Giustizia, morte e resurrezione della Storia negli archivi abbandonati di Chiara Pracchi Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2016 A Milano c’è chi li salva, trovando nuove prove che riaprono processi. Ecco cosa contengono. La pistola che ha ucciso Calabresi non era dispersa ma era lì. Come la velina che consentirà l'estradizione di Battisti. Un funzionario le ha scoperte riordinando e digitalizzando i primi 1600 faldoni dell'immenso archivio del Tribunale di Milano, dove sono custodite carte, atti e prove di casi giudiziari eccellenti. Un lavoro svolto in collaborazione con una coop carceraria perché lo Stato non ci mette un soldo. Restano però 47 km di scaffalature e gli addetti sono solo una decina. "Serve un catasto nazionale delle fonti giudiziarie. Senza rischiamo di perdere un patrimonio di fonti per la nostra storia". La pistola che ha ucciso il commissario Calabresi era data per dispersa da anni. In un rapporto veniva definita: "macerata per allagamento". Invece Umberto Valloreja, funzionario dell’archivio del Tribunale di Milano, è stato in grado di ritrovarla nella sezione "Corpi di reato", quando il Procuratore di Venezia la richiese durante l’ultima fase processuale per l’omicidio. Lo ascrive a suo maggior successo, ma non è l’unico conseguito fra i 15 milioni di fascicoli e i 7 milioni di sentenze, che si estendono sui 47 chilometri di scaffalature dell’archivio. Come il ritrovamento di una velina, cercata per due giorni e due notti, che permise a un giudice francese l’estradizione di Cesare Battisti in Italia. L’archivio del tribunale ha essenzialmente due funzioni: pratico, per chi necessita di documenti per nuovi atti, e storico. A rispondere a tutte queste esigenze provvede un gruppo di una decina di impiegati, che ogni giorno soddisfa le richieste di circa duecento persone, muovendosi su 98 materie diverse. Età media 58 anni, per un lavoro che implica anche la movimentazione fisica dei faldoni, e turn over bloccato da tempo, così che i pensionamenti non vengono rimpiazzati. Ma soprattutto nessuna preparazione scientifica archivistica, se non quella che viene lasciata alla buona volontà dei singoli. Né il Ministero della Giustizia, né quello dei Beni e delle Attività Culturali, sotto il quale ricade la competenza sugli archivi, spende un centesimo in corsi di formazione. Del resto la mancanza di una cultura archivistica è patrimonio comune anche ai più alti livelli del palazzo di Giustizia, dal momento che - come racconta Valloreja - fu un Presidente del Tribunale, alcuni anni fa a dire "i faldoni della Corte D’Assise possiamo anche mandarli al macero, tanto per quel che servono …". Il nuovo rito ha soppiantato il vecchio e quelle carte non valgono più. Fosse andata così, avremmo perso documenti importantissimi per ricostruire la nostra storia tormentata delle ultime decadi. Invece il dottor Valloreja (a proposito di buona volontà dei singoli) ha creato un programma sperimentale che gli ha permesso di digitalizzare 1.600 faldoni, in collaborazione con la cooperativa di detenuti Cremona Lab (gli stessi che hanno già digitalizzato il troncone catanzarese del processo per Piazza Fontana) e versare le copie all’Archivio di Stato. Sono i procedimenti Sindona, Calvi, Br, Feltrinelli e Tobagi. Altri 5.575 faldoni aspettano un intervento urgente a causa dello stato di deterioramento della carta. Fra questi documenti c’è di tutto: "Ho ancora 12 scatoloni del Banco Ambrosiano - racconta il funzionario dell’archivio - ma ho trovato anche dei fogli della Commissione Parlamentare sulla P2, in bianco e con tanto di firma dell’Onorevole Tina Anselmi (bisognerà controllare se è autentica). Qualcuno avrebbe potuto prenderli, inserirli in una vecchia macchina da scrivere e mistificare a proprio tornaconto la storia". E ancora: "Facendo il censimento per la Commissione di Sorveglianza (quella addetta allo scarto, ndr) ho trovato atti riguardanti Valpreda nei faldoni del Tribunale di Potenza. Sono documenti importanti perché rappresentano l’anello di congiunzione nel processo di Catanzaro per Piazza Fontana". Ma anche un piccolo processo composto da soli 2 faldoni, in cui si assiste alla nascita ideologica delle Br al quartiere Giambellino di Milano. O un documento, sempre delle Br, di schedatura di possibili obiettivi e delle loro abitudini quotidiane meticolosamente annotate, conservato in fascicolo civile. I procedimenti contro ignoti rappresentano solitamente piccoli reati e proprio per questo vengono più facilmente scartati. Eppure alcuni di questi hanno portato alla riapertura del caso Caccia, il procuratore di Torino ucciso dalla ‘ndrangheta nel 1983. Il problema, s’infervora Valloreja, è che non solo il personale dovrebbe essere formato con dei corsi all’Archivio di Stato, ma il funzionario d’archivio stesso dovrebbe essere affiancato da un archivista di professione o da uno storico che proceda autonomamente allo studio, alla catalogazione e alla conservazione dei documenti. Occorre un’ampia cultura archivistica e storica per riuscire a trovare, contestualizzare e interpretare le carte: "Se uno guarda il faldone "Pendinelli Mauro", lo butta al macero - prosegue - Pochi conoscono quel nome. Ma dentro c’è la morte del giornalista Mauro De Mauro". Il pericolo, in mancanza di professionisti e di turn over, è quello di perdere un patrimonio di fonti per la nostra storia, e questo vale per tutti tribunali d’Italia. A un convegno che si è tenuto la settimana scorsa all’Archivio di Stato di Milano, è stata lanciata la proposta di organizzare un catasto nazionale delle fonti giudiziarie. Proposta che ha già trovato in parte il favore della Dottoressa Bianca Bellucci, del Ministero della Giustizia, che ha iniziato a sondare le corti d’appello italiane Solo che al momento ci si accontenta di risposte come quello dei Tribunale dei Minori di Venezia che ha dichiarato di non avere "processi storici" nei propri depositi. Archivisticamente parlando, la strada è ancora lunga. Alpi-Hrovatin, si torna all’anno zero. Perché fu depistaggio di Stato di Luciano Scalettari Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2016 Bene. Hashi Omar Hassan, che era stato condannato per concorso nell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, è innocente. Si è fatto oltre 17 anni di prigione per nulla e finalmente, nel processo di revisione, è stato assolto e liberato. Per lui la fine di un incubo. Ci auguriamo che chieda e ottenga un lauto risarcimento dallo Stato italiano per una condanna a cui non aveva mai creduto nessuno. Nemmeno i genitori di Ilaria Alpi. I suoi 17 anni di vita non glieli restituirà nessuno, resi ancora più amari da un iter giudiziario che andrebbe definito da farsa, se non stessimo parlando di questioni troppo serie. Ora speriamo che le motivazioni dicano chiaramente quello che va detto: che il povero Hashi è stato un capro espiatorio, premeditatamente intrappolato per tentare di dare in pasto un colpevole alla famiglia Alpi e all’opinione pubblica che chiedeva verità e giustizia. La sua assoluzione ci dice già che giustizia non è stata fatta, ma dice anche - e soprattutto - che con messa in stato d’accusa di Hashi si è voluto depistare dalla verità. Depistare, ossia spostare l’attenzione dalle piste che stavano portando alla verità sulle ragioni dell’omicidio dei due giornalisti, e occultare quindi gli indizi e gli elementi che avrebbero fatto luce sui veri esecutori e sui mandanti del duplice assassinio di Mogadiscio. Non va dimenticato, infatti, che le vicende che hanno condotto all’arresto dell’(allora) giovane somalo sono il punto di svolta, cruciale, del caso "Alpi-Hrovatin". Tutto accadde nel 1997, a soli tre anni dall’omicidio, quando i fatti erano recenti e i testimoni tutti ancora in attività e raggiungibili. In quell’anno c’era stata una grande accelerazione nelle indagini: il magistrato Giuseppe Pititto, affiancato ad Andrea De Gasperis nell’inchiesta della Procura di Roma, aveva compiuto importanti passi d’indagine, aveva effettuato interrogatori rilevanti, era arrivato a identificare quattro testimoni oculari attraverso un delicato e complesso lavoro investigativo della Digos di Udine, li stava facendo arrivare in Italia per deporre. L’inchiesta era decollata. Già, a luglio 1997 pareva che il muro di gomma si stesse squarciando. E invece… Invece l’inchiesta fu tolta a Pititto e De Gasperis da parte del Capo della Procura di Roma Salvatore Vecchione, giusto prima che potessero sentire i testimoni oculari. Mentre nelle stesse settimane veniva alla luce il cosiddetto "Diario Aloi", un scritto di un maresciallo dei carabinieri che aveva operato in Somalia e che faceva prendere nuovo vigore alle furiose polemiche sulle presunte torture commesse dai militari italiani in Somalia. Uno scandalo, guarda caso, scoppiato in quello stesso 1997, che si stava spegnendo nel nulla se non fosse stato, appunto, per il "diario Aloi". È a causa di quel sospetto testo che la commissione ministeriale istituita per indagare sulle torture decide di identificare un certo numero di testimoni somali da far venire in Italia. Nel gennaio 1998 i 12 testimoni - selezionati fra oltre 140 che, in Somalia, avevano raccontato presunti episodi di violenza - sono pronti a partire. Ai 12 viene aggiunto all’ultimo minuto Hashi Omar Hassan. Viene in Italia, parla alla Commissione, e viene arrestato. La trappola è scattata. Due testimoni lo accusano di aver fatto parte del commando che uccise Ilaria e Miran: il primo è l’autista dei giornalisti, che presenta una versione contraddittoria e imprecisa dei fatti. L’altro è un somalo, Ahmed Ali Rage detto Jelle, che presenta le sue accuse agli agenti di polizia giudiziaria di Roma e sparisce ancora prima che inizi il processo. La condanna a 26 anni di Hashi Omar Hassan, di cui 17 espiati in carcere, si basa su questo, e solo su questo: un testimone contraddittorio e un altro che non si è nemmeno presentato in aula (e le cui dichiarazioni non sono state neppure registrate dalla polizia). La sua assoluzione, oggi, Hashi la deve al fatto che Chiara Cazzaniga, giornalista di Chi l’ha visto, l’ha rintracciato e intervistato in Inghilterra. E lui, Jelle, nell’intervista, ha ammesso di aver accusato falsamente Hashi. Non solo. Confessa di averlo fatto perché pagato dalle istituzioni italiane. Speriamo che le motivazioni della sentenza ci dicano qualcosa su quali uomini delle istituzioni hanno "comprato" un testimone falso, e sul perché l’hanno fatto; che ci dicano come mai polizia e carabinieri che si sono succeduti in questi anni non sono mai riusciti a rintracciare Jelle (che ha sempre vissuto nella vicinissima Gran Bretagna), mentre una giornalista c’è la fatta; che ci dicano quale interesse aveva il nostro Paese a orchestrare un tale gigantesco depistaggio allo scopo di occultare le ragioni dell’assassinio di due giornalisti italiani in terra somala. Forse è chiedere troppo alle motivazioni di questa sentenza. Ma la risposta a queste domande va data. Dal punto di vista giudiziario, infatti, si torna all’anno zero, dopo 22 anni. Indegno, per un Paese civile. Un vero scandalo, per le sue istituzioni. Donatella Ferranti (Pd): troppe indagini sui media, poi si dimentica il processo di Liana Milella La Repubblica, 23 ottobre 2016 "Troppi processi mediatici". Ex pm, Donatella Ferranti è la presidente Pd della commissione Giustizia della Camera. Per Pisapia troppo spesso un avviso di garanzia equivale a una condanna. È così? "Purtroppo a volte succede. Anche se non bisognerebbe mai smarrire il principio che un’informazione di garanzia è a tutela dell’indagato, quindi non equivale a una condanna. A volte coincide con l’inizio di un procedimento che si può chiudere con l’archiviazione". Ma la politica non protegge sempre gli inquisiti? "Quale politica? La buona politica rispetta l’autonomia della magistratura. Però non deve trarre conclusioni affrettate". Guardi i lavori delle giunte per le autorizzazioni, non fanno di tutto per "sfangarla"? "Intanto non faccio parte della giunta della Camera, ma le decisioni prese in aula mi sembra che abbiano sempre rispettato i principi costituzionali e non si siano tirate indietro anche da decisioni "pesanti" come l’arresto". Ci sono troppe fughe di notizie sulle indagini? "Indubbiamente non si può negare che qualche problema ci sia. È un dato di fatto che le inchieste si fanno prima sui giornali e nei talk show e poi magari ci si dimentichi del processo. Bisogna trovare un giusto equilibrio tra diritto-dovere di cronaca, diritto del cittadino a essere informato, ma anche diritto dell’indagato alla segretezza dell’indagine". L’avviso di garanzia va segretato? "Sarebbe sufficiente rispettare le regole del processo e mantenere il segreto sugli atti che debbono rimanere tali proprio per dare compiutezza e serenità alle indagini e assicurare le garanzie di difesa. Un principio di fondo del codice dice che il dibattimento è pubblico, mentre per le indagini vige l’obbligo del segreto". In questi anni ha visto clamorosi casi di gogna mediatica? "Francamente non me ne ricordo. Ma spesso c’è più interesse della stampa appena si aprono le inchieste piuttosto che per il dibattimento". I giudici sono condizionati quando emettono una sentenza su cui l’opinione pubblica ha già emesso una condanna? "Non credo si corra questo pericolo. Un giudice professionale non si fa condizionare da un articolo di giornale o da una trasmissione tv, ma valuta gli elementi concreti". È giusto chiedere le dimissione di un politico dopo un avviso di garanzia? "Dipende dalla gravità del caso e da una valutazione politica dei fatti che non equivale a una processuale". Vede nella riforma del processo penale punti che lo miglioreranno in modo da accelerarne i tempi? "Ce ne sono molti, tutta la riforma vuole garantire tempi prevedibili non rinunciando alle garanzie". Intercettazioni: il ddl ne restringe la diffusione. È un bavaglio all’informazione? "Assolutamente no. Si vuole disciplinare meglio un principio che già oggi dovrebbe essere rispettato perché è nella legge: mettere nei provvedimenti, che poi sono pubblicabili, solo le telefonate che hanno un’effettiva rilevanza nell’indagine". È giusto chiedere ai pm di arrivare subito a una richiesta pena l’avocazione? "È un principio di civiltà. C’era già nel codice Vassalli. La riforma Orlando cerca di renderlo più effettivo". Edmondo Bruti Liberati: la stampa fa il suo mestiere, sulle dimissioni valutino i politici di Liana Milella La Repubblica, 23 ottobre 2016 "Ognuno faccia il proprio lavoro, la magistratura il suo, la politica il suo. Ma oggi se ne può discutere più serenamente, a patto che ci si rispetti a vicenda". Dice così l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. L’iscrizione nel registro degli indagati è l’inizio di una gogna mediatica? "È doverosa e a garanzia dello stesso indagato. Non sempre è agevole per il pm valutare subito se si tratti di notizia infondata. La presunzione di non colpevolezza vale fino alla decisione definitiva, ma a maggior ragione dev’essere valorizzata nella fase iniziale delle indagini, in cui non c’è contraddittorio con la difesa". È sbagliato chiedere a un politico di dimettersi anche in presenza di reati gravi ipotizzati? "Nella fase delle indagini preliminari possono emergere fatti e comportamenti che assumono un segno preciso in termini di responsabilità politica. La magistratura accerta i fatti e valuta se integrino un reato perseguibile. La stampa informa, anche con sollecitazione alle dimissioni, perché è ciò che si chiede al "cane da guardia" della democrazia. La decisione sta alla sensibilità e responsabilità del singolo e della politica". Non crede che sia un errore tenere riservata l’iscrizione nel registro degli indagati? "L’iscrizione deve rimanere riservata pena vanificare la stessa indagine. Ma in questa fase spetta al pm il difficile compito di farsi carico della ricerca di un equilibrio. Non da oggi nelle procure si sta attenti a non inserire nelle richieste di misure cautelari, destinate a divenire pubbliche, dati non rilevanti sulla vita privata. Esercizio non facile perché talora le vicende private sono connesse al reato su cui si indaga". Le riforme sulla giustizia di Orlando sono utili? "La prima riforma è accelerare i giudizi togliendo formalismi inutili. Servono più mezzi e personale. Si cominci con riforme a costo zero: eliminare o accorpate tribunali e corti di appello inutili. No, invece, a introdurre termini capestro. L’esperienza insegna che nei processi più delicati serve un’attenta valutazione dei dati per decidere tra richiesta di rinvio a giudizio o archiviazione. Tre mesi sono troppi nei casi semplici, ma possono essere pochi in quelli più delicati che possono poi dare luogo a decisioni difformi nei diversi gradi di giudizio". I giudici. Vede condanne clamorosamente ingiuste? "La valutazione del "ragionevole dubbio" è pur sempre rimessa alle persone umane. Per questo un secondo giudice rivede la valutazione del primo. E il secondo giudice, che assolve dopo una condanna o che condanna dopo un’assoluzione, "ha ragione" non perché abbia in tasca la verità ma perché è il secondo, cosi come la Cassazione "ha sempre ragione" perché si è deciso che le dispute debbono avere una fine alla terza casella. Invece di tifoserie e logiche di schieramento si abbia la coscienza che ciò che è essenziale è che si siano rispettate le regole del giusto processo". L’uso politico della magistratura e dei processi per faide di partito. La politica fa quadrato contro i giudici? "Alla magistratura la ricostruzione dei fatti e l’accertamento della responsabilità penale, che è personale. Alla magistratura non si può chiedere altro, ma proprio a partire dalle decisioni su singoli fatti e su singole persone si apre il compito della società civile e della politica per un’azione di risanamento". Roma: Rebibbia, bambini dimenticati in carcere... non c’è il bus, niente nido di Erica Dellapasqua Corriere della Sera, 23 ottobre 2016 Salta il servizio che avrebbe dovuto accompagnare all’asilo quattro bimbi di due anni. Lettere al ministro della Giustizia Orlando, al garante dei detenuti e al Municipio. C’era una volta un bel progetto: i bimbi di Rebibbia nei nidi fuori dal carcere, ogni giorno dal lunedì al venerdì cinque "ore d’aria", un piccolo viaggio-evasione lungo la Tiburtina accompagnati dall’associazione "A Roma Insieme-Leda Colombini", strenua sostenitrice delle mamme detenute e dei loro figli. Una conquista enorme, per chi conosce quel mondo, aprire le porte del carcere almeno ai minori, eppure anche quest’anno, ormai per il secondo anno scolastico, il problema appare più grande delle istituzioni: senza soldi, e quindi senza bando di gara, manca anche l’essenziale servizio di trasporto per i quattro bambini - appena quattro - che hanno dato la loro adesione e vorrebbero partecipare al progetto. "Comune e Municipio a Pasqua si presero l’impegno - raccontano dall’associazione - Cercavano 30 mila euro per finanziare il servizio, non abbiamo più avuto certezze". La prima lettera d’aiuto dell’associazione A Roma Insieme, dieci giorni fa, è arrivata ai garanti nazionale e regionale dei detenuti, Stefano Anastasia e Mauro Palma e, per conoscenza, anche al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Per il secondo anno consecutivo - scrive e spiega la presidente Gioia Cesarini Passarelli - non è stato attivato il servizio di trasporto dei bambini, nei cinque giorni della settimana, dal carcere agli asili nido esterni della zona Tiburtina, mentre è per noi motivo di onore rammentare che è stata a suo tempo Leda Colombini, fondatrice della nostra associazione, a vincere questa battaglia che ha permesso ai bambini di "uscire" dal carcere per frequentare una scuola. Ci piace anche ricordare che questa battaglia vinta venne riconosciuta come una conquista reale di civiltà a livello nazionale". E invece qua, a Roma, manca la navetta: "Non hanno prodotto risultati - continua la presidente - le nostre segnalazioni ed i nostri richiami alle autorità locali: la realtà è che questo servizio da oltre un anno non è attivato, omissione che non trova alcuna giustificazione e troviamo francamente inaccettabile una sorta di rimpallo di responsabilità tra vari soggetti istituzionali (ente locale, autorità penitenziaria), che non sono stati in grado di fornire una soluzione". Contestualmente, è partita anche una seconda lettera, questa rivolta alla presidente del IV Municipio Roberta Della Casa (M5S): "Il fatto che siano numericamente pochi i bambini del nido di Rebibbia, converrà, non attenua minimamente la gravità del danno per loro". Semmai un’aggravante: "reclusi" nell’asilo interno del carcere ci sono sedici bambini, di questi appunto solo quattro avrebbero bisogno di un passaggio, di un’auto, di un piccolo pullman, qualunque cosa possa accompagnarli verso la "normalità" dei loro coetanei. "Adesso, con queste lettere, abbiamo sensibilizzato tutti - conclude Gustavo Imbellone dell’associazione: speriamo si capiscano le esigenze dei bambini che già vivono in condizione di estrema fragilità". Verona: bilancio attività lavorative avviate dal Comune a favore dei detenuti veronaoggi.it, 23 ottobre 2016 Il Sindaco Tosi e l’assessore ai Servizi sociali Anna Leso hanno fatto ieri il bilancio delle attività e dei percorsi lavorativi avviati negli ultimi anni dal Comune a favore delle persone detenute. L’attività ha preso il via nel 2012 quando, grazie al contributo della Fondazione Cariverona, è nato il progetto Esodo, che ha permesso al Comune di attribuire 30 borse lavoro alla cooperativa incaricata per la vigilanza a tre monumenti simbolo della città: l’Arena, il Museo Maffeiano e la Casa di Giulietta, finalizzate all’inserimento lavorativo di soggetti in situazione di fragilità sociale ed in particolare di persone ex detenute o soggette a misure alternative alla detenzione. Grazie alla disponibilità della direzione del carcere, del personale Uepe e dei Magistrati di Sorveglianza, nel 2015 è stata siglata un’apposita convenzione tra tutti i soggetti interessati per implementare la collaborazione esistente e permettere alle persone detenute di sostenere lavori a titolo gratuito o tirocini formativi promossi dal Comune in attività di utilità sociale, retribuiti con borse lavoro (a seconda dei casi tra i 120 ed i 350 euro al mese) e finalizzati a offrire a queste persone l’opportunità di acquisire competenze lavorative certificate, spendibili quindi al termine del periodo di detenzione. Il tirocinio dura da un minimo di 2 mesi a un massimo di 6 e si conclude col rilascio di un attestato di competenza professionale. Sulla base di questo protocollo, nel 2015, da settembre a dicembre, 5 detenuti hanno portato avanti attività di selciatura delle aree pedonali del centro storico cittadino pavimentate a porfido; nel 2016 altre tre persone hanno intrapreso lo stesso percorso lavorativo. Inoltre, nella primavera del 2016 l’Uepe ha esteso le opportunità di lavoro anche a persone agli arresti domiciliari o comunque soggette a misure alternative alla detenzione. Per 5 di loro sono stati attivati stage per la manutenzione del parco dell’Adige sud, sotto la guida di un dipendente comunale che ne ha curato la formazione e ha seguito quotidianamente il lavoro e con Amia che ha fornito gli attrezzi. Salerno: "Domus Misericordiae", nasce la casa di accoglienza per detenuti e migranti di Marilia Parente salernotoday.it, 23 ottobre 2016 Il centro, fortemente voluto da Don Rosario Petrone, offre accoglienza cristiana e reinserimento sociale a detenuti soggetti a misure alternative alla pena detentiva, con particolare attenzione agli immigrati, alle persone senza fissa dimora. Praticare la solidarietà, attraverso la promozione dei valori della giustizia e dell’accoglienza: questo l’obiettivo della Domus Misericordiae, casa che offre un cammino di fede, crescita e carità per dare una nuova opportunità di vita a tutti, nonostante gli errori commessi o le difficoltà. Il centro, realizzato dalla parrocchia di Sant’Eustachio Martire in Brignano insieme all’associazione Migranti senza Frontiere (volontari carcere), offre accoglienza cristiana e reinserimento sociale a detenuti soggetti a misure alternative alla pena detentiva, con particolare attenzione agli immigrati, alle persone senza fissa dimora o in gravi condizioni di disagio. Vitto e alloggio, assistenza medica, psicologica, spirituale e legale, mediazione culturale e poi inserimento sociale e lavorativo attraverso laboratori, attività in convenzione con gli enti partners e manutenzione dei locali del centro di accoglienza: questi solo alcuni dei servizi proposti. A cura della Fondazione Migrantes, inoltre, vi saranno corsi di formazione culturali, professionali, morali e spirituali, mentre in collaborazione con la diocesi di Salerno-Caritas Diocesana non mancheranno attività di sensibilizzazione, gestione del centro di accoglienza e assistenza dei detenuti domiciliari. A patrocinare il tutto, il Ministero della Giustizia, la Diocesi e il Comune. "Nella casa ognuno potrà sperimentare la misericordia di un Padre che ama ognuno personalmente, offrendo una concreta speranza di capovolgere le situazioni di peccato a vita vera", ha osservato Don Rosario Petrone, parroco di Brignano che ha fortemente creduto nel progetto rivolto agli ultimi. L’inaugurazione della Domus Misericordiae si terrà l’8 novembre: alle 18 è prevista la messa presso la chiesa di Sant’Eustachio Martire in Brignano, celebrata dall’arcivescovo di Salerno-Campagna-Acerno, sua eccellenza Luigi Moretti, e alle 19.30, dopo una breve presentazione della casa, il taglio del nastro con tanto di buffet. Una concreta risposta, questa, all’appello di Papa Francesco nel Giubileo della Misericordia. Milano: Scrittori Dentro, i detenuti di Bollate diventano artisti della parola di Federica Colantoni 2duerighe.com, 23 ottobre 2016 Avrà luogo mercoledì 26 ottobre alle ore 15 presso il carcere di Bollate la premiazione del concorso Scrittori Dentro, patrocinato dalla Repubblica di San Marino e della Città metropolitana di Milano e organizzato da Artisti Dentro, la Onlus che dal 2014 svolge una specifica attività di rieducazione culturale per i detenuti della struttura. Artisti Dentro, fondata da Sibyl von der Schulenburg e guidata dal cuore e dalle menti dei volontari che la compongono, si prefigge lo scopo di tramutare le arti e la cultura in catalizzatori di equilibrio e stabilità mentale e sociale per coloro che hanno vacillato e le cui azioni si sono rivelate dannose. Di giudici e sentenziatori il sistema giudiziario è dovutamente pieno, ma mancano gli operatori dell’estro. E laddove i burocrati peccano, le associazioni volontarie si mettono al lavoro, affinché la creatività di cui l’essere umano è naturalmente dotato emerga anche in un luogo di punizione. Questa la mission di Artisti Dentro, che con il concorso letterario Scrittori Dentro, ormai giunto alla terza edizione, vuole "aiutare i detenuti a dispiegare la mente, attingere alla memoria e riapprendere a organizzare il pensiero in ambito spazio-temporale per trovare il modo di vivere, qui e ora, un’esistenza cosciente e dignitosa". "Vogliamo stimolare a produrre poesie - dichiarano gli organizzatori - ma, soprattutto, racconti che vadano oltre le sbarre, nella convinzione che la forma narrativa metta a disposizione dello scrittore la possibilità di inscenare la propria esistenza attraverso personaggi di fantasia, scegliendo di essere l’uno o l’altro, non forzando le scene, ma lasciando che avvengano. È un modo di traslare la propria vita nei personaggi e nell’io narrante che permette una visione degli eventi e delle emozioni da una prospettiva diversa". Racconti brevi ambientati fuori dal carcere, poesie a tema libero e lettere d’amore sono i generi accettati per la stesura dei testi che costituiranno l’antologia finale pubblicata dalla casa editrice padovana Il Prato. Artisti Dentro vuole, dunque, aiutare i detenuti a sviluppare quell’elasticità mentale che non trova spazio nella vita sistematica e organizzata di un carcere, necessaria al raggiungimento del fine rieducativo - non solo punitivo - della pena detentiva. I partecipanti si sono visti impegnati non solo nella fase creativa di stesura, ma, affiancati da un editor volontario, hanno provveduto loro stessi al processo di editing, risultando di fatto coinvolti anche nelle fasi più tecniche che il lavoro editoriale prevede. In questo senso il concorso si pone anche come un’occasione di apprendimento, in cui il lavoro di editing assume, in larga misura, il carattere di un breve corso di scrittura creativa. Terapia, svago, apprendimento dei propri limiti e superamento degli stessi sono gli obiettivi dei concorsi organizzati da Artisti Dentro, attraverso cui i detenuti hanno la possibilità di scoprire la cultura, accogliere il successo e accettare il fallimento, tutto volto al raggiungimento di un’esistenza più equilibrata. Ferrara: in carcere si gioca a calcio, "strumento di rieducazione" di Marco Pusinanti estense.com, 23 ottobre 2016 Amichevole alla casa circondariale di via Arginone. I detenuti incontrano una rappresentativa amatoriale. "Lo sport è una delle leve più sentite nell’ambiente carcerario, specie considerando il grande valore educativo che ha". Con queste parole Annalisa Gadaleta, comandante della polizia penitenziaria, aveva commentato la visita della Spal ai detenuti avvenuta il mese scorso. Su questa falsa riga continuano le iniziative volte al reinserimento sociale dei detenuti e alla valorizzazione del loro tempo all’interno del carcere. Sabato mattina, nella casa circondariale di via Arginone si è giocata una partita amichevole tra i detenuti e la squadra amatoriale "Fc La Compagnia", associazione sportiva dilettantistica affiliata al Csi con sede a Corlo. L’evento è stato fortemente voluto oltre che dalla comandante Gadaleta e dal direttore Paolo Malato, dal presidente della squadra ospite, Davide Frattini. Un personaggio noto in questa realtà per la sua generosità e vicinanza all’ambiente: da anni infatti contribuisce con donazioni periodiche di materiale per i detenuti, tra cui le divise della squadra. Lo stesso Frattini, ormai otto anni fa, ha sovvenzionato il rizzollamento del campo intramurale, rendendo possibili eventi come quello appena trascorso. Una mattinata di solidarietà e sport che si apre con l’ennesima donazione, da parte del presidente, di nuovi palloni, parastinchi e maglie. Non si fa attendere il ringraziamento dei detenuti che, nei momenti di rito prima della partita, hanno donato al loro benefattore un orologio realizzato artigianalmente nel laboratorio carcerario. Frattini ha commentato così l’evento: "Per noi è un’esperienza unica, questa partita è un segnale di vicinanza e solidarietà". Alle parole del rappresentante della squadra ospite seguono quella della comandante Gadaleta: "Le attività sportive sono la quinta essenza della rieducazione, siamo per questo molto propensi a realizzarle", a cui fanno eco i ringraziamenti del direttore Paolo Malato: "Voglio ringraziare il presidente, che vinca lo sport". La partita si svolge in un clima sereno, tra gli sguardi compiaciuti degli agenti e l’entusiasmo dei numerosi detenuti accorsi ad assistere all’evento. La squadra dei detenuti dimostra di prendere estremamente sul serio questa occasione, sfoderando una grande prestazione di squadra che ha portato ad un rotondo 7-0 finale sulla squadra ospite. Una vittoria schiacciante sul campo che passa in secondo piano se paragonata alla vittoria sul piano umano dell’evento: strette di mano ed abbracci tra le due squadre a fine partita, con i ringraziamenti dei detenuti ai giocatori che hanno reso possibile una partita con una squadra esterna dopo un lungo periodo. Non sono solo i detenuti a trarre beneficio da queste esperienze ma anche il personale della polizia penitenziaria, come evidenzia il responsabile regionale del sindacato Fsa-Cnpp Riccardo Sarti che parla di un "clima famigliare estremamente soddisfacente". La dimostrazione di come lo sport possa rieducare, veicolando valori del vivere civile come il rispetto delle regole e lo spirito di gruppo, verrà replicata il 10 novembre, quando la Bondi Basket incontrerà i detenuti. E la Gadaleta anticipa anche un importante evento in occasione del giubileo. Lo sport fa bene a tutti ma, forse, in carcere ancora di più. Palermo: i detenuti dell’Ucciardone realizzano uno sgabello per Papa Francesco siciliajournal.it, 23 ottobre 2016 Si chiama Uccio lo sgabello che verrà donato il 6 novembre, nella Sala Nervi di Roma, a Papa Francesco da una delegazione di detenuti della Casa di Reclusione "Ucciardone" di Palermo in occasione del Giubileo dei Carcerati. Frutto di un progetto educativo che nasce nel Laboratorio Artistico Artigianale del Cpia Palermo 1 - Modulo Ucciardone, diretto dal professore Vincenzo Merlo, lo sgabello è il simbolo del percorso di redenzione compiuto dai carcerati attraverso la riflessione, lo studio e il lavoro che vede impegnati tutti gli operatori della Casa di Reclusione. Un progetto che ha visto il recupero degli sgabelli dismessi e la loro decorazione artistica, con immagini iconografiche legate alle tradizioni popolari presenti nella cultura del carretto siciliano e dei dipinti su vetro degli ex voto. Dei 20 sgabelli prodotti, uno - realizzato da Giuseppe Di Natale e Salvatore Rotolo - andrà al Papa, mentre un altro (decorato con immagini iconografiche di Santa Rosalia) è stato giù donato all’Arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice. Di tutto questo, ma anche dei tanti altri bei progetti portati avanti all’interno della struttura di detenzione, si parlerà dalle 17 alle 19 di lunedì 24 ottobre a "In punta di piedi", la trasmissione sul sociale condotta su Radio Off dalla giornalista Gilda Sciortino. In studio ci saranno la dottoressa Rita Barbera, direttrice della Casa Circondariale "Ucciardone", e l’architetto Vincenzo Merlo, professore del laboratorio il cui frutto il 6 novembre andrà in dono a Papa Francesco. Sino ad allora, Uccio si potrà ammirare al Museo Diocesano di Palermo, esposto sino alla fine di ottobre nell’ambito de "Le Vie dei Tesori". La puntata di lunedì 24 ottobre si potrà ascoltare collegandosi al sito www.radiooff.info. Per interagire in diretta, chiamare al tel. 091.9778665. Napoli: "Sottozero", lo spettacolo ispirato alla storia vera di Pietro Ioia di Monica Lucignano magazinepragma.com, 23 ottobre 2016 Si intitola "Sottozero" lo spettacolo ispirato alla storia vera di Pietro Ioia, in scena dal 28 ottobre al Centro Teatro Spazio. "Sottozero" nasce da un’idea di Antonio Mocciola ed è un viaggio nell’inferno della Cella zero, moderna camera delle torture che cronologicamente non ha nulla a che spartire con gli anni oscuri del Medioevo, essendo stata approntata nel carcere di Poggioreale (Na) all’inizio degli anni Ottanta. Ha cessato di essere operativa, solo grazie all’impegno di persone come Ioia (ex detenuto e presidente dell’associazione Ex Detenuti di Poggioreale). Il personaggio principale è un ragazzo che invecchia in carcere e dopo 22 anni riesce a trovare il coraggio di puntare il dito contro quello Stato che lo ha rinchiuso in un luogo fisico per rieducarlo, fallendo l’obiettivo su tutta la linea; inutili vessazioni, ingiustificabili ingiustizie, violenze gratuite per un uomo che deve sì pagare il conto per gli errori fatti ma che non perde i diritti che, al di là di ciò che sta accadendo alla nostra Costituzione, questa garantisce anche ai reclusi in carcere. Claustrofobico, opprimente, violento "Sottozero" è un viaggio che permette di intravedere la luce in fondo al tunnel. Perché quella luce c’è. Lo spettacolo è interpretato da Ivan Boragine, Marina Billwiller, Diego Sommaripa, Ivan Improta, Simone Somma, Antonio Tatarella, Pietro Ioia e Cristina Ammendola per la regia di Vincenzo Borrelli e sarà in scena fino al 13 novembre. Libia. Franco Giorgi, da ostaggio a detenuto. Il mistero libico di Beppe Ercoli Il Resto del Carlino, 23 ottobre 2016 Il 73enne sarebbe trattenuto da un’autorità legale del Paese. Che fine ha fatto Franco Giorgi? L’ascolano è sparito un anno e mezzo fa in Libia e da agosto scorso è destinatario di un ordine di cattura a seguito delle indagini della Procura di Ascoli nell’ambito di un’inchiesta per l’ipotesi di reato di intermediazione nel traffico internazionale di armi e materiali d’armamento. Pur in assenza di notizie ufficiali di una qualche autorità libica, la magistratura ascolana ha fondati motivi per ritenere che il 73enne ascolano sia attualmente detenuto in Libia o comunque trattenuto da un’autorità "legale" del posto, anche se parlare di legalità in Libia in questo momento non è facile vista la caotica situazione politica interna. In ogni caso Giorgi non è più oggetto di un rapimento messo in atto da un’organizzazione che lo ha trattenuto a lungo in Libia contro la sua volontà perché lo accusava di non aver fornito armi nonostante fosse stato pagato. È nell’ambito di questa vicenda che l’ascolano sarebbe detenuto. Non è chiaro, però, se lo è a seguito dell’inchiesta del procuratore capo di Ascoli Michele Renzo e del sostituto Umberto Monti che hanno coordinato il lavoro investigativo dei carabinieri del Ros di Ancona. Non è infatti da escludere che invece sia trattenuto su iniziativa della stessa autorità libica, sempre per fatti legati al traffico d’armi su cui indaga la giustizia italiana. L’inchiesta della Procura di Ascoli è partita proprio dalla sparizione di Giorgi denunciata dai familiari un anno e mezzo fa circa. L’ascolano per un lungo periodo sarebbe stato trattenuto in Libia da una non meglio specificata organizzazione per aver avuto un anticipo in denaro su una fornitura di armi mai arrivata a destinazione. Le indagini, coordinate dalla magistratura ascolana, sono state portate avanti dai carabinieri del Ros di Ancona in collaborazione con la polizia slovena e con quella di Londra col coinvolgimento di altri soggetti ritenuti participi del traffico d’armi. Oltre a Franco Giorgi destinatari delle ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip di Ascoli Giuliana Filippello sono l’egiziano Gamal Saad Rezkalla Botros, i libici Ibrahim Khalifa Alarbi El Tumi e Mohamed Khalifi Alarbi El Tumi, indagati per traffico internazionale di armi in concorso. Dei quattro solo Botros si trova in Italia ad Ancarano ed è stato tratto in arresto a fine agosto. Nei giorni scorsi Botros, attualmente ai domiciliari, è stato interrogato dal pm Monti e dai carabinieri del Ros negli uffici della Procura di Ascoli. Ha riferito di non essere a conoscenza del fatto che Giorgi non aveva le autorizzazioni necessarie per trafficare in armi e di essere stato due volte con lui in Libia per prendere soldi dagli acquirenti delle armi. Al fascicolo dell’inchiesta ci sono diverse foto fatte col suo telefonino e in una si vede Giorgi che spara con un’arma a mò di prova insieme ad un soggetto libico che - secondo Botros - sarebbe un terzo fratello El Tumi, al momento estraneo all’inchiesta. Iraq. Le barbarie dell’Isis per frenare la controffensiva su Mosul di Chiara Cruciati Il Manifesto, 23 ottobre 2016 Rapimenti, esecuzioni e gas: così lo Stato Islamico "difende" la sua roccaforte. Baghdad smentisce il Pentagono: nessun accordo con la Turchia. La Russia accusa gli Usa: bombardato un funerale. "Nel nostro villaggio, Kalidiya, a sud di Mosul, abbiamo assistito a scontri pesanti tra esercito iracheno e Isis. Ci sono stati molti morti, ci siamo salvati per un soffio". Amar Saad Nadimi ha 20 anni e da tre giorni si trova al campo profughi di Dabaqa, Kurdistan iracheno. Intervistato da Middle East Eye, racconta le divisioni che ruotano intorno alla controffensiva su Mosul: con alcuni amici voleva unirsi all’esercito governativo o ad una delle milizie impegnate nell’operazione sulla città. Ma Baghdad e Erbil non li vogliono: come gli altri sunniti arrivati qui, sono stati perquisiti e interrogati per verificare che non avessero legami con l’Isis. Il clima è teso: ieri il capo kurdo della polizia di Kirkuk ha accusato sunniti rifugiati in città di aver aiutato l’Isis ad infiltrarsi e il 30% degli sfollati presenti di sostenere lo Stato Islamico. Su queste divisioni il "califfato" fonda la sua strategia militare e politica già da prima dell’occupazione di un terzo del paese nel 2014. E continua a farlo: l’assalto a Kirkuk ne è la prova. Gli scontri armati sono finiti solo all’alba di ieri, dopo oltre 24 ore e 80 morti, soprattutto membri delle forze di sicurezza. In città ne sono convinti: l’operazione, inattesa, era volta a distogliere energie e attenzione da Mosul. "In qualche modo - dicono ad al Jazeera dei comandanti peshmerga - la manovra ha avuto successo: alcune delle forze inviate a Kirkuk ieri, che siano peshmerga o iracheni, sono stati richiamati dalla linea del fronte". Lo squilibrio di forze, in ogni caso, fa preannunciare la prossima caduta di Mosul: 30mila uomini - peshmerga, miliziani sciiti, soldati iracheni - contro 3-6mila miliziani arroccati in città. Per questo, per difendere il più a lungo possibile la roccaforte irachena, lo Stato Islamico dà sfogo alle peggiori barbarie, suo macabro marchio di fabbrica. Due giorni fa l’Onu denunciava il rapimento di circa 550 famiglie da due villaggi alle porte di Mosul, portati via per fare da scudi umani al momento della guerriglia urbana: "C’è un elevato rischio che l’Isis non voglia usarli solo come scudi umani - avverte Zeid Ràad al-Hussein, alto commissario Onu ai diritti umani - ma potrebbe preferire ucciderli piuttosto che vederli liberati". Un timore che sarebbe già realtà: secondo i servizi segreti iracheni, ieri 284 uomini e ragazzi sarebbero stati giustiziati a Mosul e gettati in una fossa comune nell’ex facoltà di Agraria della città. Uomini e adolescenti, uccisi forse per il timore che potessero unirsi alla resistenza anti-Isis, come i migliaia già detenuti in campi di prigionia. E l’Isis usa anche i gas: l’avanzata di iracheni e truppe Usa è stata rallentata ieri dall’incendio appiccato dall’Isis all’impianto di zolfo di Mishraq. Due civili hanno perso la vita, in centinaia sono rimasti intossicati. Sul piano politico gli Stati Uniti tentano di mettere a tacere le tensioni regionali: il segretario della Difesa Carter ieri è arrivato a sorpresa a Baghdad. Con il premier al-Abadi ha discusso del ruolo turco, dopo aver annunciato venerdì il raggiungimento di un accordo di principio tra governo iracheno e Ankara. Ma al-Abadi smentisce il Pentagono: il premier ha ribadito l’importanza di avere buone relazioni con Ankara ma anche il no secco alla partecipazione delle truppe turche alla battaglia per Mosul. Una prospettiva che preoccupa: la politica da neo impero ottomano del presidente Erdogan punta ad un ampliamento virtuale dei confini verso zone considerate naturale prosieguo della leadership turca. Nei fatti, una longa manus che potrebbe tradursi in un controllo più o meno diretto del nord dell’Iraq. Nello specifico si vocifera che tra i piani di Erdogan ci sia la creazione di una zona cuscinetto sul modello di quella immaginata per il nord della Siria, sia per infilarci i profughi a cui l’Europa chiude le porte che per separare il proprio sud-est (a maggioranza kurda) dalla kurdo-siriana Rojava e dal montuoso nord iracheno dove opera il Pkk. E sul piano internazionale anche l’Iraq entra nello scontro tra Russia e Usa: ieri Mosca ha accusato gli Stati Uniti di aver bombardato un funerale a Daquq, sud di Kirkuk. 17 morti, dice Mosca, scambiati per islamisti. Egitto. Raid contro la sede dell’Ong del caso Regeni di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 23 ottobre 2016 Il Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà presenterà oggi, 23 ottobre, una denuncia alle autorità del Cairo dopo l’irruzione nella propria sede di quattro uomini che cercavano Mohamed Lofty, il numero due della Ong che assiste la famiglia di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano scomparso lo scorso 25 gennaio nel centro della capitale egiziana e ritrovato morto alcuni giorni dopo nella periferia della stessa con evidenti segni di torture sul corpo. La denuncia sarà presentata dall’avvocato Mohamed el Helow. Il blitz era stato compiuto venerdì mattina alle 10.30 (ora locale), e gli uffici erano stati perquisiti dai quattro, che, secondo quanto raccontato da esponenti della Ong, non hanno mostrato alcun mandato e non si sono fatti identificare dopo aver affermato di agire per contro del ministero degli Investimenti. "Crediamo che chi ha compiuto la perquisizione nei nostri uffici facesse parte di un apparato di sicurezza", ha spiegato Mohamed Hanfi, uno dei legali del Coordinamento, secondo cui l’episodio di venerdì è simile a quello che ha portato alla chiusura della Ong "Centro per i diritti umani" nel quadro di un giro di vite da parte del governo sull’organizzazione, le cui attività sono state sospese con il pretesto di ricevere denaro da paesi stranieri per destabilizzare l’Egitto. Messico. Tribunale dà ok a estradizione in Usa del narco-boss El Chapo La Repubblica, 23 ottobre 2016 Il giudice respinge un nuovo ricorso della difesa del capo del cartello di Sinaloa. Un tribunale di Città del Messico ha concesso l’estradizione negli Stati Uniti del super narco-boss Joaquin Guzman detto El Chapo, respingendo un nuovo ricorso della difesa del capo del cartello di Sinaloa. Ne danno notizia i media messicani. Guzman, ricordano i giornali, ha ancora a disposizione la pronuncia in appello per cercare di fermare l’estradizione. Il tribunale di Città del Messico ha respinto cinque ricorsi della difesa, e ora il boss del cartello di Sinaloa, già evaso due volte da carceri messicane, dispone ormai di una sola possibilità in appello per evitare di essere processato in Texas e California, i due stati americani che hanno chiesto il suo trasferimento. Guzman ha a disposizione un solo ricorso al Tribunale collegiale di protezione penale. La richiesta della giustizia statunitense è già stata approvata dal ministero degli Esteri e dalla Corte Suprema messicani e rafforzata dal via libera del magistrato federale. Ma la possibilità di ricorso in appello rende ancora incerto se "El Chapo" possa essere estradato già il prossimo gennaio o febbraio, come ha detto pochi giorni fa il commissario nazionale per la Sicurezza, Renato Sales, in un’intervista televisiva. Refugio Rodriguez, capo della squadra di dieci avvocati che rappresentano al "Chapo", aveva già definito "un’opinione personale" le dichiarazioni di Sales, sottolineando di aver ricevuto istruzioni di "opporsi fino all’ultimo momento possibile" a ogni richiesta di estradizione verso gli Usa, dove il suo cliente è imputato di omicidio, traffico di droga e riciclaggio di fondi. "El Chapo" è stato catturato nel gennaio scorso, dopo la fuga spettacolare dal carcere di El Altiplano, nei dintorni di Città del Messico, attraverso un tunnel lungo 1,5 kilometri che partiva dalla doccia della sua cella. Era già scappato un’altra volta, nel 2001, nascosto in un carrello di biancheria del carcere di Puente Grande (Jalisco). L’ex boss del cartello di Sinaloa si trova ora nel carcere di Ciudad Juarez, sulla frontiera stessa con El Paso (Texas), dove si lamenta costantemente delle condizioni in cui è detenuto, denunciando come "inumano" l’isolamento nel quale vive. Solo ieri, i suoi avvocati hanno diffuso un rapporto preparato da medici che hanno esaminato "El Chapo". "Mi ricordo cose vecchie ma non quelle più recenti, a volte non ricordo nemmeno cosa ho mangiato ieri", ha detto il superboss. Le autorità messicane hanno respinto le lamentele del "Chapo", indicando che nei 164 giorni che ha passato a Ciudad Juarez ha ricevuto 33 visite dei suoi avvocati, 35 visite di famigliari, 10 visite personali, 75 visite di medici generalisti e 4 visite di medici specialisti. Haiti. Rivolta in carcere, 170 detenuti in fuga, 2 morti Ansa, 23 ottobre 2016 Più di 170 detenuti sono fuggiti da una prigione di Arcahaie ad Haiti a circa 45 km a nord della capitale Port-au-Prince. I detenuti hanno rubato cinque fucili. Nel corso di un conflitto a fuoco, una guardia e un detenuto sono stati uccisi, due altri prigionieri sono rimasti feriti. Le autorità hanno iniziato una caccia all’uomo anche con l’aiuto delle forze di pace delle Nazioni Unite di stanza nel paese. Il governo haitiano ha reso noto che 11 detenuti sono stati finora arrestati, e posti di blocco sono stati istituiti sulle strade vicino alla prigione. Tuttavia, i detenuti a Arcahaie non indossano uniformi carcerarie, rendendo più facile per loro di confondersi con la popolazione. Turkmenistan. Grazia a 1.500 detenuti per 25esimo dell’indipendenza Askanews, 23 ottobre 2016 Il presidente del Turkmenistan ha graziato più di 1.500 detenuti in vista delle imminenti celebrazioni per il 25esimo anniversario dell’indipendenza di questa ex repubblica sovietica dell’Asia centrale: lo ha annunciato la televisione di Stato. "In occasione del 25esimo anniversario dell’indipendenza del Turkmenistan, 1.523 cittadini usciranno di prigione", ha indicato l’emittente quando l’uscita dall’Urss deve essere commemorata il 27 e 28 ottobre. Simili amnistie sono state annunciate più volte in passato nel Paese, uno dei più rigidi del mondo, in connessione con importanti festività nazionali. I detenuti per delitti legati alla droga, all’omicidio o al tradimento non possono essere graziati secondo il sistema locale. Si tratta della quarta amnistia ordinata quest’anno dal presidente Gurbanguly Berdymukhamedov, 59 anni, che guida il Paese con il pugno di ferro dal 2006 e ha appena messo mano a una riforma costituzionale che gli attribuisce più poteri. Ha convocato le prossime elezioni presidenziali per il 12 febbraio 2017.