Ristretti Orizzonti e la fatica di continuare a esistere Il Mattino di Padova, 24 ottobre 2016 Il prossimo anno sarà per Ristretti Orizzonti quello di un compleanno importante, vent’anni di vita tutta tesa a far capire alla società che il carcere non è, come si ama dire, un "pianeta" lontano e misterioso, il carcere è una realtà che ci riguarda tutti perché tutti, anche quelli che scelgono ostinatamente il Bene, potrebbero avere vicino, tra i loro cari, qualcuno che invece non ce la fa, che si lascia andare, che fa scelte sbagliate. Ristretti Orizzonti forse non ce la farà a sopravvivere, ci vogliono risorse che fatichiamo a trovare, ci vogliono politiche di investimento sulla prevenzione della devianza che siano diverse e più coraggiose rispetto all’acquisto di telecamere e all’aumento spropositato delle pene detentive. Però continuiamo a provarci, e le persone detenute continuano a raccontare quanto può essere determinante, nella loro vita, nel loro percorso di cambiamento, un’esperienza di confronto con la società come quella di Ristretti. Quanto è importante, per noi detenuti e non solo, la rivista Ristretti Orizzonti Quanto più il carcere sembra lontano dalla società, tanto più la società dovrebbe stare in stretto contatto con il carcere, anche perché il carcere è un luogo che appartiene alla società, e comunque, chi ci vive dentro prima o poi esce e viene reintrodotto nella vita sociale. Nel carcere è nata anni fa la redazione di Ristretti Orizzonti, con uno scopo ben specifico, quello di far conoscere i problemi delle persone che vivono in stato di restrizione, e migliorarne le condizioni di vita. La rivista non tratta però solo problemi legati alla detenzione, ma con i detenuti cerca di analizzare i motivi che hanno portato a comportamenti sbagliati, che hanno arrecato un danno alla società. A volte affronta argomenti spinosi che nessuno vorrebbe considerare perché non portano consensi, è il caso dell’ergastolo ostativo, quello per cui non si uscirà mai dal carcere: da un lato tutti parlano della sua incostituzionalità, ma si tirano indietro quando c’è da affrontare il problema concretamente. Ma Ristretti tratta anche argomenti di grande attualità come quello della guida in stato di ebbrezza, cercando di dimostrare che il carcere non risolve il problema, e una pena alternativa, come il duro lavoro in un Pronto Soccorso, sarebbe senz’altro più efficace della detenzione. E ancora ha affrontato temi come il bullismo, la violenza sulle donne, i reati dei minori, questioni che riempiono le pagine dei giornali ma spesso solo con l’intento di esaltare le notizie più morbose. Ristretti fa altro, riunisce intorno ad un tavolo persone che si sono rese responsabili di reati e cerca in qualche modo di fare prevenzione, partendo dalle storie di ognuno di loro per analizzare come si è arrivati al reato e fare riflettere. Ristretti è anche e prima di tutto il progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere": ogni anno infatti migliaia di studenti entrano nella Casa di Reclusione di Padova per confrontarsi con la redazione sui temi della pena, della detenzione, della responsabilità. Gli studenti ascoltano le testimonianze delle persone detenute e poi pongono a tutta la redazione le proprie domande, critiche, curiosità, commenti. Oggi io scrivo per Ristretti, sono un redattore di quella grande famiglia che mi ha dato voce, e alla quale devo molto, ed è curioso come anche le piccole cose riusciamo a vederle da prospettive diverse, basandoci sulle testimonianze delle persone per poi arrivare al problema, partendo proprio dalle persone che quel problema lo hanno causato con le loro scelte di vita sbagliate. Credo che Ristretti sia importante anche per tutte quelle persone che pensano di non aver mai sbagliato e che avrebbero voglia di "scagliare la prima pietra", forse leggendo la rivista si rispecchieranno in qualche storia che li farà riflettere o magari incuriosire, e si renderanno conto come l’essere umano è così fragile nell’affrontare la vita, che nella frenesia di rincorrere il tempo, il denaro, la bella vita, si dimentica a volte di fermarsi ad ascoltare, a riflettere. Questa è la Redazione di Ristretti Orizzonti. La redazione è un’attività che ci aiuta a restituire molto di ciò che abbiamo tolto Sarebbe importante che la nostra società prendesse atto dell’esistenza di quel mondo carcerario spesso invisibile, popolato da esseri umani che sicuramente hanno commesso degli errori, e che però lottano con se stessi giorno dopo giorno per non essere più quelli di un tempo, ma delle persone migliori. Non tutti sanno cosa sia il carcere e i loro abitanti, e ancor meno conoscono le loro storie, a tutt’oggi il carcere appare alla gente comune molto distante dalla vita reale. Per questa ragione nasceva quasi vent’anni fa, proprio dentro al carcere di Padova, la rivista Ristretti Orizzonti, dove noi detenuti abbiamo oggi la possibilità di lavorare, come redattori volontari, con impegno e serietà. Ogni giorno ci riuniamo attorno a un tavolo, con la nostra direttrice responsabile, Ornella Favero, e altri volontari, e lì affrontiamo i problemi che affliggono noi detenuti, i casi di malagiustizia, ma anche le nostre responsabilità. Questa esperienza infatti ci stimola e ci porta ad approfondire molte cose della nostra vita, perciò partendo dalle nostre esperienze ragioniamo e ci confrontiamo con noi stessi oltre che con la società civile. Tutto ciò ci spinge ad andare avanti anche quando pensiamo di non avere più nessuna speranza. È un’attività che ci aiuta a restituire molto di ciò che abbiamo tolto, ci dà modo di mettere i pensieri e le storie sulla carta, e anche di organizzare convegni, seminari e incontri con i parenti delle vittime o con le vittime stesse. Partecipiamo anche al progetto scuola-carcere incontrando centinaia di studenti due volte a settimana per tutto l’anno scolastico, e lì raccontiamo le nostre storie sottoponendoci alle loro domande senza mai sottrarci o mentire. Noi non desideriamo altro che diventare delle persone migliori, ed essere accettati e giudicati per quello che oggi siamo e non per quelli che eravamo, e crediamo anche che con una corretta e adeguata informazione questo mondo invisibile possa diventare visibile nel modo giusto, e non ci faccia rimanere emarginati per sempre. Aurelio Quattroluni Perché vale la pena leggere Ristretti Orizzonti Perché vale la pena leggere la rivista Ristretti Orizzonti? Semplicemente perché è scritta da persone che hanno toccato il fondo del dolore, dell’errore, dei disastri della vita. La rivista per noi è una delle poche speranze di riuscire a raccontarci alla società, dietro c’è un lavoro certosino di confronto, soprattutto con i giovani. Quante volte descriviamo quanto sia difficile e sottile il confine tra un’azione giusta e una sbagliata, e quanto spesso ci siano momenti in cui ci sfugge il controllo della nostra mente! Siamo diventati persone responsabili proprio incontrando gli studenti e facendo con loro un lavoro socio-culturale che in nessuna rivista viene fatto. Noi ci occupiamo della vita dei reclusi, di quelle persone che hanno smarrito il senso del dovere verso il prossimo, ma facciamo anche delle proposte di cambiamento degli istituti di pena, perché la società deve capire che dietro questi cubi di cemento ci sono delle persone, la società ha tutto il diritto di sapere come vivono i reclusi, che cosa fanno, come sia la loro giornata, e di capire che le persone cambiano solo se scontano la pena dignitosamente. Abbiamo bisogno di questo progetto perché ci crediamo seriamente, e perché ci aiuta a guardare la società negli occhi, senza nascondere le nostre responsabilità. Io credo che si capisca da subito che la nostra è una rivista che va in profondità, anche su temi complicati come la tossicodipendenza, o la legge sugli incidenti stradali, temi di cui spesso altre testate giornalistiche parlano solo quando qualche notizia dà scandalo, noi invece cerchiamo di raccontare non tanto i fatti di cronaca nera, quanto piuttosto le storie complicate delle persone che ci sono dietro, e se siamo ancora in pista dopo vent’anni significa che il nostro lavoro ha portato un contributo non indifferente di conoscenza a tutte quelle persone, che magari hanno voglia di capire di più delle pene e del carcere, di sapere come stanno le cose veramente, di non leggere storie semplificate che non raccontano niente delle vite che ci sono dietro. A tutti chiediamo di aiutarci a continuare il nostro lavoro, a scrivere, a raccontare, a portare le nostre testimonianze. Per informazioni: www.ristretti.org. Renzi: "Ai giudici chiedo sentenze". Spataro (Pm Torino): "A noi servono le risorse" di Liana Milella La Repubblica, 24 ottobre 2016 Renzi e i magistrati, è di nuovo polemica, pur alla vigilia del primo incontro tra il premier e l’Anm. Sul tavolo la possibilità che i giudici facciano sciopero sulle risorse per la giustizia e su leggi che non condividono. Ma in tv Renzi attacca: "Se vogliono scioperare lo facciano, l’importante è che si arrivi a sentenza". Replica il procuratore di Torino Armando Spataro: metta le risorse. Renzi e i magistrati, è di nuovo polemica, pur alla vigilia del primo incontro, a palazzo Chigi, tra il premier e l’Anm di Pier Camillo Davigo. Con loro il Guardasigilli Andrea Orlando che invece ha visto molte volte Davigo da quando, all’inizio di aprile, è stato eletto al vertice del sindacato delle toghe. Appuntamento alle 10. Un’ora di tempo, poi arrivano gli avvocati del Cnf. Sul tavolo la possibilità che i giudici facciano sciopero sulle poche risorse per la giustizia e su leggi che non condividono (processo penale e decreto pensioni). Ma ecco la stoccata di Renzi. A In 1/2 ora di Lucia Annunziata il presidente del Consiglio sfida l’Anm: "Lo sciopero? Non capisco perché dovrebbero farlo. Noi abbiamo messo più soldi per far funzionare la giustizia. Se vogliono scioperare lo facciano, ma per me l’importante è che si arrivi a sentenza. Io chiedo le sentenze. Non m’interessano le paginate dei giornali sugli avvisi di garanzia. Voglio vedere chi ruba e chi non ruba". Renzi cita anche due casi, l’assoluzione dell’ex assessore ligure Anna Paita (omicidio colposo per l’alluvione di Genova) e l’inchiesta sul petrolio in Basilicata ("dopo il referendum sulle trivelle non ne ho più sentito parlare"). Davigo tace. Laconico il suo "domani c’è l’incontro", mentre si dirige a piazza Cavour, dove ha sede il sindacato dei giudici, per una lunga riunione di giunta in cui vengono decisi presenze e argomenti da affrontare. Ma è palpabile una sensazione di fastidio per una battuta che sembra fatta apposta per spingere nella richiesta di sciopero l’ala più oltranzista della magistratura, a cominciare da Md. Le toghe elencano gli "sgarbi". Tra questi aver messo la fiducia, appena giovedì scorso, sul decreto legge che proroga l’età pensionabile di un pugno di alte toghe - tra cui i vertici della Cassazione Canzio e Ciccolo - considerato del tutto incostituzionale dall’Anm che aveva chiesto, come lo stesso Csm, di spostare in avanti di due anni l’età della pensione per tutti i magistrati e in alternativa di applicare il bonus di un anno a tutti i magistrati che compiono 70 anni quest’anno. Proprio al Csm il consigliere Aldo Morgigni, che fa parte di Autonomia e indipendenza, la corrente di Davigo, solleciterà questa settimana la necessità di sollevare un conflitto di attribuzione sul decreto davanti alla Consulta. Ma la battuta di Renzi è considerata particolarmente urticante perché è proprio sulle risorse per personale e mezzi che l’Anm ha raccolto le proteste dei capi degli uffici. Una denuncia accorata che contrasta nettamente con quel "abbiamo messo più soldi" di Renzi. Infine, a dividere governo e giudici, c’è la riforma del processo penale, "inutile e dannosa" per Davigo, che dice no alla formula della prescrizione (bloccarla e non solo sospenderla in primo grado) e all’obbligo di presentare le richieste sugli indagati entro tre mesi dalla chiusura delle indagini. Scintille premier-toghe. Oggi vertice sulla giustizia Il Messaggero, 24 ottobre 2016 Oggi incontro a palazzo Chigi tra Matteo Renzi, il ministro della Giustizia Orlando e il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo. Sul tavolo, in un clima tutt’altro che disteso, la riforma del processo penale, attualmente ferma al Senato, la proroga del pensionamento solo per i vertici di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei Conti varata per decreto e approvata con voto di fiducia. Sullo sfondo, la minaccia, già evocata nei giorni scorsi dall’Anm, di uno sciopero della categoria. Interpellato sull’argomento a "In Mezzora" su Rai3, il premier ha detto: "Uno sciopero ora sarebbe incomprensibile. Che scioperino, ma che facciano le sentenze. A me non interessa la paginata sui giornali sull’avviso di garanzia" e ha citato il caso di Raffaella Paita, ex assessore ligure alla Protezione civile, assolta dall’accusa di omicidio colposo per l’alluvione di Genova, che però dovette a suo tempo rinunciare alla candidatura alla presidenza della Regione. L’Anm, da parte sua, ha convocato una giunta nella serata di ieri per fare il punto sulla riforma penale, che non convince affatto lo stesso Davigo che l’ha definita "inutile e dannosa". Nel mirino dei magistrati la norma che obbliga il pm a fare la richiesta di rinvio a giudizio entro tre mesi dalla chiusura delle indagini, pena l’avocazione dell’inchiesta da parte del procuratore generale. Dubbi anche sulla prescrizione, che i magistrati vorrebbero si arrestasse dopo la condanna in primo grado per non mandare in fumo i processi. Su tutto questo Renzi non ha voluto andare allo scontro con le toghe scegliendo di porre la fiducia sul testo in discussione a palazzo Madama, come invece avrebbe preferito il Guardasigilli Orlando. Intanto, però, è arrivato in questi giorni anche un richiamo dell’Ocse per chiedere una riforma al più presto. Spataro: "Gli avvisi di garanzia ai politici? Le assoluzioni provano che il sistema va bene" di Liana Milella La Repubblica, 24 ottobre 2016 Sciopero? "Per ora aspettiamo il confronto col governo e parliamo di ciò che davvero serve alla giustizia. Poi si vedrà". Dice così il procuratore di Torino Armando Spataro. Pisapia scrive di avvisi di garanzia e assoluzioni. Ma Renzi è ben più tranchant... "Pisapia ha ragione quando parla di un dibattito sopito sulla giustizia, ma ciò dipende dal fatto che il Paese, purtroppo, si ritrova coinvolto in quello dai toni accesi sulla riforma costituzionale, la più divisiva che la nostra storia recente abbia mai conosciuto". Per Renzi "questa o nulla". "È un’affermazione che non condivido al pari di altre ad effetto tipo "ce lo chiede l’Europa", "se non si fa questa riforma non ne faremo per 30 anni", "ce lo chiedono gli italiani da 70 anni", cioè da prima che la Costituzione venisse varata... Tutti sanno invece che vi sono spazi per una riforma della Costituzione che, al contrario di quella su cui voteremo, non alteri gli equilibri democratici tra i poteri dello Stato". Lei vorrebbe parlare della riforma lo so, ma che risponde a Renzi che vi sfida? "Si tratta di un invito cui la magistratura potrebbe replicare dicendo "il governo ci metta in condizione di lavorare con rapidità", posto che la Costituzione attribuisce al ministro della Giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla Giustizia". Il premier dice che "ha messo più soldi nella giustizia". "Magistrati e avvocati sanno che non sono sufficienti. E insieme hanno denunciato la situazione drammatica in cui i magistrati lavorano a partire dalla carenza di personale amministrativo. Dunque evitiamo gli slogan e parliamo di fatti". Gli avvisi di garanzia, ma a Renzi non interessano le paginate su questo... "In questo posso essere d’accordo con lui, ma si rivolga a chi scrive le "paginate". Si tenga presente che l’informazione di garanzia, come l’iscrizione delle notizie di reato, sono atti obbligatori che la legge prevede a tutela degli indagati e del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Non equivalgono a condanne. È curioso che i problemi legati alla diffusione di certe notizie vengano sollevati solo in relazione a processi a carico di politici, mentre riguardano tutti i cittadini". È sicuro che i pm non hanno l’iscrizione "facile"? "Non si tratta di patologie che riguardano i magistrati, come non lo sono le sentenze di assoluzione o di condanna, neppure quando vengono ribaltate nei due gradi successivi di giudizio. Ciò non esclude, anzi richiede, professionalità di chi indaga e di chi giudica, oltre che dei difensori. Ma il nostro sistema prevede tre gradi di giudizio. Se ogni critica va accettata, non è corretto accusare di sistematiche scorrettezze chi indaga". Per un politico però l’avviso di garanzia equivale a un fine carriera. "L’avviso è obbligatorio per attività processuali che comportano la presenza del difensore. Molte polemiche sono dettate da logiche di scontro politico che non toccano i magistrati o da informazioni poco approfondite, talvolta a causa della velocità imposta dai tempi del web. È un fatto che in certe cronache venga dato più spazio al momento iniziale delle indagini e alle tesi d’accusa, e meno a quelle difensive e al dibattimento. Ciò non è corretto pur se i giornalisti, come la Cedu ha scritto più volte, hanno margini più estesi quando parlano di chi riveste ruoli pubblici". E le fughe di notizie? "È un ben noto argomento utilizzato per accusare senza fondamento i pm di manovrare l’informazione e di voler interferire sulla politica. Sia ben chiaro: patologie possono esserci, e vanno punite severamente, pur se il segreto professionale quasi sempre impedisce di andare a fondo nelle indagini. Ma la verità è altra: la diffusione illecita di certe notizie può risalire a molti protagonisti delle prime fasi del processo, così come può essere collegata a strumentalizzazioni politiche e perfino a strategie difensive". La politica usa le inchieste a fini di lotta interna? "No, perché sono contrario a ogni tipo di generalizzazione. Vanno analizzati i singoli casi. Spero solo che, messi da parte i luoghi comuni, si lavori insieme per migliorare il sistema, perché tutti finalmente comprendano che un’informazione di garanzia non vuol dire condanna e se una decisione viene ribaltata nei gradi successivi ciò può spesso significare che il sistema funziona, non il contrario". I piccoli passi della giustizia di Marino Longoni Italia Oggi, 24 ottobre 2016 Giudizio in camera di consiglio per la Cassazione, processo amministrativo telematico, sinteticità degli atti. Ma la vera riforma passa dall’outsourcing. Il decreto legge sull’efficienza della giustizia (dl n. 168), convertito in legge dal senato mercoledì scorso, contiene una serie di misure per velocizzare i processi in Cassazione (come la possibilità di decidere direttamente in camera di consiglio la maggior parte dei processi civili), regole sul processo amministrativo telematico, che diventa obbligatorio dal 1° gennaio 2017, e una serie di disposizioni organizzative volte a rendere più efficiente la macchina burocratica della Cassazione e dei tribunali amministrativi. È un ulteriore, piccolo passo, di un percorso che, indipendentemente dal colore politico dei governi degli ultimi anni, ha come obiettivo quello di rendere più efficiente e rapida l’amministrazione della giustizia. In altri termini: evitare che una barca ormai un po’ antiquata e stracarica di incombenze, naufraghi sotto il peso di un numero sempre crescente di cause che si trascinano con tempi spesso non più tollerabili. Le strategie attuate per raggiungere questo obiettivo sono state diverse: aumento dei costi di accesso alla giustizia (per scoraggiare le cause meramente strumentali), riduzione delle formalità e delle procedure, espulsione dal processo penale dei reati bagatellari, introduzione del processo telematico, limiti precisi alla prolissità degli atti di avvocati e magistrati, obbligo di mettere le spese del giudizio a carico della parte soccombente (per limitare le cause vessatorie o dilatorie). Tutte misure che hanno contribuito a evitare il collasso del sistema giudiziario. Non c’è dubbio però che lo strumento principe individuato dal legislatore per migliorare concretamente la qualità del servizio (condizione indispensabile, tra l’altro, per rendere il sistema-paese più accogliente nei confronti degli investitori stranieri) sia l’esternalizzazione. A piccoli passi, tutto ciò che non è vitale mantenere sotto il controllo diretto del ministero della giustizia sta uscendo dalle competenze dei magistrati ed è sempre più spesso gestito in outsourcing. È una scelta obbligata, che ha già visto l’introduzione di istituti come la mediazione obbligatoria, le mediazioni facoltative, la negoziazione assistita dagli avvocati nel diritto civile, le procedure conciliative per i consumatori. Il decreto legge 168 fa un piccolo passo anche in questa direzione con la creazione dell’ufficio del processo, che avrà il compito di adiuvare i giudici amministrativi in compiti non strettamente giudicanti come la ricerca della giurisprudenza o la preparazione di alcuni atti. Bisogna riconoscere che, in materia processuale, gli sforzi fatti seguono una linea abbastanza coerente e dovrebbero essere in grado, nel medio periodo, di produrre una certa velocizzazione della macchina giudiziaria. Ma quasi nulla si è fatto per migliorare la legislazione nel merito, che resta spesso del tutto disorganica, tanto che, anche per gli avvocati più preparati, spesso non è facile prevedere l’esito della controversia. Una confusione normativa che ha l’effetto di aumentare il flusso delle cause in entrata (non potendo prevedere cosa deciderà il giudice, perché non provarci?). Si potrebbe infine citare anche i limiti di una organizzazione giudiziaria ormai antistorica nella distinzione tra giudice amministrativo e civile: perché la pubblica amministrazione, che si dice al servizio del cittadino, deve avere un giudice particolare? Oltretutto il giudizio amministrativo è l’unico che non ha ancora previsto il giudice unico ma nel quale si decide sempre collegialmente. Con tutto quello che questo comporta in termini di spreco di risorse. E ancora: perché non pensare all’unificazione del rito civile, ancora differenziato nei vari processi del lavoro, sommario, di cognizione, per le sanzioni amministrative e così via? Sarebbe una bella semplificazione. Cassazione sgravata. Ampliato il ricorso in camera di consiglio di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 24 ottobre 2016 Varare il processo amministrativo telematico e salvare la Corte di cassazione, che rischia di essere travolta dallo tsunami dei ricorsi. Sono questi gli obiettivi del decreto 168/2016, definitivamente convertito in legge dal senato, che ancora una volta si propone di aggiungere tasselli al puzzle dell’efficienza del sistema giustizia. L’idea è sempre la stessa: la produttività degli uffici giudiziari porta benefici in economia, visto che lentezze e burocrazie dei tribunali scoraggiano gli investimenti. E migliorare la produttività viene intesa come andare veloci, parlare e scrivere di meno e sfornare più sentenze, utilizzare la telematica per la circolazione dei documenti e della corrispondenza tra studi legali e uffici giudiziari. Il decreto legge in esame, in sintesi, consente alla Corte di cassazione di lavorare più in fretta (scegliendo la camera di consiglio come formalità da seguire), con più magistrati (prendendoli dall’ufficio del massimario); aggiunge le disposizioni al processo amministrativo telematico, che parte il 1° gennaio 2017 e impone agli avvocati di non essere prolissi. Più magistrati in Cassazione. Il Presidente della Corte di cassazione potrà applicare temporaneamente alle sezioni, per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali di legittimità, per un periodo non superiore a tre anni, non rinnovabili, i magistrati dell’Ufficio del massimario e del ruolo, che abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità, e che abbiano presso l’ufficio del massimario una anzianità di servizio di almeno due anni. Il collegio giudicante della Corte non potrà essere composto da più di un magistrato dell’ufficio del massimario. Più camere di consiglio. Meno udienze pubbliche (e quindi discussioni orali) e più camere di consiglio (e quindi trattazioni scritte). Il decreto legge estende l’uso della trattazione in camera di consiglio nei procedimenti civili che si svolgono dinanzi alle sezioni semplici della Corte. Si dovrà ricorrere all’udienza pubblica solo se la sezione filtro non riesce a definire il giudizio in camera di consiglio o se la questione di diritto sulla quale la Corte si deve pronunciare riveste una particolare rilevanza. La camera di consiglio evita le formalità dell’udienza pubblica: le parti scrivono le proprie difese e la Corte giudicherà sulla base delle carte depositate, senza intervento di pubblico ministero e parti. È modificata anche l’udienza pubblica, invertendo l’ordine di intervento delle parti nella discussione: dopo l’intervento del relatore spetta infatti al pubblico ministero esprimere, oralmente, le sue conclusioni motivate; solo successivamente saranno i difensori delle parti a svolgere le loro difese. Non sono ammesse repliche ed è soppressa la disposizione che oggi consente alle parti di presentare in udienza brevi osservazioni scritte sulle conclusioni del pm. Anche per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza, la procedura si snellisce, prevedendo che il pm quanto le parti possano interagire con la Corte esclusivamente per iscritto, escludendo la possibilità di essere sentiti. Per ridurre il carico, si ampliano poi i termini per rinunciare al ricorso. Organici giudiziari. Si riduce di n. 52 unità il contingente dei magistrati con funzioni direttive di merito giudicanti e requirenti di primo grado; mentre aumenta in misura corrispondente il numero di magistrati non direttivi. Viene prorogato sino al 31 dicembre 2017 il trattenimento in servizio dei magistrati ordinari che svolgono funzioni apicali, direttive superiori e direttive presso la Corte di cassazione e la Procura generale della Corte di cassazione, che abbiano maturato i requisiti per il collocamento a riposo. Si prevede il trattenimento in servizio, oltre l’età pensionabile, fi no al 31 dicembre 2017, anche dei magistrati che svolgono funzioni apicali e direttive nel Consiglio di stato e nella Corte dei conti e degli Avvocati dello stato. Il trasferimento del magistrato ordinario ad altra sede (o l’assegnazione ad altre funzioni) viene subordinato a un periodo di permanenza quadriennale (in luogo del precedente termine di 3 anni) nella sede precedente. Si pongono limiti anche alla mobilità del personale amministrativo assegnato agli uffici di sorveglianza: non potrà essere destinato temporaneamente ad altri uffici del distretto di appartenenza senza il nullaosta del presidente del tribunale di sorveglianza. Inoltre si vieta, fi no al 31 dicembre 2019, che tutto il personale non dirigenziale del Ministero della giustizia possa essere comandato, distaccato o assegnato ad altre amministrazioni. Si aumentano le dotazioni organiche di diverse categorie di personale amministrativo e tecnico del Consiglio di stato e dei Tar. L’aumento è di 53 persone, da assumere con contratto a tempo indeterminato. Nordio, il pm del Mose: "Misericordia e Giustizia sono ambiti distinti" di Serena Spinazzi Lucchesi Gente Veneta, 24 ottobre 2016 Visto dall’occhio di un magistrato, il rapporto Misericordia-Giustizia pende tutto verso l’esercizio della giustizia stessa, "intesa come affermazione della legalità". Ma il giudice si trova comunque a "vivere la perenne tensione esistenziale tra l’imperativo della legge morale e il vincolo delle norme positive": lo afferma Carlo Nordio, procuratore aggiunto del Tribunale di Venezia, interpellato da GV in vista del dialogo che si terrà venerdì 28 ottobre a Venezia (alle ore 17.30, Scuola Grande di S. Rocco) tra il Patriarca e il Procuratore Adelchi d’Ippolito. "Vanno distinti i due ambiti - premette il procuratore Nordio - vale a dire l’ambito giuridico, cioè la civitas hominis e l’ambito religioso, la Civitas Dei. Nell’ambito giuridico il concetto di misericordia, in termini laici, non entra: il pubblico ministero lavora all’individuazione della pena e, con la figura del giudice, all’eventuale punizione. Va detto - aggiunge Nordio - che tale punizione deve avere fini rieducativi, come prevede la nostra Costituzione, ma anche questo aspetto non è connesso alla Misericordia, bensì al fine utilitaristico di restituire alla società un cittadino "risocializzato". La Misericordia, però, non è del tutto esclusa, perché, sottolinea il procuratore, "essa può ispirare i due provvedimenti di amnistia e indulto. Ricordo che l’amnistia estingue pena e reato, mentre l’indulto solo la pena. Sono provvedimenti di "perdono" da parte dello Stato, che però ha solitamente un interesse, quello di svuotare le carceri. L’altro interesse potrebbe essere invece quello di dimostrare la volontà dello Stato di contribuire in questo modo al percorso di recupero del detenuto". Rimane che la parola Misericordia nell’ambito del diritto non ha cittadinanza. Eppure... "Un’altra cosa - sottolinea Nordio - è la pietas, la carità cristiana che interpella soprattutto noi pubblici ministeri, quando siamo a contatto vicinissimo con un arrestato, con un imputato, ma anche con la vittima di un reato. In questo caso dobbiamo avere carità cristiana verso queste persone, perché si tratta di fratelli". La Misericordia deve essere anche giusta. Diverso è il discorso in ambito etico. "Qui il punto di vista è capovolto. Se guardiamo alla giustizia sotto il profilo etico oppure evangelico, la giustizia non può essere disgiunta dalla Misericordia. Sarebbe troppo crudele esercitare soltanto la giustizia: lo vediamo più spesso nell’Antico Testamento. Pensiamo al Dio di Giobbe, dove prevale un concetto di giustizia più "giusta" che "misericordiosa". Mentre nel Nuovo Testamento, e dunque per i cristiani, la giustizia è anche "misericordiosa". Certo - rileva il magistrato - essa interviene dopo il pentimento e l’espiazione del peccato, ma nel momento in cui vi è il fermo proposito di non peccare più, il sacerdote assolve il peccatore. Non è quindi Misericordia gratuita, perché confliggerebbe con la giustizia. Non sarebbe giusto. Non è Misericordia incondizionata e questo vale a maggior ragione in quest’anno giubilare. Non basta attraversare una Porta Santa per vedersi cancellati tutti i peccati, perché altrimenti se ne darebbe un’interpretazione superficiale". Mose, dopo le condanne si può perdonare? Tornando all’ambito giuridico ed entrando in una delle più recenti inchieste guidate da Carlo Nordio (che in passato si è occupato anche di terrorismo, di Tangentopoli e coop rosse), quella relativa al Mose, viene da chiedere se non si possa esercitare la Misericordia nei confronti di quegli imputati già condannati e che hanno restituito (almeno in parte) quanto preso indebitamente. La risposta è, sostanzialmente, no: "La Misericordia può essere un atto etico personale: io ho sempre cercato di fare una profonda distinzione tra l’imputato come tale e l’imputato come persona. Victor Hugo diceva che "il ladro può essere meglio del giudice". Ma se mi si chiede se sia giusto perdonare, io sospendo il giudizio. Occorrerebbe entrare nelle ragioni profonde che hanno portato gli autori di quei reati a compierli e queste profonde ragioni le può sapere solo il Signore. Io non ho mai dato giudizi morali, non mi permetterei mai. È un aspetto svincolato dal mio lavoro. Poi, se vogliamo parlare di patteggiamento con la conseguente restituzione del "maltolto", allora possiamo ragionare sul diritto di un imputato ad essere reinserito nella società. Questo è un fatto di equità, non di Misericordia". Un tema dove si potrebbe invocare un "pizzico" di Misericordia in più è quello del cosiddetto "processo a mezzo stampa", vale a dire la pubblicazione di atti processuali e di intercettazioni telefoniche sui giornali che finiscono per condannare un inquisito prima ancora che inizi il processo e divenga imputato. "Diciamo che in questo caso, più che di Misericordia, occorre parlare di rispetto delle leggi, che già ci sono e andrebbero rispettate: spesso infatti la pubblicazione di alcune notizie carpite nei tribunali è un fatto illegittimo. E poi ci vorrebbe più senso civico, per non portare il cittadino/imputato alla gogna. Pensiamo alle intercettazioni, che vengono pubblicate estrapolandole dal contesto, prive del tono della voce che invece significa molto. Io mi batto da anni perché venga mutata la disciplina delle intercettazioni, proprio per evitare questa gogna mediatica. Non so se questo si chiama Misericordia - chiude Nordio - lo considerò più che altro un atto di civiltà". Sfruttamento di lavoratori, reclusione e sanzioni salate di Daniele Cirioli Italia Oggi, 24 ottobre 2016 Sì definitivo alla legge contro il caporalato che modifica l’art. 603 bis del codice penale. Reclusione e confisca obbligatori contro il caporalato. A chi collabora, però, pena ridotta fi no alla metà. A stabilirlo, tra l’altro, è la legge approvata in via definitiva dalla camera martedì 18 ottobre, contenente disposizioni contro il lavoro nero. Da una parte c’è un inasprimento di sanzioni e pene per l’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (la reclusione, ad esempio, diventa obbligatoria); dall’altra la previsione di circostanze attenuanti contro i muri di omertà e per favorire chi collabora. Il nuovo reato di caporalato. Le nuove disposizioni avranno effetto immediato, in quanto introdotte mediante modifiche di norme vigenti. Il reato di "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro" è disciplinato dall’art. 603-bis del codice penale che, nella versione vigente fino all’entrata in vigore della nuova legge, sanziona chi "svolga un’attività organizzata d’intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori". La pena è la reclusione da cinque a otto anni, più la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, con un aumento da un terzo alla metà nel caso in cui il numero di lavoratori sia superiore a tre o il reclutamento riguardi soggetti minori in età non di lavoro o si sia avuta un’esposizione dei lavoratori a situazioni di grave pericolo. La nuova legge riformula l’art. 603-bis. Vediamo come. In primo luogo riscrive la condotta illecita: "caporale" è chi recluta manodopera per impiegarla presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno (è soppresso il riferimento allo stato di "necessità"). Rispetto alla fattispecie vigente è introdotta un’ipotesi base che prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori. In secondo luogo, la nuova norma dell’art. 603-bis sanziona il datore di lavoro che utilizza, assume o impiega manodopera reclutata anche mediante l’attività di intermediazione (ovvero anche, ma non necessariamente, mediante utilizzo di caporalato) con le predette modalità (cioè sfruttando i lavoratori e approfittando del loro stato di bisogno). Questa, che è la fattispecie base del delitto di intermediazione illecita, viene punita con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato. Come terza novità il secondo comma del nuovo articolo 603-bis prevede una fattispecie di caporalato, analoga a quella base ma caratterizzata dall’esercizio di violenza o minaccia per la quale le sanzioni sono più severe: reclusione da cinque a otto anni e multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Attenuanti e confisca. Altra novità riguarda le aggiunte al codice penale degli articoli 603-bis.1 e 603-bis.2, relativi a "circostanza attenuante" del delitto di caporalato e "confisca obbligatoria". L’art. 603-bis.1 ridefinisce per il reato di caporalato, rispetto alla disciplina vigente dell’art. 600-septies.1 (relativa a tutti i delitti contro la personalità individuale), l’ipotesi di circostanza attenuante specifica. L’attenuante, nella nuova formulazione, concerne i soggetti che si siano efficacemente adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove dei reati o per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite (si veda tabella). L’art. 603-bis.2 inserisce il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra i reati per i quali (in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti) è obbligatoria, anziché un’ipotesi valutata dal giudice (come succede oggi) la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato. La nuova norma fa riferimento anche alla confisca obbligatoria delle cose che siano il prezzo, il prodotto o il profitto del reato, o, in caso di impossibilità, alla confisca obbligatoria di beni di cui il reo abbia la disponibilità, anche indirettamente o per interposta persona, per un valore corrispondente al prodotto, prezzo o profitto (c.d. confisca per equivalente). Il controllo giudiziale dell’azienda. Altra novità della nuova disciplina è la previsione, quale misura cautelare, della possibilità del controllo giudiziario dell’azienda nel corso del procedimento penale per il reato di caporalato. La nuova norma (è l’art. 3 della legge), conseguenza dell’estensione del reato anche al datore di lavoro, stabilisce che, in luogo del sequestro preventivo, il giudice possa adottare tale nuova misura presso l’azienda dove è commesso il reato di caporalato, se l’interruzione dell’attività conseguente al sequestro può compromettere i livelli di occupazione e diminuirne il valore economico. Con il decreto che dispone la misura, il giudice nomina uno o più amministratori giudiziari esperti in gestione aziendale, scegliendoli tra gli iscritti all’albo degli amministratori giudiziari. Per questi ultimi, la nuova legge si cura anche di dettare una specifica disciplina per gli obblighi e, in particolare, per i controlli sulle condizioni di lavoro, la regolarizzazione dei lavoratori che, all’atto dell’avvio del procedimento penale per caporalato, prestavano la propria opera in nero, nonché alle misure di prevenzione della reiterazione delle violazioni. Il Ministro Orlando: sul caporalato molti timori eccessivi Michele Cozzi Gazzetta del Mezzogiorno, 24 ottobre 2016 "Con l’esperienza vedremo se saranno necessari correttivi". Il Ministro Andrea Orlando in tour in Puglia per parlare di giustizia ma anche per la campagna referendaria. Ieri sera è stato a Santeramo. Questa regione è considerata a rischio per il Sì anche per la presenza di Emiliano e di D’Alema. Si parla di Sud all’opposizione. Che ne pensa? "Al Sud conviene questa riforma. Che modernizza, velocizza le istituzioni, le rende in grado di decidere. I suoi detrattori dicono che la riforma spinge verso un modello autoritario, verso il comando di una persona sola? Sono passati quasi cinquant’anni dalla nascita delle regioni, della moltiplicazione dei centri di spesa e di decisione. E cosa ha guadagnato il Mezzogiorno? In Europa il bicameralismo sopravvive sono in Romania. Vogliamo dire che la Romania è democratica e il resto d’Europa autoritaria?". Con quali argomenti crede di poter convincere un elettore indeciso a votare Sì? "Se si torna al merito. Il quesito referendario chiede agli elettori se vogliono superare il bicameralismo, abolire le province e il Cnel, rivedere il Titolo V. Negli ultimi trent’anni diverse commissioni parlamentari hanno cercato di raggiungere gli stessi obiettivi. Adesso una parte di parlamentari che hanno votato questa riforma sono schierati con il no. La campagna elettorale referendaria è diventata una battaglia di tutti contro il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Capisco Salvini e Grillo e persino Mario Monti. Meno i sostenitori del no di sinistra. Immaginano che dopo verrà uno scenario più avanzato?". La campagna elettorale appare inevitabilmente come un giudizio sul governo. Dopo il 4 dicembre, si aprirà la corsa per le elezioni anticipate? "Dopo il 4 dicembre se dovessero vincere i no, si aprirebbe la stagione dell’immobilismo. Chi dice che dopo aver bocciato il referendum il Parlamento farà le riforme costituzionali sa che non è vero". Capitolo giustizia. Sulla prescrizione la battaglia è ancora aperta. Cosa prevede? "La proposta in discussione al Senato è frutto del lavoro anche di magistrati e avvocati. Ora aspettiamo anche l’incontro di domani (di oggi, ndr) con i presidenti del Consiglio, Renzi, e dell’Anm, Davigo, e quello con il presidente del Consiglio nazionale forense Mascherin per capire quali modifiche si possono apportare per rafforzare la condivisione attorno al pacchetto penale al Senato. Aggiungo che il tema della prescrizione riguarda anche un aspetto che vogliamo aggredire: la gestione organizzativa degli Uffici giudiziari". L’Anm non risparmia riserve e critiche. "Vedremo domani a Palazzo Chigi. Intanto registro con soddisfazione che finalmente l’Anm discute di problemi reali, di personale carente e del funzionamento degli uffici giudiziari". Avete indetto un concorso per 360 magistrati e assunzione di 1000 amministrativi. Un po’ poco per accelerare i tempi dei processi? "Da oltre vent’anni non arrivava nuovo personale negli uffici giudiziari, per anni sono stati fermi anche i concorsi per la magistratura. Questo aveva ingenerato rassegnazione in tutti gli operatori. Noi stiamo portando 4000 assunzioni negli uffici, abbiamo fatto un concorso per la magistratura ogni anno, abbiamo investito nell’informatizzazione come mai nessuno prima. Certo, lunghi anni di polemiche politiche sui massimi sistemi e contestuale incuria per la dimensione organizzativa della giustizia hanno lasciato un’eredità pesante, ma la direzione di marcia è cambiata. Investire sulle persone che lavorano nel servizio giustizia, sull’ammodernamento ed efficientamento del sistema, bandire il primo concorso dopo oltre 20 anni...non sono cose che regalano titoli sui giornali, ma io sono fiero di averlo fatto". Legge contro il caporalato. La finalità è positiva e non potrebbe essere diversamente. Ma dalle organizzazioni di categoria si levano molte critiche perché si teme che norme troppo vessatorie possano danneggiare gli agricoltori onesti. Come replica? "Il caporalato è una malapianta che va estirpata. Siamo soddisfatti che finalmente l’Italia ha una legge efficace che darà un contributo alla lotta contro il caporalato. Siamo consapevoli della dimensione sociale che coinvolge questa forma di intermediazione della manodopera. Migliaia di donne e uomini sfruttati, imprese, aziende complici, controlli inadeguati. Ora tutto questo finirà". Giustissima la repressione contro i mercanti di manodopera, ma la tolleranza zero verso aziende per errori formali, non rischia di porre in ginocchio il settore? "Credo che molti timori siano eccessivi. Facciamo partire la legge. L’esperienza ci dirà se e come la stessa legge avrà bisogno di correttivi. Io penso di no". Per schivare controlli i datori di lavoro potrebbero assumere meno lavoratori, compresi gli stagionali. È quella del Sud, a differenza di quella del Nord, necessita di manodopera. Non le sembra che questo sia un problema da evitare? "Credo che la stragrande maggioranza delle imprese rispettino le regole e subiscano la concorrenza sleale di chi sfrutta il caporalato. Combattere queste ultimo è un modo di aiutare le prime". I boss della Camorra e il mistero delle confessioni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 ottobre 2016 Il sospetto di una strategia per far ridurre le pene ed evitare l’ergastolo. "Signor giudice, ammetto l’omicidio e chiedo scusa". Si moltiplicano le confessioni dei boss per evitare il carcere duro e gli ergastoli. Ad aprire la strada al "piano" è stato Gennaro Marino. Il primo ad ammettere le sue responsabilità è stato Gennaro Marino, alias Genny McKay, uno dei protagonisti di "Gomorra", il libro. Dopo aver contestato per anni l’accusa di essere il mandante del duplice omicidio di Fulvio Montanino e Claudio Salierno (28 ottobre 2004, il delitto che segnò l’inizio alla guerra degli Scissionisti contro il clan Di Lauro), chiese la parola dal carcere di Cuneo, dov’è rinchiuso al 41 bis, e in videoconferenza disse al presidente della corte d’assise di Napoli: "Mi assumo le mie responsabilità degli addebiti che mi vengono contestati, e sono spiacente per questo dal profondo del cuore. Purtroppo non mi resta che chiedere scusa alle famiglie delle vittime". Poi smentì di aver ordinato l’uccisione dei parenti di un pentito e concluse: "Purtroppo ero un’altra persona, oggi sono un’altra persona. Non lo rifarei. Grazie presidente". Era il 10 febbraio di quest’anno. Nell’aula dove s’erano consumate contrapposizioni frontali e negazioni dell’evidenza, un’iniziativa tanto accomodante provocò stupore e sconcerto. L’avvocato di Marino andò a complimentarsi per la vittoria con il pubblico ministero Stefania Castaldi, un decennio speso alla ricerca delle prove contro gli assassini della faida di Scampia, che però ebbe tutt’altra sensazione. Dopo McKay, nelle udienze successive cominciò la sfilata delle confessioni. Con formule quasi rituali, e una certa fretta nel recitarle. "Presidente, volevo assumere tutte le mie responsabilità per questo episodio di cui stiamo parlando. Nient’altro, buongiorno", disse Arcangelo Abete, e a seguire Ciro Mauriello: "Mi assumo ogni debito, faccio presente che la cosa più importante per me sarebbe ottenere il perdono dei familiari delle vittime, e chiedo umilmente scusa". Secondo l’accusa Abete e Mauriello sono gli esecutori materiali del duplice delitto. I killer. Ma gli imputati sono di più. Il 15 marzo Cesare Pagano e il nipote Carmine Pagano seguirono lo stesso copione, e subito dopo intervenne di nuovo Abete; spiegò che a parte quelli "che hanno ammesso le proprie responsabilità", gli altri non c’entravano: "Per un fatto di coscienza sono innocenti di questa storia, non sanno niente". Capitolo chiuso, insomma. Peccato che a settembre si è pubblicamente dispiaciuto pure Enzo Notturno: "Dopo tanti anni di detenzione ho riflettuto e ritengo di ammettere le mie colpe in questo processo, pertanto vorrei chiedere scusa alle famiglie delle vittime. Grazie". Strano. Molto strano. Una simile sequela di ravvedimenti, tanto improvvisi quanto frettolosi, da parte di camorristi costretti al "carcere duro", fa sorgere il sospetto di una strategia. Il tentativo di evitare all’ultima curva, con la repentina ammissione di colpa, la condanna al carcere a vita. Nel processo d’appello per altri due omicidi, pochi mesi fa, Cesare Pagano c’è riuscito. In aula aveva fatto la stessa manovra, e i giudici di secondo grado hanno ritenuto che non fosse, come denunciato dall’accusa, "una scelta necessitata" dalle prove schiaccianti a suo carico, bensì "un primo passo verso una presa di coscienza del proprio passato, che legittima la concessione delle attenuanti generiche". Risultato: condanna ridotta a trent’anni. Con la speranza che, scrollatosi di dosso il fardello del "fine pena mai", un giorno possa liberarsi anche del 41 bis. E accedere a qualche beneficio. Al boss Enrico D’Avanzo, cognato di Paolo Di Lauro, è accaduto. Dopo un ergastolo confermato in secondo grado la Cassazione ha annullato il verdetto, lui è rimasto dentro a causa di altre condanne, ma il regime carcerario è stato declassato da "duro" ad "alta sicurezza", e di recente un permesso gli ha consentito di uscire di prigione per qualche ora. A scavare nel passato, torna alla mente una vicenda dei primi anni Novanta. Era il periodo dei grandi pentimenti seguiti alle stragi di mafia del 1992. Il camorrista Angelo Moccia (difeso dallo stesso avvocato che ora assiste Marino McKay e Pagano) decise di accusare se stesso ma non i complici. Ne nacque un movimento d’opinione per una legge che estendesse i benefici anche a questa categoria di detenuti, com’era avvenuto con i terroristi, ma non se ne fece nulla. In seguito ci riprovò qualche siciliano, e una legge per i dissociati di Cosa nostra rientrava nelle richieste della cosiddetta trattativa Stato-mafia. Oggi non c’è aria di concessioni, e il 41bis è entrato definitivamente nell’ordinamento penitenziario. Ecco allora l’ipotesi che le inattese espressioni di rammarico dei boss di Gomorra che galleggiano intorno ai cinquant’anni d’età (ma alcuni sono molto più giovani) servano a porre le basi per non finire i loro giorni in cella. Poter coltivare l’aspettativa di uscire, prima o poi. E magari avere il tempo di godersi un po’ dei tanti soldi accumulati negli anni del traffico di droga e tenuti nascosti agli inquirenti, al contrario di quanto devono (o dovrebbero) fare i collaboratori di giustizia. Altri due camorristi di peso, Edoardo Contini e Giuseppe Lo Russo, dopo aver confessato di aver fatto ammazzare un esponente del gruppo di Raffaele Cutolo nel 1983, hanno avuto trent’anni di pena. Se tutto questo rientra in una strategia, il processo per gli omicidi Montanino-Salierno diventa un banco di prova. Ormai è giunto alla fine, domani il pm pronuncerà la requisitoria, poi toccherà alle difese e quindi ai giudici. Che dovranno valutare se uno sbrigativo "mi dispiace" è sufficiente a evitare l’ergastolo. Violenza sessuale: procedibilità d’ufficio con connessione investigativa di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 13 ottobre 2016 n. 43330. In materia di delitti di violenza sessuale, la procedibilità d’ufficio determinata dalla ipotesi di connessione prevista dall’articolo 609-septies, comma 4, numero 4, del Cp si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale (articolo 12 del Cpp), ma anche quando v’è connessione investigativa, cioè ogni qualvolta l’indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela: ciò che si verifica nei casi previsti dall’articolo 371, comma 2, del Cpp. Lo stabilito la Cassazione con la sentenza 43330/2016. Sui delitti contro la libertà sessuale - Come è noto, i delitti contro la libertà sessuale (in primo luogo, quello di violenza sessuale di cui all’articolo 609-bis del Cp), ordinariamente procedibili a querela della persona offesa, sono procedibili d’ufficio quando, tra l’altro, risultano "connessi" "con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio" (articolo 609-septies, comma 4, numero 4, del Cp). Secondo un’interpretazione consolidata, la connessione rilevante ai fini che interessano non è solo quella processuale di cui all’articolo 12 del Cpp, ma anche quella materiale, essendo quindi sufficiente che tra il reato di violenza sessuale e l’altro perseguibile d’ufficio vi sia "connessione investigativa" (cioè, ogni qual volta l’indagine sul reato perseguibile d’ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela). È conclusione che si spiega con il rilievo che la ratio della disposizione deve individuarsi nel venir meno dei motivi posti alla base della perseguibilità a querela dei reati in materia di libertà sessuale e, in particolare, dell’esigenza di riservatezza, giacché l’indagine investigativa sul delitto procedibile d’ufficio comporta necessariamente l’accertamento degli altri e, quindi, la diffusione della notizia, non sussistendo più ragione per tutelare la riservatezza della persona offesa (cfr., tra le altre, sezione III, 10 dicembre 2003, Carlone). In termini, cfr. sezione III, 24 settembre 2009, R., laddove si è così affermato che, in materia di violenza sessuale, la procedibilità d’ufficio determinata dall’ipotesi di connessione (connessione con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio), si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale, ma anche quando vi è la connessione meramente investigativa di cui all’articolo 371, comma 2, del Cpp, ovvero quando si è in presenza di reati commessi in occasione di altri reati, di reati commessi per eseguirne altri o quando la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza. Infatti, la procedibilità d’ufficio per il delitto di violenza sessuale in caso di connessione con altro delitto procedibile d’ufficio ricomprende qualsiasi ipotesi di connessione idonea a fare venire meno le esigenze di riservatezza collegate al reato di cui all’articolo 609-bis del Cp. Va poi ricordato che la motivazione che sta alla base della procedibilità d’ufficio in caso di connessione con delitto procedibile d’ufficio - ricollegata, come si è visto, all’essere venute meno le ragioni di riservatezza della persona offesa - spiega come a tale procedibilità d’ufficio non si deroghi neppure allorquando il delitto "connesso" originariamente procedibile d’ufficio sia poi dichiarato estinto e neppure allorquando questo già lo fosse all’atto della contestazione del reato in materia sessuale (Sezione III, 18 novembre 2003, Devescovi). Ma va peraltro anche ricordato, in linea con la rilevata ratio della procedibilità d’ufficio, che la mera contestazione di tale delitto connesso non è di per sé sola sufficiente, dal momento che, qualora il giudice di merito accerti l’insussistenza del delitto connesso e quindi, quantomeno, l’erroneità della sua contestazione, tale accertamento fa venir meno fin dall’inizio la pretesa connessione e perciò la possibilità di procedere d’ufficio per il delitto di violenza sessuale, perseguibile a querela, in difetto di quest’ultima (cfr. Sezione III, 6 giugno 2007, Riera). I limiti di utilizzabilità della denuncia anonima nell’attività di indagine giudiziaria Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2016 Prova - Prova documentale - Lettera anonima - Articolo 240 c.p.p. - Acquisibilità - Esclusione - Individuazione del reato - Utilizzabilità. Non può essere acquisita agli atti una lettera anonima poiché il documento anonimo non costituisce elemento di prova e neppure integra notitia criminis e del suo contenuto non può essere fatto alcun utilizzo processuale. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza del 20 settembre 2016 n. 39028. Prova - Prova documentale - Documenti anonimi - Utilizzabilità - Limiti - Perquisizione e sequestro - Utilizzabilità - Limiti. Un’indagine penale può legittimamente scaturire da una denuncia anonima e devono ritenersi legittimi anche la perquisizione e il sequestro del corpo del reato effettuati a seguito dell’indagine stessa (nella specie il computer e lo smartphone utilizzati per pubblicare frasi diffamatorie su un social). Se è vero infatti che i documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisiti né in alcun modo utilizzati, salvo costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall’imputato, un esposto anonimo è idoneo a stimolare un’attività di indagine giudiziaria. Una volta acquisita la notizia di reato, perquisizione e sequestro sono utilizzati quali mezzi di accertamento della prova e non della notizia di reato. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza del 4 agosto 2016 n. 34450. Prova - Prova documentale - Denuncia irrituale - Utilizzo - Acquisizione notizia di reato - Ammissibilità. La polizia giudiziaria è legittimata a compiere, sulla base di notizie apprese in via confidenziale, perquisizioni di propria iniziativa in caso di sospetta detenzione illecita di armi, in virtù della norma di cui all’articolo 41 T.U.L.P.S.; anche una denuncia irrituale, che debba essere considerata alla stregua di una denuncia anonima, come quella rappresentata da informazioni confidenziali, è infatti idonea ad avviare l’attività investigativa per verificare l’esistenza di una notitia criminis, alla cui acquisizione legittimamente possono seguire perquisizioni e sequestri. • Corte cassazione, sezione I, sentenza del 14 luglio 2016 n. 29936. Prova - Prova documentale - Denuncia anonima - Indagine giudiziaria - Legittimità - Limiti. Una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici di indagine e, quindi, non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità. Tuttavia, "gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis". • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza del 26 giugno 2008 n. 25932. Prova - Prova documentale - Documenti anonimi - Utilizzabilità - Limiti - Conseguenze - Fattispecie in tema di sostanze stupefacenti. Operano correttamente gli appartenenti alla polizia giudiziaria, i quali, a seguito di denuncia anonima, si recano sul luogo indicato e individuano un’autovettura parcheggiata con delle persone nei pressi, la sottopongono a perquisizione (ex articolo 103 del D.P.R. 9/10/1990, n. 309), procedendo al sequestro della sostanza stupefacente occultata nell’imbottitura del sedile della stessa. Infatti, in tal caso, la segnalazione anonima viene utilizzata solo per avviare un’indagine sul posto, con acquisizione della notitia criminis, e, solo in seguito all’acquisizione di essa, vengono eseguiti la perquisizione dell’autovettura sospetta, il sequestro della sostanza stupefacente ivi occultata e il conseguente arresto in flagranza del titolare di essa, sicché perquisizione e sequestro vengono legittimamente utilizzati come mezzi di accertamento della prova e non della notizia del reato. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza del 27 ottobre 2006 n. 36003. Vibo Valentia: morto in carcere Giuseppe Barbaro, era ammalato ma niente domiciliari di Simona Musco zoomsud.it, 24 ottobre 2016 Aveva il cuore malandato, le gambe acciaccate, camminava appoggiandosi ad un bastone. Doveva scontare ancora un anno di carcere. Ma da tempo soffriva e per questo il suo avvocato più volte aveva invocato i domiciliari. Ma per Giuseppe Barbaro, 53 anni, originario di Platì, condannato a 5 anni in abbreviato nel processo "Minotauro", non c’è stato niente da fare. Le guardie penitenziarie lo hanno trovato senza vita venerdì notte nella sua cella di Vibo Valentia. Sul corpo, nelle prossime ore, verrà effettuata l’autopsia per accertare le cause della morte. A denunciare il fatto è l’avvocato Giampaolo Catanzariti, che sottolinea le "serie patologie" di cui l’uomo era affetto. "Più volte mi scriveva e sempre, come quando andavo a trovarlo, mi confessava che aveva paura di non poter vedere i suoi quattro figli, sua moglie, i suoi genitori anziani, i suoi familiari - scrive il legale. Lamentava di essere scarsamente seguito". La fitta corrispondenza tra i due disegna i contorni di un percorso travagliato, fatto di sofferenza. Tra le lettere, significativa quella datata 5 maggio 2015. "Oggi sto male e credo che continuando così da un momento all’altro posso morire e non accetto questo fatto - scriveva Barbaro -. Qua non funziona proprio niente fanno morire le persone". Parole che per l’avvocato si sono rivelate profetiche. "Purtroppo ha avuto ragione - commenta, ma nessuno ci ha creduto. Si è attesa la prova irreversibile". Almeno due volte era stato trasportato in ospedale. A luglio scorso, Catanzariti aveva presentato un’istanza di differimento della pena con l’applicazione dei domiciliari, unica forma possibile visto che stava scontando una pena per un reato ostativo, istanza che però era stata rigettata. "Considerato che dalla relazione sanitaria aggiornata al 12.7.2016, inviata dalla Casa circondariale di Vibo Valentia (le cui conclusioni sono integralmente da condividere, in quanto basate sull’esame di numerose e accurate visite ed esami strumentali, dettagliatamente elencate) - questa la risposta ricevuta dal legale, risulta che il detenuto, affetto da cardiopatia ischemica cronica, ectasia dell’aorta ascendente, displidemia mista, ipertensione arteriosa, emisindrome somato-sensitiva a sx da pregresso ictus cerebrale, lieve ispessimento delle carotidi bilaterale, ernia inguinale sx e lieve varicocele bilaterale, neoformazione mediastino antero-superiore retrosternale (verosimile timo-lipoma), sindrome ansiosa è in trattamento farmacologico secondo le indicazioni specialistiche, con discreto controllo del quadro clinico generale, per la deambulazione utilizza un bastone canadese ed è autonomo negli spostamenti all’interno della cella e dell’istituto, con la conseguenza che non è in condizioni di salute gravi e tali da essere incompatibili con il regime carcerario, sentito il parere del p.g. rigetta le istanze". Un quadro ricco di patologie che però non rendeva necessaria, secondo i giudici, una forma alternativa di espiazione della pena. "Diverse volte ho sollecitato le diverse carceri ed il Dap sulla necessità che venisse seguito e curato. Palmi, Melfi, Rossano, Catanzaro ed infine Vibo. Aveva anche subito dei ricoveri temporanei in ospedale, dal carcere stesso - commenta ancora Catanzariti. Lo avevo visto per l’ultima volta a Vibo, il 6 agosto di quest’anno, durante la visita con Rita Bernardini. Stipato assieme agli altri detenuti, ai passeggi. Non ci è stato consentito, come avviene ovunque, di entrarci ed incontrarli. Solo accalcati dalle sbarre. Come le belve feroci destinate ad aumentare la loro belluinità. Anche lì mi manifestava la sua lamentela ribadendomi che non sarebbe uscito vivo da lì. Così è stato. Adesso, per lo Stato italiano, sarà un numero da statistiche, alla voce, "morti in carcere". Per me, era un uomo che avrebbe meritato di andare a casa per essere curato e seguito anche dall’affetto dei suoi cari". Padova: addio alla volontaria Biki, la mamma dei poveri-Cristi in galera di Don Marco Pozza Il Mattino di Padova, 24 ottobre 2016 Li ha presi per mano - loro che sono gli specchi rotti della società - e ha tentato di ricomporne i frammenti, cercando le ragioni di quelle rotture, brutture. Per tentare di farli uscire da quella lunga notte nella quale le storie appaiono tutte buie, finte, mute. "È morta Biki" è stata la notizia che radio-carcere ha mandato in onda in tempo-reale. Dove Biki - come l’avevano simpaticamente ribattezzata i suoi "lupi" - corrisponde al nome di BiancaMaria, il volto storico del volontariato nelle carceri di Padova. Una donna per la quale la galera non era un magazzino nel quale confinare uomini tra loro omologati, ma un’esperienza da vivere guardandola nel volto: è per questo che molti, dietro le sbarre, non si vergognavano di chiamarla mamma. Perché la sua vita è stata un affronto alla legge-della-probabilità: di gente ch’era da sempre in mezzo ai guai, diceva che nei guai avrebbero anche potuto non finirci più. Un ragionamento da madre. Da queste parti i poveri-cristi la ricordano con i soliti-strumenti in mano, gli arnesi semplici delle donne salvavita: un paio di mutande per ritrovare la dignità perduta, un quaderno nel quale gli scarabocchi erano storie e volti, il suo sorriso che striava con il grigiore del ferro-e-cemento. Gli uomini che andava a stanare nelle celle-caverne, erano i peggiori avanzi che la società civile aveva portato in quell’isola ecologica che è il carcere: "Sembravano le anime in pena assiepate agli spiragli del purgatorio che si affacciano sull’inferno" (V. Hugo). Quando per tanti altri il gioco si faceva duro, era allora che a lei iniziava a piacere. Fino a fare di parecchi uomini-banditi la sua personale scommessa: "Un giorno si rialzeranno. Vedrai, don Marco: sarà bellissimo vederli camminare da soli" mi diceva spesso quando, guardandola china su gente incarcerata per omicidio, rapina, commercio di refurtiva, stupro, la provocavo: "Biki, sicura che ne valga-la-pena?" Il suo eroismo - se c’è stato, e c’è stato - è tutto qui: aver fatto d’una cella di galera il suo punto di osservazione sul mondo. Aver condotto fin qua dentro, nel ventre del male, la più alta forma di ferocia che Dio abbia concesso alla donna: la maternità. Nessuna donna nasce madre, lo diventa assieme al figlio: nascono assieme quelle due creature che nessun disastro riuscirà mai a separare. In caso di rottura, poi, le madri sapranno intervenire: per aggiustare, fare dei rammendi, ricreare. Ridare-vita ai senza-vita, a chi ha tolto la vita: ecco perché, in questa landa solitaria, per tanti è stata una mamma. Anche per uomini che, in tempi passati, non han prestato ascolto alle loro. Perché essere madre non è solo dare la luce agli infanti, ma anche riportare alla luce i dispersi, rimettere in piedi i caduti. Il potere di queste maternità intimidisce tutti i carnefici. In carcere, ogni quarto d’ora che passa, s’invecchia di un anno. Ciò che non invecchia - al contrario, ringiovanisce - è il desiderio, ch’è quasi di tutti, di rinascere differenti: "Salutandomi, mi ha detto "signore"" è stata la confidenza straziante di un vecchio omicida parlandomi di lei. Scorgere, dentro il marciume di un delitto, il tesoro prezioso della dignità è la perla rara dell’umanità. Un’unica cosa l’inorridiva: l’approfittarsi di chi, ristretto, non aveva diritto al contraddittorio. Per questo, durante la stagione della detenzione, volle che la scuola fosse per tutti. Una follia, giacché in carcere l’intelligenza dei detenuti è ostacolo ad una certa concezione di recupero, lo strumento-primo per chi ha voglia di ripigliarsi, il pretesto per fare di una patria galera una sala-parto per uomini già cresciuti. A governare i detenuti con la paura son capaci tutti. Governarli con la gioia è affare di pochi: occorre metterci il cuore in questa strana faccenda. Il cuore di Biki, la "mamma" che un brutto-male ha portato via ai poveri-cristi della galera di Padova. Una mamma-giusta, di quella giustizia che i poveri chiamano amore. Reggio Emilia: Claudia Francardi "così ho perdonato il ragazzo che uccise mio marito" di Ginevra Del Bene Errico La Gazzetta di Reggio, 24 ottobre 2016 La vedova del carabiniere Santarelli protagonista in duomo Claudia Francardi: "La vendetta non aiuta a rinascere". Il perdono è stato il protagonista di un pomeriggio partecipato che si è svolto ieri in cattedrale. Il vescovo Massimo Camisasca ha tenuto una lectio magistralis sul tema e protagonista dell’incontro è stata anche Claudia Francardi, vedova di Antonio Santarelli, carabiniere morto in seguito all’aggressione a Pitigliano a un posto di blocco nel 2011. Ad ucciderlo fu Matteo Gorelli, che in preda a un raptus dovuto ad alcol e droghe, aggredì il carabiniere, sfondandogli il cranio. Eppure, in una storia così tragica, c’è un lieto fine. Il perdono, appunto. È nata infatti l’associazione AmiCainoAbele, fondata da Claudia e da Irene Sisi, madre dell’assassino, che aiuta realtà simili a riemergere, non lasciandosi andare al risentimento. Una storia di sofferenza, ma anche di profonda amicizia quella di Claudia e Irene che si sono unite per favorire il perdono. "Tutto è iniziato il 25 aprile 2011 quando il capo dei carabinieri ha bussato alla mia porta - ha spiegato Claudia - per dirmi che mio marito era in coma, situazione durata per 13 mesi, prima della tragica risoluzione. La fede per me è stata fondamentale. Quando non si vuole affogare nel dolore si cerca sempre un aiuto. Così ho cominciato a vivere sempre con il rosario in mano". "Antonio non si è più svegliato e io ho dovuto affrontare la notizia, comunicarla a mio figlio, agli affetti e immancabilmente sono caduta in depressione. Ho affrontato anche io le cure mediche per quello che io definisco il mal di vita". Nel frattempo Matteo Gorelli è stato condannato. "In primo grado gli è stata inflitta la pena dell’ergastolo (anche se poi in secondo grado il verdetto è stato convertito in 20 anni di arresti domiciliari nella comunità di don Mazzi) - continua la vedova - Non ero soddisfatta. Primo perché la sentenza non mi avrebbe ridato mio marito; secondo perché la sentenza mostrava come si stessero voltando le spalle al ragazzo. Nessuno credeva più in lui". Poi arriva la svolta. Irene Sisi, madre di Matteo Gorelli le scrive una lettera. "Un giorno ricevo una lettera tramite il sacerdote di Grosseto, dalla madre di Matteo che mi chiedeva perdono. Avrei potuto buttarla, ma sentivo che era una lettera sincera. C’era il bisogno di incontrarsi e accogliersi. Certo, ho avuto bisogno di dar spazio alla rabbia e al dolore, ma quando si torna a fare i conti con la realtà di tutti i giorni, in quei momenti il risentimento si trasforma". Così Irene è venuta in ospedale a vedere suo marito Antonio. "Volevo che Matteo sapesse in che condizione aveva ridotto mio marito e che persona meravigliosa era quella cui aveva spezzato la vita. Lui non poteva venire, quindi venne Irene. Questo gesto mi ha ridato dignità. Non il processo, in un processo non c’è nulla di dignitoso per le vittime". Così conosce la madre di Matteo, nel frattempo però muore Antonio. Proprio in questo momento Claudia comincia il percorso che poi l’ha portata a fondare l’associazione AmiCainoAbele. "La morte per Antonio è stata una liberazione, poi io credo che chi nasca non muoia più, ma se ne vada da un’altra parte, quindi ho girato pagina. Ho voluto ricostruire la mia vita dalle macerie, uscire dal risentimento. Ho cominciato un viaggio di riconciliazione insieme ad Irene. Noi parliamo di perdono e misericordia con le persone che hanno una necessità vera. Andiamo nelle scuole, nelle carceri, dando questi strumenti per crescere una società diversa. Oggi la giustizia è vissuta come vendetta e le pene sono spesso solo punitive. Si fa il male per il male che si è ricevuto. Il perdono come rinascita deve essere la risposta". Genova: "provate voi a capire cosa si prova", il racconto di 1.418 giorni di detenzione di Alessandra Ballerini La Repubblica, 24 ottobre 2016 Nella sua voce non si percepisce alcuna nota di spocchia né, tantomeno, di sfida, semmai una punta di legittimo orgoglio ma anche di solitudine, quando inizia con "provate voi...". Quante volte l’ho sentito pronunciato dai miei assistiti - profughi, detenuti, minori abbandonati, vittime di maltrattamenti, di tratta o di atroci violenze, questo doloroso prologo: "prova tu" oppure, declinato nella sua variante disfattista: "tu non puoi capire"! Ed è vero, sempre vero. Io non posso capire, se non a spanne, ad intuito, perché, appunto, non ho mai provato, ma semmai mi sono solo adoperata in sforzi di empatia o mi sono documentata da comoda distanza, le ingiustizie, con le quali vengo, solo indirettamente, a contatto. Luigi Manconi nel suo recente preziosissimo libro "Corpo e anima", parla di punto di vista della vittima: "è sacrosanto e assoluto. E unico. E la sua unicità non è condivisibile: essa discende solo ed esclusivamente dalla condizione di vittima. Dall’aver patito direttamente l’offesa". Per provare ad accorciare la distanza tra me e queste particolari "vittime" sono diventata osservatrice dell’associazione Antigone e insieme a valorosi colleghi ho il privilegio di visitare i luoghi di reclusione Liguri ed imparare a riconoscerne gli odori, le fobie e le sofferenze che racchiudono. Ma noi osservatori dopo qualche ora, si torna a casa, liberi. Noi non si è mai loro, neppure quando, per qualche istanze si condividono gli spazi delle celle, noi non potremmo mai, comunque. completamente capire. "Provateci voi" e poi prosegue accarezzandosi, quasi senza accorgersene, le cicatrici sul viso:" provate voi a stare rinchiusi in tre nello spazio dove a stento può stare una persona, e rimanerci non una e neppure 8 ore al giorno, ma 23. Provate a stare cosi giorni, settimane, mesi, anni. È ovvio che cerchi di ucciderti, Nella mia sezione li contavo, uno su cinque s’impiccava o ci provava". Non sta parlando di un carcere libico e neppure turco, sta riferendosi ad una galera di casa nostra, del nostro ricco e civile nord Italia. Lui è tra i sopravvissuti tornati finalmente in libertà, il malessere dei suoi coatti coinquilini gli ha lasciato segni di lame sulla pelle e forse incubi notturni, ma lui una corda o meglio un lenzuolo attorno al collo non se lo è mai annodato. Per scontare la sua pena è stato rinchiuso in ben tre carceri italiani in celle che dove lo spazio a disposizione per detenuto era inferiore ai tre metri quadrati. Quei tre metri quadrati che sono considerati, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, "vitali" ed al di sotto dei quali è doveroso parlare di trattamento inumano e degradante. Provateci voi... 1418 giorni per la precisione. Senza abbastanza centimetri neppure per sgranchirsi le ossa umide e rattrappite, intrappolato insieme ad altri sei ristretti arrabbiati come e più di te, senza acqua calda né riscaldamento, senza doccia, senza luce, aria né cibo a sufficienza, senza privacy, senza dignità. 1418 giorni di detenzione inumana, come ha sancito il Tribunale al quale si è rivolto per ottenere giustizia, prima ancora del ristoro economico per il danno subito; perché gli 8 euro per ogni giorno di trattamento inumano previsti ex lege evidentemente non costituiscono un risarcimento degno. Ed in effetti leggere l’ordinanza del Giudice laddove dichiara "illegittime le condizioni detentive alle quali il ricorrente è stato sottoposto" restituisce un po’ di quella dignità calpestata. "È importante il principio" mi dice un altro degli ex ristretti risarciti, "è una condanna simbolica, certo che sono felice, per il progetto comune, non per i soldi. "Ecco il progetto comune: vivere in uno Stato che non può disprezzare i diritti umani di nessuno, che può rinchiudere ma non violare, non umiliare, non torturare né tantomeno uccidere o indurre al suicidio. Lucca: i Radicali in visita al carcere "è antiquato e decadente e c’è carenza di organico" luccaindiretta.it, 24 ottobre 2016 Visita al carcere l’altro ieri (22 ottobre) per una delegazione di rappresentanti del Partito Radicale nell’ambito di un tour in vista della marcia del prossimo 6 novembre, da Regina Coeli a piazza San Pietro, dedicata a Marco Pannella e a papa Francesco per chiedere provvedimenti di amnistia e indulto e un miglior trattamento carcerario. A partecipare alla delegazione, oltre a militanti locali, Maurizio Buzzegoli segretario dell’associazione per l’iniziativa radicale Andrea Tamburi, Rita Bernardini coordinatrice del tavolo sull’affettività in carcere e la territorialità e Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano. "Al momento - ha spiegato Buzzegoli - il carcere di Lucca prevede una capienza effettiva di 70 detenuti e tollerata di 120. Sono presenti 116 persone al momento in carcere. Si tratta di una struttura antiquata e decadente, con le celle che presentano parecchie difficoltà di vivibilità a partire dallo spazio vitale e dalla vicinanza fra bagno e cucina. Il 50 per cento dei detenuti è straniero, per la gran parte proveniente da Marocco, Albania, Tunisia, Romania. 16 sono i tossicodipendenti, di cui 4 in terapia metadonica e 32 sono gli affetti da malattia psichiatrica con il servizio dello psichiatra attivo tre ore al giorno dal lunedì al venerdì". "Anche gli agenti - spiega ancora - sono sotto organico. Di 112 unità ce ne sono effettivamente in servizio 97. Di questi 5 sono dedicati al servizio traduzione e piantonamento al di fuori del carcere. Ci sono poi due educatori in servizio anziché tre ma c’è una intenzione da parte della struttura, grazie al volontariato, di portare avanti un percorso rieducativo. Molti detenuti, comunque, per una media di 4 mesi l’anno, seguono corsi e lavorano". "La battaglia dei Radicali - spiega Buzzegoli - è per chiedere amnistia e indulto e avrà come momento apicale la marcia del 6 novembre da Regina Coeli a piazza San Pietro dedicata a Marco Pannella e papa Francesco. Nell’occasione non abbiamo potuto raccogliere le adesioni per lo sciopero della fame del 5 e 6 novembre ma in molti ci hanno dato i nominativi per poter compilare i moduli e aderire". Rita Bernardini arriva a Lucca al 13esimo giorno di sciopero della fame e punta il dito sui servizi all’interno del carcere di Lucca: "Al San Giorgio - dice - non c’è scuola elementare ma solo una scuola di alfabetizzazione. Sarebbe utile, invece, che il tempo passato qui potesse servire almeno per ottenere la licenza elementare. Si sente molto, poi, la difficoltà degli assistenti sociali per la detenzione esterna, per le misure alternative e per trovare una sistemazione ai detenuti quando escono dal carcere che sarebbe fondamentale per abbassare i tassi di recidiva. Qui, va detto, abbiamo trovato il disagio sociale di stranieri, tossicodipendenti e poveri". Bernardini parla anche dell’ipotesi di ristrutturazione del carcere: "Su questo carcere - spiega - ci sono molti appetiti. Sembra tramontata l’ipotesi di costruire un nuovo carcere per cui era stato previsto uno stanziamento importante di 25 milioni di euro, che dovrebbero invece essere destinati alla ristrutturazione. Ma secondo la presidenza del Dap questi lavori non sarebbero fatti utilizzando il lavoro dei detenuti ma servendosi di ditte esterne. Bisognerà vigilare con attenzione sull’utilizzo di questi fondi, tanti, e sull’affidamento dei lavori, considerando che, a detta del direttore, per ristrutturare la prima e la seconda sezione basterebbero 50mila euro a sezione". Infine le attività all’interno del carcere: "Qui - spiega Bernardini - si fanno poche attività e sporadiche. Sono pochi anche i contatti con l’esterno e con i familiari e bisognerebbe fare qualcosa in questo senso". "Oggi - chiude spiegando il senso della battaglia radicale - sono al 13esimo giorno di sciopero della fame che abbiamo intenzione di proseguire a oltranza. Chiediamo di accogliere la nostra proposta di stralcio dal disegno di legge sul penale in discussione al Senato la parte riguardante la riforma dell’ordinamento penitenziario, per aderire alle proposte degli stati generali dell’esecuzione penale. Il tutto oltre alla richiesta di amnistia e indulto e al diritto all’affettività garantito a tutti, nessuno escluso. Dopo la raccolta di adesioni allo sciopero della fame consegneremo i nomi a Papa Francesco e al ministro della giustizia Andrea Orlando". Parla anche il cappellano del carcere di Sollicciano, Vincenzo Russo che lancia un appello all’associazionismo locale e al Comune affinché "facciano la loro parte per il percorso dei detenuti e per il reinserimento sociale". Voghera (Pv): un progetto dei Radicali, sigarette elettroniche a cinquanta detenuti di Alessio Alfretti La Provincia Pavese, 24 ottobre 2016 Parte dal carcere di Voghera una nuova sperimentazione per migliorare la qualità della vita dei detenuti italiani. A cinquanta ospiti della Casa circondariale di via Prati Nuovi, infatti, è stata consegnata da poco una sigaretta elettronica, grazie all’impegno di Rita Bernardini del Partito Radicale e al coinvolgimento del direttore dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Un’opportunità nuova che dovrebbe permettere ai detenuti abituati alla nicotina di fumare anche in presenza di altre persone che non gradiscono il tabagismo. Le sigarette elettroniche consentono al consumatore di inalare nicotina senza immetterne nell’aria attorno a sé e quindi evitando di infastidire chi sta attorno e di intaccarne il rispetto della salute. Un’idea nata per caso, durante una visita della Bernardini alla struttura penitenziaria vogherese, nel corso della quale la sua abitudine di fumare la sigaretta elettronica è stata notata dalla direttrice e dal personale del carcere. Così sono stati cinquanta i detenuti che hanno potuto usufruire della nuova opportunità. A questo punto si pensa di impegnarsi per estendere l’uso del dispositivo elettronico anche alle altre carceri italiane: al momento, infatti, è a discrezione del direttore consentirne o meno l’uso dietro alle sbarre. Milano: un’Opera teatrale che vale la pena di Elio Silva Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2016 Qual è il modo giusto per interpretare, in un moderno Stato di diritto, il concetto di "fine pena mai"? La nostra società è condannata per sempre a perseguire la detenzione in senso ostativo verso quelle persone che si sono rese responsabili di crimini particolarmente gravi, oppure è matura per prendere in considerazione anche un’idea diversa, che contempli e metta in atto il principio di riparazione? Si dirà che, di fronte alle grandi emergenze del nostro tempo, dalle migrazioni alla povertà assoluta, quella degli ergastolani è una situazione molto specifica, un cluster proporzionalmente piccolo nella generale drammaticità della condizione carceraria. Ci sono, però, almeno un paio di ragioni che rendono la questione strategica. La prima è l’attenzione illuminata che al tema sta dedicando la Chiesa cattolica, sotto l’impulso di Papa Francesco e del suo Giubileo della misericordia. Per citare solo un esempio, il 29 settembre, durante la visita al carcere di Opera, il cardinale di Milano, Angelo Scola, ha esplicitamente sostenuto che "l’ergastolo non può essere una tomba anticipata", con ciò rimarcando il concetto di "giustizia misericordiosa" che viene continuamente sottolineato dal Papa. Il secondo motivo è il crescente interesse dello Stato, e del ministero della Giustizia in particolare, intorno alle pratiche "riparative". Se, infatti, si riuscisse a dimostrare che perfino gli ergastolani, ossia le persone che per tutta la vita non possono fare altro che saldare i propri conti con la Giustizia, potrebbero in realtà diventare una risorsa per la collettività e non solo un costo, ecco che allora tutto l’impianto della pena come riabilitazione personale e sociale ne uscirebbe rafforzato, con grande beneficio per la nostra civiltà giuridica e, forse, anche con qualche effetto positivo sui conti pubblici. Ecco, dunque, che il tema assume un peso particolare e giustifica le molte, approfondite riflessioni recentemente pubblicate. A tal fine merita raccontare l’esperienza realmente straordinaria di un laboratorio teatrale interpretato dai detenuti di alta sicurezza del carcere di Milano Opera. Si tratta di un gruppo di 13 ergastolani che, dal 2007 in poi, hanno iniziato un percorso artistico ispirato dall’attività di una volontaria, Isabella Biffi. Su richiesta della direzione dell’istituto di pena milanese, la Biffi - attrice e cantante, già in precedenza protagonista di tour nelle carceri con i giovani di don Antonio Mazzi - ha ribaltato la modalità tradizionale degli uomini di spettacolo che si esibiscono dietro le sbarre per offrire qualche ora di svago ai detenuti, ottenendo come risultato che sono i carcerati - - in questo caso proprio gli ergastolani - a uscire per portare il recital nei teatri. L’elenco delle performance realizzate dal 2008 in poi è lungo e tocca anche palcoscenici di primo piano, dall’Arcimboldi di Milano all’Ariston di Sanremo. La "compagnia" sta ora preparando un nuovo musical, intitolato al "Figliol prodigo": una "anteprima" si svolgerà dopodomani, mercoledì 26 ottobre, nello spazio teatrale del carcere di Opera, davanti alle istituzioni. Va sottolineato che l’iniziativa è sostenuta con forza, oltre che dal ministero della Giustizia, anche dalla Regione Lombardia. Giacinto Siciliano, direttore della casa di reclusione Milano Opera, che fin dall’inizio ha voluto e promosso il progetto, spiega che "il carcere, anche se chiuso da mura di cinta, non può restare isolato rispetto al territorio. Il laboratorio del musical cerca di restituire alla comunità il messaggio di persone che hanno accolto proposte di cambiamento nella loro vita. Quello che emerge è un valore prezioso, che viaggia all’interno come all’esterno: ciascuno, in qualunque situazione si trovi, può sempre decidere chi essere e chi diventare". Ma se questo è vero, le conseguenze positive si riflettono anche sulle politiche carcerarie. "Abbiamo volutamente alzato la posta - ricorda Siciliano -, anche perché spesso i progetti di riabilitazione negli istituti di pena sono legati principalmente alla disponibilità di fondi pubblici e, terminati quelli, esauriscono i propri effetti. In questo caso, invece, le ricadute sono tangibili e ben percepibili". Tanto che alcuni degli attori-detenuti sono anche diventati preziosi testimonial della legalità presso i giovani, così come in quelle stesse zone di "deserto umano" dove prima erano maturate le loro scelte criminali. Ferrara: incontro per riflettere sul sistema carcerario, in ricordo di Sandro Margara estense.com, 24 ottobre 2016 Il senso della pena sarà il tema trattato nell’incontro che si terrà sabato 29 ottobre alle 10 presso il centro Lgbt Ripagrande12 in via Ripagrande 12 in ricordo di Sandro Margara, magistrato di sorveglianza, già direttore generale dei Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e garante dei detenuti della Regione Toscana. Durante l’appuntamento verrà presentato il volume di raccolta di scritti di Alessandro Margara "La giustizia e il senso di umanità. Antologia di scritti su carcere, Opg, droghe e magistratura di sorveglianza" a cura di Franco Corleone, edito nel 2015 dalla Fondazione Michelucci Press. L’incontro, coordinato dai consiglieri comunali Leonardo Fiorentini (SI) e Ilardia Baraldi (Pd) vedrà l’intervento di Marcello Rambaldi, avvocato, referente per Ferrara dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali; Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana; Andrea Pugiotto, costituzionalista dell’Università di Ferrara e Marcello Marighelli, garante dei detenuti di Ferrara. Perché parlare, oggi, del senso della pena? Perché ora che si invocano pene più severe, certezza della pena, maggiore sicurezza? "Proprio perché pensiamo sia necessario ritrovare il significato vero della permanenza in carcere, la natura rieducativa di esso prescritta nell’articolo 27 della Costituzione - replica la consigliera Baraldi -. Perché la retorica securitaria e la demagogia della paura amplificano il problema, senza risolverlo". Maggioni (Pres. Rai): "il servizio pubblico non può ignorare la tematica delle carceri" Vita, 24 ottobre 2016 Dopo il nostro articolo e la lettera dell’onorevole Michele Anzaldi in cui avanzavamo la proposta di mandare in onda sulla Rai "Spes contra spem", docu-film sulla condizione dei detenuti condannati all’ergastolo, risponde la Presidente Maggioni: "il servizio pubblico non può ignorare questa tematica". Dopo l’articolo di Vita in cui chiedevamo alla Presidente Maggioni se non fosse il caso di proiettare - visto il suo grande e riconosciuto valore sociale e visti i costi pari a zero per la Rai - "Spes contra spem", il bellissimo docu-film di Ambrogio Crespi sul carcere e l’ergastolo ostativo, qualcosa si è mosso. La lettera aperta di Michele Anzaldi, che abbiamo pubblicato, ha fatto la sua parte. Ma anche la richiesta di gran parte del sociale e della società civile di cui ci siamo fatti portavoce. La sensibilità dei dirigenti potrà fare il resto. Nella sua risposta, Monica Maggioni ricorda che, come rilevato da Anzaldi, il tema della situazione carceraria nel nostro paese è stato a più riprese oggetto della sua attenzione come giornalista. Ragion per cui, spiega la Presidente della Rai, "ritengo infatti che, specie nel contesto del servizio pubblico, non sia possibile ignorare o trascurare questo tipo di tematiche. Per questo ringrazio per la segnalazione e le posso assicurare che sarà mia cura entrare in contatto con la produzione per garantire che le nostre strutture editoriali possano essere a conoscenza dell’esistenza della possibilità di valorizzare questo prodotto, ovviamente nel pieno rispetto delle prerogative editoriali di ciascuno". Anche noi ringraziamo per la sensibilità e la bella risposta. "Spes contra spem" è un’occasione troppo importante per non lasciare nell’ombra una parte della nostra realtà. Migranti. L’Europa chiude le porte all’Africa dopo averla sfruttata per secoli di Antonio Maria Costa La Stampa, 24 ottobre 2016 Le potenze coloniali hanno depredato l’intero continente. Ora si è aggiunta la Cina. Ecco perché milioni di persone rischiano la vita per attraversare il Mediterraneo. Da tempo l’Italia sollecita solidarietà in Europa per condividere l’onere dell’immigrazione. La richiesta, senza successo, è motivata da comunanza d’interessi di fronte a violenza e povertà in Africa. In effetti, l’esodo attraverso il Mediterraneo non è solo il risultato di miserie attuali. È conseguenza del più grande crimine nella storia dell’umanità: un delitto perpetrato a Londra, Parigi e Bruxelles - e che ora continua con il concorso di Pechino. Un crimine che ha causato, dice l’ex-capo Onu Kofi Annan, oltre 250 milioni di morti (neri): per farsi un’idea, il doppio dei morti (bianchi) nelle due guerre mondiali. Storia e giustizia motivano la richiesta italiana, non solo solidarietà. Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. La razzia incessante delle risorse - umane, minerarie, agricole - inizia nel XV secolo, quando i portoghesi mappano coste e sviluppano affari. Poi Spagna, Inghilterra e Francia trafficano spezie e, in maniera crescente, esseri umani. Per tre secoli gli europei non penetrano all’interno del continente: contano sugli arabi che assalgono i villaggi e organizzano interminabili carovane di prigionieri fino al mare - trasportati a oriente verso il Golfo e l’Asia, e a occidente verso le Americhe. Schiavi tre su quattro - Nel 600 tre africani su quattro sono intrappolati in una qualche forma di servitù. Inglesi e francesi si distinguono per un lucroso commercio triangolare: trasportano cargo umano nelle Americhe, dove usano le acque fredde del Nord per disinfettare navi purulente di sangue e infestazioni. Poi caricano zucchero, cotone e caffè che trasportano in Europa (a Liverpool e Nantes). Quindi riempiono le stive di manufatti, alcool, armi e polvere da sparo che barattano in Africa con altre vittime. La razzia accelera quando, come risultato della guerra di successione spagnola (i trattati di Utrecht del 1713), Londra ottiene il quasi monopolio del traffico di schiavi attraverso l’Atlantico. Il picco è raggiunto alla fine del 700 per un totale di 100 milioni di vittime (stima incerta, ma realistica). All’inizio del 800 due mutamenti storici convergono. Dopo decenni di lotta, il movimento anti-schiavista prevale: nel 1807 il Regno Unito decreta la fine del traffico internazionale di esseri umani; l’anno successivo aderiscono gli Usa. (Non è la fine della schiavitù, ma la fine del trasporto nell’Atlantico). Al contempo, e per recuperare reddito, inizia l’esplorazione del cuore dell’Africa: David Livingstone, H.M. Stanley e più avanti Richard Burton, mappano i fiumi del Congo, scoprono i grandi laghi e trovano le sorgenti del Nilo. Lo spirito d’avventura anima gli esploratori. La ricchezza delle risorse africane motiva i loro governi, afflitti da problemi economici: una lunga depressione in Francia e Germania (1873-96), un continuo disavanzo commerciale in Inghilterra. L’Africa è ritenuta la soluzione della crisi, grazie alle sue grandiose risorse: rame, diamanti, oro, stagno nel sottosuolo; cotone, gomma, tè e cocco in superficie. L’occupazione - Entrano anche in gioco interessi individuali - anzi, personali. L’inglese Cecil Rhodes chiama Rhodesia (oggi Zimbabwe) il Paese del quale s’impossessa. Il re del Belgio Leopoldo II dichiara il Congo proprietà personale e passa dal furto delle risorse umane all’esproprio di quelle naturali. "Quando, dopo 200 anni, traffici umani, mutilazioni e mattanze terminano, inizia la razzia di avorio e caucciù", scrive Stephen Hoschchild, biografo di Leopoldo. In una storia di avidità e terrore, l’African Company (di proprietà del re) causa 10 milioni di morti ed espropria risorse per decine di miliardi attuali. Venti-trentamila elefanti sono abbattuti annualmente. E il Belgio emerge come il Paese più ricco in Europa. Inevitabilmente la corsa a derubare l’Africa diventa ragione di scontro tra le potenze coloniali. Intimorito, il Kaiser Guglielmo II convoca la conferenza di Berlino (1884), durante la quale le potenze europee si spartiscono il continente: un accordo che dura fino al 1914. La demarcazione dei confini coloniali decisa a Berlino violenta le realtà africane: racchiude etnie, religioni e lingue in confini artificiali, al solo fine di perpetuare il saccheggio delle risorse. In breve, i confini tracciati dagli europei allora pongono le basi per la violenza e la povertà di ora. La II guerra mondiale - Dopo la seconda guerra mondiale l’Africa diventa indipendente, con risultati non meno devastanti. In vari Paesi il potere passa nelle mani della maggiore etnia, che raramente coincide con la maggioranza della gente: chi è fuori dal clan è oppresso, spesso fisicamente. Imitando gli oppressori coloniali, i nuovi despoti gestiscono le risorse come proprietà personale. Rubano quanto possibile. Il resto finisce nelle tasche di amministratori corrotti, finanzia milizie a sostegno del potere e, soprattutto, compra la correità degli investitori esteri - inglesi, francesi e belgi. Nel primo mezzo secolo d’indipendenza africana gli interessi economico-finanziari europei (a volte americani) mantengono al potere dittatori sanguinari in nazioni artificiali. Rivolte e fame hanno un costo umanitario drammatico. Una seconda liberazione si delinea dopo il 1990. Grandi despoti scompaiono, e con essi gli immensi patrimoni da loro saccheggiati. Il comunista Mengistu fugge dall’Etiopia, Mobutu muore in Congo, il nigeriano Abacha spira nelle braccia di una prostituta: questi due ultimi accusati di aver rubato almeno 5 miliardi di dollari a testa. Soldi impossibili da recuperare: all’Onu ho identificato parte dei fondi di Abacha in banche anglo-svizzere, che gli avvocati dei figli del dittatore hanno subito congelato. Inevitabilmente le risorse rubate ai cittadini africani finiscono con l’arricchire le banche di New York, Londra e Lussemburgo. La situazione oggi - Oggigiorno, a distanza di un quarto di secolo, furti e violenza continuano, dal Sudan di Al-Bashir (2 milioni tra morti e rifugiati), al Congo di Kabila (6 milioni di morti); da Zimbabwe di Mugabe, al Sud Africa di Zuma. In Guinea equatoriale il presidente Obiang, al potere da 35 anni, nomina vice-presidente il figlio Mangue - un vizioso che colleziona auto di lusso, tra esse una Bugatti da 350 mila dollari che raggiunge i 300km/h in 12 sec. Il settimanale inglese The Economist elenca 7 Paesi africani su 48 come liberi e democratici: tra essi Botswana, Namibia, Senegal, Gambia e Benin. Altrove gli autocrati perpetuano il potere modificando la costituzione (in 18 Paesi), oppure ignorandola (Congo). Il vincitore "piglia tutto", dice Paul Collier di Oxford: ruba per ripartire le spoglie con quanti l’aiutano a preservare il potere. Nulla sfugge al suo controllo: parlamento, banca centrale, commissione elettorale e media. A tutt’oggi, i Paesi europei che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati africani continuano a depredare le materie prime dell’Africa. Non solo oro e petrolio, disponibili altrove. Sono soprattutto i minerali rari che interessano: uranio, coltano, niobium, tantalum e casserite, necessari nell’elettronica dei cellulari e in missilistica. Allo sfruttamento ora partecipa attivamente anche la Cina, prediletta dai despoti africani perché non condiziona prestiti e investimenti a clausole per proteggere democrazia e ambiente. Insomma, una catena d’interessi stranieri mantiene il continente nella disperazione: parlamenti e amministrazioni sono corrotti; strade, energia elettrica e ferrovie inesistenti. Fuga verso l’occidente - A questo punto la gente africana ha una misera scelta: morire di violenza e povertà in patria, oppure rischiare la vita nel Mediterraneo, in un esodo dalle dimensioni bibliche - decine di migliaia di persone negli ultimi mesi, decine di milioni negli anni a venire. Papa Francesco parla di carità. Il governo italiano di solidarietà. Certamente. Soprattutto il mondo riconosca che Londra, Parigi e Bruxelles hanno causato il dramma africano, derubando dignità e risorse a gente già povera. È tempo di risarcimento - com’è avvenuto dopo la prima guerra mondiale, dopo l’olocausto, e a seguito di disastri naturali. Risarcimento in termini di assistenza allo sviluppo (per fermare la migrazione) e in termini d’integrazione (per assistere gli immigrati). L’Italia, con le sue minime colpe coloniali, ha poco da risarcire e tanto da insegnare ai Paesi che ora erigono barriere contro le vittime della violenza europea. Migranti. La polizia francese comincia a smantellare "la Giungla" di Calais di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 24 ottobre 2016 I novemila abitanti della più grande bidonville del Paese saranno smistati in 280 centri di accoglienza. L’agente Debove: "Siamo tutti stanchi: noi, i migranti, i camionisti". "Siamo tutti stanchi. Noi poliziotti, i migranti, gli abitanti di Calais, i camionisti che cercano di arrivare al porto e vengono presi d’assalto. Questa situazione non poteva più durare, il problema è l’avere lasciato che migliaia di persone vivessero qui per tutto questo tempo in condizioni insostenibili. Noi agenti di Calais abbiamo denunciato il problema sin dal 2014, siamo passati da 800 migranti in aprile a 2.000 in ottobre, fino agli 8-900 mila di oggi. Non siamo stati ascoltati". Gilles Debove è poliziotto a Calais da oltre 16 anni. Molti bambini - Nel 2000 ha conosciuto il centro di Sangatte, qui vicino, poi la sua chiusura, e la nascita e l’espansione senza controllo della "Giungla". Delegato sindacale (Sgp-Fo Police), parla a nome di molti dei 1.250 agenti che oggi cominceranno uno smantellamento che potrebbe durare una settimana o più. Sotto le telecamere di tutto il mondo e di fronte all’opposizione di militanti in arrivo da molti Paesi europei, i poliziotti dovranno accompagnare, o mettere di peso, migliaia di persone - circa 1.300 minori, molti bambini - su 70 autobus diretti verso 280 centri di accoglienza in tutta la Francia. Esseri umani messi tutti in fila e divisi in quattro categorie: uomini, famiglie, minori isolati, persone vulnerabili (cioè deboli o malate). "Operazione umanitaria" - Con quale stato d’animo vi apprestate a entrare in azione? "Onestamente la situazione non era più sopportabile per nessuno, neanche per i migranti. Si parla di "smantellamento" ma è un termine troppo violento. È un’operazione innanzitutto umanitaria, speriamo che si svolga nella calma. Siamo preoccupati per martedì più che per il primo giorno, quando tante persone dovrebbero salire sugli autobus volontariamente. Almeno la metà degli ospiti della Giungla, soprattutto i sudanesi, hanno rinunciato all’Inghilterra e accettano di essere ridistribuiti in tutta la Francia. I problemi potrebbe nascere soprattutto dopo, quando dovremo evacuare anche quelli che vogliono a tutti i costi raggiungere Londra". "Persone perbene" - Dal punto di vista dei poliziotti, le persone che abitano nella bidonville più grande di Francia "sono come il resto della società". "La stragrande maggioranza persone perbene, alcuni meno. Cioè quelli che hanno fatto delle migrazioni un affare: economico, per i passisti, soprattutto afghani, e politico, come i militanti no borders". Minori - I minori non accompagnati rappresentano il problema più grave. Circa duecento sono stati finalmente accolti dalla Gran Bretagna, ma ne restano oltre un migliaio. "Questa è la vera difficoltà", dice Debove. Sono loro ad avere patito di più la mancanza di un’intesa tra Parigi e Londra. "All’inizio dovevano partire verso l’Inghilterra 40 minori al giorno, in realtà non sono più di 15. Comunque dovrebbero continuare a questo ritmo". Incidenti - Qualche incidente è già scoppiato ieri, dopo che il prefetto Fabienne Buccio ha incontrato i capi delle comunità più numerose (afghani, sudanesi, siriani, iraniani, eritrei) per spiegare come funzioneranno le operazioni. L’obiettivo è fare sgomberare 3.500 persone entro sera. Si comincia questa mattina all’alba. Diritti Umani. Un sms per porre fine ai matrimoni forzati e precoci di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 ottobre 2016 "Sono scappata il giorno del mio matrimonio. Sono andata alla stazione di polizia. Mio padre voleva farmi sposare il mandriano che gli tiene le mucche. Voleva ricompensarlo per il suo lavoro. L’uomo aveva già una moglie. Io volevo riprendere gli studi e diventare un’insegnante". Céline, 15 anni, vive in un centro di accoglienza gestito da un’associazione religiosa del suo paese, il Burkina Faso. Per le tante Céline del mondo, fino al 12 novembre Amnesty International Italia raccoglierà donazioni tramite sms solidale per portare avanti la sua campagna "Mai più spose bambine", con l’obiettivo di spingere i governi e le comunità ad adottare misure efficaci per contrastare una delle più turpi violazioni dei diritti umani: i matrimoni forzati e precoci. Secondo le stime fornite lo scorso anno dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, ogni anno nel mondo 13.500.000 ragazze sono costrette a sposarsi prima dei 18 anni con uomini molto più vecchi di loro. Oltre 37.000 bambine che ogni giorno si vedono terminare l’infanzia e negare l’istruzione, vanno incontro a ripetute gravidanze precoci e sono vittime di violenza domestica. I dati, purtroppo, tendono ad aumentare. Dunque, nel XXI secolo, milioni di donne e bambine sono ridotte in schiavitù attraverso matrimoni forzati, vengono comprate e vendute per alimentare il mercato della prostituzione, detenute e torturate. Siamo di fronte a un fenomeno che si radica nella povertà, nella discriminazione, nell’arretratezza culturale. A volte in vergognose attività criminali. Per contrastarlo, occorre spingere i governi a bandire questa pratica nei paesi in cui è presente e far comprendere a istituzioni, famiglie e comunità che le bambine e le ragazze non devono subire decisioni riguardanti il loro corpo che siano causa di violazioni dei diritti umani. L’anno scorso, grazie ai fondi raccolti, Amnesty International Italia ha dato un grande contribuito alla campagna mondiale contro i matrimoni precoci e forzati proprio nello stato africano del Burkina Faso. Nel dicembre 2015 il governo ha adottato una strategia nazionale (2016-2025) e un piano d’azione triennale (2016-2018) per prevenire ed eliminare i matrimoni forzati e precoci. Quest’anno, a febbraio, il governo ha anche annunciato la fornitura di cure gratuite a tutte le donne in stato di gravidanza, molte delle quali minorenni e messe incinte dai loro "sposi". Ora si tratta di vedere se questi impegni si tradurranno in realtà. Per questo, Amnesty International continuerà a svolgere missioni di ricerca, anche perché siano assicurare le risorse necessarie per la pronta attuazione del piano triennale e per la realizzazione di un cambiamento culturale che sradichi la prassi dei matrimoni delle bambine e delle ragazze favorita, in Burkina Faso come altrove, dalla tradizione e anche dalla religione. Filippine. Legati e bendati, la dura vita dei tossicodipendenti nei Centri di recupero di Silvia Morosi Corriere della Sera, 24 ottobre 2016 La linea dura del governo di Rodrigo Duterte contro la droga ha spinto 700mila persone a chiedere aiuto e registrarsi al programma "Arrendersi". Erik De Castro ha documentato la condizione di queste strutture, tra corsi di informatica, catechesi e allenamenti "militari". Dalla Cina alla Malesia, l’aumento della ricchezza si accompagna allo sviluppo del consumo di droghe sintetiche. Nel sudest asiatico è sempre più forte l’allarme per la diffusione di sostanze a basso costo come le metanfetamine, che stanno diventando un problema anche per i sistemi sanitari nazionali che si trovano a dover sostenere una spesa molto alta per i servizi di riabilitazione. In un report dell’Ufficio sulle Droghe e sul Crimine presso le Nazioni Unite Unodc, reso pubblico nel 2014, si annotava che la domanda crescente in Asia Orientale e Sud Est Asia stava guidando a sua volta un’espansione della produzione globale e del traffico di nuove sostanze psicotrope e le metanfetamine-tipo stimolanti siglate generalmente ATS. La Cina, il cui ultimo profilo statistico del settore riportava sempre nel 2014 una rapida crescita dei sequestri fino a 16 milioni di tonnellate, annoverava circa il 45 per cento dei sequestri effettuati in tutta l’Asia. Ma a essere toccate dal problema sono anche le Filippine dove il presidente Rodrigo "The Punisher" Duterte stata attuando una politica sempre più dura per combattere l’uso di droghe. Il fotografo della Reuters Erik De Castro è stato dentro alcuni dei centri di riabilitazione per tossicodipendenti del Paese, dove ha documentato le condizioni di vita dei pazienti, che spesso somigliano molto da vicino a quelle dei detenuti di un carcere di massima sicurezza - come da lui descritto nel reportage - anche per il grande numero di persone che ospitano. Con l’arrivo al potere di Duterte, sono aumentati i centri di riabilitazione: si è passati da 44 impianti che potevano ospitare appena 7.200, a una mega struttura, finanziata da un benefattore cinese, che può trattare oltre 10mila pazienti al giorno. Ne sono già in costruzione quattro. Uzbekistan. "Liberate il martire Bekzhanov", il giornalista in carcere da 17 anni di Lucia Sgueglia La Stampa, 24 ottobre 2016 Rapito, rimpatriato a forza e torturato è detenuto in Uzbekistan dal 1999. Dopo la morte del dittatore Karimov, al via la campagna #FreeThem per la sua liberazione. In cella da 17 anni per aver osato criticare l’ultimo satrapo d’Asia centrale, brutalmente torturato per fargli confessare "reati anti-statali", e proprio quando stava per uscire nel 2012, condannato ad altri 5 anni per possesso non autorizzato di un tagliaunghie. La storia di Muhammad Bekzhanov, 62, cittadino dell’Uzbekistan, uno dei giornalisti in prigione da più tempo al mondo, è un incrocio tra orrore e quel surrealismo kafkiano caro a una parte del mondo ex sovietico, specie tra le steppe asiatiche, in uno degli Stati più repressivi al mondo. Uno Stato oggi in cerca di un futuro. Bekzhanov fu rapito dai servizi segreti uzbeki nel marzo 1999 a Kiev, Ucraina, dove si era rifugiato continuando a pubblicare in segreto Erk, giornale dell’omonimo partito di opposizione bandito in patria di cui era caporedattore, che spediva clandestinamente come i samizdat in Uzbekistan. Rimpatriato a forza, fu accusato di nove reati, tra cui "minaccia all’ordine costituzionale", incolpato di coinvolgimento in una serie di strani attentati verificatisi il mese prima a Tashkent. Dal suo processo furono esclusi media e osservatori, pur di far "confessare" lui e gli altri imputati sottoposti a pestaggi, soffocamento, scosse elettriche e la minaccia di violentare le loro mogli. Fu condannato a 15 anni, pena poi ridotta in appello a 13, e spedito a Jaslyk, il peggior carcere del paese: qui si ammalò di tubercolosi, fu picchiato dai secondini fino a rompergli una gamba. A seguito dei maltrattamenti perse anche l’udito, e quasi tutti i denti. "Quando arrivai al colloquio un anno e mezzo dopo l’arresto, non riconobbi mio marito", racconta ora sua moglie Nina in un video per la campagna mondiale lanciata da Human Rights Watch, dopo quella di Amnesty International, per liberarlo. Non a caso l’appello è rilanciato ora: dopo la morte a settembre del dittatore Islam Karimov, al potere dal 1989, "padre della nazione" che guidò l’indipendenza da Mosca e unico leader che 28 milioni di uzbechi, in maggioranza musulmani, abbiano mai conosciuto. La speranza di clemenza risiede nelle elezioni presidenziali del 4 dicembre prossimo. Un cambio di potere da cui non si attendono svolte, vincitore previsto è l’attuale premier Myrzoyev. Ma che cade in un momento di incertezza per tutta l’Asia Centrale, tra crisi economica, crollo del barile, infiltrazioni dell’Isis, e l’età sempre più avanzata o la malattia di altri satrapi locali, quasi tutti al potere dalla fine dell’Urss. Tra problemi di successione, crescente instabilità e rischi di lotte tra clan. Karimov, noto per sprezzo dei diritti umani e disinvoltura nell’usare torture ed esecuzioni extragiudiziali per schiacciare gli avversari, porta nella tomba il terribile massacro di Andijan nel 2005 che affogò nel sangue una grande protesta con la scusa della lotta al "terrorismo armato", e la moderna schiavitù della raccolta forzata del cotone nei campi, che in questi giorni coinvolge un milione di uzbeki. In vista del voto il governo ha tenuto un "seminario pratico" per giornalisti su come coprirlo "collaborando con le autorità". Myrzoyev è considerato vicino a Putin, ma finora l’Uzbekistan ha detto no alle mire dirette dei russi sul paese, mantenendosi "non allineato", in equilibrio tra Russia, Cina e Usa. Un Grande Gioco di alleanze internazionali che ha coperto finora il regime, esportatore di gas e petrolio e gas, importante hub energetico. Il cui pugno di ferro sull’Islam più intransigente piace a Occidente e Oriente: la Russia ha puntualmente estradato a Tashkent rifugiati e perseguitati politici uzbeki, Nato e Usa hanno chiuso un occhio in cambio dell’uso logistico delle basi uzbeke per le operazioni in Afghanistan, l’Europa ha imposto sanzioni dopo Andijan, per poi abolirle tra il 2008 e il 2009.