentato il guardasigilli sottolineando le "disponibilità" del governo su vari fronti e quindi confidando in un ripensamento sullo sciopero ("Sarebbe strano" ha detto). Davigo non si è sbilanciato, ricordando che sullo sciopero deciderà il Comitato direttivo centrale dell’Anm il 28, ma prendendo atto di una serie di "aperture", anche sulla riforma penale. Aperture però non gradite agli avvocati, tant’è che Mascherin ha insistito sull’"equilibrio" realizzato dalla riforma "tra diverse culture" e i penalisti (benché non ricevuti) hanno subito fatto sapere di considerare "inaccettabili" e "intollerabili" eventuali "cedimenti" sull’indagine breve. Sul tavolo del confronto con l’Anm - che ha già rinviato una volta la decisione sullo sciopero in funzione dell’incontro - non c’era soltanto la riforma del processo penale. Prendendo lo spunto dalla frase del premier - che durante il ping pong sulla fiducia aveva spiegato la sua cautela con le "critiche" degli "amici magistrati" - Davigo e il segretario Francesco Minisci hanno infilato nel dossier portato a Palazzo Chigi altre due questioni calde: la carenza di risorse materiali e umane (su 9mila magistrati in organico ne mancano 1.130 mentre è di 9mila unità il deficit di cancellieri) e la proroga di un anno dei vertici della Cassazione in età pensionabile. E su questi due punti, l’Anm è più agguerrita che sulla riforma penale. Il decreto sulle pensioni è stato appena convertito in legge (con voto di fiducia) per cui l’Anm, spiega Minisci, ha chiesto almeno di accelerare i concorsi in magistratura e, nel frattempo, di portare a 72 anni l’età pensionabile per tutti i magistrati, così da coprire almeno una parte dei vuoti. Davigo ha anche fatto sapere che l’Anm appoggerà i magistrati che dovessero impugnare i provvedimenti (di pensionamento) davanti alla Corte di giustizia Ue, che ha già accolto analoghi ricorsi contro una legge dell’Ungheria. "Se accadesse anche per l’Italia, sarebbe devastante" ha aggiunto, riconoscendo però da parte del governo delle "aperture" su questo fronte. Così come su quello del personale amministrativo: l’Anm ha ripetuto che il recente bando di assunzione di 1.000 cancellieri non basta ma occorre un "piano pluriennale di reclutamento" e che c’è "l’assoluta necessità di riqualificazione del personale" trasferito alla Giustizia con la mobilità. Renzi e Orlando hanno risposto che le risorse per assumere 4mila unità ci sono "ma c’è un vincolo legislativo" ad assumere. Tra l’altro, Renzi non ha escluso una possibile parificazione retributiva delle toghe ordinarie con quelle contabili e amministrative (che guadagnano di più). Quanto alla riforma della giustizia penale, Orlando ha detto che nel testo in Aula non c’è più la norma che sanzionava disciplinarmente il Pm che non iscriva "immediatamente" nel registro degli indagati. Sull’avocazione obbligatoria, lui e Renzi hanno dato la "disponibilità" a discutere diverse soluzioni, chiedendo all’Anm di studiare "un altro percorso rispetto al termine dei 3 mesi". Non si è invece parlato della prescrizione. L’abbinamento "galeotto" che ha affondato anche la prescrizione di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2016 Sei mesi fa, al grido di "accelerazione", governo e maggioranza decisero di abbinare il ddl sulla prescrizione a quello sul processo penale. Quell’accordo politico, però, fu il primo passo verso il baratro in cui stanno precipitando entrambe le riforme. Oggi è difficile fare previsioni sulla sorte dei 40 articoli del provvedimento, ribattezzato "riforma della giustizia penale". Approdato in Aula a fine luglio, lì è rimasto e rimarrà per altre due settimane (non è in calendario) e quasi sicuramente, ormai, fino al 4 dicembre, cioè fino al voto sul referendum costituzionale. Matteo Renzi non vuole rischiare né incidenti né polemiche prima di quella data, tanto che ha bloccato il ricorso a una fiducia già autorizzata. Né l’incontro di ieri con Anm e avvocati gli ha fatto cambiare idea. Peraltro, lo scenario politico del dopo-voto è talmente incerto da non autorizzare previsioni sulla sorte della riforma. Galeotto, quindi, fu l’abbinamento deciso il 27 aprile scorso. Una scelta politica sbagliata, anche se giustificata pubblicamente con l’obiettivo di sbloccare il Ddl sulla prescrizione, licenziato dalla Camera il 22 maggio dell’anno prima ma poi fermatosi in commissione Giustizia, al Senato, dopo la presentazione degli emendamenti. Quel 27 aprile, il Ddl sul processo penale era appena uscito dalla discussione generale in commissione, quindi aveva appena cominciato a muovere i suoi primi passi (dopo il via libera della Camera). La riforma della prescrizione - sebbene bloccata - era più avanti e contava solo 6 articoli; il Ddl sul processo penale doveva ancora entrare nella fase degli emendamenti e di articoli ne contava ben 35, per di più "pesanti" e sulle più svariate materie (intercettazioni, impugnazioni, carcere, aumenti di pena per alcuni reati). Divisivi entrambi, si decise però di unirne la sorte per "accelerare" la prescrizione. Quello doveva essere il messaggio politico. E mediatico. In realtà, quello fu solo un abbraccio mortale. Far salire la prescrizione sul treno appena partito del Ddl sul processo penale significava rallentare la corsa di entrambi e creare le condizioni per una serie di scambi politici che avrebbero potuto anche trasformarsi in pesantissimi veti. Com’è infatti accaduto, complici una situazione politica sempre più frammentata e, soprattutto, il referendum sulla riforma costituzionale. I 6 articoli del Ddl sulla prescrizione avrebbero potuto essere approvati in due mesi, a dir tanto. Quindi, con un bel margine di anticipo rispetto alla delicata fase politica che, di lì a poco, si sarebbe aperta in prospettiva del voto referendario. In varie occasioni Renzi si era esposto sulla riforma che avrebbe "raddoppiato i termini della prescrizione" e l’Ocse ci aveva aperto una linea di credito dopo le misure anticorruzione approvate, e quelle in cantiere. L’occhio di Parigi era, come sempre, puntato in particolare sulla riforma della prescrizione, considerata "strutturale" e perciò necessaria per ridurre il rischio di morte prematura dei processi di corruzione, rischio non scongiurato dai semplici aumenti di pena di alcuni reati (come i dati dell’Ocse dimostrano). Del resto, se ci fosse stata una reale volontà politica, il governo avrebbe potuto ricorrere al voto di fiducia. Ha invece preferito l’abbinamento, creando un provvedimento da molti definito monstre, perché composto da 40 articoli eterogenei quanto a materie trattate (diritto penale, processuale, penitenziario) e a natura delle norme (molte delle quali sono di delega al governo, come quella sulle intercettazioni). Il monstre è andato avanti a fatica e soltanto a luglio è uscito, modificato, dalla commissione Giustizia, sulla base di un accordo politico poi rivelatosi fragile. Più che i dissensi esterni - di magistrati e avvocati - a pesare sono stati quelli politici, trasversali alla maggioranza, che hanno preso in ostaggio il provvedimento. Divenuto anche il terreno di un braccio di ferro politico tra Orlando - che all’accordo aveva lavorato e confidava di tagliare il traguardo già a settembre - e Renzi - preoccupato di eliminare ostacoli nella corsa al referendum. Intanto, sul tavolo di Orlando e del Presidente del Senato Pietro Grasso è stata appena depositata la lettera in cui l’Ocse sollecita l’Italia ad approvare le nuove norme sulla prescrizione, per dare credibilità a una politica anticorruzione che, così com’è, resta drammaticamente monca. Disgelo Renzi-magistrati: riforma dopo il referendum di Nino Bertoloni Meli e Sara Menafra Il Messaggero, 25 ottobre 2016 Loro proponevano, e gli altri, premier e Guardasigilli, ad ascoltare, annuire, "ma certo, siamo d’accordo". Piercamillo Davigo a chiedere "più organici" e Matteo Renzi e Andrea Orlando ad assicurare, di più, a confermare che in magistratura si riaprono i concorsi fermi da data immemorabile, "a fine novembre ce ne sarà uno per la copertura di mille posti" e più in generale entro poco tempo saranno banditi in totale quattromila posti, per coprire almeno metà della complessiva carenza di organico dei tribunali italiani. Un disgelo tendente al clima idilliaco, tanto che quando a un certo punto portano il caffè per tutti, "chi lo beve amaro?", fa Renzi, e l’accordo si trova pure su chi lo vuole con zucchero e senza zucchero. Lasciata fuori dalla stanza la questione delle intercettazioni, "non se ne è fatto neanche cenno", la testimonianza dei più, nonché quello che passa per "scontro tra magistratura e politica"; ed evitato di mettersi a parlare di referendum, neanche materia dell’incontro fra l’altro, ecco che il faccia a faccia a palazzo Chigi fra la nutrita delegazione dell’Anm guidata da Davigo e ricevuta da Renzi e Orlando se non è filato liscio, è stato senz’altro qualcosa che gli somiglia molto. Un incontro che ha sforato il tempo previsto, sicché dopo le oltre due ore di colloqui al miele di castagno (sempre miele ma dal sapore asprigno) Davigo è poi arrivato in ritardo all’appuntamento che lo attendeva dopo. Finanche palazzo Chigi ci ha tenuto a far sapere che il miele era stato versato, diramando al termine un apposito comunicato che nelle ultime righe sottolineava come l’incontro avesse rappresentato "un’occasione di confronto e di riflessione sui temi della giustizia", con spazio ben maggiore di quello concesso al successivo incontro con il Consiglio nazionale forense. Lo scontro, se ci sarà, è rimandato. Certamente a dopo il referendum. Quando Renzi fa l’elenco dei "suoi" prima indagati e poi assolti (De Luca, Errani, Graziano, Paita...) non è certo un agitare l’ulivo in faccia ai magistrati. Ma tant’è: il premier si è guardato bene dal fare quell’elenco davanti a Davigo, è chiaro, però, che la questione rimane sottotraccia e prima o dopo affiorerà. Nel frattempo, è disgelo. Al punto che lo sciopero della categoria appare scongiurato. L’associazione dei magistrati si riunirà il 28 ottobre prossimo, venerdì, per quella data non rullano più i tamburi di guerra, i giudici non hanno (ancora) seppellito l’ascia di guerra, ma sono molto orientati a farlo. E infatti a fine mattinata Davigo ha commentato: "Noi abbiamo manifestato le nostre perplessità su norme che riteniamo irragionevoli, da Renzi sono arrivate delle aperture". Nel frattempo, i magistrati vogliono garanzie sugli impegni ascoltati durante l’incontro e primi segnali sui provvedimenti annunciati. In breve: Renzi, come Davigo ha riconosciuto al termine, ha aperto sulla questione dei pensionamenti, che non saranno più ristretti a 13-18 magistrati ma "estesi a tutti dai 72 anni in poi", in via transitoria. Una misura che premier e Guardasigilli hanno accolto e che adesso l’Anm si attende di vedere trattata nella prossima legge di bilancio. Sull’altro tema caldo, la riforma del processo penale, sono due i punti che l’associazione delle toghe chiede di modificare rapidamente. La possibilità di "avocazione" da parte del Pg tre mesi dopo la chiusura del fascicolo, se per questo non arriva né la richiesta di archiviazione né quella di rinvii a giudizio. L’accordo non c’è, ma Orlando ha rilanciato: "Se non vi sta bene, allora fate un’altra proposta", l’importante, resta sottinteso, è che le garanzie per il cittadino inquisito ci siano. Via del tutto, invece, l’altro punto dolente: la creazione di un illecito disciplinare specifico per il pm che tarda l’iscrizione al registro degli indagati della notizia di reato. "Renzi è riuscito a trasformare l’Anm da soggetto politico in sindacato che tratta sui temi concreti", la battuta girata tra alcuni dem addetti ai lavori sulla giustizia. Il primo segnale potrebbe arrivare proprio sulla riforma della giustizia: per mettere a punto le modifiche concordate con l’Anm bisogna rimandare il testo in commissione giustizia al Senato, togliendola dal calendario d’aula. Un modo per cogliere due piccioni con una fava, vien da pensare. La questione di fiducia sul testo è sempre lì sospesa, il ministro Orlando la vedrebbe di buon occhio, ma dalle parti della maggioranza, in primis fra i centristi alfaniani e verdiniani, continuano a rimanere poco graditi i termini di allungamento della prescrizione. Prendere tempo può essere la soluzione utile per tutti. Prove di dialogo tra governo e Anm sulla giustizia (con cautela) di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 ottobre 2016 Tutti concordano sul "clima positivo", tant’è che dalla iniziale mezz’ora concessa dal premier Renzi l’incontro s’è prolungato per quasi due ore. "Non è stato un dialogo tra sordi e c’è l’impegno a risentirci a breve", sottolinea il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ma l’Associazione nazionale magistrati attende di vedere i risultati. Per esempio sulla proroga dell’età pensionabile a 72 anni per tutti, finché non si arriverà alla copertura degli organici. "Il nostro argomento è stato ritenuto convincente", annuncia il presidente dell’Anm Davigo all’uscita di palazzo Chigi. Si spinge a parlare di "apertura", ma con cautela. Non fosse altro perché gli stessi discorsi i magistrati li avevano fatti due anni fa, totalmente inascoltati dal governo che abbassò il limite d’eta da 75 a 70 anni, senza prevedere norme transitorie per le uscite graduate. Provocando la "rottamazione" di centinaia di vertici degli uffici giudiziari, a cui s’è dovuto porre rimedio con un paio di aggiustamenti in corsa: l’ultimo per decreto legge per un pugno di magistrati ai vertici della Cassazione, con il voto di fiducia che ha escluso ogni possibilità di modifica, proprio alla vigilia della riunione con le toghe. Uno sgarbo per sigillare il provvedimento che l’Anm ha definito incostituzionale, concetto ribadito al premier. Il quale s’è riservato di trovare soluzioni, come se il problema dei vuoti d’organico gli fosse stato posto ieri per la prima volta. Ha preso appunti sulle scoperture, dopo che lo stesso Davigo aveva spiegato che, con le risorse che ha a disposizione, più di ciò che ha fatto il ministro della Giustizia non poteva. Ma le questioni sul tavolo sono tante. Riguardano ad esempio l’impossibilità per i giovani giudici di cambiare sede prima di quattro anni, e non più tre come prima. O l’obbligo per i pm di decidere tra archiviazione o rinvio a giudizio entro tre mesi dalla chiusura delle indagini, pena l’avocazione del fascicolo da parte della Procura generale. "Fate proposte alternative, ma un indagato deve poter conoscere il proprio destino in tempi certi e ragionevoli", ha precisato su questo punto Orlando. L’Anm presenterà le proprie ipotesi di soluzione. E venerdì il comitato direttivo deciderà eventuali forme di protesta, che possono arrivare fino allo sciopero. "Sarebbe strano di fronte alla disponibilità ad accogliere alcune richieste e a rafforzare lo sforzo organizzativo", commenta il Guardasigilli. I magistrati sembrano intenzionati a voler cogliere l’occasione, senza strappi anticipati. Cercando però di evitare che l’attenzione ai loro "disagi" ceda il passo all’oblio; magari quando sarà passata l’emergenza referendaria che ora preoccupa Renzi. Verità e luoghi comuni, il chiaroscuro della nostra giustizia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 ottobre 2016 I tempi medi di definizione dei processi civili sono elevati, ma ci sono uffici con standard migliori della media europea. Verità, luoghi comuni e alibi incorporano tutti una quota comune. Non fa eccezione chi, come su queste pagine ieri il presidente dell’Associazione tra le banche estere in Italia, teme che gli istituti di credito in fuga da Londra dopo la Brexit non si spostino a Milano, come pure sarebbero tentati, a causa di "burocrazia, tassazione" e soprattutto "giustizia: in caso di delocalizzazione il Foro competente per tutte le questioni giuridiche sarebbe in Italia, e nessuno vuole venire a chiedere giustizia in Italia". Anche se maliziosamente verrebbe da ripensare alle non poche volte nelle quali le associazioni bancarie nazionali e internazionali sono rimaste silenti su prassi disinvolte (come i "prodotti derivati" appioppati a zavorrare per decenni i bilanci di Regioni e Comuni) poi arginate soltanto dall’intervento della magistratura, nessuno può seriamente disconoscere il nesso tra lentezza-imprevedibilità-costosità del sistema giudiziario italiano e perdita di competitività del Paese, tanto più di fronte ormai a una sterminata pubblicistica di Bce, Bankitalia, università, ministeri, economisti e giuristi. Eppure, come in tutte le verità che a forza di essere ripetute rischiano di inflazionarsi in pretesti, l’inquadratura finisce per essere un po’ sfuocata. E non "racconta" che qualcosa, invece, si muove. È innegabile che i tempi medi di definizione dei processi civili restino ancora più elevati di altri Paesi, ma meno noto è che nella geografia delle prestazioni a macchia di leopardo ci siano uffici (anche al Sud) con standard di tempi e di durata migliori della media europea. Se il ministero pronostica a fine anno la discesa delle cause pendenti sotto i 4 milioni quando nel 2009 sfioravano i 6 milioni, più importante è che stiano scendendo del 14% le cause più vecchie di tre anni, esposte ai risarcimenti della legge Pinto. E proprio con un occhio agli investitori stranieri si è puntato (dal 2012) sugli specializzati Tribunali delle Imprese, che, se un rischio corrono, è se mai quello di restare vittime dei propri iniziali record di definizione di 8 cause su 10 in appena 1 anno, e di conferma in Appello in quattro quinti dei casi. Chiaroscuro è anche il tono della carenza di 9.000 cancellieri (19% di scopertura nazionale, con punte del 30%): il ministro della Giustizia dice il vero quando rivendica di essere il primo da 20 anni a immettere nuovo personale, ma dice il vero anche chi fa semplice aritmetica, prende per buoni i futuri 4.000 nuovi ingressi 2014- 2017 (un po’ avviati e un po’ annunciati), e conta che basteranno appena a pareggiare i contemporanei pensionamenti, senza dunque ridurre l’attuale carenza d’organico. Del resto il rapporto biennale 2012-2014 della Commissione europea per l’efficacia della giustizia nei 47 Paesi del Consiglio d’Europa ricorda che, rispetto al totale della spesa pubblica, l’Italia investe per la giustizia meno (1,3%) di Francia (1,8%) o di Inghilterra e Germania (1,6%), ha meno pm della media europea (3 invece di 11 su 100.000 abitanti), e meno giudici (11 invece di 21). E in una Cassazione italiana investita ogni anno da 50.000 ricorsi nel penale e 30.000 nel civile (dove l’arretrato è a quota 105.000, metà in materia tributaria), non c’è produttività che tenga per giudici che come criceti sulla ruota scrivono 400 sentenze l’anno, a fronte di colleghi che nelle Supreme Corti omologhe vengono chiamati a esprimersi su poche migliaia di procedimenti (in Germania) o solo su 120 (in Inghilterra). Ma "dentro" i numeri si coglie soprattutto che il sistema giudiziario non brilla certo per efficienza anche perché su esso si scaricano, come cambiali che vanno in protesto a distanza di tempo, sia la patologica domanda di giustizia di settori della società civile che scambiano i processi per ammortizzatori sociali, sia le decennali furbizie di un legislatore avvezzo a comprare consenso promettendo, dispensando, complicando e contraddicendosi. Altrimenti l’Enel non avrebbe vissuto epoche da 60.000 cause del valore di 1 euro. E l’Inps (1 causa su 5 in Italia, metà in sei sedi) non sarebbe dei tribunali civili il maggiore "azionista", che, già solo iniziando dal 2011 a spulciare il tipo di liti del distretto che produceva il 15% del suo contenzioso nazionale, e facendo così crollare dell’88% i nuovi ricorsi, ha "beneficiato" la giustizia più di tanti pomposi progetti di legge. Legnini (Csm): rendere rapidi i processi diventi una priorità nazionale di Liana Milella La Repubblica, 25 ottobre 2016 "Sentenze rapide sì, ma occorrono uomini e mezzi". Dice così Giovanni Legnini, il vice presidente del Csm, da tempo sostenitore della via del dialogo tra toghe e politica, ma anche "della necessità e urgenza di dare più uomini e mezzi alla giustizia". Tant’è che domani si appresta a presentare a palazzo dei Marescialli la mappa dei capi degli uffici giudiziari costruita in due anni di consiliatura. Non è sorpreso dall’improvvisa pace scoppiata tra l’Anm di Davigo e il premier Renzi? "Sorpreso no, soddisfatto sì. Il reciproco ascolto e il dialogo, sono l’unica via per affrontare e risolvere problemi antichi e recenti della giustizia italiana". Ma lei ce li vede davvero Renzi e Davigo a dialogare ed essere d’accordo? "Quando si entra nel merito dei problemi, e c’è volontà di ricercare soluzioni, evitando di comunicare solo per slogan, il confronto è destinato a decollare anche tra persone tra loro molto diverse". Ma lo sciopero oggi sarebbe "inutile e dannoso", per usare la definizione che Davigo ha dato della riforma del processo penale, o sarebbe invece una scossa necessaria alla politica? "Lo sciopero è il contrario di ciò che ho appena detto. Per il resto, non entro nelle scelte dell’Anm, ma stando alle dichiarazioni post incontro mi sembra che sia stata positivamente avviata la ricerca di soluzioni concrete e condivise". Mi spiega come mai, all’improvviso, il governo "molla" sul ddl penale, perfino su quella norma capestro che è la minaccia dell’avocazione del procuratore generale se il pm non decide subito la sorte dell’indagato? "Contrariamente a quanto si è detto e scritto in queste settimane, la gran parte di quella riforma è stata condivisa, oltre che in Parlamento, anche in diverse altre sedi istituzionali, laddove la magistratura si è espressa in senso positivo, come ad esempio al Csm, con il parere che abbiamo a suo tempo reso. Altra cosa è la norma sull’avocazione, che anche io ritengo utile sopprimere o modificare, così come quella sulla responsabilità disciplinare per la ritardata iscrizione nel registro degli indagati, norma opportunamente già soppressa dalla commissione Giustizia del Senato". Ma i detrattori della magistratura dicono che il pm vuole tenere sulla corda i protagonisti dell’inchiesta. "I pm devono rispettare condizioni e termini per l’esercizio dell’azione penale. Dopo di che il problema dei mezzi, del personale, degli organici è reale e va affrontato con urgenza, come lo stesso ministro della Giustizia Orlando ha iniziato a fare. Le misure finora adottate, però, pur positive, sono ancora insufficienti. E mi sembra che nell’incontro vi sia stato un impegno a potenziare interventi e risorse". Renzi dice "voglio le sentenze presto", Pisapia invece lamenta che l’indagato venga "condannato" subito, appena esce l’avviso di garanzia. Nell’Italia dei tempi lunghi tutta questa fretta di arrivare a sentenza non è un po’ sospetta? "Rapidità sì, frettolosità no. Il fattore tempo è diventato decisivo in tutti gli ambiti della vita personale, sociale e istituzionale. Decidere in tempi ragionevoli, voglio ricordarlo, è un principio introdotto nella nostra Carta nel 1999. È arrivato il tempo di attuarlo facendo recuperare alla giustizia e al Paese credibilità e affidabilità agli occhi dei propri cittadini e della comunità internazionale. L’idea che in Italia non si decide mai, non si definisce mai un processo, è insopportabile, anche per la credibilità e l’autorevolezza della magistratura, tanto più quando si è in presenza di contestazioni di reato che incidono sulla vita delle persone e delle istituzioni". Ma procuratori che notoriamente lavorano molto come Spataro dicono di non avere i mezzi sufficienti, dalle fotocopie in avanti. "E infatti molto spesso hanno ragione. Il Csm ha perfino formulato una proposta formale di intervento legislativo su personale e organici. Per attuare il principio della ragionevole durata del processo occorre che il Paese consideri tale obiettivo una delle principali priorità nazionali. È incredibile che per vent’anni non sia stato assunto neanche un cancelliere". I 72 anni come asticella per la pensione. Lei ha avuto ragione anche su questo: 72 per tutti i magistrati, non solo per i vertici. Il Csm lo ha scritto. Ma visto che il decreto ormai è stato appena votato ed è legge, le promesse di Renzi e Orlando non sono un’inutile chimera? "Posso solo dire che con 1.300 magistrati in meno nell’organico gli effetti positivi delle riforme non si producono e l’obiettivo dei tempi ragionevoli è destinato ad allontanarsi. Quindi, non ci sono alternative a trattenere chi già c’è e assumere celermente giovani magistrati". La svolta di Renzi: avvocati e magistrati sullo stesso piano di Errico Novi Il Dubbio, 25 ottobre 2016 Sì all’innalzamento a 72 anni dell’età pensionabile per tutti i magistrati. E revisione dei tempi di permanenza nella prima sede per i giudici a inizio carriera. Ma soprattutto, il doppio vertice sulla giustizia di ieri mattina con l’Anm e, subito dopo, con il Consiglio nazionale forense sancisce "il riconoscimento da parte del presidente del Consiglio di una parità di ruolo tra magistratura e avvocatura", come nota il presidente del Cnf Andrea Mascherin. Una svolta nelle politiche sulla giustizia, appunto, che coincide con il ritorno dell’esecutivo alla titolarità delle riforme e con l’istituzione di un metodo di confronto nuovo rispetto al passato. Non più rapporto bilaterale ed esclusivo con le toghe ma discussione aperta con tutti i soggetti della giurisdizione, dunque anche con gli avvocati. Renzi e Orlando in una mattinata mettono in chiaro alcune questioni in tema di politica giudiziaria. Una svolta attesa forse dal 30 giugno di due anni fa, quando premier e guardasigilli illustrarono i "12 punti" delle riforme sulla giustizia. "Non è stato un dialogo tra sordi", commenta Orlando nel lasciare Palazzo Chigi a proposito degli incontri avuti da lui e dal premier con la delegazione dell’Anm guidata da Piercamillo Davigo e con il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. I colloqui, fa notare poco dopo una nota della presidenza del Consiglio, "hanno rappresentato un’occasione di confronto e di riflessione sui temi della giustizia". Poche righe, due concetti: con il sindacato dei giudici si è discusso ma non ci si è fatti dettare la linea, e il fatto che, subito dopo l’Associazione magistrati, Renzi e Orlando abbiano visto il vertice del Cnf dimostra come il premier abbia "riconosciuto all’avvocatura un ruolo di pari dignità, nella giurisdizione, rispetto alla magistratura", come osserva Mascherin. Non ci sarà una guerra sulla giustizia, dunque. Non la dichiarerà Davigo, e l’ipotesi di uno sciopero dei magistrati tende a dissolversi. Il leader dell’Anm dice di aver "trovato diverse aperture, da parte del presidente del Consiglio, rispetto alle questioni da noi sottoposte". Il governo ascolterà i giudici su 3 dossier: estensione dell’innalzamento a 72 anni dell’età pensionabile per tutti i magistrati "finché non saranno coperti i vuoti d’organico", come chiesto da Davigo, misura che dovrebbe essere inserita nel mille proroghe se non in Finanziaria; e ancora, "legittimazione al trasferimento per i magistrati di prima nomina", che dovrebbe essere riportata a tre anni rispetto ai 4 indicati nel decreto Cassazione; infine, Davigo riferisce che il presidente del Consiglio "ha dato notevole disponibilità sulle risorse di personale anche ai fini della sua riqualificazione". Margine strettissimo invece per il nodo che più di tutti preoccupa l’Anm: la norma della riforma penale che prevede l’avocazione da parte del procuratore generale nel caso il pm non decida in 3 mesi se chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. "Previsione irragionevole, che rischia di creare ulteriori problemi per il personale all’interno delle Procure", secondo Davigo. Replica Orlando: "Abbiamo chiesto all’Anm se c’è l’indicazione di un possibile altro percorso, ma noi difendiamo questa norma perché c’è il diritto dell’imputato ad avere tempi certi", e sapere dunque se si chiederà di processarlo o di archiviare la sua posizione. Di fatto il governo ha così ricordato a Davigo che l’obbligo della decisione nei 3 mesi, pena l’avocazione, è stato un punto di mediazione. L’avvocatura aveva chiesto altro, come ricorda Mascherin: "La priorità era stata indicata da Cnf e Unione Camere penali nell’obbligo di iscrizione immediata dell’indagato nel registro delle notizie di reato, obbligo che la riforma non prevede". Anche per questo Davigo non è sembrato belligerante, a fine vertice. Tanto che alle domande sull’ipotesi sciopero ha replicato con un generico "non decidiamo né io né la mia giunta ma il direttivo dell’Anm". Improbabile che, in alternativa all’articolo 18 (divenuto poi, in Senato, articolo 17) sull’obbligo di avocazione, il sindacato dei giudici suggerisca proprio di inserire vincoli sull’immediata iscrizione a registro. Si aspetterà comunque la controfferta dell’Anm prima di calendarizzare di nuovo la riforma del processo a Palazzo Madama. Ma certo adesso le ombre più fitte paiono diradarsi. Il premier riconosce il ruolo sociale degli avvocati - Dopo la mattinata di Palazzo Chigi i magistrati tornano a quello che nella realtà dovrebbero essere: un soggetto della giurisdizione al pari dell’avvocatura, non un legislatore supplente. A conferma che la svolta in questo senso sia assolutamente necessaria, arrivano gli impegni presi non solo da Orlando ma innanzitutto da Renzi su questioni centrali per la classe forense: "Ho trovato molto significative le parole che il premier ha espresso sul ruolo sociale dell’avvocatura", nota Mascherin, "un ruolo che ha portato giustamente, a suo giudizio, il Consiglio nazionale forense a sottoscrivere un protocollo d’intesa col ministero dell’Istruzione e a fare in modo che quella degli avvocati dunque la prima professione coinvolta nei progetto formativi di Alternanza scuola lavoro". Così come su equo compenso, legittimo impedimento delle avvocate in gravidanza e presenza con diritto di voto per la classe forense nei Consigli giudiziari, "è particolarmente significativo l’impegno assunto dal premier con la massima rappresentanza istituzionale dell’avvocatura". Riforma del processo. La tentazione dei pm: azione penale sine die di Nicolino Zaffina* Il Dubbio, 25 ottobre 2016 Il tema centrale sul ddl di riforma del processo penale è quello della previsione di un termine entro il quale il pm, dopo la conclusione delle indagini preliminari, deve assumere le proprie determinazioni in ordine alla richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione. Si tratta di introdurre una regola coerente sia con il principio di ragionevole durata del processo, sia con l’esigenza di evitare il decorso del termine di prescrizione del reato. Il tema centrale del dibattito sul ddl di riforma del processo penale, in discussione al Senato, pare sia diventato quello della previsione di un termine entro il quale il Pubblico Ministero, successivamente alla conclusione delle indagini preliminari, deve assumere le proprie determinazioni in ordine alla formulazione della richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione. Detto disegno di legge, introducendo un termine la cui inosservanza è "sanzionata" con la previsione dell’avocazione del procedimento da parte del Procuratore Generale, pare abbia toccato un nervo scoperto, tanto da suscitare la piccata reazione da parte delle componenti associative della Magistratura. Sul tema abbiamo già da tempo sostenuto con convinzione ("Processo penale e mass media" di Antonio Mazzone e Nicolino Zaffina, su La Previdenza Forense n. 3/2015) che l’avocazione da parte del Procuratore Generale non ha controindicazioni, perché consentirebbe di contemperare l’esigenza di non produrre conseguenze invalidanti per le indagini (in caso di inattività di un pubblico ministero) con quella d’imporre che un procedimento non resti "sospeso" sine die. Si tratta, quindi, di introdurre una regola coerente sia con il principio di ragionevole durata del processo, sia con l’esigenza di evitare il decorso del termine di prescrizione del reato. Del resto le attività attinenti alla formulazione della richiesta di rinvio a giudizio o della richiesta di archiviazione, una volta concluse le indagini preliminari, non presentano alcun profilo di difficoltà, perché la prima non deve essere motivata, mentre la seconda può essere motivata o meno a seconda della scelta del Pubblico Ministero procedente. Sotto altro profilo si evidenzia come il disegno di legge preveda, per tali richieste, termini molto ampi "dopo" la conclusione delle indagini preliminari: tre mesi per la gran parte dei reati (prorogabile fino a sei mesi per le indagini più complesse), un anno per i reati di maggiore allarme sociale, come ad esempio quelli di mafia e di terrorismo. E dunque, dato che per la redazione della motivazione di una sentenza, anche la più complessa, è previsto un termine massimo di novanta giorni, mentre per la redazione dei motivi di impugnazione, anche i più impegnativi, è previsto un termine massimo di quarantacinque giorni, pare lecito chiedersi come si possa aver timore della previsione di un termine di tre/sei mesi o, addirittura, di un anno, per decidere se richiedere l’archiviazione di una notitia criminis o il rinvio a giudizio di un imputato. Sul punto la riforma all’esame del Senato pare assai logica e coerente e risponde, altresì, all’esigenza che le attività processuali, come tutte le attività pubbliche, siano laddove possibile vincolate; ciò al fine di evitare spazi di discrezionalità che, purtroppo, ben possono comportare ingiustificate disparità di trattamento. L’Avvocatura, per sua doverosa funzione, non può che stare dalla parte dei cittadini: nessun dubbio, quindi, sulla correttezza della norma. Tocca quindi alla politica decidere e non si tratta di "accontentare" una categoria piuttosto che un’altra ma, piuttosto, di stabilire che tipo di processo penale si vuole: un processo velocizzato, con l’eliminazione di ingiustificati tempi morti e che, nel rispetto di tutte le garanzie necessarie, pervenga in tempi rapidi alla sua conclusione funzionale, consistente nello stabilire se un imputato sia o meno colpevole o, invece, ancora un processo penale fine a se stesso, che, proprio nella sua indefinita e ingiustificata durata nel tempo, soddisfi la propria funzione. L’opinione pubblica e la "politica" devono avere chiaro che è questa l’alternativa, questa la posta in gioco, questa la scelta tra due modelli di giustizia. *Avvocato - Consigliere di Amministrazione Cassa Forense Ministro Martina "le norme anti-caporali tutelano migliaia di persone e le aziende oneste" di Maurizio Tropeano La Stampa, 25 ottobre 2016 Inasprimento degli strumenti penali. Indennizzi per le vittime. Rafforzamento della rete per il lavoro agricolo di qualità. Piano di accoglienza per i lavoratori agricoli stagionali. Sono queste le principali novità della legge sul Caporalato approvata dal Parlamento che il ministro delle Politiche Agricole, Maurizio Martina, ha illustrato a Rosarno. Secondo il ministro le norme tutelano "i diritti di migliaia di persone e difendono le aziende agricole oneste dalla concorrenza sleale di chi sfrutta i lavoratori". Nuovi strumenti penali - Che cosa cambia? Con l’intervento normativo si stabiliscono nuovi strumenti penali per la lotta al caporalato come la confisca dei beni così come avviene con le organizzazioni criminali mafiose, l’arresto in flagranza, l’estensione della responsabilità degli enti. La nuova legge prevede anche la responsabilità del datore di lavoro, il controllo giudiziario sull’azienda che consentirà di non interrompere l’attività agricola e la semplificazione degli indici di sfruttamento. Per la prima volta, poi, si decide di estendere le finalità del Fondo anti-tratta anche alle vittime del delitto di caporalato, considerata la omogeneità dell’offesa e la frequenza dei casi registrati in cui la vittima di tratta è anche vittima di sfruttamento del lavoro. La vigilanza - Le amministrazioni statali, poi, saranno direttamente coinvolte nella vigilanza e nella tutela delle condizioni di lavoro nel settore agricolo, attraverso un piano congiunto di interventi per l’accoglienza di tutti i lavoratori impegnati nelle attività stagionali di raccolta dei prodotti agricoli. "L’obiettivo è tutelare la sicurezza e la dignità dei lavoratori ed evitare lo sfruttamento ulteriore della manodopera anche straniera". Il piano presentato dai Ministeri del lavoro e delle Politiche sociali, delle Politiche agricole alimentari e forestali e dell’Interno sarà stabilito con il coinvolgimento delle Regioni, delle province autonome e delle amministrazioni locali nonché delle organizzazioni di terzo settore. Caso Ilaria Alpi. Il Dap: Omar Hassan non è mai stato al 41bis Il Dubbio, 25 ottobre 2016, 25 ottobre 2016 Con riferimento all’articolo pubblicato in data 20.10.2016, in cui viene riportata l’intervista al legale di Omar Hassan Hashi, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria precisa quanto segue: Omar Hassan Hashi non è mai stato sottoposto al regime detentivo speciale ex art. 41 bis O. P. come erroneamente indicato nell’articolo di stampa. In data 30.11.2000 venne inserito nel circuito E. I. V. (elevato indice di vigilanza) sezione "protetti", riservata a soggetti che temono per la propria incolumità personale. Nel 2009 veniva assegnato nel circuito "Media Sicurezza" riservato ai detenuti comuni e trasferito presso la sezione "protetti" della CR di Padova. Presso tale sede non si sono verificate criticità e dal 30.04.2013 il detenuto ha iniziato a fruire di regolari permessi premio concessi dalla locale magistratura di sorveglianza; in data 19.04.2015 è stato scarcerato per affidamento in prova al servizio sociale. Ufficio Stampa Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Frode Iva, scatta la prescrizione in caso di episodi "non gravi" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 44584/2016. Va confermata la prescrizione per una frode Iva di 126mila euro. Anche dopo cha la Corte di giustizia Ue, con la sentenza Taricco, ha invitato l’autorità giudiziaria italiana a disapplicare la disciplina interna quando la frode è grave e suscettibile di rendere inefficaci le sanzioni in una pluralità di casi. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 44584 della Terza sezione penale depositata ieri. La Cassazione ha così confermato il giudizio di estinzione del reato per maturata prescrizione già emesso dalla Corte d’appello. Sul tema a breve è previsto l’intervento della Corte costituzionale che dovrà verificare se, per la prima volta, applicare i cosiddetti "controlimiti" in materia penale. Tuttavia le conclusioni della Cassazione permettono intanto di mettere in evidenza come un importo di poco superiore ai centomila euro e l’assenza di requisiti come la spiccata capacità criminale e una particolare organizzazione di mezzi e la partecipazione di più soggetti sono in grado di fare venire meno l’elemento della gravità. Mentre quello della ineffettività delle sanzioni a presidio di un tributo spiccatamente comunitario come l’Iva non esiste quando il numero delle infrazioni in discussione è modesto e sono state poste in essere senza l’interposizione di più società. La Cassazione infatti prova a dare sostanza alle due condizioni individuate dalla Corte Ue l’8 settembre dell’anno scorso. Entrambe infatti sono accomunate da una generale indeterminatezza. Quanto alla gravità, allora, la Cassazione, avverte che bisogna dare rilevanza alla quantità di imposta evasa, e alle modalità attraverso le quali la frode è stata posta in essere, tenendo comunque presente "che nel concetto di "frode" grave, suscettibile di ledere gli interessi finanziari dell’Ue, devono ritenersi incluse, nella prospettiva dell’ordinamento penale italiano, non soltanto le fattispecie che contengono il requisito della fraudolenza nella descrizione della norma penale (…) ma anche le altre fattispecie che, pur non richiamando espressamente tale connotato della condotta, siano dirette all’evasione dell’Iva". In caso contrario, puntualizza la Cassazione, il rischio sarebbe quello della disparità di trattamento, rendendo necessaria la disapplicazione della normativa interna sui termini di prescrizione solo nel caso di condotte caratterizzate dal requisito evidente della fraudolenza, lasciandone scoperte invece altre, come le frodi carosello, assai più complesso, ma nelle quali le singole condotte, prese appunto una per una, sarebbero invece prive di fraudolenza. E allora la norma più idonea a rappresentare un punto di riferimento è l’articolo 133 del Codice penale, che sottolinea non solo la gravità del danno provocato alla persona offesa, ma anche alla natura, alla specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e alle modalità dell’azione. Per quanto riguarda la verifica della non effettività "in un numero considerevole di casi di frode grave", la Cassazione giudica che si tratta di un requisito più in sintonia con gli ordinamenti di common law. Meglio fare riferimento al numero e alla gravità degli episodi, pur nella consapevolezza che anche un solo episodio, ma assai grave, potrebbe essere sufficiente. Il mancato rispetto degli orari di visita dei figli minori non costituisce reato di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2016 Tribunale di Ascoli Piceno - Sezione penale - Sentenza 6 maggio 2016 n. 641. In caso di affidamento congiunto, l’elasticità o la flessibilità nel rispetto degli orari di visita dei figli minori da parte del genitore non convivente non costituisce elusione del provvedimento del giudice, ma solo violazione di regole di buona prassi, non penalmente sanzionabile ai sensi dell’articolo 388 c.p. Questo è quanto si desume dalla sentenza 641/2016 del Tribunale di Ascoli Piceno. I fatti - All’origine della vicenda vi è un forte contrasto tra due genitori separati in ordine alla gestione degli orari di visita e del tempo che i due figli minori della ex coppia potevano trascorrere con il padre, che aveva l’affidamento condiviso dei bambini, i quali vivevano con la madre. Negli accordi di separazione era previsto che gli incontri tra il padre ed i figli dovessero avvenire in giorni prestabiliti, in considerazione dell’orario scolastico e delle esigenze dei minori, dalle ore 18:00 alle ore 21:00. Nel giro di una settimana, però, in due occasioni il padre non aveva osservato gli orari indicati, facendo andare la ex moglie su tutte le furie. Nel primo caso, l’uomo aveva avvisato la madre che i figli sarebbero rimasti con lui per vedere una partita in televisione, rimanendo presso la sua abitazione oltre l’orario indicato negli accordi di separazione; nel secondo caso, il padre si era presentato all’uscita della scuola dei ragazzi alle 17:00 e li aveva portati con sé, anticipando l’orario di visita stabilito. Per tali infrazioni, l’uomo veniva tratto a giudizio con l’accusa di mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice concernente l’affidamento dei figli. La decisione - Il Tribunale analizza la questione e si sofferma sul bene giuridico tutelato dall’articolo 388 c.p.. Per il giudice, in virtù dell’interpretazione giurisprudenziale di tale disposizione, ciò che assume rilevanza penale non è qualsiasi comportamento positivo o negativo diretto ad ostacolare il provvedimento del giudice, bensì solo quello "diretto a frustrare o a impedire il risultato concreto cui tende il comando giudiziale". Non deve trattarsi, dunque, di mera inottemperanza o rifiuto di osservare il provvedimento, ma di un "inadempimento in mala fede del provvedimento dell’autorità giudiziaria". Nel caso di specie, pertanto, il reato non sussiste, in quanto i comportamenti dell’imputato non sono elusivi del provvedimento del giudice, ma costituiscono semmai una "mera violazione di "regole di buona prassi", non penalmente sanzionabile". È plagio la riproduzione della traduzione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 44587 /2016. È plagio la riproduzione, anche parziale di una traduzione e il reato scatta a prescindere dal ritorno economico. La Cassazione, con la sentenza 44587, ricorda che la tutela del diritto d’autore copre anche le opere derivate, come le traduzioni, in quanto elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa. Il tutto senza alcun pregiudizio sull’opera originaria dalla quale la traduzione in un’altra lingua si distingue per le modifiche e le aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale del libro scritto in lingua originale. Una creatività che, anche se minima, è degna di un’autonoma protezione (articolo 4 della legge 633/1941) in virtù della quale l’autore acquisisce un "diritto esclusivo morale e di utilizzazione economica". Partendo da questo presupposto la Suprema corte riconosce i danni ad una traduttrice il cui lavoro era stato oggetto di un copia e incolla pressoché integrale, refusi compresi, da parte del ricorrente. La traduzione oggetto di plagio era stata in prima battuta rifiutata dalla casa editrice perché troppo costosa. Un onere che l’editore aveva evitato dando le bozze, a distanza di tempo, ad un altro solerte "linguista" che, del tutto gratis, con la sola soddisfazione di vedere la sua firma, aveva copiato il primo lavoro. Naturalmente il ricorrente, negava di aver copiato, ma resta inchiodato alle sue responsabilità dall’evidenza dei fatti. Le perizie avevano, infatti, riscontrato la quasi totale sovrapponibilità del suo lavoro con quello rifiutato dall’editore. La prima prova era proprio nella presenza dei refusi, circa tredici: un numero che portava ad escludere con certezza la coincidenza. I giudici spiegano anche la "sciatteria" del lavoro di "riproduzione" giustificandola con l’assenza di guadagno da parte del ricorrente il quale, non avendo un ritorno economico aveva, evidentemente dedicato poco tempo e poche energie, anche alla lettura dell’opera della quale si era però assunto la paternità. Depongono contro di lui anche le poche modifiche apportate al testo. Per la Cassazione, si era trattato della ricerca di qualche sinonimo, dell’aggiunta di un po’ di articoli e di poche inversioni di frasi: poco per parlare di creatività, abbastanza per far pensare a un semplice escamotage per depistare. Inutile per il ricorrente anche affermare che mancava la prova che la traduzione messa a punto dalla parte civile fosse davvero originale. Per la cassazione la dimostrazione esiste: il libro scritto in lingua originale, il croato, era stato tradotto una sola volta prima della versione rifiutata dalla casa editrice e facendo il confronto tra le due risultava che il lavoro della parte lesa si distingueva per creatività. Il ricorrente non può giocarsi neppure l’assenza di un guadagno perché l’articolo 171 della legge sul diritto d’autore, punisce la riproduzione, anche parziale, dell’opera protetta a "qualunque scopo" venga fatta. Il dolo del reato è, infatti, generico. Messina: Opg, come ricominciare dopo l’orrore di Fabio Grandinetti L’Espresso, 25 ottobre 2016 Entro pochi mesi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari saranno definitivamente chiusi. Ma per i detenuti si pone il problema dell’integrazione sociale. A Barcellona Pozzo di Gotto, dal 2011, il progetto "Luce è libertà" li accompagna alla vita fuori dalle celle. Grazie a percorsi lavorativi individuali, molti di loro hanno già ottenuto la revoca della misura di sicurezza. Lo chiamavano "ergastolo bianco". Era la reclusione a tempo indeterminato negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) dei detenuti socialmente pericolosi. Per loro una legge del febbraio 2012 ha scritto un futuro diverso: chiusura degli Opg entro un anno. Termine slittato fino a oggi, se si pensa che, secondo l’ultima relazione trasmessa al Parlamento, 58 persone erano ancora rinchiuse a Montelupo Fiorentino, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto a giugno di quest’anno. Ma nel giro di pochi mesi le strutture che Giorgio Napolitano definì un "autentico orrore indegno di un paese appena civile" dovrebbero aprire definitivamente i cancelli. Resta il nodo del rientro in società. Un tema delicato per tutti i detenuti, ancor di più per gli internati dei manicomi criminali. C’è chi ci lavora da tempo. Come la Fondazione di Comunità di Messina che dal 2011, grazie al cofinanziamento del Ministero della Giustizia e dell’Assessorato alla Sanità della Regione Sicilia, porta avanti il progetto "Luce è libertà" indirizzato ai pazienti dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. L’iniziativa è stata presentata sabato 22 ottobre a Venezia, nel corso della manifestazione itinerante "Un futuro mai visto" della Fondazione Con il Sud, giunta all’ultima tappa dedicata a Franco Basaglia, psichiatra e promotore della storica legge 180/1978 (detta legge Basaglia) che rivoluzionò la concezione della salute mentale in Italia. Il funzionamento di "Luce è libertà" è semplice: i fondi erogati dalla Cassa delle ammende (un ente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) per 56 detenuti della struttura messinese sono stati assegnati alla Fondazione che accompagna gli internati alla vita fuori dalle celle. Generando anche un risparmio di soldi pubblici: con la stessa cifra sostenuta dallo Stato per il ricovero in comunità terapeutica di un ex internato (70mila euro l’anno), il progetto sostiene il suo reinserimento sociale per 20 anni per un "costo" di 3.500 euro annui. E i risultati sono incoraggianti: 21 beneficiari hanno già ottenuto la revoca della misura di sicurezza, 29 sono soggetti a misure alternative di sorveglianza e due risiedono presso la comunità Salpietro. Solo una persona è rientrata in Opg per violazione delle prescrizioni (il tasso storico di recidiva si aggira intorno al 45%). Lo strumento di integrazione più efficace è il lavoro: 20 beneficiari del progetto sono impiegati in cooperative siciliane e calabresi, mentre quattro persone si occupano della manutenzione del parco fotovoltaico gestito direttamente dalla Fondazione. In altre parole, il progetto fornisce ai detenuti le reti esterne di sostegno che in molti casi spingono i magistrati a disporre la scarcerazione, scongiurando la proroga illimitata delle misure di sicurezza causata dall’assenza di percorsi di inserimento sociale. Se lasciati soli, gli internati rischiano di passare da una cella all’altra, dagli Opg ai Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza). Strutture individuate come ultima ratio per i pazienti più bisognosi di cure, ma che con il ddl di modifica del codice penale, in discussione al Senato, potrebbero accogliere anche chi attende un accertamento del disturbo mentale. Col rischio che diventino "i nuovi Opg", denunciano i senatori Pd in commissione Giustizia. Grosseto: i Radicali visitano il carcere "struttura inadeguata, personale con il cuore grande" di Francesca Gori Il Tirreno, 25 ottobre 2016 I Radicali hanno visitato la Casa circondariale di via Saffi Spazi troppo piccoli e sovraffollamento: le soluzioni. È un racconto a due velocità quello fatto da Rita Bernardini, leader radicale in sciopero della fame dal 9 ottobre per chiedere al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, degli esiti concreti degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e all’intero Governo e al Parlamento la Riforma immediata dell’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena. Una visita che è stata fissata dopo che nel bagno di una cella del carcere si è suicidato, un mese fa, un detenuto di 47 anni. "La struttura è inadeguata - dice - mentre la gestione è fatta da persone competenti che lavorano con il cuore". La leader radicale è stata accompagnata in questo viaggio all’interno delle carceri toscane da una delegazione dell’associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi" composta da Alessandra Impallazzo, Maurizio Buzzegoli e don Vincenzo Russo. "Soltanto per fornire qualche dato preciso - dice Buzzegoli - nella struttura abbiamo trovato 23 detenuti anziché i 15 previsti, mentre gli agenti della polizia penitenziaria sono 31, quattro dei quali delegati alle traduzioni anziché 36. Undici degli uomini che stanno scontando la pena a Grosseto lavorano all’interno della struttura". Numeri che non bastano da soli a raccontare il disagio di chi è rinchiuso in quella struttura. "È vero che in questo carcere, a differenza di altri istituti della Toscana, ci siamo rilassati - dice Rita Bernardini - perché i rapporti umani che si instaurano tra quelle mura sono davvero ben costruiti. A non essere adeguata è la struttura: gli spazi sono strettissimi e tutto il carcere dovrebbe essere ristrutturato. È praticamente impossibile, ad esempio, anche soltanto ipotizzare di costruire delle docce all’interno delle celle. Quello che fa la differenza è la direttrice e il suo lavoro". C’era Maria Cristina Morrone, ieri, ad accompagnare la delegazione all’interno della struttura che dirige. "Ma anche su questo aspetto - aggiunge Bernardini - sarebbe necessario che venissero riaperti i concorsi: la direttrice di Grosseto si occupa anche del carcere di San Gimignano e non si nominano nuovi dirigenti dal 1997. Il rischio che corriamo è quello di affidare la direzione direttamente agli appartenenti alla polizia penitenziaria". La direttrice Morrone lo ha detto più volte: il carcere di Grosseto non è adeguato. "Noi radicali siamo contrari alla costruzione di nuove strutture - aggiunge la leader del partito - ma qualche spazio da ristrutturare in Maremma potrebbe essere trovato. Le carceri devono servire per riabilitare le persone". "Senza una rete territoriale che coinvolga anche le amministrazioni - dice don Vincenzo Russo - questo progetto fallisce. Gli investimenti andrebbero fatti sul fronte del sociale, non della realizzazione di nuove strutture". Pisa: la denuncia dei Radicali "al Don Bosco detenuti in condizioni disumane" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 ottobre 2016 Sovraffollamento, sporcizia, mura scrostate e tappezzate con fogli di giornale per coprire lo sporco stratificato, materassi indecenti, gabinetti a vista così che i detenuti devono defecare e orinare alla presenza dei loro compagni di cella e del personale penitenziario. A denunciarlo è la radicale Rita Bernardini dopo aver visitato il carcere Don Bosco di Pisa assieme alla delegazione dell’Associazione Andrea Tamburi di Firenze e Don Vincenzo Russo, il cappellano del carcere di Sollicciano. "Uscendo dal carcere di Pisa sento tutta l’umiliazione che devono vivere non solo i detenuti, ma anche chi è chiamato a servire lo Stato", ha denunciato domenica scorsa la Bernardini appena ultimata la visita del carcere. "Questo è un carcere ? ha continuato l’esponente radicale - letteralmente dimenticato da tutti. È stato costruito negli anni ?30 e non è mai stata fatta un’opera edilizia. Vengono stanziati solamente 3000 euro ogni sei mesi per la manutenzione, quindi nulla! ". Bernardini, con un comunicato stampa, spiega che le condizioni di detenzione dei 266 carcerati più che disumane e degradanti, sono da denuncia immediata alla Procura della Repubblica. Cosa che promette di fare personalmente nelle prossime ore. "Lì, come avviene ormai dappertutto - constata amaramente Rita Bernardini, lo Stato rinchiude la marginalità sociale di giovani, stranieri, tossicodipendenti, casi psichiatrici, senza casa, poveri, ai quali nel degrado viene negata qualsivoglia possibilità di riabilitazione e di futuro reinserimento sociale". "Un carcere totalmente dimenticato dalle istituzione che nel passato aveva ospitato Adriano Sofri e Bompressi, dove operava il dottor Francesco Ceraudo, esperto di medicina penitenziaria molto amato dai detenuti". Per la radicale Rita Bernardini, assieme agli altri militanti come Irene Testa, Maurizio Bolognetti, Paola Di Folco, Annarita Di Giorgio, è il 15° giorno di sciopero della fame in vista della marcia per l’amnistia, l’indulto e la riforma della Giustizia, convocata il 6 novembre a Roma da Regina Coeli (h. 9,30) a Piazza San Pietro nel giorno del Giubileo dei carcerati. La marcia è intitolata a Papa Francesco e a Marco Pannella e, oltre ai provvedimenti di indulto e amnistia, si chiede al ministro della Giustizia Andrea Orlando, al governo tutto e al Parlamento di stralciare dal ddl sul processo penale la parte/delega riguardante l’Ordinamento Penitenziario per non vanificare il lavoro scaturito dagli Stati Generali dell’esecuzione penale. Sono oltre mille le adesioni di detenuti di tutta Italia al digiuno del 5 e 6 novembre. "L’ultima lettera ? spiega Rita Bernardini - ci è giunta dal carcere di Santa Maria Capua Vetere: 196 adesioni completate da un bel gesto in quanto i detenuti chiedono alla Direzione del carcere campano di destinare il loro vitto di quei due giorni al Cappellano affinché lo distribuisca alle persone indigenti della città". Nel frattempo il quadro generale della situazione penitenziaria non appare confortante nonostante gli sforzi del ministro della Giustizia. Il sovraffollamento è ancora un fenomeno irrisolto, in alcune carceri ci sono situazioni critiche che molto spesso sfociano in risse e gesti di autolesionismo. Solo quest’anno - dato aggiornato al 24 ottobre - sono morti 81 detenuti tra i quali 29 sono suicidi. Il numero però potrebbe essere molto più elevato visto che non vengono calcolati i detenuti che muoiono durante il loro ricovero negli ospedali. Per i Radicali e non solo, il provvedimento di Indulto e di Amnistia è in grado di porre fine immediatamente allo scandalo ancora in corso. Livorno: detenuto si taglia la gola nel carcere delle Sughere, salvato di Lara Loreti Il Tirreno, 25 ottobre 2016 L’altro giorno alle Sughere un giovane detenuto ha preso una lametta, modificata ad arte per rendere la lama più pericolosa. E si è inciso all’altezza della carotide, all’interno della sua cella, in carcere. Una lesione molto profonda, tanto che è stato necessario un delicato intervento di sutura della lacerazione per bloccare l’emorragia. Voleva farla finita. Ma i soccorsi immediati, in primis di un poliziotto e poi del 118, hanno rimandato l’incontro del giovane con l’ultimo atto del suo destino. Le sue condizioni restano gravi, ma se la caverà. Protagonista del gesto eclatante un detenuto italiano di 32 anni, originario del Sud, che si trova nel padiglione dell’alta sicurezza, dove sta scontando una lunga pena - fino al 2045 - per un reato molto grave: l’omicidio di un bambino, rimasto ucciso durante una sparatoria. Un episodio, il tentato suicidio, che ha destato sgomento nel carcere delle Sughere e su cui la polizia penitenziaria sta cercando di fare chiarezza per ricostruire nel dettaglio la dinamica dei fatti. È da capire dove il giovane abbia preso la lametta e come abbia fatto ad agire inosservato. In base a quanto finora ricostruito, poche ore prima del tentato suicidio, il 32enne aveva avuto il colloquio con i suoi familiari. E pare che i parenti gli abbiano dato una notizia, cattiva dal suo punto di vista, sul processo relativo alla sua condanna. Tra l’altro nei giorni scorsi, il detenuto era stato fuori per motivi giuridici. Intorno alle 18 di venerdì 21 ottobre, il giovane si procura la lametta e si taglia la gola, incidendosi con forza. Il detenuto può agire indisturbato anche perché è in isolamento. Quindi nessuno è testimone del gesto. Il primo a intervenire è un agente penitenziario, di guardia in quel momento. Il giovane perde molto sangue e sta per svenire. Alla vista della scena, il poliziotto si attiva immediatamente e per prima cosa tampona la gola con un asciugamano. Un intervento tempestivo, che di fatto gli salva la vita. Quindi chiama il medico di turno, che dà al giovane le prime cure. Tuttavia, sin dai primi minuti, è evidente che la situazione è molto grave. E che non è sufficiente un medicamento in infermeria. È assolutamente necessario il trasferimento in ospedale. Ci pensa un’ambulanza della Misericordia, inviata dal 118, ad accorrere in via delle Macchie. La squadra si dà subito da fare per tamponare l’emorragia: ogni minuto è prezioso. Poi la corsa in pronto soccorso. Lì il 32enne viene portato in shock room, dove il taglio viene ricucito, poi viene trasferito in terapia intensiva. Del caso si sta interessando il garante dei detenuti Marco Solimano, che si è subito attivato: "Andrò a trovare questo giovane in ospedale per capire cosa l’abbia spinto a un gesto così estremo. Nel passato non ha mai manifestato intenti suicidi né particolari criticità, perciò questo evento ha colto tutti di sorpresa. Immagino che la lunga pena, con la pesantezza dell’isolamento, e forse la brutta notizia sulla sua posizione giuridica abbiano creato un muro davanti a lui, impedendogli di vedere un futuro". Brescia: studenti e ministro Orlando a confronto sul tema "giustizia, pena e relazione" di Mauro Zappa Brescia Oggi, 25 ottobre 2016 Il 2 novembre Brescia lo dedicherà al tema della giustizia. Un mercoledì contrassegnato dalla visita del Guardasigilli Andrea Orlando, il quale in mattinata (San Barnaba, dalle 10.20 alle 12.30) interverrà a un incontro con gli studenti organizzato con lo scopo di approfondire il tema "Giustizia, pena, relazione". Gli spunti di riflessione saranno offerti dall’esperienza legata alla stesura de "Il libro dell’incontro", volume nel quale i curatori hanno messo gli uni di fronte agli altri alcuni protagonisti della lotta armata e i familiari delle loro vittime. Alla tavola rotonda, oltre ad Orlando, parteciperanno l’ex magistrato Gherardo Colombo, due dei tre autori del libro (Ceretti e Mazzucato), l’ex militante di Prima Linea Maria Grazia Grena e Giorgio Bazzega, figlio di Sergio, maresciallo assassinato a Milano nel 1976. Coordinatore degli interventi sarà Manlio Milani. Ed è quest’ultimo, fondatore della Casa della Memoria, a rimarcare il senso di un’iniziativa volutamente rivolta alle scuole, un’operazione di "ricomposizione sociale e di comprensione delle ragioni che produssero quella stagione di violenza". Alle 14 Orlando, omaggiati i caduti del 28maggio e salutato il nuovo Rettore dell’ateneo cittadino, sarà quindi in via Battaglie 58, protagonista di un convegno focalizzato sui risultati e sulle prospettive dell’esecuzione penale alla luce degli Stati Generali dello scorso aprile. I saluti delle autorità saranno portati da Gian Antonio Girelli e da Fabio Fanetti, rispettivamente presidenti della Commissione Antimafia e della Commissione Carceri di Regione Lombardia. Il padrone di casa Saverio Regasto modererà gli interventi del parlamentare Alfredo Bazoli, del Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo, del Presidente della Camera Penale della Lombardia Orientale Eustacchio Porreca e di Carlo Alberto Romano, Presidente dell’associazione "Carcere e territorio" di Brescia. La giornata terminerà al Teatro Sociale con la rappresentazione del "Figliol Prodigo", musical interpretato da un gruppo di detenuti del carcere di Opera, la maggior parte di essi condannati all’ergastolo ostativo ("pena di morte velata", secondo Fanetti) per gravi reati di mafia. Il direttore del penitenziario, Giacinto Siciliano, in sede di presentazione dei diversi eventi del 2 novembre ne ha consigliato la visione: "Tornerete a casa avendo profondamente cambiato il vostro approccio al carcere". "Spettacolo con attori protagonisti di un pentimento da intendersi come epilogo di un percorso intimo e importante", lo ha definito Girelli. Un piccolo antidoto al "populismo penale", inteso da Bazoli come "lo spirito di vendetta che aleggia nell’opinione pubblica". Un virus al quale, per Emilio Del Bono, "Brescia ha sempre contrapposto culture diverse, vedi la presenza del volontariato nelle due carceri cittadine e la loro gestione da parte di figure illuminate". Tra esse Francesca Gioieni, direttrice della Casa circondariale Nerio Fischione: "Occorre lasciarsi alle spalle il binomio pena-colpa e ragionare invece sulla combinazione responsabilità-riparazione". Preoccupato si è mostrato Andrea Cavaliere, Presidente della Camera Penale di Brescia: "È necessario che la politica non assecondi la voglia di vendetta dell’opinione pubblica". Roma: "Racconti dal carcere", scelti i 25 finalisti tra 500 testi di Gaetano Pezzella quotidianoarte.it, 25 ottobre 2016 Centinaia i racconti pervenuti da tutte le carceri d’Italia. Sono storie di devianza ed emarginazione, storie d’infanzia negata, violata. Uomini e donne che raccontano senza retorica né autocommiserazione l’asprezza del carcere, la brutalità di una vita vissuta ai margini, dove l’adesione a falsi codici conduce a una lunga scia di sangue. Storie di violenza dove la vittima è una ragazza adolescente e il bambino è abusato dall’orco che si fa credere un mago. Racconti che lasciano senza fiato e dove avverti che la scrittura sia stato un potente antidoto, il modo per elaborare il dolore, la rabbia, il senso di abbandono. Dai cinquecento racconti in concorso sono stati selezionati i venticinque finalisti (sedici per la sezione "Adulti" e nove per la sezione "Minori") e affidati a Tutor d’eccezione che affiancano i detenuti finalisti: Luca Barbarossa, Guido Barlozzetti, Marco Buticchi, Pino Corrias, Emilia Costantini, Alessandro D’Alatri, Erri De Luca, Paolo Di Paolo, Marco Franzelli, Massimo Lugli, Silvana Mazzocchi, Federico Moccia, Mogol, Antonio Pascale, Roberto Pazzi, Andrea Purgatori, Costanza Quatriglio, Carolina Raspanti, Sandro Ruotolo, Fiamma Satta, Gloria Satta, Bianca Stancanelli, Cinzia Tani, Ricky Tognazzi e Simona Izzo, Andrea Vianello. Tema ricorrente di questa VI edizione, è il "Perdono". Spiega Antonella Bolelli Ferrera: "Imboccare la strada del perdono, agli altri e a se stessi, non è facile per chi si trova recluso e ritiene di avere in tal modo saldato ogni debito, anche quello con la propria coscienza. Non tutti vi giungono con la stessa intensità e convinzione. Certamente il saper esprimere attraverso la scrittura un’esigenza dell’anima così intima dimostra di non avere paura di ciò che rimarrà per sempre, nero su bianco". La proclamazione dei vincitori si terrà lunedì 7 novembre nel carcere di Regina Coeli, a Roma. I premi: I venticinque finalisti, grazie al contributo di Siae, riceveranno un computer portatile, mentre ai primi tre classificati di ciascuna categoria (Adulti e Minori) e alle menzioni speciali sarà consegnato un premio in denaro (1.000 euro per i primi classificati, 800 euro per i secondi, 600 euro per i terzi e 100 euro per ogni menzione speciale). Il Premio ha assunto una dimensione "multimediale": con Rai Fiction si è dato vita al progetto per la Tv "I Corti del Premio Goliarda Sapienza" che prevede ogni anno la realizzazione di un cortometraggio tratto da uno dei racconti finalisti (nel 2014 Mala vita con Luca Argentero e Francesco Montanari, regia di Angelo Licata, che si è aggiudicato importanti premi e riconoscimenti; nel 2015 Fuori con Isabella Ragonese e la regia di Anna Negri. Entrambi trasmessi da Rai3. Nuoro: il sogno di un detenuto diventa realtà "studiare marketing in carcere" di Federica Melis castedduonline.it, 25 ottobre 2016 Un detenuto del carcere di Badu e Carros manda una lettera a un’esperta di marketing dove esprime il desiderio di studiare la materia: il sogno si avvera, partono i corsi dentro l’istituto penitenziario grazie alla volontà della cagliaritana Elena Setzu e del suo team. Leggete la bella storia che arriva da una delle carceri più dure della Sardegna. La bella storia che arriva dal carcere. Il sogno di un detenuto che diventa realtà. Quando Elena Setzu, esperta di marketing e Ceo, ha ricevuto "quella lettera", è rimasta a bocca aperta. Un brivido sulla schiena. Mai si sarebbe aspettata di riceverla da quel mittente: casa circondariale di Badu e Carros, Nuoro. Si perché alla 30enne originaria di Villacidro, titolare di due aziende di marketing una Cagliari e una Londra, che aveva recentemente pubblicato su un quotidiano sardo un redazionale relativo ai corsi da lei tenuti, mai si sarebbe aspettata che un detenuto le scrivesse. Ed è dal forte desiderio di questo che è nato il sogno. Scriveva nella lettera, lo chiameremo Antonio (per ovvi motivi di privacy): "Attualmente sono carcerato ma auspico a una prossima libertà. Spero che questa mia situazione non crei pregiudizi. Sono molto interessato al suo libro e vista la mia passione il per marketing un giorno vorrei partecipare a un corso. Certo che sarebbe bello che la vostra azienda entrasse in contatto con questa amministrazione penitenziaria e facesse questi corsi in loco…sognare non costa tanto." E il sogno si è avverato perché Elena Setzu si è messa subito in contatto con la direttrice della struttura che in meno di 24 ore ha autorizzato l’avvio dei corsi. Sono partiti lo scorso 13 ottobre e si terranno fino a marzo. Ventiquattro studenti carcerati divisi in due classi studiano marketing, dalle basi fino al programma piu avanzato. "Sono disciplinati, molto curiosi e attenti, fanno un sacco di domande, prendono appunti - racconta Elena,- io e il mio team siamo davvero entusiasti di tenere questi lezioni. Sono molto gentili e cordiali appena arriviamo ci offorno il caffè e i cioccolatini. Mi hanno ringraziato per avergli dato una seconda chances." Le hanno infatti regalato un braccialetto fatto da loro con scritto "Second chances." Elena si avvale dell’aiuto di colleghi specializzati in informatica, fotografia, marketing. Non lo fa a scopo di lucro ma gratuitamente, è una forma di volontariato. "Spero racconta - che anche attraverso questa intervista si possa divulgare il messaggio affinché altre persone, nel loro piccolo, possano rendersi utili per strutture disagiate (carceri, case famiglia) portando un contributo che non ha prezzo. Inoltre, valuto ancora l’inserimento di eventuali docenti per interventi sui corsi, e sto cercando di raccogliere dei fondi per regalare al carcere una stampante laser ed una termo-pressa per stampare le magliette che rivenderanno per beneficenza". "Sono meravigliata dall’altruismo e dall’impegno della direzione e dell’area Trattamentale dell’istituto comprensivo Badu e Carros, - aggiunge - sono grata a tutte le persone che si sono rese disponibili a tenere delle lezioni gratuite insieme a me ma soprattutto sono grata di aver ricevuto quella lettera, perché ha dato inizio ad un’esperienza che nonostante mi veda "insegnante" mi consente di imparare. Ogni volta torno più ricca." Sono felice che i detenuti del mio corso abbiano tanta voglia di ricominciare e reintegrarsi, e manifestino il loro interesse in maniera così forte da emozionarmi ogni volta. Questa esperienza mi consente di entrare in contatto con una realtà che avevo sempre ignorato o comunque che mai avevo conosciuto e visto con i miei occhi." Sicuramente quello che ha colpito maggiormente Elena è la voglia di ricominciare dei detenuti, il loro impegno, la loro gratitudine, l’entusiasmo. Questa è una grande possibilità per chi, una volta fuori dal carcere, potrà cercare un lavoro magari proprio in questo campo. "Il detenuto che mi ha scritto, dopo aver saputo che avrei esaudito il suo desiderio - racconta con non poca emozione- mi fa fatto recapitare tramite la famiglia un mazzo di fiori nel mio ufficio a Cagliari, con biglietto che recitava "grazie grazie grazie, non dimenticheremo mai il tuo gesto". hi volesse contribuire a questo importante progetto può contattare Elena attraverso questo link www.elenasetzu.it. Napoli: "Sottozero", al Centro Teatro Spazio in scena la difficile vita nelle carceri di Chiara Rita Aprea blastingnews.com, 25 ottobre 2016 Attraverso la vera storia di Pietro Ioia, a San Giorgio a Cremano si racconta e denuncia dei soprusi dei carcerati. Nel 1764 Cesare Beccaria pubblica Dei Delitti e delle Pene, un pamphlet a proposito delle punizioni inflitte ai carcerati con un particolare focus sulla pena di morte. Da venerdì 28 al Centro Teatro Spazio di San Giorgio a Cremano (Na), si torna a parlare di carceri attraverso la voce di Pietro Ioia, un ex detenuto che denuncia i soprusi subiti e visti durante gli anni di reclusione. Ioia attualmente è il presidente dell’associazione ex detenuti di Poggioreale, associazione nata perché il carcere abbia un senso, perché sia una punizione per chi ha commesso reati ma anche una possibilità di redimersi e non essere costretti a tornare a delinquere: è noto che un ex detenuto abbia difficoltà maggiori nel reinserimento nel mondo del lavoro, e può trovarsi costretto a riprendere la strada della delinquenza perché l’unica che ancora lo accetta. L’associazione si pone l’obiettivo di non trasformare il detenuto in relitto, aiutandolo a superare le difficoltà. #Sottozero, morte e rinascita di un uomo in gabbia, è la denuncia dei soprusi subiti durante gli anni di carcere da Pietro Ioia. Il testo nasce da un’idea di Ioia e di Antonio Mocciola, la regia di Vincenzo Borrelli offre un punto di vista deciso sulla questione delle carceri in generale e non solo dello specifico caso della "cella zero" del penitenziario di Poggioreale. Ioia punta il dito verso le istituzioni assenti o quanto meno non curanti della questione dei detenuti. Vincenzo Borrelli porta in scena una denuncia dai toni accesi, dove ogni dettaglio dello spettacolo è utile a rendere l’idea di quanto sia precaria la condizione delle carceri. Le musiche incalzanti, le luci suffuse, le scenografia in continuo movimento vuole mostrare quanto le difficoltà affrontati dai detenuti non riducendo la questione alla sola storia di Ioia, ma racconta tutta la realtà che vi è intorno. Lo spettacolo racconta la vicenda specifica del carcere di Poggioreale, ma la stessa storia potrebbe accadere ovunque. La cronaca mondiale è piena di casi riguardanti carcerati seviziati all’interno delle prigioni, basti pensare al notorio caso Cucchi. La denuncia di Ioia vuole dare luce a questioni volutamente insabbiate, per dare giustizia a chi come lui ha subito tremende angherie in carcere, ed impedire che altri detenuti ne subiscano. A dare voce al personaggio di Ioia è Ivan Boragine, mentre lo stesso Ioia interpreterà quello che è stato il peggiore dei suoi aguzzini. Insieme ai due in scena Marina Billwiller che interpreta la moglie di Ioia, dando voce non solo al singolo personaggio ma alla situazione delle mogli di molti detenuti costrette a crescere i figli senza l’aiuto dei compagni, che ritroveranno poi all’uscita cambiati e straziati a causa delle angherie subite in cella. Personaggi essenziali a capire quanto sia difficile la vita dei detenuti sono quelli di Fusco (Diego Sommaripa), De Rosa (Antonio Tatarella), Izzo (Simone Somma) ed Auriemma (Ivan Improta), quest’ultimo preso maggiormente di mira dagli stessi compagni di cella perché omosessuale, dunque secondo il modus cogitandi dei detenuti debole e quindi da sottomettere. Cristina Ammendola interpreta l’amante del carceriere detto "Fraulella", interpretato come riportato sopra da Pietro Ioia, Vincenzo Borrelli parteciperà alla scena solo attraverso la voce. Lo spettacolo coinvolge emotivamente il pubblico che non riesce a restare indifferente alle questioni che si svolgono sulla scena, è volto ad eliminare i tabù che talvolta la società impone a proposito di determinati argomenti. Sottozero apre la stagione del Centro Teatro Spazio, uno spazio piccolo ma portato avanti da trent’anni con grande amore e devozione dell’arte scenica, ma soprattutto con grande talento. Lo spettacolo avrà luogo a partire da venerdì 28/10 fino a domenica 13/11 (venerdì 28/10 ore 21, domenica 30 ore 18.30, venerdì 4/11 ore 21, domenica 6 ore 18.30, venerdì 11 e sabato 12 ore 21, domenica 13 novembre ore 18.30). Napoli: carcere di Poggioreale, i detenuti diventano artisti, in mostra i loro dipinti napolitoday.it, 25 ottobre 2016 La mostra, intitolata "I colori della libertà", resterà aperta all’interno del Padiglione Firenze fino a giovedì 27 ottobre". "La vita abbatte e schiaccia l’anima e l’arte ti ricorda che ne hai una". E a ricordarsi di averne una, oggi, sono stati i 18 detenuti del Padiglione Firenze del carcere di Poggioreale che, dopo aver seguito un corso di disegni hanno esposto i loro "dipinti" in una mostra, dal titolo "I colori della libertà", allestita tra i corridoi del penitenziario. Tra sbarre grigie, porte di ferro e un murales creato da loro che ricorda di guardare il cielo e di mettere "nuove radici", gli "artisti speciali" hanno rappresentato su fogli bianchi le proprie esperienze ed emozioni, raccontando con matite e schizzi i propri vissuti, tratteggiati, colorati o espressi in chiaroscuro. L’iniziativa, è stata promossa dalle associazioni "Il Sole Sempre", presieduta da Dominique Pantoriero e "La Mansarda", presieduta da Samuele Ciambriello, che da anni opera nelle realtà carcerarie napoletane e che ha all’attivo numerosi progetti educativi. Il piano di lavoro, è stato curato e seguito dalle volontarie e dal Maestro, docente e pittore, Catello Zanca. Presenti all’inaugurazione importanti esponenti del mondo istituzionale e accademico. "Attività del genere - dichiara Tommaso Casillo, vicepresidente Consiglio Regionale della Campania- risultano essere un valido e necessario strumento di riflessione e riabilitazione, un momento terapeutico efficace che, nell’ambiente carcerario deve diventare "normalità"". All’evento è intervenuto anche il direttore del carcere di Poggioreale, Antonio Fullone. "Dobbiamo investire nel tentativo di dare a queste persone una nuova idea di come vivere la propria vita, e attività del genere non sono fine a sè stesse, ma rappresentano una spinta essenziale che vanno inserite in un ambito progettuale articolato e complesso fatto di equilibrio nel dare e nel ricevere. Ringrazio l’associazione "La Mansarda" per il lavoro svolto in questo tempo e per la passione che contraddistingue i suoi volontari". Entusiasta dell’evento anche il presidente dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli, il Prof.re Paolo Ricci. "È grazie a tutto questo che il detenuto può più facilmente cominciare a "pensare" ad un progetto di vita per il "dopo pena", per il "fuori carcere", ovvero può cominciare a curare la propria progettualità dando alla stessa obiettivi meno distruttivi. Spero che manifestazioni del genere diventino sempre più frequenti, perché forniscono un aiuto concreto ed essenziale". "I disegni di questi detenuti - afferma Francesco Saverio De Martino, viceprovveditore penitenziario della Campania - parlano di temi familiari, personali, e molte volte, anche gli stessi colori usati, ricordo anche le esperienze delle altre carceri della Campania, sono significativi ed incoraggiano ad aiutarli, a ritrovare sia il loro vissuto familiare e territoriale che la possibilità di reinserimento". Il Presidente Ciambriello si mostra particolarmente felice per la partecipazione e il coinvolgimento dei ragazzi. "L’obiettivo è stato quello di apprendere l’arte del disegno e della pittura, imparando ad esprimersi e a comunicare attraverso le immagini, ma soprattutto, la mission è quella di (ri)trovarsi. È stata anche un’occasione per dialogare, per sviscerare e lavorare sulle ferite e i traumi dei corsisti. Un moto di comunicazione e libertà, tra di loro e verso il mondo, per ritrovarsi e ritrovare la reciprocità, perché se manca quest’ultima, allora non c’è relazione umana". La mostra resterà aperta all’interno del Padiglione Firenze fino a giovedì prossimo. Arienzo (Ce): bella iniziativa dei detenuti del carcere, tutti pronti a andare in scena goldwebtv.it, 25 ottobre 2016 Tutto pronto ad Arienzo per una bella iniziativa, ecco il comunicato stampa dell’evento: "Aspettando S. Gennaro": È questo il titolo dell’opera teatrale a cura dei detenuti Antonio Caputo, Giuseppe Mazzone, Fabio Allegretto, Gianluca Di Paola e Antonio Esposito, nell’ambito del progetto "Oltre le mura" dell’Associazione Koinè, sostenuto dal Csv Asso.Vo.Ce attraverso il Bando della Micro-progettazione sociale 2014/15 - si legge nella nota -. Il testo teatrale è il risultato del "Laboratorio di scrittura teatrale" coordinato dall’ esperto Gaetano Ippolito. Il programma si è articolato con appuntamenti settimanali a partire da Agosto. Gli allievi-ristretti hanno lavorato ispirandosi al testo di Samuel Beckett "Aspettando Godot". Nella versione degli autori-ristretti i personaggi sono Pasquale e Ciro - si legge nella nota -, due topi napoletani che attendono la grazia di S. Gennaro, che diventa il simbolo della "libertà" e della "speranza del cambiamento". Questo è il messaggio che i detenuti vogliono lanciare al pubblico, ma prima di tutto a se stessi. Ora la palla passa ai detenuti del laboratorio di recitazione, curato dall’attore Antonio Perna, e ai detenuti del laboratorio di scenografia e costumi, tenuto dalla costumista Teresa Papa. L’obiettivo è mettere in scena lo spettacolo che farà il giro della provincia di Caserta con un breve tour - si legge nella nota. La direttrice della Casa Circondariale di Arienzo, la dott.ssa Maria Rosaria Casaburo, ha creduto fortemente nel progetto "Oltre le mura", "Perché l’inclusione sociale è la finalità che dobbiamo perseguire in modo costante nel nostro lavoro" - sostiene la dirigente - "affinché i ragazzi fuori da qui abbiamo la volontà di dare una direzione diversa alle proprie esistenze e che la libertà non sia soltanto una breve parentesi" - si legge nella nota. Il progetto è seguito dalle educatrici dell’Istituto, le dott.sse Maria Rosaria Romano e Francesca Pacelli, instancabili operatrici a favore delle azioni trattamentali finalizzate all’inclusione sociale dei detenuti. Il progetto "Oltre le mura" continua con l’attivazione degli altri laboratori in cantiere". "Siamo molto soddisfatti dell’andamento del progetto", ha commentato il presidente dell’OdV Koinè, Margherita Zotti, "l’opera teatrale ha l’ambizione di fare anche una critica alla società contemporanea. Ovviamente, per chi volesse saperne di più, lo invitiamo a venire ai nostri spettacoli, che saranno gratuiti". Migrati. L’età della grande reclusione di Tonino Perna Il Manifesto, 25 ottobre 2016 La cacciata dei migranti dalla cosiddetta "giungla di Calais" è l’ennesimo, odioso, atto di repressione di un governo dell’Unione Europea che pensa di guadagnare consensi usando le maniere forti con i deboli, i disperati, i profughi che scappano dalle guerre che noi abbiamo provocato e gestito. Purtroppo, anche i governi di centrosinistra inseguono la destra estrema sul piano della durezza della repressione verso i migranti, accettando lo slogan diventato un luogo comune: ci stanno invadendo. Ma, chi invade chi? Quanti migranti entrano in Italia in un anno, quanti sono i rifugiati nella Ue? Non lo sa nemmeno l’1 per mille della popolazione. La stragrande maggioranza della gente non conosce i numeri dei flussi migratori, e viene bombardata ogni giorno dal telegiornale che quantifica gli sbarchi giornalieri, con un ritmo incalzante, ma non fornisce dati sul fenomeno nel suo complesso, sia a livello nazionale che nel bacino del Mediterraneo. In tal modo è stato costruito lentamente, ma costantemente, un immaginario collettivo assolutamente falso e deviante. Pochissimi sanno, o non vogliono sapere, che su quasi sei milioni di profughi siriani l’Ue ne accoglie solo il 15%, con i suoi 400 milioni di abitanti, per lo più concentrati in Serbia e in Germania, mentre un paese come la Giordania ne accoglie 700mila su una popolazione di 7,5 milioni. E addirittura il Libano ne accoglie 1,3 milioni con una popolazione di 4,5 milioni di abitanti! In proporzione è come se in Italia fossero arrivati 18 milioni di profughi ! Provate a immaginare cosa sarebbe successo. Su questa emergenza inventata si stanno costruendo le fortune politiche di partiti e leader razzisti e carichi di odio, si sta portando tutta l’Europa verso un processo di autodistruzione, strappando la trama istituzionale e culturale che in decenni era stata lavorata. L’Europa dei diritti, del welfare per tutti, del "sogno" che dieci anni fa ci ha raccontato Jeremy Rifkin, si sta sciogliendo velocemente come la neve sull’Etna dopo una giornata di scirocco. Come ci ricorda una famosa poesia di Bertol Brecht, prima è toccato agli ebrei, ai Rom, ai "neri", ora tocca ai profughi e domani… domani toccherà a noi, ai nostri poveri, esclusi, marginalizzati. Infatti, in tutto l’Occidente, e non solo, si alzano muri per chilometri e chilometri, barriere di filo spinato, controlli spietati alle frontiere per respingere non lo straniero, ma i poveri che scappano dalle guerre e dalla fame. I ricchi, i trafficanti di armi e droga, di qualunque nazionalità, colore della pelle, hanno invece diritto a entrare in qualunque paese del mondo. Per loro non ci sono muri e barriere che siano siriani o afgani, palestinesi o libici: sono i dannati della terra che devono restare fuori. È la "nuova guerra ai poveri" che è scoppiata in tutto il mondo e che ci riporta al XVII secolo, il secolo della Grande Reclusione come è stato definito dal grande Fernand Braudel: "Questa ferocia borghese si aggraverà smisuratamente verso la fine del Cinquecento, e ancor più del Seicento. Il problema consisteva nel mettere i poveri in condizione di non nuocere (…) A poco a poco, attraverso tutto l’Occidente si moltiplicano le case per i poveri e indesiderabili, in cui l’internato è condannato al lavoro forzato: le Workhouses come le Zuchthauser, o le Maison de force, sorta di prigioni riunite sotto l’amministrazione del Grande Ospedale di Parigi fondato nel 1656. Questa "grande reclusione" dei poveri, dei pazzi, dei delinquenti, e anche dei minori, è uno degli aspetti psicologici della società razionale, implacabile nella sua ragione, del secolo XVII". Migranti. A Ferrara, barricate contro i profughi di Antonella De Gregorio e Alessandro Fulloni Corriere della Sera, 25 ottobre 2016 Il prefetto requisisce l’ostello, cittadini in piazza a Goro e Gorino per impedire il passaggio del pullman scortato dalle forze dell’ordine. Proteste e blocchi alle strade. In nottata la prefettura ci ripensa: i migranti (dodici donne) dirottati in altri comuni. Dodici donne su un pullman. Migranti sbarcate sulle coste italiane, trasportate a Bologna e da lì caricate su un mezzo che le doveva accompagnare in un rifugio sicuro: un ostello di Gorino, frazione del comune di Goro, paese di poco più di duecento anime in provincia di Ferrara. Ma è scoppiata la rivolta: una protesta, pesantissima, con barricate per strada, per osteggiare la decisione del prefetto, Michele Tortora. E quel durissimo no ha costretto la prefettura a rivedere i propri piani. Le dodici donne hanno trovato alloggio altrove, in diverse strutture in comuni delle vicinanze. Non dice quali, il prefetto Tortora: "Penso che in questo momento abbiano bisogno di tranquillità", dice al Corriere. Ma anche per evitare altre proteste: ipotesi non remota, visto che alla sollevazione anti-migranti di lunedì avrebbe partecipato anche gente che non vive a Gorino. "Perché se oggi li mettono qua, domani - sono le frasi ascoltate - potrebbero portarli anche da noi". Ore 19: comincia la protesta - Tutto è incominciato lunedì intorno alle 19. Quando sui due lati della strada comunale, l’unica che permette l’accesso all’ostello-bar "Amore e natura" sono stati sistemati, a mo’ di barricata, bidoni di ferro e bancali di legno. Tutt’intorno, stando alla puntuale cronaca online giunta da www.estense.com, buona parte degli abitanti della frazione di Gorino. Cori anti Renzi, grida contro i migranti: "Qui non li vogliamo". Atmosfera tesa. Tanti carabinieri e poliziotti in assetto anti-sommossa. Ma a parte il forte rumoreggiare, non si è mai trasceso in atti di violenza. C’è anche una donna incinta - Il pullman che avrebbe dovuto portare i profughi - vengono da Nigeria, Costa d’Avorio e Guinea, c’è anche una donna incinta - comunque non si sono visti. Hanno cambiato percorso. E a sera inoltrata si è appreso che non saranno più ospiti di Gorino, ma di un altro borgo dalle parti del delta. Non che l’annuncio abbia rabbonito i presenti, tra cui alcuni giunti dalle vicine località di Goro e Bosco Mesola per dar sostegno alla protesta. Appunto: "Magari li portano da noi... E non vogliamo". "Requisizione straordinaria" - Il prefetto Tortora aveva spiegato che la requisizione dell’ostello - notizia che in paese si è appresa poche ore prima della protesta - "ha carattere eccezionale straordinario" e aveva rivolto un appello "ad amministrazioni pubbliche, associazioni di volontariato e strutture ecclesiastiche affinché offrano ogni collaborazione", anche per "ulteriori esigenze", verosimili "anche a breve". Collaborazione arrivata in tempo brevissimo. Il titolare dell’ostello, Filippo Rubini, ha detto alla Nuova Ferrara che una settimana fa, contattata, la struttura si era detta non disponibile ad accogliere i profughi ma che poi la situazione si era concretizzata con l’annuncio dell’arrivo a poche ore dal trasferimento. Il sindaco dem - Il sindaco dem Diego Viviani ha tentato una mediazione con la prefettura dopo aver letto l’ordinanza. Il provvedimento lo ha preso alla sprovvista, "non ho nemmeno avuto il tempo di avvertire i miei cittadini" ha raccontato a.estense.com. Pur diplomaticamente, il primo cittadino fa capire di non essere d’accordo, vuoi "perché non capisco la scelta di Gorino, paese lontano dal resto della provincia. È una difficoltà oggettiva anche per le cooperative di accoglienza provvedere a cibo e quant’altro. Poi i collegamenti non sono semplici". A mezzanotte, il dietrofront. Gorino, paese "immune" da migranti. Migranti. Il modello di accoglienza che possiamo esportare di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 25 ottobre 2016 Da soli (e a loro spese), Sant’Egidio, valdesi e evangelici avranno portato in Italia un numero di rifugiati quasi pari a quello che l’intera Unione europea è riuscita sinora a ricollocare tra feroci polemiche. Illusione e realtà, panico e ragione: ci sono almeno due modi di essere Europa di fronte ai migranti, e ancora ieri ne abbiamo visto la dimostrazione plastica. Il primo inganno sta, come sempre, sulla punta della lingua: parlare di "emergenza" significa fingere di non vedere che le migrazioni sono un dato strutturale di questo secolo e dunque non si può rispondere con soluzioni straordinarie e diktat prefettizi a flussi per i quali dobbiamo attrezzare forme di integrazione stabile. Il secondo inganno è politico, sta nel bluff dell’Unione, nella bugia della relocation, la redistribuzione dei rifugiati su tutto il territorio europeo. "L’Italia è oggi ancora più sola di prima", ha detto, a Torino, Stephane Jaquemet, il delegato dell’Alto commissariato Onu: "L’Europa fa un passo avanti e uno indietro, è paralizzata". Con questi due grimaldelli, emergenza e separazione, destre radicali ed estremismi identitari stanno provando a far saltare il banco delle liberal-democrazie europee e dell’Europa stessa. Tuttavia negli avvenimenti di ieri si può cercare un sentiero di razionalità, per stretto che sia. All’alba, un pezzo dell’Europa paralizzata ha mostrato la sua faccia nello sgombero di Calais. S’è lasciato per mesi, in barba agli allarmi della stampa e delle organizzazioni umanitarie, che la Giungla al confine franco-inglese s’ingolfasse di "emergenze" diventando una città dell’orrore per ottomila anime in cerca di futuro: ora lo sbocco è lo svuotamento forzato, accompagnato da scontri, umiliazioni (ieri sulle file, in attesa per ore, il cibo veniva lanciato), nuova disperazione, fughe più o meno di massa. Con ben altro spirito (il soccorso in mare resta, a nostro avviso, fonte d’orgoglio nazionale) i marinai italiani hanno raccolto al largo più di quattromila profughi, salvandoli dalla morte tra le coste nordafricane e la Sicilia. Ma, lo sappiamo, il percorso di queste persone in terraferma sarà quasi di certo destinato ad alimentare tante piccole "giungle", slogan d’impatto (Matteo Salvini ha ripreso a battere sull’"invasione") o incauti appelli (difficile definire altrimenti l’invito alla disobbedienza rivolto da un vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, alle nostre forze armate impegnate nel salvataggio dei migranti). La tanto sbandierata invasione ci porterà al massimo agli stessi arrivi del 2014 ma sarebbe miope ridurne la percezione all’uso strumentale che ne fanno leghisti e xenofobi. Cento giovani profughi collocati, per ordine di un prefetto e magari all’insaputa del sindaco, nell’albergo di un paesino di mille abitanti e lì mantenuti senza far nulla a tempo indeterminato, con un consistente lucro per la cooperativa che li ospita, sono, oltre che un errore organizzativo, un chiaro invito al razzismo. Il problema sta davanti a noi. I centri d’accoglienza sono intasati, i vecchi Cara agonizzano eppure restano in vita, i tempi per decidere lo status dei migranti e il loro diritto a rimanere in Italia sono troppo lunghi (inaccettabili le attese tra il verdetto delle commissioni e l’appello). Insomma, le risposte di un sistema malato come in ogni settore dell’amministrazione, qui fanno più danni: perché sconcertano e spaventano la gente. Proprio in queste ore, da Fiumicino, viene tuttavia una piccola luce, una diversa prospettiva. Stanno sbarcando tra ieri e oggi centotrenta siriani, da un volo di linea e non da un barcone, attraverso il corridoio umanitario creato da Sant’Egidio e dalle Chiese protestanti italiane in accordo con il nostro governo: sono così 400 da febbraio, diventeranno più di mille in un anno. Questo dato è paradossale perché, da soli (e a loro spese), Sant’Egidio, valdesi e evangelici avranno portato qui un numero di rifugiati quasi pari a quello che l’intera Unione europea è riuscita sinora a ricollocare tra feroci polemiche. I profughi della prima ondata sono già integrati e aiuteranno gli ultimi: accolti non solo da parrocchie ma da privati cittadini e istituzioni locali. Questa piccola immagine nel giorno di Calais parrebbe dirci che la questione dell’accoglienza (altro dalla sicurezza, naturalmente) va spostata su un piano diverso; che gli Stati devono essere anche capaci di farsi volano d’iniziative simili a questa di Sant’Egidio, creando rete, contatti. Come in Italia l’accoglienza diffusa del sistema Sprar deve diventare norma e non eccezione, facendo emergere il buono che c’è nei nostri piccoli comuni senza ordinanze prefettizie, così in Europa è forse tempo di capire che il cuore dei cittadini è oppresso più che dalla xenofobia dalla burocrazia. Buonismo? Magari. Ma soprattutto convenienza, per un Continente che sta invecchiando troppo in fretta per rinunciare all’integrazione di chi arriva. In questa biblica narrazione delle migrazioni del Terzo millennio, spesso non siamo capaci di fare incontrare domanda e offerta: ma a volte l’offerta è assai migliore di quanto pensiamo, storditi come siamo dagli alti lai di chi ossessivo ci ripete "lasciamoli in mare". Diritti Umani. L’urgenza di aiutare i poveri, ma il piano slitta al 2018 di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 25 ottobre 2016 Per combattere l’indigenza assoluta, l’Alleanza contro la povertà propone una misura universale a favore dei residenti al di sotto di un certo reddito. Potrebbe essere finanziata anche dai privati. Uno dei meriti del governo Renzi è quello di aver avviato, già con la precedente legge di stabilità e con una delega approvata per ora dalla sola Camera, una seria lotta alla povertà in Italia. Non era mai accaduto prima in maniera così organica. Le diverse esperienze della cosiddetta social card, introdotta per la prima volta nel 2008 da Berlusconi, hanno avuto diffusione e importi limitati. Negli annunci relativi alla bozza di bilancio per il 2017 c’è però una certa disattenzione al tema, forse indotta da altre urgenze. L’impegno del ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Giuliano Poletti, di aumentare già dall’anno prossimo lo stanziamento, da 1 a 1,5 miliardi, per avviare un piano nazionale contro l’indigenza assoluta, è slittato al 2018. Osservatori maligni (non mancano mai) sostengono che i poveri non hanno lobby. E forse si pensa che votino poco, anche al referendum. Interpellato, il ministro replica: non vi è nessun rinvio, si libereranno altre risorse, in particolare 150 milioni derivanti dal riordino di vecchie misure. L’idea di un piano nazionale contro la povertà andrebbe perseguita nonostante i vincoli di bilancio. Specie quando si pensa a misure (opportune) per attrarre i ricchi stranieri o gli italiani espatriati scontando loro le tasse e ci si batte, altrettanto giustamente, affinché l’Europa riconosca le nostre spese per accogliere migranti e profughi. Non si è vista nessuna forza politica italiana gridare, parafrasando quello che è accaduto in altri Paesi, "Prima i nostri poveri". Slogan discutibile nell’Italia cattolica con il cuore in mano che vorrebbe aiutare tutti, senza distinzione, pur sapendo di non poterlo fare. Ma invocazione d’indubbia efficacia perché, purtroppo, basata su una realtà drammatica. I residenti in Italia, in condizione di povertà assoluta, sotto lo standard di vita minimamente accettabile, sono più che raddoppiati negli anni della crisi. Erano, secondo l’Istat, il 3,1 per cento della popolazione nel 2007. Hanno toccato il 7,6 per cento nel 2015. Se prima la povertà assoluta colpiva soprattutto anziani, famiglie numerose, di bassa istruzione, in particolare al Sud, oggi il fenomeno ha natura ed estensione diverse. Riguarda anche giovani coppie con più figli, i cinquantenni che hanno perso il lavoro, i padri e le madri separati, anche e soprattutto al Nord. Secondo Save the Children, un milione di minori vive in condizioni precarie, al di sotto dei livelli minimi di assistenza e di educazione. I nostri poveri finiscono per essere, in non pochi casi, discriminati rispetto agli immigrati indigenti. Questi ultimi sono aiutati da una rete solidale di straordinaria generosità e sensibilità umana che non ha pari altrove. Molti nostri connazionali, invece, si vergognano della loro nuova condizione. Sentono su di sé un giudizio morale ingiusto e insopportabile. Stentano a chiedere aiuto, non si mettono in fila alle mense dei poveri. I tanti che hanno perso la casa e il lavoro scivolano drammaticamente nella condizione invisibile del disonore sociale. Evitano finché possono le strutture dell’accoglienza. Ed è difficile non solo dar loro una mano, ma rendersi persino conto dei bisogni reali. Le misure transitorie finora varate per contrastare la povertà hanno incontrato non poche difficoltà di realizzazione, in particolare nel Mezzogiorno, sia per la scarsità di servizi sia per la quantità di dichiarazioni mendaci. Il Sostegno per l’inclusione attiva (Sia) è concesso a cittadini italiani o comunitari o stranieri residenti da almeno due anni. Nel nucleo familiare è necessario che vi sia almeno un minore o un figlio disabile o una donna in stato di gravidanza accertata. L’Isee (l’Indicatore della situazione economica equivalente) non può essere superiore a 3 mila euro l’anno. Consiste in 80 euro a componente, per un massimo di 400 euro, con l’obbligo di seguire corsi di reinserimento. L’Asdi, l’Assegno di disoccupazione, è riservato invece a chi, dopo aver ricevuto ed esaurito il diritto ad un’indennità, non trova lavoro, non ha i requisiti per la pensione anticipata o di vecchiaia, e dichiara un Isee inferiore a 5 mila euro. L’Asdi è assegnato se si fa parte di un nucleo familiare con almeno un minore o un membro con più di 55 anni senza requisiti pensionistici. L’importo è del 75 per cento dell’ultima indennità di disoccupazione percepita, e modulato in base ai carichi familiari. Quando verrà approvata definitivamente la legge delega sulla povertà al Senato, questi strumenti transitori saranno assorbiti dal Reddito di inclusione (Rei) calcolato nella differenza fra il reddito disponibile delle famiglie assistite e la soglia di povertà fissata dall’Istat. E, ovviamente, con l’obbligo di seguire corsi di reinserimento socio-lavorativo. Costerebbe 1,5 miliardi l’anno. "Ma anche così si raggiungerebbe solo un povero su tre — spiega l’esperto di politiche sociali Cristiano Gori, dell’Università di Trento — e l’Italia rimarrebbe ancora, insieme alla Grecia, il solo Paese in Europa a non avere una misura universale". L’Alleanza contro la povertà, che raggruppa 37 soggetti sociali e del volontariato, promossa da Gori, propone invece una misura universale a favore di tutti i residenti in condizione di indigenza assoluta per allineare il loro reddito alla soglia di povertà. L’ammontare medio mensile varierebbe, nella proposta dell’Alleanza, da 316 euro (nucleo con un componente) a 454 (quattro persone). Il costo a regime sarebbe molto elevato: 7 miliardi da raggiungere, però, in diversi anni. L’onere del finanziamento potrebbe essere alleviato, per i conti pubblici, ricorrendo alla solidarietà privata. Occuparsi di più e meglio dei poveri che vivono nel nostro Paese, facendo anche un piccolo passo in più ogni anno e combattendo con severità gli abusi, non risponde solo a un dovere di misericordia civile, irrinunciabile in un Paese moderno, ma restituisce valore alla cittadinanza e rinsalda legami e rispetto delle regole. I poveri non sono una parte sociale. Non contano. Sono una minoranza invisibile che, in qualche caso, non vuol farsi nemmeno vedere. La ferita sociale interroga la coscienza di tutti. Guerra. Patti chiari, sudditanza lunga di Manlio Dinucci Il Manifesto, 25 ottobre 2016 Nel quadro della strategia Usa/Nato - documenta la Casa Bianca - l’Italia si distingue quale "saldo e attivo alleato degli Stati uniti". Lo dimostra il fatto che "l’Italia ospita oltre 30 mila militari e funzionari civili del Dipartimento Usa della difesa in installazioni dislocate in tutto il paese". Dopo aver chiamato gli italiani a votare Sì al referendum, ingerendosi nella nostra politica nazionale col complice silenzio dell’opposizione parlamentare, il presidente Obama ha confermato al "buon amico Matteo" che con l’Italia gli Usa hanno "patti chiari, amicizia lunga". Non c’è dubbio che i patti siano chiari, anzitutto il Patto atlantico che sottomette l’Italia agli Usa. Il comandante supremo alleato in Europa viene sempre nominato dal presidente degli Stati uniti d’America e sono in mano agli Usa tutti gli altri comandi chiave. Dopo la fine della guerra fredda, in seguito alla disgregazione dell’Urss, Washington affermava la "fondamentale importanza di preservare la Nato quale canale della influenza e partecipazione statunitensi negli affari europei, impedendo la creazione di dispositivi unicamente europei che minerebbero la struttura di comando dell’Alleanza", ossia il comando Usa. Concetto ribadito dal segretario della Nato Stoltenberg nella recente tavola rotonda sulla "grande idea di Europa": "Dobbiamo assicurare che il rafforzamento della difesa europea non costituisca un duplicato della Nato, non divenga una alternativa alla Nato". A garanzia di ciò c’è il fatto che 22 dei 28 paesi della Ue (21 su 27 dopo l’uscita della Gran Bretagna) fanno parte della Nato sotto comando Usa, riconosciuta dall’Unione europea quale "fondamento della difesa collettiva". La politica estera e militare della Ue è quindi fondamentalmente subordinata alla strategia statunitense, su cui convergono le potenze europee i cui contrasti d’interesse si ricompattano quando entra in gioco il loro interesse fondamentale: mantenere il predominio dell’Occidente, sempre più vacillante di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali. Basti pensare che l’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione, nata dall’accordo strategico cino-russo, dispone di risorse tali da farne la maggiore area economica integrata del mondo. Nel quadro della strategia Usa/Nato - documenta la Casa Bianca - l’Italia si distingue quale "saldo e attivo alleato degli Stati uniti". Lo dimostra il fatto che "l’Italia ospita oltre 30 mila militari e funzionari civili del Dipartimento Usa della difesa in installazioni dislocate in tutto il paese". Allo stesso tempo l’Italia è "partner degli Usa per la sicurezza globale", fornendo forze militari e finanziamenti per una vasta gamma di "sfide": in Kossovo, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Baltico e altrove, ossia ovunque è stata e viene impiegata la macchina da guerra Usa/Nato. Un ultimo fatto conferma quale sia il rapporto Usa-Italia: stanno per arrivare alla base di Amendola in Puglia, probabilmente l’8 novembre, i primi due dei 90 caccia F-35 della statunitense Lockheed Martin, che l’Italia si è impegnata ad acquistare. Il costo della partecipazione dell’Italia al programma F-35, quale partner di secondo livello, è ufficialemente quantificato nella Legge di stabilità 2016: 12 miliardi 356 milioni di euro di denaro pubblico, più altre spese per le continue modifiche al caccia che ancora non è pienamente operativo e necessiterà di continui ammodernamenti. Nonostante ciò - conferma Analisi Difesa - l’Italia avrà una "sovranità limitata" sugli stessi F-35 della propria aeronautica. Una legge statunitense vieta che i "dati di missione" (i software di gestione dei sistemi di combattimento dei caccia) siano comunicati ad altri. Saranno dunque gli Usa a controllare gli F-35 italiani, predisposti per l’uso delle nuove bombe nucleari B61-12 che il Pentagono schiererà contro la Russia, al posto delle attuali B-61, sul nostro territorio "nazionale". Turchia. Minorenni siriani nelle fabbriche dei grandi marchi di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 25 ottobre 2016 Decine di minori siriani, alcuni di età inferiore a 10 anni, sono stati impiegati in fabbriche tessili turche che producono abiti per note aziende come Zara, Mango, Mark & Spencer e Asos. La ha denunciato la trasmissione della Bbc Panorama. I giovani rifugiati vengono costretti a lavorare fino a 12 ore al giorno per poco più di un euro all’ora e, talvolta, in condizioni rischiose per la salute perché vengono utilizzati coloranti chimici senza l’utilizzo di adeguate protezioni. Secondo quanto riportato sul portale online della Bbc, i minorenni siriani sono stati reclutati per strada, attraverso un intermediario che ha dato loro un anticipo in contanti. Dopo la prima mancia, i giovani sono stati impiegati nelle aziende con turni massacranti e costretti a lavorare in scarse condizioni di sicurezza. Negli stabilimenti di produzione di jeans per Mango e Zara, riferisce l’inchiesta, i minori spruzzano uno sbiancante chimico sui tessuti, in gran parte senza indossare mascherine di protezione. "Se a noi siriani succede qualcosa, sono pronti a gettarci via come un pezzo di stoffa", dice un ragazzo al giornalista Darragh MacIntyre, autore dell’inchiesta. MacIntyre ha raccolto le testimonianze di decine di siriani impiegati nelle fabbriche che lavorano per le multinazionali. Queste si sono difese, riferisce Bbc, dichiarando di non essere a conoscenza dei fatti o di voler svolgere nuove indagini perché non tollerano lo sfruttamento di rifugiati e minori, e per evitare il ripetersi di queste pratiche. Tra loro, Marks & Spencer ha smentito la presenza di profughi minorenni nella produzione in Turchia, nonostante Panorama affermi di aver accertato sette siriani impiegati in uno dei principali stabilimenti, il più giovane di 15 anni. "Quello che viene denunciato è estremamente grave e inaccettabile per M&S - ha detto un portavoce dell’azienda -. Noi abbiamo criteri etici molto rigidi. Tutti i nostri fornitori si devono adeguare al nostro codice che specifica il modo in cui i lavoratori devono essere trattati. Noi non tollereremo alcuna violazione di questi principi e faremo di tutto perché non succeda mai più". Allo stesso modo Mango ha riferito, spiega Bbc, che le fabbriche coinvolte nell’inchiesta stavano lavorando in subappalto e che non ne era informata. La casa madre di Zara, Inditex, si è detta invece convinta dell’efficacia dei suoi controlli e ha dichiarato di aver già in precedenza scoperto irregolarità, avendo imposto un termine alle fabbriche perché si regolarizzino. Il rivenditore online Asos ha ammesso di aver scoperto minorenni siriani al lavoro in una fabbrica di suoi abiti e ha aggiunto che quello non era uno stabilimento autorizzato. La compagnia ha comunicato di voler supportare finanziariamente i giovani così che possano ritornare a scuola e che darà un contributo ai profughi adulti finché non avranno trovato impiego regolare. Al di là delle buone intenzioni, però, rimane il fatto che queste violazioni accadono. "Non basta dire: non lo sapevamo, non è colpa nostra - dice Danielle McMullan, del britannico Business & Human Rights Resource Centre. Le aziende devono capire che hanno una responsabilità perché devono controllare dove e come vengono fatti i loro vestiti e in che condizioni lavorative". Francia. Il carcere di Villepinte consegna le chiavi ai detenuti di Giulia Prosperetti Il Messaggero, 25 ottobre 2016 Si trova a Villepinte, nel distretto Seine Saint Denis, a nord-est di Parigi e fino a un mese fa era noto soprattutto per essere il carcere che ospita i "peggiori detenuti di Francia". Dietro le sue sbarre è stato incarcerato anche Amedy Coulibaly, il terrorista che, all’indomani dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, ha ucciso una poliziotta e ha tenuto in ostaggio 19 persone nel supermercato ebraico di Parigi chiedendo in cambio la liberazione dei responsabili della strage, i suoi amici Said e Chérif Kouachi. Un luogo infernale che con una capienza di 587 posti conta 1082 detenuti, un’età media inferiore ai trent’anni e che vede a stretto contatto imputati in attesa di giudizio e criminali alla loro quinta condanna. Da circa un mese il carcere di Villepinte ha attuato un progetto a dir poco audace. Si chiama "Respecto" ed è stato fortemente voluto dalla responsabile della struttura Léa Poplin. Pur non nascondendo qualche timore - come ha poi rivelato Poplin a Le Point - il 26 settembre scorso i guardiani della prigione hanno aperto 90 celle dell’edificio e consegnato le chiavi ai 184 occupanti. Respecto si basa su un contratto che offre dei vantaggi ai detenuti (celle aperte durante il giorno, libero accesso alle docce e ai campi sportivi la sera ecc.) in cambio di obblighi (buona condotta, sveglia alle 7.30, partecipazione a dei corsi di educazione civica, economia domestica ecc.) e il suo obiettivo è la diminuzione del tasso di violenza e inciviltà che dilaga negli istituti penitenziari. I modelli di riferimento sono la prigione di Mont de Marsan, nel sud della Francia e i progetti realizzati in Spagna. Per il momento il progetto è ristretto a una piccola parte dei detenuti che hanno accettato il "contratto" ma, dopo neanche un mese dall’attuazione, le richieste da parte di detenuti che vogliono partecipare sono aumentate enormemente. In tre settimane la lista d’attesa è passata da 20 a più di 100 nominativi. La responsabile ha spiegato che per prendere parte a "Respecto", dal quale sono esclusi i sorvegliati speciali i detenuti per terrorismo, i candidati devono aver avuto una condotta irreprensibile nei due mesi precedenti. Un meccanismo che ha innescato una condotta virtuosa anche tra i detenuti della altre sezioni del carcere che attualmente non partecipano al progetto ma che, vedendo gli altri, vogliono fare domanda per prenderne parte. "Quando ho detto che volevo realizzare questo progetto a Villepinte mi hanno preso per una pazza e una kamikaze" ha detto Léa Poplin in un’intervista a Le Point. Attualmente, tuttavia, Poplin può ritenersi soddisfatta. Nell’area Respecto del carcere, i muri sono colorati e i detenuti con la chiave della propria cella al collo conversano tra loro nei corridoi, fanno sport all’aperto o seguono dei corsi. Il tasso di violenza si è abbassato e i rapporti con i sorveglianti sono migliorati. Il personale addetto alla sicurezza ha già rinominato l’area della struttura dove è in atto Respecto "il paradiso". Nell’inferno, invece, i detenuti guardano dalla finestra i loro "colleghi" più meritevoli che girano indisturbati per la struttura. Perché il progetto funzioni, tuttavia, Léa Poplin ha annunciato una "tolleranza zero" verso chi non rispetta le regole. Già durante la prima settimana del progetto nove detenuti sono stati esclusi per detenzione di oggetti illegali e inciviltà. "Lo scopo è quello di preparare i detenuti alla vita fuori dal carcere", afferma Marie-Rolande Martins, direttrice del servizio penitenziario di inserimento di Seine-Saint Denis. "Questi giovani devono imparare a riempire le loro vite con qualcosa di diverso dalla delinquenza. Ma anche a saper dire dei no". Il riferimento della direttrice è alla radicalizzazione, un problema molto sentito in Francia che rappresenta, a volte, l’unica strada fuori dal carcere per molti detenuti di religione islamica. Vietnam. Evasione di massa da un Centro di riabilitazione per tossicodipendenti Reuters, 25 ottobre 2016 Almeno 230 detenuti sono ancora in fuga. Le dure condizioni di vita nei centri vietnamiti sono state denunciate dai gruppi per la difesa dei diritti umani. I programmi di riabilitazione vietnamiti hanno un alto tasso di fallimento, con oltre il 90 per cento di recidivi entro cinque anni. La polizia vietnamita sta cercando 230 tossicodipendenti dopo un’evasione di massa avvenuta nella notte tra domenica 23 e lunedì 24 ottobre in un centro di riabilitazione nel sud del paese. Il vice direttore del centro ha detto ai media che nella fuga collettiva sono scappati 562 detenuti, circa un terzo dei 1.480 ospitati nella struttura. Finora la polizia ne ha ricatturato 330. I programmi di riabilitazione vietnamiti, che combinano istruzione, ideologia comunista e lavori manuali, hanno un alto tasso di fallimento, con oltre il 90 per cento di recidivi entro cinque anni. I gruppi per la difesa dei diritti umani da anni condannano le condizioni dei centri di riabilitazione vietnamiti, dove sono ricollocati i tossicodipendenti arrestati dalla polizia. Human Right Watch (Hrw) aveva definito i centri di riabilitazione "poco più che campi di lavoro forzato". Secondo la denuncia di Hrw, i tossicodipendenti sono arrestati dalla polizia e inviati forzatamente, spesso senza regolare processo, nei centri di riabilitazione dove sono costretti a lavorare con una bassa paga e soffrono di torture fisiche e psicologiche. Ci sono circa 200mila tossicodipendenti in Vietnam, la maggior parte dei quali consumatori di eroina.