14 punti per ridisegnare il sistema penitenziario di Teresa Valiani Redattore Sociale, 22 ottobre 2016 Misure alternative, lavoro, istruzione, affettività e reinserimento sociale tra i cardini delle priorità per il nuovo anno che segue la rotta tracciata dagli Stati generali. Meno carcere e una detenzione più vicina alla vita reale per preparare i detenuti al rientro nella società, più misure alternative e procedure di accesso semplificate per scontare la pena fuori dalle mura. Maggiori occasioni di lavoro retribuito sia all’interno che all’esterno degli istituti ma anche attività di volontariato e reinserimento sociale dei condannati. Pieno riconoscimento del diritto all’affettività e grande attenzione per i minori, le donne e gli stranieri. È concentrato in 14 punti il nucleo dell’Atto di indirizzo 2017 (il documento che definisce le priorità politiche da realizzare nel prossimo anno) del ministro della Giustizia Andrea Orlando in tema di carcere ed esecuzione della pena: uno tra gli obiettivi di intervento urgenti e "indispensabili per ricondurre il sistema giudiziario agli standard qualitativi che il Paese e la comunità internazionale si attendono". Ecco i punti che, ripercorrendo la rotta tracciata un anno fa dai lavori degli Stati generali sull’esecuzione penale (il percorso di ricerca avviato dallo stesso Guardasigilli per ripensare il sistema carcere in Italia dopo le condanne arrivate dall’Europa), potranno, secondo Orlando, "fornire preziosi contributi al dibattito parlamentare in corso". Il primo punto riguarda il trattamento rieducativo dei detenuti, che dovrà essere il più possibile individuale, e percorsi penitenziari differenziati. Il secondo, l’accesso potenziato alle misure alternative e procedure più semplici per scontare la pena all’esterno. Seguono "le attività di giustizia riparativa come momenti qualificanti del percorso di recupero sociale, sia in ambito intramurario, sia nell’esecuzione delle misure alternative, l’incremento delle opportunità di lavoro retribuito, interno ed esterno, e delle attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati". Al quinto punto c’è l’utilizzo della teleconferenza sia per i processi (con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa) che per favorire le relazioni affettive, come nel caso dei colloqui con familiari residenti all’estero. Al sesto, la sanità e la salute mentale, con la "revisione delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario alla luce del riordino della medicina penitenziaria, tenendo conto della necessità di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena". Il pieno riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e la disciplina del suo esercizio sono al settimo punto mentre il tema "stranieri", con la "previsione di norme che favoriscano l’integrazione" è al punto successivo. Seguono la necessità di adeguare l’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minorenni e la previsione di norme che garantiscano il rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, a cui sono strettamente legate una vita penitenziaria il più possibile vicina a quella esterna e la sorveglianza dinamica: il delicato meccanismo che trasforma la sorveglianza-custodia in sorveglianza-conoscenza. "La tutela del rapporto tra detenute e figli minori e la previsione di norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute" sono all’undicesimo e dodicesimo punto, mentre concludono la lista delle indicazioni "la revisione del sistema delle pene accessorie" per rimuovere gli ostacoli al reinserimento sociale ed escludere che siano di durata superiore alla pena principale, e "la revisione delle previsioni in materia di libertà di culto e dei diritti ad essa connessi". "Prima ancora che si compia il percorso legislativo così delineato - sottolinea il ministro Orlando nell’Atto di indirizzo -, gli spunti di riflessione emersi dagli Stati generali potranno trovare la massima latitudine applicativa, traducendosi in indicazioni suscettibili di immediata attuazione, nell’attività amministrativa, sotto l’aspetto organizzativo e strutturale". Per Orlando "resta, infatti, attuale ed indifferibile" assicurare ai detenuti condizioni di vita adeguate al rispetto della dignità umana, facilitando, contemporaneamente, attraverso percorsi rieducativi adeguati, "un consapevole reinserimento nel contesto sociale" che garantisca sicurezza e abbatta al minimo il tasso di recidiva. "Per il fenomeno del sovraffollamento carcerario - spiega il Guardasigilli -, si è proceduto in questi anni a un ripensamento complessivo del sistema penitenziario. Nel gennaio 2013 (mese di pubblicazione della la nota sentenza "Torreggiani e altri c. Italia"), i detenuti ristretti nelle carceri italiane erano 65.755 mentre alla data del 26 agosto 2016 risultavano essere 54.097: con una riduzione, nell’arco di circa tre anni, di oltre 11.000 unità, il bilancio non può che essere positivo". Il ruolo degli Stati generali. "Gli Stati Generali dell’esecuzione penale - sottolinea il ministro - hanno costituito la base di elaborazione preziosa per gli interventi necessari a definire il profondo cambiamento del sistema penitenziario. In quest’ottica, è centrale la questione delle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari, migliorando i meccanismi che regolano la vita nei penitenziari puntando soprattutto sulla crescita delle attività trattamentali, sulla formazione professionale, il lavoro e il mantenimento delle relazioni familiari". Come affermato nella Direttiva del maggio scorso al Capo del Dap, cita il ministro, "occorre attuare un Piano nazionale d’intervento per la prevenzione del suicidio e per il monitoraggio delle strategie adottate, attraverso la raccolta, l’elaborazione e la pubblicazione dei dati sul fenomeno e sulle esperienze condotte. Dovranno essere sviluppate opportune misure di osservazione del detenuto, differenziate a seconda della fase trattamentale e con particolare attenzione ai soggetti tossico-alcool dipendenti; essere adeguati gli spazi detentivi destinati all’accoglienza dei soggetti a rischio; essere organizzati programmi formativi specifici per tutti gli operatori, favorendo l’interazione anche con i collaboratori esterni". Ancora, "sarà necessario porre attenzione alle esigenze formative dei detenuti, soprattutto di quelli minori, per i quali il 23 maggio ho siglato il Protocollo Giustizia-Miur per l’istruzione e la formazione in carcere e nei servizi minorili. Criterio fondante di tali misure - conclude il ministro - è stato senza dubbio l’impegno a superare il vecchio modello di detenzione, mirando alla rieducazione e al reinserimento sociale, potenziando le misure alternative al carcere e riducendo la custodia cautelare, verso l’adozione di un modello in linea con le migliori prassi in ambito europeo". Strasburgo condanna la Croazia e ribadisce limiti grandezza cella. Interessa a qualcuno? Di Valentina Lombardi risorgimentoitaliano.news, 22 ottobre 2016 Il sovraffollamento in Italia. Dopo la sentenza Torreggiani del 2013 in cui si condannavano i penitenziari di Piacenza e Busto Arsizio, il numero dei detenuti torna a salire. La Corte di Strasburgo fissa spazio minimo cella multipla, titolava l’Ansa una manciata d’ore fa, nella pressoché generale indifferenza. Sommesso, infatti, l’impatto in rete del lancio d’agenzia: solo una web-radio ha scelto di dare voce alla notizia. A distanza di un giorno non si ritrovano altre tracce di condivisione degne di nota. Evidentemente, la sentenza della Corte di Strasburgo per i Diritti dell’Uomo - pronunciata contro la Croazia in materia di rispetto di standard per la detenzione carceraria e che ribadisce un’importante linea guida europea per tutti i Paesi membri - interessa poco i media italiani. Almeno tre metri quadrati per ciascun detenuto, altrimenti viene a mancare lo spazio vitale. Questo ribadisce la sentenza che ha condannato la violazione perpetuata ai danni di Kristijan Mursic, cittadino croato rimasto quasi un mese in cella troppo piccola. C’è da dire che in questi casi, i giudici europei si riservano di eccepire se la limitazione è momentanea, valutando anche fattori paralleli, come lo stato della cella, la libertà di movimento al di fuori della stanza, la possibilità di partecipazioni alle attività carcerarie. Non svegliare il can che dorme, si dice dalle nostre parti. A ben vedere, infatti, la notizia ci riguarderebbe eccome. Nel nostro Paese, tre anni fa era giunta la sentenza Torreggiani, a seguito della quale l’Europa condannò l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani. (Fonte: giurisprudenzapenale.com). In seguito, Strasburgo ci concesse un anno di tempo per l’adeguamento allo standard ritenuto idoneo. Necessità sempre ribadita a gran voce da Antigone, l’associazione che da anni si batte a favore dell’umanizzazione del sistema carcerario. Cos’è cambiato, nel frattempo? Secondo il rapporto stilato da Antigone, nel 2016 il livello di sovraffollamento dei penitenziari italiani non ha subìto flessioni, al contrario. Ha raggiunto il 108%. Un dato che non lascia certo ben sperare in termini di superficie vitale disponibile per ciascun detenuto. Parlarne sempre per non scordare mai, questo il nostro motto. Per non dimenticare la tutela dei diritti umani anche dietro le sbarre. Giustizia è fatta. Ma le condanne non sono più come una volta di Marco Bracconi La Repubblica, 22 ottobre 2016 Dall’acquisto di libri alla pulizia di strade o cimiteri. Così i giudici stabiliscono risarcimenti e pene alternative su misura a seconda del reato. "È l’evoluzione del diritto". Quanta immaginazione c’è al potere (giudiziario)? Quale spazio di discrezionalità ha il magistrato nel definire risarcimenti per le vittime, o nello stabilire che cosa deve fare il condannato per ottenere la sospensione della pena? Come le sentenze si adeguano alle complessità del presente, quando il codice lo permette? C’è una sentenza che solleva domande. L’ha emessa poche settimane fa a Roma la giudice Paola Di Nicola, al termine del processo contro uno dei clienti delle ragazze adolescenti che si prostituivano al quartiere Parioli. Due anni di reclusione, e fin qui tutto nella norma. Ma nel risarcimento ecco la novità. Al posto dei ventimila euro richiesti dalla curatrice della ragazza, costituitasi parte civile, il giudice decide per una "iniezione" di letteratura e cinema. La lettera del dispositivo recita: "Libri e film sulla storia ed il pensiero delle donne, di letteratura femminile e sugli studi di genere". Stravaganza? Oppure liquidità pop che si infiltra nelle aule giudiziarie? Nel caso di specie, la risposta è controversa. Intanto nella sentenza, che sui media è stata riassunta in modo sommario, è più volte specificato che la richiesta di 20 mila euro della parte civile era generica e senza specificità. Tra i giudici di Roma, dove questa parte del verdetto ha suscitato reazioni discordanti, si fa anche notare che risarcire la minorenne con i soldi avrebbe in qualche modo riproposto lo schema del reato. Il passaggio di denaro, appunto, chela sentenza ha voluto evitare quasi citando la richiesta di una lira fatta da Tina Lagostena Bassi durante il dibattimento narrato nel celebre documentario Processo per stupro (1979). Una analogia però solo simbolica: circostanze e reati sono diversi, così come è diverso il significato che la sentenza di Roma implicitamente assume stabilendo per la prima volta un risarcimento "culturale". La presidente della commissione Giustizia della Camera, il magistrato Donatella Ferranti, è perplessa. Molto. "Capisco la ratio che ha guidato la giudice, e posso condividere l’idea di fare della cultura una risposta a fenomeni di degrado sociale. Ma il verdetto mi sembra al limite, se non oltre. La lista di libri e film va benissimo, è anche una buona idea, ma lo sarebbe davvero se fosse stata aggiunta a un congruo risarcimento. Non sostituendola ad esso. Il passaggio di denaro? Si poteva imporre al condannato di pagare corsi e psicologi per gli anni a venire". Cerchiamo allora di disegnare un perimetro nel labirinto dei delitti e delle pene. La discrezionalità, che permette le sentenze "creative", non riguarda le cosiddette pene accessorie, che scattano automaticamente nel caso di reati specifici: se il proprietario di un bar viene condannato per aver abusato di una sua dipendente, sarà inevitabile il divieto di esercitare la professione. Ma anche dal punto di vista dei risarcimenti la monetizzazione è prassi corrente, e lo "strano" indennizzo deciso a Roma è una sorta di unicum (vedremo se diventerà un precedente, altri imputati devono affrontare un analogo processo). Le cose vanno diversamente nel caso delle sospensioni condizionali della pena. Qui la casistica della "fantasia giudiziaria" è ampia. Con effetti a volte curiosi. Alla fine degli anni Novanta, in Campania, una lite tra condomini - entrambi uomini - finì con la sospensione a condizione che il colpevole donasse un mazzo di rose all’avversario. Dono che fu inizialmente rifiutato e pose un problema mica da poco: se l’obbligo per ottenere la sospensione non viene ottemperato, infatti, scatta la detenzione. Meno singolari, sempre più diffuse, sono le sospensioni delle condanne per guida in stato di ebbrezza in cambio di pulizia di cimiteri - è successo a Voghera - oppure di strade, come è accaduto in provincia di Torino. E ancora. A Milano un deejay colpevole di truffa ha patteggiato accettando di "riparare" servendo pasti agli anziani. Recentissimo il caso romano di un uomo reo di detenzione di materiale pedopornografico la cui pena, constatato il pentimento, è stata sospesa in cambio di una donazione ad una associazione di sostegno e assistenza all’infanzia. Ma definire questa giustizia "creativa" non è del tutto pertinente. Perché, ricorda Ferranti, "si sta parlando di un’evoluzione del diritto che diversifica la pena, renderla sempre più adatta al reato". L’affollamento delle carceri non c’entra, o almeno non è il punto di partenza. C’entra invece la Costituzione. Per l’avvocato Carlo Taormina i segnali in questa direzione ci sono, ma troppo pochi. "Il principio della riabilitazione si scontra con un catalogo delle pene rimasto fermo. Servirebbe lo schema anglosassone, nel quale accertamento della responsabilità e decisione sulla pena da scontare sono due fasi diverse del processo". Al di là del risarcimento per la ragazza dei Parioli, che forse resterà un caso sui generis, comunque controverso, la pena ritagliata sulla specificità della persona e del reato è una dinamica che riavvicina al fine costituzionale della macchina della giustizia penale. Che sia piantare alberi in caso di reato ambientale o lavorare in un canile per una violenza sugli animali, sottolinea Ferranti, "questa modalità riabilita perché connette chi ha commesso il reato con le sue conseguenze, invece di lasciare che la pena sia percepita in modo astratto". Né stranezza né contrappasso dantesco, insomma. Ma una giustizia più vicina ai cittadini. Tutti. Anche quelli che hanno sbagliato. Toscani, Omar Hassan e il trionfo dei patiboli di Piero Sansonetti Il Dubbio, 22 ottobre 2016 "Non vedo il motivo per cui dovremmo farci una foto. Per quanto ne so, potresti essere un mafioso". Sono queste le parole con le quali Oliviero Toscani ha negato una fotografia a Vittorio Sibiriu, un diciottenne colpevole solo di essere calabrese. E dire che Toscani era a Vibo Valentia per una lectio magistralis della sua mostra contro il razzismo intitolata "Razza Umana". Nessuno è intervenuto in difesa di Vittorio il quale ha poi deciso di scrivere un messaggio indirizzato al famoso fotografo, colui che già nel 2007, ingaggiato proprio dalla Regione Calabria per una campagna promozionale, aveva partorito, alla modica cifra di 3,8 milioni la frase - tra le altre - "Mafiosi? Sì, siamo calabresi". Toscani stava inaugurando una mostra antirazzista, intitolata "razza umana". Il titolo della mostra è ispirato a una famosa presa di posizione di Albert Einstein, che quando gli chiesero, negli Stati Uniti, di compilare un modulo nel quale doveva dichiarare la propria razza (e si aspettavano che lui scrivesse: ebraica), scrisse: umana. Era il 1933, iniziavano le persecuzioni naziste in Germania e negli Usa galoppava il Ku Klux Klan. Per Toscani, si direbbe, dalla razza umana è esclusa la razza calabrese. Toscani, si direbbe, è un razzista. No, Toscani è un intellettuale italiano medio-alto. Semplicemente succube della cultura dominante. Imposta, in realtà, all’intera intellettualità italiana, da un pezzo abbastanza grande di magistratura e da un pezzo molto più grande di giornalismo. Quale cultura? Esattamente quella che abbiamo descritto prima: quella che dice che l’impegno civile è il sospetto, che la giustizia è la pena. Il problema, da tutti sottovalutato, è che l’intera, o quasi l’intera intellettualità italiana, ha rinunciato ad ogni pretesa di criticità, e si è adagiata ai piedi di magistrati e dei giornalisti. Guidata - dobbiamo dirlo - saldamente guidata dalla pattuglia più forte e più solida degli intellettuali italiani: gli intellettuali di sinistra. Ai quali - così credo - appartiene lo stesso Toscani. Chissà quante volte Toscani ha letto gli articoli demenziali di giornalisti giudiziari, imbeccati dalle Procure, i quali ritenevano di aver e le prove della mafiosità di un certo politico perché fotografato al matrimonio di una signora il cui zio è accusato o condannato per reati mafiosi. E chissà quante vole i nemici politici, del politico fotografato, hanno pensato di poter trarre profitto dalla scorrettezza di Procura e giornalista, e hanno chiesto le dimissioni immediate del malcapitato. Toscani ha letto quegli articoli, e ne ha dedotto che farsi fotografare con un calabrese è rischioso. O almeno è pericoloso senza una speciale concessione della Procura o dell’antimafia ufficialmente riconosciuta. Possiamo prendercela con Toscani e accusarlo di nazismo o giù di lì? No, possiamo solo pensare che è un poverino. Vediamo un secondo caso di cronaca. Di pochi giorni fa. I giornali italiani, salvo rarissime eccezioni, hanno informato giovedì scorso i propri lettori, con una buona dose di indignazione, di un "avvenuto fatto di ingiustizia": l’assoluzione del cittadino somalo Omar Hassad, che era stato accusato di avere ucciso Ilaria Alpi nel 1994. Il quotidiano "la Repubblica" titola a pagina 19 (perché in fondo non ritiene molto importante la notizia) ma con un titolo molto grande (perché in fondo vuol sollevare sdegno): "I killer di Ilaria restano senza nome". Non appare, nel titolo la parola Hassan. Il "Fatto quotidiano", avendo molte meno pagine di Repubblica, mette il titolo a pagina 9, e anche il Fatto dedica all’episodio un titolo molto grande, perché anche "Il Fatto" è indignato. Dice così il titolo: "Ilaria Alpi, tutto da rifare". Il nome di Omar Hassan è citato distrattamente nel sommario. Ora il fatto è che il povero Hassan è stato assolto e scarcerato dopo 16 anni di carcere duro. Sedici - capito? - sedici anni in isolamento al 41 bis per un ragazzo innocente, talmente innocente che persino il Pubblico ministero ha chiesto l’assoluzione e ha detto che il quadro accusatorio era "vuoto, bianco". Non c’era nulla contro di lui. I giornali italiani non sono in grado di avvertire l’ingiustizia atroce, mostruosa, verso il ragazzo somalo. Dieci casi Tortora concentrati in un solo caso. L’Himalaya dell’ingiustizia giudiziaria. Non sono in grado - i giornali italiani - perché il loro rapporto con l’idea di giustizia è quello del quale parlavamo: la giustizia è condanna, e se non condanna è fallimento. In questo caso non si può gridare contro i giudici che hanno assolto (come avviene di norma) perché stavolta è troppo clamorosa l’innocenza dell’imputato. Ci si limita a spostare in quinto piano l’ingiustizia commessa verso l’imputato, al quale è stata annientata la vita, e ci si concentra sull’ingiustizia somma che è l’assenza di un colpevole. Non c’è malafede, ne sono convinto, in questo atteggiamento, che ovviamente è la violazione lampante di ogni principio del giornalismo, o anche più genericamente dell’informazione. C’è l’affermazione di un punto di vista, che è il punto di vista - un po’ degenerato - dell’accusa. La convinzione che una società funziona perché accusa, e poi perché punisce, e che è molto più grave un colpevole che la fa franca di dieci innocenti che vengono giustiziati. È l’illuminismo messo a testa in giù: rovesciato platealmente. La vecchia idea liberale dello Stato di diritto come superamento dello stato sopraffattore viene rasa al suolo dall’idea che la modernità è il superamento dello Stato di diritto. Naturalmente perché questo avvenga non è sufficiente l’azione convinta e battente di un pezzo della magistratura o del giornalismo giudiziario. Serve la resa dell’intellettualità. La resa c’è stata. Oggi restano esili tracce di intellettualità pensante. Cioè di intellettualità. Niente più che esilissime tracce. Questo forse è il male più grande che sta rodendo e sgretolando l’etica, nel nostro paese. Non solo nel nostro paese. Paita prosciolta e Incalza assolto. Anni di calvario dicono tutto sul nostro sistema giudiziario di Annalisa Chirico Il Foglio, 22 ottobre 2016 Raffaella Paita fu accusata di omicidio e disastro colposo in piena campagna elettorale per la presidenza della regione Liguria. Ieri è stata prosciolta. Per lei nessun processo, le accuse non tengono. È il primo schiaffo di Paita, visibilmente smagrita. Ci auguriamo per lei che sia l’ultimo. C’è invece un uomo che è abituato ai déjà-vu, alle scene che si ripetono identiche a se stesse. Lui ha perso il conto della ridda di assoluzioni e proscioglimenti che ha scandito gli ultimi anni della sua vita. Parliamo di Ercole Incalza, il sedicesimo schiaffo per lui è arrivato qualche giorno fa quando un gip ha archiviato l’ennesima inchiesta, questo processo non s’ha da fare. Il "ras del ministero di Porta Pia" (copyright del Fatto quotidiano), super dirigente, già a capo della struttura di missione del ministero delle Infrastrutture, uomo macchina e di cervello che ha progettato treni ad alta velocità, autostrade, metropolitane e gallerie, incassa l’ennesimo proscioglimento. "La mia fiducia nella giustizia resta immutata - sono le prime parole di Incalza al Foglio - Ho subìto i guasti di un sistema che porta con sé gravi difetti ma che alla fine riesce, in qualche modo, ad autocorreggersi". Secondo le carte della procura, a tenere banco doveva essere il Sistema, con la S maiuscola, così fu battezzata la maxi inchiesta fiorentina che doveva disvelare ruberie e ladrocini nel girone infernale di appalti, consulenze e direzioni lavori per le Grandi opere ferroviarie e stradali. Alla fine però le accuse si ridimensionano, i capi d’imputazione cadono, diversi imputati escono dal processo, e il "sistema" alla sbarra, impossibile da assolvere, è quello con la s minuscola, è il sistema giudiziario. Il gip di Firenze Angelo Pezzuti ha archiviato diverse accuse nei confronti di Incalza, con ipotesi di corruzione, turbativa, frode in pubbliche forniture che si sciolgono come neve al sole. È la stessa procura a richiedere l’archiviazione. Come in una performance teatrale, cala il sipario sull’associazione per delinquere, figura certo suggestiva ed efficace se si voleva inchiodare Incalza nel ruolo del grande manovratore ("gli elementi emersi dalle indagini preliminari sono sufficienti a fondare l’accusa in giudizio come già rilevato nell’ordinanza cautelare emessa da questo giudice", scrive il gip). Si dissolve l’ombra della corruzione sull’affidamento delle direzioni lavori per il sotto-attraversamento di Firenze a due società riconducibili all’ingegnere Stefano Perotti. Non vi sono riscontri utili a "chiarire definitivamente il significato di alcune intercettazioni telefoniche sulla cui base è fondata l’accusa", stabilisce il giudice; le prove per ottenere il rinvio a giudizio non tengono. Eppure quegli stralci di conversazione rubati, quegli indizi carpiti qua e là e messi insieme a ogni costo furono ritenuti sufficienti, nel marzo dello scorso anno, per richiedere e autorizzare l’arresto di un signore di 72 anni. I carabinieri bussarono alle cinque del mattino alla porta dell’appartamento di Incalza nel quartiere Prati: diciannove giorni a Regina Coeli, oltre due mesi ai domiciliari. "Il mio arresto era fondato sul nulla, non aveva senso, adesso lo dice anche un giudice. Potevano e dovevano risparmiarmelo - scandisce il pluri-assolto Incalza. Tuttavia, se devo dirle, l’ultimo pronunciamento non allevia il dolore, i ceppi ai polsi rimarranno una macula indelebile nella mia vita". E dire che solo pochi mesi fa, a marzo, un altro Gup, Alessandro Moneti, aveva emesso sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Incalza e altri imputati, per non aver commesso il fatto, nel filone principale dell’inchiesta sui lavori Tav a Firenze. I presunti abusi e illeciti volti a bypassare vincoli e autorizzazioni paesaggistiche erano una fantasia inquisitoria. Va bene, ci siamo sbagliati, perché in fondo sbagliare è umano. Perseverare è diabolico. Il sedicesimo schiaffo ha uno schiocco sinistro. Il Sistema, se pure esisteva, non era fuorilegge. Il sistema invece, quello con la s minuscola, fa acqua da tutte le parti. Referendum costituzionale. Il "No" a quota 54%, il "Sì" prevale solo tra gli over 65 di Luca Comodo Corriere della Sera, 22 ottobre 2016 Sono 8 i punti che dividono il No dal Sì nel più recente sondaggio Ipsos: i contrari alla riforma costituzionale voluta dal governo Renzi sono il 54% contro un 46 di favorevoli. I giovani trainano il No (anche se il disinteresse tra loro è alto e il 49% vorrebbe astenersi) mentre il Sì prevale solo tra le persone sopra i 65 anni. La campagna referendaria sta oramai entrando nel vivo. Tuttavia gli elettori sono ancora solo parzialmente coinvolti. Il tasso di mobilitazione infatti tende a salire rispetto alla rilevazione più recente, ma si attesta al 58% circa, un dato rilevato già nello scorso luglio. L’incertezza tra il Sì e il No è oggi pari all’8%. Infine tra chi si esprime, il 22,4% si orienta sul Sì, il 26,8% si orienta per il No. Se si considera soltanto chi ha già deciso il 54% è per il No e il 46% a favore. Lo scarto non è ancora sufficiente per decretare una vittoria. Intanto per le dimensioni dell’indecisione. Poi per la presenza di una vastissima area che oggi non intende votare ma che potrebbe decidere per la partecipazione. Infine anche dal punto di vista statistico, per l’errore campionario, i risultati potrebbero essere invertiti. Tuttavia è piuttosto evidente che il dibattito finora sviluppatosi tende a premiare il No. Quando ancora non si parlava davvero del tema, agli inizi dell’anno, il Sì prevaleva nettamente (57%), in un elettorato però assai poco mobilitato. Agli inizi della campagna vera e propria, a luglio, il Sì era ancora in testa (51%), ma di un soffio, mentre l’elettorato dava segnali di mobilitazione. Ai primi di questo mese il No compiva il sorpasso (52%) ma il Sì rimaneva a un’incollatura. Oggi la distanza si amplia a favore del No (54%). All’interno dei diversi elettorati si manifestano apprezzabili differenze. Intanto dal punto di vista della propensione a partecipare. Scarsa la mobilitazione giovanile: il 49% intenderebbe al momento astenersi. Importanti le differenze per livello di scolarizzazione: se tra i laureati la propensione a partecipare è massima (33%), essa crolla ai minimi tra chi ha un titolo di studio elementare. Dal punto di vista delle professioni i più mobilitati sono i ceti elevati (68%), una buona propensione a partecipare si registra anche tra i pensionati, mentre è decisamente bassa tra le casalinghe (47%). Sembra quindi che per ora l’interesse per la consultazione sia maggiore tra i ceti medio alti, più professionalizzati e scolarizzati. È d’altronde sempre così, si tratta dei segmenti sociali normalmente più informati. È interessante osservare che l’area della sinistra e del centrosinistra è molto coinvolta e mobilitata: qui la propensione a partecipare raggiunge infatti i valori massimi, con il centro che insegue. Sembra quindi che si tratti, almeno in parte, di una partita "interna" a un’area politica. Invece dal punto di vista delle intenzioni di voto, il No è maggioritario in tutte le classi di età, tranne che negli ultrasessantacinquenni. Occorre ricordare che questa è la classe di età in cui si massimizza il voto al Pd. Fortemente per il Sì gli scolarizzati: tra i laureati infatti l’accordo con la riforma arriva al 33%. Dato che non basta naturalmente a compensare la propensione per il No dei meno scolarizzati. I laureati in Italia sono pochi. Il Sì prevale tra i pensionati e rimane maggioritario tra i ceti elevati (30%). Sono i ceti meno difesi e più colpiti dalla crisi a votare No. Operai e disoccupati si schierano infatti massicciamente contro la riforma (33 e 31%), seguiti dagli studenti. I cattolici osservanti, che vanno a messa tutte le settimane, si schierano per il Sì (e d’altronde alcune organizzazioni si sono apertamente espresse in questo senso), a differenza dei saltuari e dei non credenti. Infine, fortissime le differenze nei segmenti politici: la sinistra massicciamente orientata per il No, il centrosinistra (e il centro) orientati per il Sì. Anche in questo caso si nota che nel centrodestra permane una quota consistente di elettori intenzionata ad approvare la riforma. Questo ultimo mese sembra quindi aver favorito il No. Che è alimentato anche da un orientamento al voto contro (un segnale importante di questo atteggiamento è la recente intervista di Mario Monti), non relativo ai contenuti della riforma ma a motivazioni politiche. Insieme a questo le non rosee condizioni economiche del Paese hanno favorito il crescere di un sentimento di disagio, quando non di rabbia, che ostacola il Sì. Infine la campagna di chi sostiene la legge sembra troppo concentrata su Renzi, favorendo ancora l’idea che il referendum sia politico. I giochi però non sono fatti definitivamente. Sia per le dimensioni dell’incertezza, sia per il possibile rientro degli attuali astensionisti, sia perché la discussione sui contenuti sta cominciando diffusamente solo ora. Processo penale con lo scatto. Fotogrammi sempre utilizzabili nonostante la privacy di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 22 ottobre 2016 Secondo la Cassazione le esigenze di tutela della collettività battono la riservatezza. I fotogrammi della telecamere di videosorveglianza sono utilizzabili nel processo penale, anche se conservati oltre il termine previsto dalla normativa sulla privacy. Le esigenze di tutela della collettività prevalgono sulla tutela della riservatezza. La violazione di una disposizione prevista dal codice della privacy non pregiudica la possibilità di usare in giudizio materiale probatorio. È quanto stabilito dalla sentenza della Corte di cassazione n. 43414, depositata il 13 ottobre 2016, che ha confermato la condanna di alcuni ricettatori, intenti a prelevare da un bancomat con carte di provenienza furtiva, ripresi dall’impianto installato a presidio dello sportello. I responsabili, condannati in primo e secondo grado, hanno proposto ricorso in cassazione, sostenendo che il giudice non poteva utilizzare i fotogrammi delle telecamere a circuito chiuso, usate per il riconoscimento. Questo in quanto le immagini sarebbero state conservate otre il termine di legge. La Cassazione è stata di diversa opinione e han stabilito il principio per cui nel processo penale non è inutilizzabile il filmato del sistema di sorveglianza, anche se conservato per un tempo superiore a quello consentito dalla normativa in tema di privacy. La tutela accordata dalla legge alla riservatezza, spiega la pronuncia, non è assoluta e cede dinanzi alle esigenze di tutela della collettività e del patrimonio e, soprattutto, alle esigenze di accertamento probatorio proprie del processo penale. Tali esigenze possono essere conseguite anche attraverso le videoriprese effettuate con telecamere, anche con quelle installate all’interno dei luoghi di lavoro al fi ne di esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale. Il divieto di controllo a distanza, si legge nella pronuncia, posto dallo Statuto dei Lavoratori riguarda il diritto alla riservatezza dei lavoratori e non si estende sino ad impedire i controlli difensivi del patrimonio aziendale. Anzi, si aggiunge, sarebbe paradossale che delle tutele per il lavoratore, che si comporta bene, dovessero beneficiare soggetto malintenzionati, autori di illeciti penali (e questo vale anche se il reato, e quindi condotta diversa dalla corretta prestazione lavorativa, sia commessa da un dipendente). Ma, rileva la sentenza, è lo stesso Codice della privacy ad allargare le maglie. Il dlgs 196/2003, infatti, all’articolo 160, comma 6, prevede che la validità, l’efficacia e l’utilizzabilità di atti, documenti e provvedimenti nel procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali nella materia civile e penale. In sostanza è il codice di procedura a dettare le condizioni per la formazione della prova. Quindi anche il codice della privacy fa salva l’utilizzabilità delle riprese conservate oltre il termine previsto dal Provvedimento generale del Garante sulla videosorveglianza. D’altra parte il codice di procedura penale ha alcune norme sulla inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione della legge (articoli 190 e 191), ma si riferiscono alla violazione delle norme processuali che regolano la formazione della prova e non anche alle prove acquisite in violazione di divieti posti da disposizioni normative a tutela di altri diritti. La strada per firmare la pace tra politica e giustizia di Giuliano Pisapia La Repubblica, 22 ottobre 2016 La manovra finanziaria, gli abbracci di Obama, il libro di Icardi. Com’è ovvio che sia, le pagine dei giornali registrano i fatti, più o meno importanti dell’ultima ora e li consumano in fretta, stile fast food. Sarà perché sono un sostenitore dello slow food, mi pare che nei giorni scorsi sia stata persa un’occasione importante. Il fatto - anzi, i fatti - sono le recenti assoluzioni di Ignazio Marino e di Roberto Cota. L’occasione persa è quella di partire da quei fatti per aprire finalmente un dibattito sereno e costruttivo sui rapporti tra politica e giustizia. Invece è andato in scena il solito, logoro copione: la "Politica" da una parte, la "Giustizia" dall’altra, come in un tiro alla fune che con la giustizia e la politica non ha niente a che fare. L’occasione era buona: si tratta di sentenze di primo grado, che, se impugnate, potrebbero avere esiti diversi in appello o in Cassazione; di procedimenti penali che riguardano imputati appartenenti a partiti contrapposti; di procedimenti che non sono stati la causa delle dimissioni del Sindaco di Roma e della decadenza del Presidente della Regione Piemonte. Il che avrebbe reso più facile soffermarsi su princìpi, norme e regole che dovrebbero valere per tutti. Ma che, invece, spesso si trasformano in strumenti per attaccare l’avversario, non sulla base della realtà processuale, ma sulla base dell’appartenenza o della convenienza politica. Cerchiamo allora di mettere da parte le convenienze e di partire dai principi che devono guidare i nostri ragionamenti: la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, l’obbligatorietà dell’azione penale, la distinzione dei ruoli tra chi è "parte processuale" (Pm e avvocati) e chi ha il delicato e difficile compito di decidere sull’innocenza o la colpevolezza dell’imputato. A differenza di chi sostiene l’accusa o è impegnato nella difesa, i giudici, lo dice la nostra Costituzione, debbono essere "terzi e imparziali" e decidere per la condanna "al di là di ogni ragionevole dubbio", solo se vi sono prove certe o indizi "gravi, precisi e concordanti". Il giudice deve assolvere l’imputato non solo se "manca la prova della sua colpevolezza" ma anche se "la prova è insufficiente o contraddittoria". Pur con la prudenza che deve avere chiunque non conosca le carte processuali, si può dire che, nei due processi citati, l’accusa e la difesa hanno fatto il loro dovere: gli imputati si sono difesi nel processo, i giudici si sono dimostrati autonomi e indipendenti e non si sono fatti influenzare da niente e nessuno. Eppure, ben pochi sono stati i commenti pacati. Anzi, le opposte vicende sono state l’occasione per dare fuoco alle polveri di una guerra mai terminata. Perché? Sarà un motivo di cultura politica; sarà una logica che induce a dimenticare che le garanzie debbono valere per tutti, e non solo per gli amici; sarà perché si antepone la propaganda alla ragionevolezza; sarà per opportunismo o per convenienza, ma è ora di uscire da una situazione che certo non fa bene alla democrazia, alla giustizia e alla politica (o meglio: alla buona politica). Val la pena, allora, di soffermarsi, ancora una volta, su temi che riguardano il passato, il presente e il futuro della nostra collettività. Quando si parla di persone indagate (il discorso vale evidentemente per tutti), l’iscrizione al registro degli indagati - che dovrebbe essere riservata e coperta dal segreto e di cui, invece, il diretto interessato viene spesso a sapere dalla lettura dei giornali - per molti è già indice di futura condanna (il responsabile della fuga di notizie, al contrario, rimane quasi sempre ignoto). Tale "pregiudizio" si rafforza in presenza di un’informazione di garanzia e, ancor di più, di rinvio a giudizio. E così, la presunzione di innocenza, sancita dalle Convenzioni internazionali, si trasforma in presunzione di colpevolezza e, spesso, diventa un’arma per attaccare l’avversario. Troppi, ad eccezione dei sempre più rari garantisti non a corrente alternata, dimenticano, o fanno finta di ignorare, che l’iscrizione nel registro indagati è un obbligo di legge in presenza di un esposto, di una denuncia, di una notizia di reato, se non manifestamente infondate. Il Pubblico Ministero deve fare le opportune verifiche per poi potere, sulla base delle indagini effettuate, chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Quando sono necessari determinati atti che prevedono la presenza del difensore o di un consulente tecnico - ad esempio in caso di perizia, di perquisizioni, di interrogatori degli indagati - deve (non "può", ma deve) essere notificata l’informazione di garanzia che, lo dice la parola stessa, è posta a tutela dell’interessato e del diritto "inviolabile" di difesa (art. 24 Cost.). Il difensore può così svolgere indagini difensive, chiedere al pubblico ministero di sentire testimoni, presentare memorie. Ebbene, malgrado sia evidente che tutto ciò è finalizzato a verificare se sussiste un reato e se vi sono elementi sufficienti per una richiesta di rinvio a giudizio, iniziano, se si tratta di un politico (ma non solo) le richieste di dimissioni. Si alimentano accuse anche infamanti, si ipotizzano fatti spesso del tutto infondati. Inizia quella gogna mediatica che travolge e stravolge la vita delle persone e delle loro famiglie. Che fare per evitare, o quantomeno limitare, questa situazione? Come è possibile uscire da una perversione che danneggia la dignità delle persone e della giustizia? Come fare per evitare che vengano, con la pubblicazione di atti che non dovrebbero essere pubblici (anche a tutela delle indagini) - infangate, umiliate, distrutte, donne e uomini che, in molti casi, non sono neppure indagate o che riguardano la vita privata e che nulla hanno a che vedere con i reati ipotizzati? Il tutto aggravato dal fatto che possono passare mesi o anni prima che vi sia un rinvio a giudizio o una sentenza, prima che si sappia se quella persona è colpevole o innocente. Un primo passo sarebbe quello di tornare alla centralità del dibattimento. In passato - i meno giovani lo ricordano - l’attenzione dei media, e quindi dei cittadini, si concentrava soprattutto sulla svolgimento del processo, quando era possibile conoscere non solo le tesi dell’accusa ma anche quelle della difesa. Le indagini erano più riservate e il segreto istruttorio più rispettato. Di questo si sta occupando il Parlamento e alcuni Procuratori della Repubblica sono già intervenuti per evitare che, nelle ordinanze di custodia cautelare (ormai diffuse anche via internet), siano riportati colloqui, telefonate o fatti non processualmente rilevanti, soprattutto se riguardano la vita privata. Certo c’è il problema dei tempi lunghi dei processi, e quindi del diritto di sapere in tempi "ragionevoli" se un indagato o un imputato è colpevole o innocente, e su questo bisogna impegnarsi per una giustizia più celere e di un’informazione basata sulla realtà e non sulle ipotesi e sui sospetti. Servono più risorse, servono leggi chiare e utili, non leggi, come in passato è accaduto, che allungano i tempi della giustizia e tendono ad ostacolare l’accertamento della verità. Vi sono proposte di legge che vanno in tale direzione. Già sono stati fatti, o si stanno facendo, passi avanti con il processo telematico, con i giudizi alternativi, con la depenalizzazione (che non significa impunità ma sanzione immediata e spesso più efficace), col prevedere, ad esempio, tempi certi dal termine delle indagini alla richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio. Evitare le polemiche strumentali aiuta e rafforza la possibilità di approvare leggi ampiamente condivise. Sarebbe poi ora che, in presenza di fughe di notizie su atti riservati o coperti da segreto, si facciano i dovuti accertamenti per individuare i responsabili e si prendano gli opportuni provvedimenti, quantomeno disciplinari. Anche l’ordine dei giornalisti ha, in questi casi, un compito decisamente importante perché il diritto-dovere di informare non può trasformarsi nel diritto di non rispettare la legge o la deontologia. Infine, e questa è la maggiore responsabilità della politica, o meglio di alcuni politici, non si strumentalizzi la giustizia per conflitti interni o esterni ai partiti. Se ogni partito, in presenza di un procedimento giudiziario, si regolasse non sulla base delle convenienze ma di regole precise, previste possibilmente da uno statuto, forse non finirebbero le speculazioni ma quantomeno diminuirebbero le polemiche inutili e sterili che incrinano sempre di più la credibilità della politica. Senza dimenticare che vi sono fatti, condotte, comportamenti, che pur non avendo rilevanza penale, sono, e possono essere, altrettanto gravi (le eventuali dimissioni sono, in questi casi, più o meno opportune, e non riguardano il diritto penale ma la coscienza del singolo e della collettività). Un’ultima considerazione che riguarda la presunta, o secondo alcuni effettiva, subalternità della politica nei confronti della magistratura. Indubbiamente vi sono stati momenti in cui questo è accaduto, anche a seguito di inchieste giudiziarie che hanno fatto emergere una illegalità diffusa. Ma non bisogna generalizzare. La responsabilità penale è personale. Vi sono stati tempi in cui la magistratura era subalterna alla politica. Vi sono stati periodi in cui è avvenuto il contrario. Proprio perché politica e magistratura hanno compiti e ruoli diversi, è fondamentale, per una democrazia matura, che sia rispettata l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma è altrettanto fondamentale che si rispetti l’autonomia e l’indipendenza della politica. Il che non impedisce di criticare le sentenze o le leggi, ma senza pregiudizi e nel rispetto dei diversi ruoli. Caro Canzio, dovresti rifiutare quella legge ad personam di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016 Magistratura. Un giovane giudice di Lecco scrive al presidente della Cassazione perché rinunci alla proroga. Mercoledì, il Senato ha convertito in legge, con la fiducia, il decreto del governo per garantire la proroga di un anno al pensionando presidente della Cassazione Giovanni Canzio. Ad averne diritto solo i vertici delle "alte giurisdizioni", che non abbiano compiuto 72 anni il 31 dicembre. È stata violata la Costituzione, denunciano le toghe. Nella mailing list riservata dell’Anm l’appello "al Primo presidente della Cassazione" affinché rifiuti la proroga. Lo ha firmato un giovane giudice di Lecco. "Ho studiato su alcune tue sentenze, ti ho ammirato in alcuni convegni e spesso ho apprezzato la pillola amara delle tue scelte organizzative nel segno dell’efficienza. Ma per quanto competenza, cultura ed efficienza siano importanti, ancor più importante e fondamentale è l’indipendenza della Magistratura, che deve essere e apparire come tale a costo di perdere la sua essenza. Un tuo predecessore... disse: "Ho scelto la Magistratura Ordinaria per essere indipendente, indipendente anche da me stesso". Ora la scelta del Governo di una proroga reiterata e selettiva del pensionamento solo per pochissime cariche apicali, dotate nel tuo caso addirittura di voto al Csm, avvenuta attraverso decretazione d’urgenza, ponendo addirittura la fiducia in sede di conversione, ha l’intollerabile apparenza di un provvedimento ad personam a favore tuo e di pochi altri. So bene che nell’anno di proroga svolgeresti le funzioni fedele solo alla tua coscienza ed alla tua professionalità. Credo pure che difficilmente in quest’anno un tuo eventuale sostituto potrebbe far meglio di te. Ma non si può nemmeno escludere che chi dovesse essere nominato... sia altrettanto capace. Soprattutto non si può abdicare alle regole elementari che delimitano i poteri statuali e che attribuiscono all’autogoverno della magistratura, e non certo al Governo, le nomine e la carriera dei Magistrati. L’indipendenza della Magistratura ha natura complessa, componendosi di delicati equilibri costituzionali, precise guarentigie di status e, alla fine, scelte personali. Se le prime due componenti, in quest’epoca di delegittimazione politica e mediatica, sono gravemente a rischio, rimane l’ultimo ineliminabile baluardo. È per questo che, con l’umiltà e l’incoscienza del "giovane" magistrato, mi appello alla tua scelta di non accettare la proroga. Per l’indipendenza della Magistratura e la sua immagine". Dario Colasanti Sardegna Sdr; nuova denuncia sindacati della Polizia Penitenziaria su carenza organici Ristretti Orizzonti, 22 ottobre 2016 "Nel personale della Polizia Penitenziaria in servizio in Sardegna mancano complessivamente 661 operatori, di cui 200 sottufficiali, su una pianta organica prevista di 1.834 agenti. Una situazione che desta viva preoccupazione per la sicurezza dei ristretti oltre che per le condizioni di lavoro degli Agenti". Lo rivela, ancora una volta, una lettera-denuncia che alcune organizzazioni sindacali, primo firmatario il Sinappe, hanno inviato al Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Maurizio Veneziano, e per conoscenza al Capo del Dap Santi Consolo, lamentando l’assenza di iniziative da parte del Dipartimento per sopperire ai gravissimi disagi. "Per far fronte alle molteplici incombenze, in molti istituti - si legge tra l’altro nel documento - il personale che ha concluso il turno di lavoro rimane in servizio 3 ore in più rispetto al previsto, mentre chi inizia deve anticipare di 3 ore, il turno. Questa situazione genera nei poliziotti notevole malcontento e frustrazione in quanto non si tratta di eccezioni, ma di una regola fissa". "Nella lettera-denuncia, i sindacati richiamano l’attenzione sulle situazioni particolarmente difficili di Oristano-Massama e Tempio-Nuchis. Si tratta - osserva Caligaris - delle Case di Reclusione, destinate in modo quasi esclusivo a detenuti in regime di Alta Sicurezza, dove, a fronte di presenze di ristretti oltre il limite regolamentare, la carenza degli organici è rispettivamente di 77 e 66 unità. Benché meno critica, anche per il numero ancora contenuto di reclusi, non è ideale il numero di Agenti nelle Colonie Penali di Isili, Is Arenas e Mamone dove mancano nell’ordine 21, 22 e 48 unità. Nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, mancano 160 agenti e a Badu e Carros 63, occorre anche in questo caso ricordare la presenza di sezioni di Alta Sicurezza. Il record negativo è tuttavia di Sassari-Bancali con 189 Agenti in meno rispetto all’organico previsto". "La presa di posizione dei Sindacati Penitenziari - sottolinea la presidente di SDR - è un’ulteriore conferma della considerazione in cui viene tenuta la Sardegna a livello nazionale. È evidente infatti che le nuove strutture penitenziarie sono state costruite esclusivamente per ridurre la pressione nelle altre regioni e per dare all’isola il primato di detenuti extraregionali in regime di Alta Sicurezza e addirittura in 41bis. L’immagine che ne deriva è ancora quella di una colonia in cui riversare le problematiche più fastidiose". La nuova denuncia, con richiesta d’incontro con il Provveditore e di iniziative opportune, si aggiunge a quella avviata dalla segreteria della Uil Polizia Penitenziaria che ha calendarizzato una serie di iniziative di protesta per ottenere atti concreti. Un sit-in è in programma martedì 25 ottobre davanti alla Prefettura di Cagliari. Ivrea (To): celle senza TV ed alta tensione in carcere, sfiorata la rivolta torinoggi.it, 22 ottobre 2016 La protesta del Sindacato: "Non possiamo essere noi il terminale delle proteste, talvolta persino sconsiderate e violente, dei detenuti per effetto di idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria che poi non vengono attuate per carenze di organico. Chi difende i difensori?" Altissima tensione, venerdì scorso, nel carcere di Ivrea, dove i detenuti hanno dato vita ad una rumorosa protesta per protestare contro le condizioni di vita detentive, non ultima quella riguardante l’assenza di un apparecchio televisivo dalle celle. "La situazione è stata molto complicata per la sicurezza interna", denuncia Vicente Santilli, segretario regionale per il Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Nella serata di venerdì 14 ottobre circa una trentina di detenuti ristretti presso il reparto primo piano lato destro (Reparto a regime chiuso) della casa Circondariale di Ivrea hanno messo in opera una violenta manifestazione di protesta, divisa in due fasi. La prima fase è iniziata verso le ore 20, approfittando del fatto che da quell’ora rimane un solo operatore di Polizia Penitenziaria nel piano: hanno incominciato a sbattere gli spioncini dei blindi nonché le ante degli armadietti in dotazione alle camere detentive. Grazie al pronto intervento dell’onnipresente Assistente Capo di Polizia Penitenziaria di Sorveglianza Generale, si è sedata la prima trance di protesta. Verso le ore 21 però la protesta è ripresa con più violenza rispetto alla prima e cioè hanno iniziato a lanciare carte incendiate, cuscini fatti a pezzi, frutta, lampadine, pezzi di mobilio distrutto, bombolette di gas nel corridoio della sezione. A quel punto la Sorveglianza Generale, per poter portare alla calma la situazione e mettere in sicurezza gli operatori penitenziari presenti, ha chiesto l’ausilio di circa venti agenti e/o Assistenti accasermati (e che pagano per avere una stanza in caserma!) che intervenuti sul posto, con grande senso di responsabilità ed abnegazione sono riusciti a portare il tutto nei canoni regolari. Inoltre gli stessi detenuti hanno chiesto con insistenza un colloquio urgente con il comandante di Reparto, che nel mentre era stato avvertito dalla Sorveglianza Generale. Il comandante a sua volta è arrivato in Istituto verso le ore 21.45 circa ed ha ascoltato una delegazione di detenuti per capire le motivazioni di tale protesta. Questi ultimi lamentano un assenza totale dei "diritti" in alcuni casi quali alcune celle prive di televisori, le continue richieste di audizioni con l’autorità dirigente ed educatori a loro dire inascoltate. Tutto questo come al solito ricade sui poliziotti penitenziari che ogni giorno con spirito di sacrificio ed abnegazione affrontano situazioni esplosive createsi grazie a chi?.. Fino a quando potrà durare questo clima? L’Amministrazione quando interviene?" "Le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza", commenta infine il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Non possiamo essere noi il terminale delle proteste, talvolta persino sconsiderate e violente, dei detenuti per effetto di idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria che poi non vengono attuate per carenze di organico. Chi difende i difensori?". Parma: interrogazione parlamentare sul carcere, M5S perplesso dalle risposte di Orlando polpen.it, 22 ottobre 2016 Riportiamo il comunicato stampa della segreteria regionale del Movimento 5 Stelle di Parma: "Con una interrogazione urgente abbiamo chiesto al Ministro della giustizia di interessarsi della grave situazione che si vive all’interno del carcere di Parma - ci dice il deputato Vittorio Ferraresi del M5S - e seppur deludente l’abbiamo ottenuta. Un carcere che ha la particolarità di avere, tra l’altro, detenuti al 41 bis, condannati per Mafia, e paraplegici. Carenza cronica di personale di polizia carceraria, distacchi in altra sede incomprensibili, turni massacranti che arrivano e superano le 12 ore consecutive, come per il Nucleo Traduzioni e Piantonamenti, divise vecchie che devono essere continuamente portate in sartoria a spese degli agenti. Il Ministero ci ha risposto che alla carenza di personale ha fatto fronte, è vero, con gli straordinari, soluzione a nostro avviso inaccettabile, ma che nel prossimo futuro valuterà di inviare nuovi agenti. E sarebbe il caso. Mentre le divise sono quelle che sono: "secondo le vigenti disposizioni in materia di usura dei capi di vestiario", quindi non risponde sul punto, anche incalzato successivamente, e sul numero delle divise fatte arrivare a Parma rapportate al reale bisogno degli agenti, costretti oggi ad intervenire personalmente. Abbiamo avuto l’impegno che saranno predisposte tutte quelle strumentazioni previste dalla sorveglianza dinamica, ora assenti, necessarie a gestire l’apertura dei reparti ai detenuti, la cui mancanza oggi mette a dura prova il compito ed a rischio la sicurezza stessa degli agenti, ma crederemo a ciò solo quando vedremo dei provvedimenti concreti, visto che la vigilanza dinamica è utilizzata molte volte senza tener conto delle peculiarità di carcere e detenuti, ponendo la sicurezza a rischio. Se poi a Parma si continuano ad assegnare detenuti affetti da patologie, con la conseguenza che gli ammalati e gli invalidi anche gravi vengono messi in coabitazione con gli altri detenuti, la responsabilità non è dell’Amministrazione ma del sanitario che decide. Risposta pilatesca, come a dire non ci possiamo fare nulla arrangiatevi con quello che avete; la prossima volta invece di interrogare il Ministro interrogheremo il medico. Non ci sentiamo certo rassicurati dalle risposte ricevute, quello che è certo è che continueremo a monitorare la situazione, agli impegni devono seguire i fatti, e a intervenire ogni qual volta sarà necessario al fine di rendere la vita all’interno delle carceri migliore sia per i detenuti che per gli agenti di Polizia penitenziaria". Torino: un ristorante nel carcere curato dai detenuti, cena a 30 euro di Adriano Moraglio Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2016 "Cara, questa sera ti porto a cena fuori". "Bene, ero giusto a corto di idee. Dove andiamo?". "In carcere". "In carcere?!". Un siparietto non molto improbabile questo, da questa sera a Torino perché apre il ristorante "Liberamensa" della Casa circondariale (via Aglietta 35) per ora a menu fisso e a degustazioni (30 euro, bevande escluse) che vedrà impegnati, tutti i venerdì e sabato sera, sedici detenuti alle dipendenze della cooperativa Ecosol. Quattordici di questi sono già in attività, perché Liberamensa, marchio della cooperativa, insieme all’altro brand dedicato alla produzione di farine (Farina nel sacco), è presente nel carcere torinese con una panetteria, attività di catering esterno e gestione del bar dell’istituto. Per l’occasione Ecosol dà lavoro ad altri due detenuti. In tutto, cinque di questi sono tirocinanti, gli altri hanno contratti stabili. Nove di questi sono detenuti in regime di semilibertà. I sedici lavoratori saranno impegnati negli altri giorni nella gestione del bar a beneficio di agenti di polizia penitenziaria, al personale amministrativo, agli operatori socio-sanitari, alle cooperative sociali e ai volontari che operano nelle attività interne. C’era un clima di festa, questa mattina, all’affollata presentazione del ristorante, ultima scommessa di Ecosol che, dopo aver patito la chiusura della gestione della mensa del carcere in seguito alle decisioni ministeriali che hanno tolto gli incarichi alle cooperative, ha continuato a macinare progetti. Nonostante le difficoltà, infatti, la cooperativa, come sottolinea il vicepresidente, Piero Parente, chiuderà il 2016 con un lusinghiero bilancio, con ricavi a 900mila euro, in sostanziale tenuta sul 2015. "Abbiamo buone speranze di migliorare i risultati nel 2017", assicura Parente. Il ristorante offre al pubblico una cinquantina di posti e per la sua realizzazione ha potuto contare su due apporti finanziari e professionali fondamentali. Il primo è il contributo giunto dalla Compagnia di San Paolo: "Abbiamo destinato al progetto del ristorante 165mila euro", ha detto Paola Assom, che segue da anni per l’ente bancario le politiche di sostegno alla cosiddetta economia carceraria. L’altro apporto è quello (gratuito) che è stato offerto dallo studio di architetti di Adelaide Testa e Andrea Marcante (Uda), che attorno al progetto del ristorante del carcere hanno anche sollecitato (e ottenuto) l’impegno in donazioni e beni da parte di numerose imprese. "Siamo sul mercato con questa iniziativa che vede trasformare una parte del carcere in una zona della città stessa, aperta a tutti", ha detto il direttore della Casa circondariale, Domenico Minervini. A lui è stato chiesto se tutti, proprio tutti, potranno accedere al ristorante. "Anche chi ha la fedina penale sporca?". "Scusate, ma queste persone non vanno forse ugualmente a cena in qualsiasi ristorante della città?", ha risposto con un certo sense of humor. Non ci saranno dunque discriminazioni, anche se quanti vorranno da domani sera andare a cena in questo ristorante dovranno prenotare entro le 14 del giorno stesso e inviare i propri dati per un preventivo controllo da parte del carcere. Piero Parente ha sottolineato che dalle persone incarcerate si può ottenere il meglio dando fiducia, offrendo opportunità: "Scommettendo su di loro", ha detto, "e questo ristorante dimostra già nella fase dei preparativi che i detenuti che vi lavorano si stanno coinvolgendo con passione". "Perché gli ambienti carcerari devono essere degradati?", si è domandato Minervini. "Il ristorante è nella linea di una strategia che abbiamo adottato: cercare di curare gli interni, assicurare l’igiene, anche perché il recupero delle persone deve avvenire in ambienti dignitosi. Senza dimenticare chi vi lavora, dagli agenti al personale del carcere, che deve poter operare in un ambiente gradevole". Ecco il menu di degustazione da questa sera: battuta di fassone al coltello con leggera maionese alla senape su letto di sedano bianco; flan di zucca con fonduta al Castelmagno; agnolotti piemontesi al pesto di salvia selvatica, burro e riduzione di barbera; filetto di maialino al mirto in crosta di pistacchio e sformatino di verdure di stagione; semifreddo allo yogurt greco con coulisse di frutti di bosco. Eventuali richieste di modifiche al menù, per scelte alimentari o intolleranze, potranno essere richieste al momento della prenotazione. La bulla spopola in Rete perché la scuola non fa il suo dovere di Lorella Zanardo Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016 Il video della 16enne che picchia una 15enne: 4 milioni di clic. Nel video girato a Muravera, Sardegna, per un periodo di tempo insopportabilmente lungo una ragazzina picchia forte e senza alcuna pietà una coetanea inerme, circondate da decine di altre ragazze e ragazzi immobili. La dinamica con cui il pestaggio avviene, con la protagonista che incede fiera e sicura di sé, l’avversaria che non ha scelto la parte e che invece cammina mesta e impaurita, la folla tutt’i n to r n o che aspetta eccitata la rissa, non presenta nulla di nuovo: a queste immagini siamo abituati da sempre. Non è così che cominciano le zuffe nei saloon dei film western, che si consumano poi all’esterno con i contendenti circondati dalla folla che li incita? Uno degli elementi nuovi è però il sesso dei protagonisti: donne, meglio giovani donne che applicano schemi considerati da sempre maschili. Non che le donne non posseggano elementi di aggressività, tu tt ‘altro, ma fino ad ora le modalità con cui queste venivano espresse erano diverse, più sotterranee, meno visibili. "Nel video c’è l’aggressore, ci sono quelli che osservano, c’è la vittima che patisce e soprattutto, ed è la cosa più preoccupante, c’è la scarsa empatia di tutti coloro che assistono e neanche per un attimo aiutano la ragazza", commenta Gianfranco Oppo, componente dell’Osservatorio territoriale contro il bullismo di Nuoro e Ogliastra in un’intervista rilasciata all’Ansa. Perché nessuno reagisce? Abbiamo pensato tutti. Ci sono però nel video anche elementi nuovi di cui è urgente prendere coscienza. Uno è quello del sesso delle protagoniste, come dicevamo. L’altro, forse il più dirompente è che chi attacca si muove nello spazio come un’attrice consumata sul set: arriva, guarda la telecamera/smartphone di chi la sta riprendendo, alza le braccia e schiocca le dita per dare inizio all’azione come fossero un ciak, avanza verso l’avversaria e riguarda in camera: ogni movimento, ogni passo esprime la consapevolezza di chi sa che poi andrà in onda, di chi sa già che farà più visualizzazioni più cattiva sarà, più duro picchierà. E quelli intorno perché dovrebbero interrompere un video che farà il botto? Tra un attimo lo caricheranno e avranno migliaia di visualizzazioni sul loro profilo. Il video di Muravera ne ha raggiunte 4 milioni in poche ore, fino a quando Facebook ha deciso di rimuoverlo. E in un mondo dove se non appari non esisti, essere visti da 4 milioni di persone è "tanta roba", quasi come essere una diva. Ne "Il mondo di Patty", serie cult delle bambine di qualche tempo fa, le "divine" dettavano legge e comportamenti, le "popolari", le poveracce, si adeguavano pena l’esclusione sociale. In "Fast e Furious" le protagoniste donne si massacrano di botte così come nei video di Mma, Mixed Martial Art, che milioni di adolescenti guardano. Se questo è il mondo, e il mondo di oggi deve tenere conto anche dei media tutti, è urgente che la scuola conosca il mondo dei media che i ragazzi e le ragazze frequentano. E che frequentano tanto, se, come ci racconta il Censis nel rapporto annuale sulla Comunicazione appena pubblicato, la penetrazione di internet tra i giovani è del 95.9%, a Facebook è iscritto l’89%, lo smartphone viene utilizzato ormai dall’84%, Youtube dal 74%, WhatsApp arriva al 90%. Che i media ci influenzino non è una novità, che la scuola non insegni Educazione ai Media è una mancanza a cui va posto rimedio al più presto. Se il 17% dei giovani under 30 è collegato 24 ore al giorno (il doppio rispetto all’anno scorso) la responsabilità della scuola è quella di fornire strumenti di comprensione e di educazione all’uso e all’interpretazione delle immagini. Non serve allarmarsi a ogni episodio di bullismo istituendo task force d’emergenza. Serve un intervento educativo costante che fornisca agli insegnanti gli strumenti necessari ad affrontare la rivoluzione mediatica in corso. Migranti, c’è l’accordo sui rimpatri di Silvio Gentile Il Messaggero, 22 ottobre 2016 Immigrazione, terrorismo islamico e cyber security. E se sul tema più caldo l’Europa è paralizzata dai veti dei Paesi dell’Est, Italia, Francia e Germania sembrano pronte a unire le forze per avviare un piano di rimpatri dei migranti irregolari. Il G6 di Roma, tra i ministri dell’Interno, al quale hanno partecipato anche Spagna, Polonia e Regno Unito, oltre al commissario Dimitris Avramopoulos, sembra raggiungere intenti comuni, almeno in materia di rimpatri. Ma la polemica con la Francia, dopo le critiche sulla scarsa attenzione italiana in materia di identificazione, è troppo recente, tanto che il premier Matteo Renzi, a margine del Consiglio europeo di Bruxelles, continua ad attaccare: "Sull’immigrazione qualche parola buona c’è stata ma le parole non bastano, noi ci aspettiamo i fatti". E anche il ministro dell’Interno Angelino Alfano attende risposte concrete: "La speranza - dice - è che prevalga il buonsenso, perché sarebbe assurdo immaginare che dopo tutto quello che l’Italia ha fatto non venga ricambiata con il ricollocamento di migliaia di migranti". L’intenzione di Roma, Parigi e Berlino è chiedere un impegno "serio e massiccio" della Commissione europea e del Servizio esterno dell’Ue per incrementare da subito i rimpatri volontari e assistiti. Con i ricollocamenti praticamente fermi (solo 1.318 profughi sono stati trasferiti finora dall’Italia rispetto ai 40mila in due anni previsti dal Piano Juncker), rimandare indietro chi si trova in posizione irregolare diventa essenziale per alleggerire l’emergenza e la pressione migratoria. "Noi, insieme a Francia e Germania - ha spiegato Alfano - abbiamo deciso di diventare il motore che attiva i rimpatri dei migranti irregolari, che finora sono stati un punto molto debole dell’Europa". Di questo, come dell’altro tasto dolente, i mancati ricollocamenti, ieri ha discusso a Roma anche Avramopoulos. Se ne riparlerà novembre, al prossimo vertice dei ministri dell’Interno Ue. Per Alfano, comunque, rimane fondamentale il ruolo della commissione e di Avramopoulos: "Dà una spinta molto forte, ma a volte gli egoismi non nascono dalla Commissione, ma dagli Stati nazionali. È assurdo immaginare che dopo tutto quello che abbiamo fatto noi nel controllo delle frontiere nord, nel garantire efficienza nei foto-segnalamenti e sugli hotspot, non veniamo ricambiati secondo accordi con il ricollocamento di migliaia di migranti che era esattamente quanto previsto". Le parole d’ordine per Alfano sono "solidarietà e responsabilità". Il G6 è stato anche l’occasione per Julian King, commissario alla Sicurezza Ue, per incontrare il capo della polizia Franco Gabrielli e le altre autorità italiane deputate ai controlli sui migranti in arrivo. Tema del confronto, lo scambio di informazioni e la necessità di monitorare i migranti in arrivo per fare fronte alla minaccia e al pericolo che 2500 foreign fighters, impegnati nella jihad facciano rientro in Europa. Regno Unito: Arriva la grazia per 65mila condannati omosessuali di Simone Vazzana La Stampa, 22 ottobre 2016 Il reato è stato cancellato nel 1967. Molti sono morti. I 15 mila ancora vivi dovranno inviare una richiesta formale al Ministero dell’Interno. Alan Turing, il matematico che tradusse il codice Enigma usato dai nazisti nella seconda guerra mondiale, condannato per la sua omosessualità. Ha ricevuto il perdono reale nel 2013, 61 anni dopo il suicidio. Il Regno Unito concederà la grazia a decine di migliaia di omosessuali e bisessuali britannici. Fino al 1967, in Inghilterra e in Galles, le relazioni tra persone dello stesso sesso sono state considerate un reato. Oltre 50 mila condannati sono morti, ma riceveranno l’amnistia postuma. Quelli ancora vivi, circa 15 mila, la otterranno i nviando una richiesta formale al Ministero dell’Interno. La misura, nata in seguito a una campagna dei liberaldemocratici di qualche anno fa, è la conseguenza del "provvedimento Turing": prende il nome da Alan Turing, il famoso matematico che decifrò il codice Enigma utilizzato dai nazisti nelle loro comunicazioni durante la seconda guerra mondiale. La scoperta lo rese un eroe nazionale, ma questo non gli servì, nel 1952, a evitare la condanna per la sua relazione con un 19enne. Turing accettò la castrazione chimica pur di non andare in prigione per ventiquattro mesi. Si suicidò due anni dopo nel suo laboratorio, mangiando una mela al cianuro. La grazia è arrivata 61 anni dopo, il 24 dicembre 2013, per mano della regina Elisabetta II. Un fatto che anche il primo ministro David Cameron, oppostosi nel 2012 ala concessione postuma, ha celebrato su Twitter: "Sono felice che Alan Turing abbia ricevuto la grazia reale. Decifrando il codice Enigma giocò un ruolo fondamentale nel salvare il Paese". Da allora è montata la richiesta popolare affinché si estendesse a migliaia di omosessuali perseguiti in passato, famosi e non. La protesta si è trasformata in una vera e propria campagna che nel 2015 ha raccolto 640 mila firme, contando sull’appoggio di personaggi come il fisico Stephen Hawking e Benedict Cumberbatch, l’attore che ha interpretato Turing nel film The imitation game. Il deputato liberaldemocratico John Sharkey, il promotore dell’iniziativa, ha applaudito l’accordo che permetterà di cambiare la legge: "È un giorno importante per migliaia di famiglie in tutto il Regno Unito, che hanno fatto campagna per tantissimi anni". Il deputato John Nicolson ha chiesto che la grazia automatica si applichi anche per i condannati ancora vivi senza l’obbligo di inviare una richiesta al ministero. La sua proposta sarà discussa in parlamento, ma il Governo ha già annunciato che non l’appoggerà: "Un’amnistia totale - ha spiegato Sam Gyimah - rischierebbe di essere estesa anche a persone colpevoli di infrazioni che costituiscono effettivamente reato ancora oggi. La via che abbiamo scelto è quella più rapida e più giusta". Mentre quasi tutta la politica britannica si schiera in blocco a favore della proposta, per alcuni omosessuali l’emendamento significa poco o nulla. Come Paul Twocock, dell’organizzazione Stonewall che difende i diritti della comunità Lgbt, o come George Montague, scrittore e attivista condannato nel 1975, che alla Bbc ha dichiarato di pretendere delle scuse invece del perdono: "Accettare la grazia significa accettare di essere stato colpevole. Io non ho infranto la legge, la mia unica colpa è stata solamente vivere in un posto sbagliato nel momento sbagliato". Israele. La cortina fumogena della paura di Zvi Schuldiner Il Manifesto, 22 ottobre 2016 È probabile che quando il Nobel verrà assegnato a chi più ha attivamente usato la paura per far avanzare le sue manovre, il premio andrà al premier israeliano Netanyahu. E se dovesse essere assegnato a chi parla senza sapere di cosa parla, molti israeliani e non pochi italiani si disputeranno il titolo. Lo scandalo Unesco, la decisione tanto criticata su Gerusalemme, è un caso molto strano nel quale la maggioranza degli attori crea ad arte una raccapricciante e tragica gran cortina di fumo, che permette di non parlare delle questioni vere, del costo della guerra e del sangue da versare in una crisi che sta solo precipitando. Netanyahu e la leadership israeliana tutta, con quasi nessuna eccezione, hanno elevato un coro contro la decisione dell’Unesco che negava - secondo loro - ogni vincolo ebreo sui luoghi sacri nella Città vecchia di Gerusalemme. Una negazione che sarebbe stata fatta per pura ignoranza, imbecillità o magari per antisemitismo. Il problema è che non è questo il contenuto della risoluzione dell’Unesco. Piaccia o no la decisione mette un’altra volta sul tavolo delle discussioni parte del problema, centrato nella Moschea di Al Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani, costruito nell’anno 705. Per gli archeologi, nello stesso luogo sarebbe stato edificato il Secondo Tempio, sacro agli ebrei e distrutto durante la rivolta contro i romani nell’anno 70. Dal 1967, l’allora ministro della difesa Dayan e una gran parte dell’élite dominante - anche sotto governi di destra - evitò di convertire la vicenda in una questione di sostanza per i credenti, così che importanti rabbini proibirono la visita al Monte su cui si troverebbe il Tempio, oggi luogo sacro per i musulmani. I rabbini intesero bene i pericoli di stimolare i circoli fondamentalisti che oggi, sul Tempio, animano le campagne dell’estrema destra. Ora i politici israeliani che reagiscono infuriati vogliono accusare l’Unesco di rivelarsi come un’organizzazione quasi antisemita nel negare che gli ebrei abbiano alcun vincolo con i luoghi sacri. I giornali, in generale, giocano un ruolo assai penoso quando riflettono solo la posizione di Netanyahu e dei suoi compari. Com’è possibile, infatti, una decisione che dica o insinui che gli ebrei non abbiano un vincolo storico con questa terra o con Gerusalemme e i suoi luoghi santi? Una tale decisione sarebbe molto più deplorevole e andrebbe a vantaggio dei demagoghi e razzisti di tutti i colori. Il problema è un po’ più chiaro quando si legge la risoluzione dell’Unesco che afferma, tra le altre cose, l’importanza della città vecchia di Gerusalemme "per le tre religioni monoteiste" e deplora profondamente il rifiuto di Israele di applicare le decisioni precedenti dell’Unesco riguardo a Gerusalemme est. La decisione critica vari passi adottati da Israele e invita anche a ritornare all’accordo di status quo che avevano firmato i governi di Israele e Giordania nel passato. Documento che permetteva le visite di ebrei e turisti in generale è considerato positivo ancora oggi dai circoli diplomatici israeliani. Anche uno dei partecipanti alle discussioni di allora ha invitato, su Haaretz la settimana scorsa, a rifarsi a questo documento. Già da un anno i fatti di sangue in Israele e specialmente a Gerusalemme si sono aggravati nel segno della "Terza Intifada". La ragione è semplice: la realtà musulmana ha visto nei passi israeliani adottati nell’ultimo anno e nelle provocazioni senza fine della destra fondamentalista, una minaccia reale alla Moschea di Al Aqsa. Forse ad occhi israeliani o europei questo non è importante, ma il moltiplicarsi di passi che accelerano la presenza di circoli israeliani "pro Tempio" che pure violano la proibizione (stabilita negli accordi precedenti) di pregare nella spianata di Aqsa, sicuramente alimenta ogni posssibile teoria, certa o meno, che il pericolo per l’integrità della Moschea sia imminente. Il governo israeliano si accontenta di dichiarazioni occasionali in cui dice che non desidera cambiare lo status quo perché teme che questo convertirebbe il conflitto in una guerra infernale con tutto il mondo musulmano. Però allo stesso tempo non frena le aggressioni e le provocazioni dei circoli fondamentalisti. E questi vengono accontentati con decisioni che, al contrario, limitano l’arrivo di credenti musulmani sul luogo. Sarebbe conveniente che l’Europa e gli Usa (se non fossero presi da calcoli elettorali), si svegliassero: Netanyahu e i suoi compari ci stanno portando a un conflitto religioso. Un conflitto politico si può risolvere, uno religioso no. Il problema oggi non è l’Unesco e le decisioni europee ma l’apatia internazionale di fronte all’aggravarsi dell’occupazione; il consolidarsi di nuovi insediamenti che sono un ostacolo alla pace. Quattro milioni di esseri umani sprovvisti dei più elementari diritti non sono ascoltati dai politici irresponsabili che non si preoccupano neanche di leggere le dichiarazioni dell’Unesco e ancor meno capiscono che la lotta per una pace vera è urgente e necessaria. Stati Uniti. I diari di Deborah uccisa dagli agenti. "La mia vita con la schizofrenia" di Michele Farina Corriere della Sera, 22 ottobre 2016 Gli scritti di Deborah Danner, 66 anni, del Bronx. Martedì scorso un sergente della polizia le ha sparato mentre era in preda a una crisi di schizofrenia. Eppure lei, per 36 anni, ce l’aveva fatta. "Sorrido di rado, ma sopravvivo". Fino all’altra sera, fino a quel poliziotto che le ha sparato due colpi di pistola nel petto, mentre era in camera da letto in preda a una crisi di schizofrenia, in una palazzina del Bronx: una signora afro-americana mezza svestita, con una mazza da baseball alzata verso la squadra di "intrusi" in divisa, chiamati dai vicini per certi suoi non meglio specificati "comportamenti irrazionali". Fino a quel momento, Deborah Danner "la bestia" l’aveva in qualche modo tenuta a bada. Cadendo e rialzandosi, "perché non sono una persona debole". Nei suoi scritti del 2012, pubblicati ieri dal New York Times, chiama così la malattia: the beast. "Anche le persone più intelligenti del mondo non potrebbero restare nel regno della normalità, quando sale quella scimmia sulla spalla". "Mi licenziano" - Eppure lei ci aveva passato quasi metà della vita, era arrivata a 66 anni, quasi sempre da sola, sostenuta dalla chiesa locale, guardata con sospetto dai familiari ("Non mi chiamano, non mi invitano, non mi vengono a trovare") lavorando nel settore informatico "perché nel mio campo sono molto brava", cambiando spesso posto perché "quando scoprono che ho un problema mi licenziano". Aveva studiato a lungo la bestia. Ci aveva scritto dei saggi. "La sua natura porta in certi momenti a una completa perdita del controllo: sulle tue emozioni, le tue azioni, sull’istinto, la consapevolezza". Poteva diventare "un incubo", la schizofrenia, anche se per Deborah Danner doveva essere considerata "semplicemente una malattia". E invece il mondo intorno non la pensava così. Era questo, per lei, il problema più grave. Lo stigma. La diffidenza degli altri, il pregiudizio, l’ignoranza, e dunque l’emarginazione. L’isolamento che si aggiungeva alla paura di stare male. Scrive in quelle sei pagine intitolate "Vivere con la schizofrenia": "Sei in un perenne stato di allerta. Esaminarsi sfianca emotivamente. E se i farmaci non funzionano? Me ne accorgerò? Quando? Dove? Sarò abbastanza presente da capirlo? Qualcuno se ne accorgerà? Nessuno se n’era accorto, la prima volta che ho cominciato a stare male, quando avevo 30 anni". Neanche l’ultima volta se ne sono accorti, o hanno fatto finta di non sapere. "Abbiamo fallito" - Il capo della polizia del Bronx ha dichiarato che erano già stati chiamati in diverse circostanze per la signora Danner. L’uomo che ha sparato, il sergente Hugh Barry, otto anni di esperienza, è sotto indagine. Gli hanno tolto la pistola, per il momento lavorerà in ufficio. Il comandante del Dipartimento, James O’Neill, ha già detto in conferenza stampa: "Abbiamo fallito". Il sindaco di New York, Bill de Blasio, ha accusato il sergente Barry di non aver seguito i protocolli sul trattamento delle persone affette da una malattia mentale: non ha bloccato Deborah con le scariche elettriche della pistola Taser, non ha aspettato l’arrivo di personale specializzato. Fuori dal palazzo del Bronx, e sulle vie di Twitter, infuriano le proteste sull’ennesima persona nera uccisa da un agente bianco in America. Eppure nel suo racconto in prima persona, Deborah Danner non parla mai di bianchi e neri. Quando parla di emarginazione, parla di tutti, anche di noi. Parla dello stigma che ci induce a pensare "che le persone con demenza non siano più persone". Non accusa. Descrive, con la stessa spassionata lucidità con cui spiega i morsi improvvisi e lo strascico di flashback e allucinazioni che porta con sé la bestia della schizofrenia. "D’improvviso ti assale..." - "Magari stai facendo qualcosa di normale, come lavare i piatti, o leggere un libro, e d’improvviso ti assale il ricordo di quella volta che giravi per le strade di New York all’alba, con un coltello in mano, cercando un posto dove suicidarti". Eppure non l’aveva mai fatto. Eppure non si piangeva addosso, ma pensava a chi stava peggio di lei: "I malati mentali che non hanno accesso alle cure perché magari sono in carcere, o sono in giro senza casa". Quattro anni fa, Deborah Danner denunciava i casi di persone malate "che finiscono ammazzate dalla polizia, perché gli agenti non sanno come comportarsi durante una crisi". Si dilaniava l’anima, temendo di non accorgersi di essere sul punto di perdere il controllo, di fare del male agli altri. Quando ha premuto il suo grilletto, se ne sarà accorto il sergente che l’ha uccisa? Pakistan. Le "Torri gemelle" degli avvocati di giulia merlo Il Dubbio, 22 ottobre 2016 In 10 anni oltre 3.500 uccisioni, "perché difendevano i diritti civili". "Gli avvocati pakistani lottano per la democrazia e la Costituzione, per questo sono un target per i terroristi", a dirlo senza mezzi termini è Abdul Fayaz, il presidente della Pakistan Bar Association. L’avvocato è intervenuto insieme al collega Bashir Kahn, avvocato presso la Peshawar High court e la Federal Sharai court, al convegno "Libertà... è una parola", organizzato dalla Commissione Diritti Umani del Consiglio Nazionale Forense. "Essere avvocati in Pakistan significa rischiare la vita ogni giorno, come è successo ai nostri colleghi nel terribile attacco terroristico di Quetta dell’8 agosto, durante il quale un kamikaze si è fatto esplodere in un ospedale uccidendo oltre 60 persone tra avvocati e giornalisti", ha raccontato Fayaz. Un attentato, quello rivendicato dall’Isis a Quetta, che ha evidenziato il clima di lotta nel Paese: nell’ospedale, infatti, era appena stato portato un noto avvocato ferito a morte in un agguato, e dopo il kamikaze ha fatto strage dei suoi colleghi, aspettando che arrivassero lì per chiedere notizie. "Quella dei nostri colleghi pakistani è una testimonianza dura da ascoltare, a partire dai numeri: 3500 avvocati sono stati uccisi in 10 anni nel loro paese. Ci insegnano che cosa significa fare gli avvocati, anche a costo della propria vita", ha ricordato Francesco Caia, coordinatore della Commissione diritti umani del Cnf. "Il nostro paese ha una Costituzione, ma nella vita di tutti i giorni la garanzia dei diritti è molto difficile. Penso soprattutto ai diritti delle donne, che lo Stato non è in grado di proteggere da abusi, attacchi con l’acido e dalla terribile pratica dell’omicidio d’onore", ha spiegato l’avvocato, secondo il quale sono ancora centinaia i delitti d’onore commessi nel paese, in cui gli assassini sono padri, fratelli e mariti. "Le leggi ci sono, ma è difficilissimo applicarle". Allo stesso modo, anche il diritto ad un giusto processo è in molti casi violato: "quando qualcuno viene arrestato, in Pakistan, la polizia non rispetta i diritti civili e spesso ricorre a torture e violenze". L’avvocato Kahn ha portato anche una sua diretta testimonianza: "due anni fa gli agenti di sicurezza hanno fatto irruzione a casa mia e sono riuscito a fuggire prima che mi arrestassero. Era un periodo di grande tensione politica: il ministro per la Giustizia era appena stato rimosso dall’incarico e noi avvocati ci battevamo perché la democrazia venisse rispettata e lui tornasse al suo posto". All’evento ha preso parte anche Carlo Parisi, segretario della Federazione Nazionale Stampa Italiana e i due ospiti pakistani hanno raccontato anche le precarie condizioni dei giornalisti che lavorano nel paese: "la libertà di stampa è garantita, ma spesso i media si autocensurano sui fatti che riguardano il governo e gli attentati terroristici, per evitare ritorsioni". Proprio a questo proposito, il presidente del Cnf Andrea Mascherin ha sottolineato come "la libertà di stampa e il diritto alla difesa, e quindi giornalisti e avvocati, sono i primi professionisti ad essere attaccati nelle situazioni di conflitto, perché ridurli al silenzio significa uccidere la libertà". A testimoniare la vicinanza ai colleghi pakistani da parte dei consigli nazionali degli ordini degli avvocati, all’evento sono intervenuti anche Richard Sédillot, del Consiglio nazionale degli avvocati francese; Jacques Bouyssou, segretario dell’ordine degli avvocati di Parigi e Maria Eugenia Gay Rosell, del Consiglio nazionale dell’avvocatura spagnola. Ucraina. La frontiera contesa di Roberto Travan La Stampa, 22 ottobre 2016 Reportage dal Donbass in guerra contro l’occupazione filorussa. "É possibile sconfiggere un esercito, non un popolo. Per questo motivo la Russia non potrà mai batterci". Armen è certo che l’Ucraina si riprenderà Donetsk e Lugansk, città conquistate due anni fa dai separatisti filorussi. E forse anche la Crimea occupata dagli indipendentisti con l’appoggio militare di Mosca. Perché la Guerra del Donbass - fino ad ora costata diecimila morti e quasi due milioni di sfollati - non è finita, ma continua - silenziosa e ignorata - a mietere vittime, da una parte e dall’altra. Il conflitto è scoppiato all’indomani dalla rivoluzione che a Kiev spodestò nel 2014 il premier Viktor Yanukovich, accusato di essere troppo vicino a Putin e lontano dal sogno europeo degli ucraini. Nella rivolta un centinaio di manifestanti venne ucciso dai cecchini, ma alla fine vinse Maidan - la piazza -, la voglia di avvicinarsi all’Europa e prendere il largo dalla Russia. Armen non è un volontario. "Sono un patriota" afferma, anche se le origini della sua famiglia sono armene. Con il figlio raccoglie aiuti da inviare nel Donbass. Il suo magazzino, a Yahotyn, centocinquanta chilometri a est da Kiev, è una tappa obbligata per i convogli diretti al fronte. "In media ne passano centoventi al mese" spiega. Partono dalla capitale carichi fino all’inverosimile. "Portiamo viveri, medicinali, vestiario" racconta Natalia Prilutskaya, due figli, il cognato caduto in combattimento all’inizio del conflitto. Gli aiuti arrivano da tutto il mondo grazie alla catena di solidarietà che parte dal Canada e attraversa la Germania, la Spagna, la Francia. Anche l’Italia, dove vive una numerosa comunità di ucraini. "Questa volta abbiamo raccolto confezioni di antidolorifici e coperte per l’inverno" spiega il torinese Mauro Voerzio, responsabile dell’edizione italiana di Stopfake.org, sito Internet che si occupa di smascherare la propaganda russa contro l’Ucraina. I pacchi giungono a Kiev alla spicciolata, vengono smistati dai volontari sulle "maršrutke", furgoncini che percorreranno quasi mille chilometri per giungere a destinazione. In prima linea c’è bisogno di qualsiasi cosa. Yuri Moskalenko sul suo Volkswagen ha caricato barattoli di "salo" (grasso di maiale salato molto nutriente, buono, dicono, anche per ingrassare i cingoli) e casse piene di silenziatori per kalashnikov. Li ha fabbricati nella sua piccola officina: "Sono pezzi di precisione: attutiscono il rumore e riducono la fiammata dei mitragliatori". Al suo fianco, a dargli il cambio alla guida, c’è Yulia Zubrova con la sua inseparabile chitarra. Yulia ha scritto canti patriottici che intona ovunque: nelle trincee fangose, negli scantinati trasformati in rifugi, negli ospedali tra i feriti, strappando applausi e buon umore. Il convoglio viaggia ininterrottamente per undici ore. Poi compaiono i posti di blocco che segnano l’ingresso nella zona Ato, il Donbass tenuto sotto scacco dai terroristi. I mezzi rallentano, si aprono i finestrini: "Slava Ucraina!", "Gloria all’Ucraina!" scandiscono gli autisti. Le canne dei mitra si abbassano, sui visi dei soldati sfatti dalla stanchezza compare un sorriso. "Gheroyam slava!": "Gloria agli eroi!" rispondono facendo cenno di proseguire. Si riparte veloci schivando le buche delle esplosioni, carcasse d’auto arrugginite, le schegge taglienti degli shrapnel abbandonate sull’asfalto. Si teme di finire fuori strada, sulle mine disseminate nei campi abbandonati che si perdono all’orizzonte. A Lughanska cibo e medicine sono distribuiti al 93° battaglione. I soldati vivono nell’interno, buio e annerito, di un capannone sventrato da un razzo Grad. Usano specchi per non farsi sorprendere alle spalle. Sulle alture vicine a Stachanov, di fronte a Debaltseve - città strappata lo scorso anno agli ucraini nella battaglia che costò la vita a quasi duemila uomini - gli aiuti vengono trasbordati su un cingolato. Il mezzo attraversa villaggi abbandonati, le case trasformate in ricoveri per riprendersi dalla fatica della prima linea. C’è fango ovunque, anche nei bivacchi appena intiepiditi dalle stufe. I militari consolidano le posizioni, scavano nuove trincee, spaccano legna perché la neve, il freddo e i nemici premono, sono alle porte. Bastion è l’ultimo caposaldo ucraino sull’autostrada alle porte di Donetsk. Si dorme in mezzo ai topi e all’umidità nei rifugi scavati tra i resti di un cavalcavia sbrecciato dalle esplosioni. L’aeroporto, distante poche centinaia di metri, di notte è rischiarato dalle fotoelettriche e dal bagliore intermittente dell’artiglieria: i colpi rimbombano fino all’alba, il paesaggio è surreale. La guerra alla periferia di Donetsk va avanti ininterrottamente da oltre due anni. A nulla sono valsi gli accordi di Minsk per il cessate il fuoco, perché i mortai non hanno mai cessato di sparare. Lo confermano gli osservatori Osce quotidianamente impegnati a contare esplosioni, intuire calibri, registrare morti e feriti. Una contabilità per difetto, ovviamente, perché difficile da completare. A Shakta Butovka il conflitto si respira tra le lamiere contorte e arrugginite della centrale elettrica: è odore acre di plastica bruciata e nafta quello che ristagna tra le macerie. I soldati vivono incollati alle pareti in cemento ancora in piedi, come cimici in cerca di salvezza. Qui combatte Igor, giovane volontario che ha lasciato la famiglia a San Pietroburgo per arruolarsi con Kiev. "La Russia ha aggredito un Paese fratello: non avevo altra scelta, mi sono schierato al fianco dell’Ucraina" spiega. Non è l’unico russo ad aver fatto questo passo. "Siamo in molti: la guerra sarà lunga - aggiunge - perché è stato un errore accordarsi con i terroristi". C’è anche Vidadi Israfilov. Lui però è azero e, ironia della sorte, ringrazia gli aiuti ricevuti da Armen, patriota originario dell’Armenia, nazione da venticinque anni in guerra con l’Azerbaigian per il possesso del Nagorno-Karabakh. "Tra noi non esiste alcuna differenza di partito, ideologia o credo religioso - sostiene Marina Danilova, animatrice del gruppo "Pomaigitie Armja", "Aiutiamo l’esercito" - perché tutti difendiamo il nostro Paese, fianco a fianco, uniti, senza alcuna distinzione, militari e civili. Ognuno dà quello che può: questo è lo spirito di Maidan". I filorussi continuano ad accusare l’Ucraina di essere nazista. E puntano il dito contro i battaglioni Azov e Pravj Sektor, che usano simboli simili alla svastica germanica e simpatizzano apertamente per l’estrema destra. Come molti separatisti, del resto, e tra loro anche alcuni mercenari italiani. Ad Avdiivka, i colpi di artiglieria hanno sventrato alcuni palazzi in periferia. I calibri dei separatisti hanno però risparmiato il complesso industriale nella parte occidentale della città. Nessun errore, nessun miracolo: appartiene a un oligarca che vive nella Repubblica di Donetsk. La scuola numero Sette, invece, è oltre l’ultimo checkpoint della cittadina. C’è il sole, ma le aule esposte ad Est, verso il fronte, sono buie perché alle finestre sono state inchiodate spesse assi di legno e sui davanzali sono stati appoggiati sacchi di sabbia. Proteggono allievi e insegnanti dai combattimenti che infuriano a poche centinaia di metri, in pieno giorno. "Non è facile ma è doveroso riconquistare un po’ di normalità" sostiene Kostyantyn Byalik. C’è voglia, insomma, di scrollarsi di dosso una guerra che ha fiaccato gli animi, corroso le speranze, messo in ginocchio l’economia. La sua città, Slovyansk, un anno fa era cupa come il ricordo - e i lutti - dei tre mesi di occupazione filorussa. Oggi nella piazza principale non troneggia più la gigantesca statua brunita di Lenin: è stata abbattuta per celebrare la riconquista della cittadina. Sventolano, ovunque, le bandiere giallo-blu dell’Ucraina, e nuovi locali ravvivano il centro. Sopravvivono, invece, le lunghe code ai bancomat che distribuiscono al massimo l’equivalente di quindici euro al giorno e restano a secco già a mezzogiorno: perché l’inflazione continua a correre, chi può fa incetta di contanti. Il clima è diverso a Kurakhove, città ammorbata dalla centrale a carbone che nonostante il conflitto, continua indisturbata ad inquinare e fornire luce ai ribelli di Donetsk. Nelle vie non sventolano bandiere patriottiche: "I rapporti tra ucraini e russofoni sono difficili, le provocazioni continue" spiega Dmitry Katsapov. Ma gli affari vanno bene, qui passa il corridoio verso l’enclave occupata. Sono centinaia i filorussi che ogni giorno cercano di raggiungere Kurakhove. Perché nonostante gli aiuti inviati da Mosca, nei territori occupati manca tutto, la popolazione è costretta ad approvvigionarsi in Ucraina. Hanno ventiquattro ore a disposizione, spesso si accampano vicino ai posti di controllo per guadagnare tempo, i più fortunati dormono in macchina, gli altri all’aperto. Al ritorno camminano per chilometri trascinando pesanti borse colme di generi alimentari, medicine, vestiario, subendo le asfissianti perquisizioni della polizia. Povertà e disperazione che fanno decollare il mercato nero. "Anche il traffico di armi vendute agli ucraini in cambio di droga" sostiene Maxim Lyutyi, comandante del battaglione Sich. "Gli affari illegali sono in crescita perché la guerra ha sprofondato la popolazione nella povertà facendo trionfare la corruzione" confessa amareggiato il giovane ufficiale cosacco. A Marinka il nemico colpisce dalla periferia di Donetsk, che da questo sobborgo si vede a occhio nudo. Le difese ucraine sono affidate al battaglione Donbass. Non ama i giri di parole il comandante Vyacheslav Vlasenko: "Vi ammazzo se fotografate il mio ufficio". Poi indica il monitor che inquadra le postazioni avversarie. "Potremmo riprenderci la città in quattro giorni - biascica in russo - ma Kiev non si decide". In ballo c’è la vita di un milione e mezzo di abitanti: scudi umani, insomma, scelta comprensibile. I suoi uomini continuano a scavare ripari lungo il corso d’acqua che lambisce il villaggio. "Di notte i nemici lo attraversano, entrano silenziosi nei cortili, ci prendono alle spalle" raccontano i soldati. Il resto lo fanno i cecchini appostati sulle alture vicino alle miniere di carbone, i proiettili dei mortai, le mine. Su uno di quegli ordigni tre mesi fa è saltato Roman. Lavorava in Spagna quando la Patria lo ha richiamato sotto le armi. Avevano minacciato di arruolare il fratello - sposato e con due figli - se non si fosse presentato. Roman non si è tirato indietro, ma a luglio ha messo il piede su una mina, il suo corpo è stato devastato dall’esplosione. "Ha perso la vista, un braccio, le gambe, il futuro" racconta con compostezza Nadja, la madre, otto anni da badante in Italia per assicurare un avvenire ai figli, ora al capezzale di Roman nell’ospedale militare di Kiev. I volontari soccorrono anche la popolazione che continua a vivere nelle zone dei combattimenti. A Opytne abitano Baba Raya e il marito. La loro casa è stata centrata due volte dagli insorti, il tetto lo hanno rattoppato con lastre di amianto e lamiera. Però non vogliono saperne di scappare. "Questa è la nostra terra, il cuore della nostra famiglia, della nostra esistenza" spiegano. Natalia Prilutskaya - la volontaria partita da Kiev con il furgone carico di aiuti - passa ogni mese a trovare Baba Raja. Lascia viveri e medicinali. Ma torna a casa "con la forza che solo questa donna è in grado di donarmi" dice. Sorridono i due anziani, ringraziano, mostrano le stanze fredde e buie in cui sono ammassati coperte, viveri per l’inverno, legna da ardere, foto sbiadite appese alle pareti. A Zaytsevo lavorano i volontari di Asap Rescue. Assistono militari e civili nella "buffer zone" a pochi chilometri da Gorlivka, città occupata dai separatisti. Tutti i giorni raggiungono con i fuoristrada le case sparse nella "terra di nessuno". Distribuiscono medicine, prestano soccorso, se necessario muovono le ambulanze. Tra i medici c’è Alexandr Sokolov, fino allo scorso anno in prima linea con Pravji Sector, oggi medico volontario. C’è anche Masha Kushnir, 32 anni, da Kiev. "Il mio Paese è in difficoltà, ho scelto di lavorare per la mia gente, di sdebitarmi con le persone che si sono sacrificate a Maidan. La rivoluzione mi ha insegnato proprio questo: essere utile al mio Paese" racconta infilandosi elmetto e giubbotto antiproiettile. Perché nonostante il presidio medico sia segnalato con grandi croci rosse, i nemici non esitano a colpirlo. "É una sporca guerra che vinceremo", sibila Vasili Budjk imbracciando un Ak 47 nuovo di zecca con mirino laser e colpo in canna. Ex ufficiale dell’esercito, due anni fa è finito in un’imboscata, è stato catturato dai nemici. "Tre mesi di torture, le costole sfondate, ma non ho aperto bocca", ricorda mostrando sul telefonino l’immagine in cui giace ammanettato per terra, il viso tumefatto dalle botte. É stato fortunato, lo hanno rilasciato in cambio di un parigrado russo. Altri suoi compagni non ce l’hanno fatta, sono stati giustiziati. Budjk è diventato un eroe nazionale, vive a Slaviansk, è uno dei più stretti collaboratori del ministro della Difesa. Con i volontari dell’organizzazione Officer Corp Ukr si occupa dei prigionieri ancora nelle mani degli avversari. "Lavoriamo per liberarli, ma è un compito delicato, estenuante, sempre sul filo del rasoio", spiega. Non vuole saperne di svelare quanti sono i militari russi imprigionati in Ucraina: "Mosca è imbarazzata, ha chiesto il silenzio, metterei a rischio le trattative". Mostra però il quaderno in cui sono annotati i nomi di alcuni prigionieri ucraini. "Li riporteremo tutti a casa - mormora - nessuno sarà abbandonato: questa è Maidan". Colombia. Accordo di pace respinto, riprendono le scorribande dei paramilitari di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 ottobre 2016 Come è noto, la maggioranza dei colombiani che sono andati a votare al referendum del 2 ottobre ha respinto l’accordo di pace tra il governo e le Forze armate rivoluzionarie di Colombia. Il voto ha galvanizzato chi alla pace non ha mai creduto e ha confermato che, per chi ha fatto della pace e della nonviolenza una scelta di vita, la strada è ancora terribilmente salita. Prova ne sono le recenti scorribande delle Forze gaitaniste di autodifesa della Colombia, uno dei gruppi paramilitari più violenti del paese, nei territori della Comunità di pace di San José de Apartadó. La comunità, nata il 23 marzo 1977, è situata nel comune di Apartadó, nella provincia nord-occidentale di Antoquia. Ha pagato a carissimo prezzo la sua decisione di non essere trascinata nel conflitto e di non prendere posizione a favore di alcuna delle parti coinvolte: 200 uccisi o desaparecidos, soprattutto ad opera dei gruppi paramilitari, sopravvissuti senza alcuna difficoltà al presunto processo di "smobilitazione". Il 3 ottobre un gruppo di "gaitanisti" si è accampato fuori dall’abitazione di una delle rappresentanti della Comunità, Rubí Arteaga. I paramilitari hanno fatto irruzione in alcune altre case, minacciando di uccidere e picchiando a casaccio prima di ritirarsi. L’8 ottobre, una nuova intimidazione: i paramilitari si sono presentati nel villaggio di Arenas Bajas, costringendo gli abitanti a rimanere a casa mentre parte dei loro raccolti veniva distrutta. Tre giorni dopo una delegazione della Comunità accompagnata da osservatori internazionali ha raggiunto Arena Bajas. Dopo aver subito una serie di minacce, la delegazione è riuscita a portare in salvo le persone sequestrate in casa.