Carceri umane e ri-umanizzanti, la stereofonia di cattolici e radicali di Marco Tarquinio Avvenire, 20 ottobre 2016 Una pattuglia di pannelliani scrive, stuzzica e ci chiede di sostenere la Marcia che accompagnerà il Giubileo dei carcerati del 6 novembre. L’attenzione è certa. Come la cristiana speranza che l’impegno per la vita di ogni persona si faccia pieno e comune. Caro direttore, crediamo sia stato Maritain a coniare la battuta "per essere cristiani, bisogna essere anticlericali". Una battuta, forse, ma per noi radicali pannelliani qualcosa di più: un monito, una guida per tutto il nostro operare politicamente. Voi cattolici - anche voi di "Avvenire" - ci guardavate in cagnesco, e avete deplorato una quantità di nostre iniziative dal sentore, appunto, anticlericale. Ma non tutte: sicuramente avete seguito con simpatia le nostre Marce di Pasqua per la lotta contro lo sterminio per fame nel mondo, un obiettivo che ci univa alle ansie di Giovanni Paolo II verso i diseredati della Terra; e ugualmente abbiamo sempre sentito l’attenzione del mondo cattolico per le iniziative nostre - di Marco Pannella in primo luogo - a proposito della vita inumana e degradante dei detenuti nelle carceri, della condizione disastrosa in cui versa la giustizia italiana, della necessità e l’urgenza di una amnistia/indulto (un necessario "atto di clemenza", ammonì - inascoltato - Papa Giovanni Paolo II davanti ai parlamentari italiani riuniti in seduta congiunta) che sia punto di partenza per una riforma strutturale del sistema giudiziario e penale nel nostro Paese. Su questo tema, anche per onorare e proseguire l’eredità civile del nostro leader da poco scomparso, noi del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito stiamo organizzando per il 6 novembre una - speriamo grande - "Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà" intitolata a Marco Pannella e a papa Francesco, che si snoderà dal carcere romano di Regina Coeli per raggiungere Piazza San Pietro, proprio mentre il Pontefice starà celebrando il Giubileo dei Detenuti. Vogliamo con questa iniziativa sostenere il Papa della misericordia, per far sì che la eccezionale giornata giubilare possa trovare ascolto presso le autorità italiane affinché avviino, in qualche modo, il tanto atteso processo riformatore delle carceri e della giustizia. Le adesioni, fino a questo momento, sono state davvero numerose e significative. Abbiamo anche inviato una lettera aperta a Virginia Raggi, sindaca di Roma, perché, sganciandosi dalle tristi polemiche del quotidiano, partecipi in rappresentanza della Capitale d’Italia, e siamo in impaziente attesa di una sua risposta che ci auguriamo positiva. Possiamo ora rivolgerci a Lei perché il suo giornale sostenga, come possibile, l’iniziativa, dando una mano per il suo buon successo? Lo chiediamo da radicali, anticlericali ma, ci creda, "credenti" nella giustizia, nella verità del bene, nella legalità e nella legge, valori che sicuramente hanno intenso seguito nel mondo dei credenti cattolici. È possibile che si ripetano i momenti di comune sentire che, come le abbiamo ricordato, hanno punteggiato i nostri mondi? Noi pensiamo di poter nutrire questa speranza. Cordialmente. Angiolo Bandinelli, Rita Bernardini, Antonella Casu, Sergio D’Elia, Maurizio Turco Risponde Marco Tarquinio Gentili e cari amici, che la paradossale battuta da cui prendete le mosse circola, ma non so se sia davvero attribuibile a Jacques Maritain (che il laicismo anticlericale della seconda fase della sua vita superò, infine e definitivamente, nella libera accettazione della fede cattolica). So invece per certo, e cerco di non dimenticare, che "non basta essere chiamati cristiani, ma bisogna esserlo davvero". Parola di Ignazio di Antiochia, vescovo e martire, condannato ad bestias - cioè a essere divorato dalle fiere, a Roma, capitale imperiale - nel nome del "pensiero dominante" (e quasi unico) del suo tempo. Ricorro a quest’altra citazione, che non per caso è di un "chierico" cristiano carcerato e messo a morte per la sovversiva colpa di credere, per dirvi che una persona che segue Gesù Cristo - vero Dio e vero uomo - si misura certamente coi paradossi, ma non si definisce mai "per sottrazione" o per "esclusione". A una "sottrazione" e a una "esclusione" richiama invece ogni parola, e concetto, che s’inaugura con il prefisso oppositivo "anti", e ne è la prova proprio certo vecchio e tenace anti-clericalismo che tenta di imporre una spregiativa veste dogmatica all’umanesimo cristiano e all’impegno, che ne discende, a difesa della vita. Impegno che si fa carico di ogni fragilità e libertà umana, ma non è intermittente. Non pretende, cioè, di decidere il momento in cui un’esistenza comincia o smette di aver valore e di meritare rispetto, non dimentica nessuno dei "senza voce" (piccoli, poveri, stranieri, malati, carcerati) e non insedia l’io al posto di Dio. A me, poi, piace molto un’espressione di papa Francesco che nell’omelia di una delle Messe mattutine a Santa Marta (il 12 settembre 2013) ci ha ricordato che per essere buoni cristiani "non c’è altra strada" che "contemplare l’umanità di Gesù", e insieme tutta "l’umanità sofferente", che del Sofferente che ha vinto la morte è la carne stessa, e il volto. E un cristiano che vede il male, la fame, la sopraffazione e l’ingiustizia, non può inchinarsi, restare in silenzio e con le mani in mano. Penso da tempo che tra i radicali pannelliani "anti-clericali" ci sia chi riesce a fare almeno un terzo del cammino del "buon cristiano" così come efficacemente lo delinea Francesco. Ma continuo pure a pensare che ne manca sempre un po’ per arrivare alla pienezza "umanitaria" della seconda metà del percorso (sulla prima, quella che guarda a Gesù, non oso dire mezza parola). L’ho scritto. E in qualche occasione, quando sono stato invitato a confronto, l’ho anche detto dai microfoni della vostra radio: avete avuto per anni più coraggio e visione di tanti di noi nel vedere certe storture dei sistemi politici italiano e mondiale, ma oggi sono tante voci cattoliche - e papa Francesco ci aiuta enormemente - a vedere più lontano e a parlar chiaro a proposito della tenaglia che tecno-scienza ed economia, tenendo in soggezione la politica, stringono sulla vita di persone e popoli, e sulle relazioni che danno senso all’esistenza di tutti e di ciascuno. A rafforzarmi nella convinzione che non siete affatto infallibili, è la constatazione che non tutti i frutti degli alberi delle battaglie pannelliane sono stati (e sono) buoni, ecco perché - come tanti altri, credenti o no - non rinuncio a distinguere la pianta buona da quella cattiva o addirittura tossica. E questo non significa "guardare in cagnesco", ma non limitarsi a guardare e sforzarsi di vedere. Ciò detto, gentili amici, amo il dialogo, e mi piace ascoltare e discutere opinioni diverse dalla mia. Ma non mi piacciono gli ascolti finti, le discussioni sterili. Per questo sento che la speranza si fa più forte quando capisco che ci sono battaglie che i "differenti" possono e sanno fare insieme. Così, per esempio sulla questione della maternità surrogata, o degli "uteri in affitto", dove voci laicissime si uniscono alle nostre con argomentazioni forti e coincidenti. Così nella battaglia per un diritto liberato dall’assassinio di Stato della pena di morte e sulla sfida di fare della carceri, qui e ora, e non solo in Italia, ciò che la Costituzione italiana (art. 27) dice con chiarezza: un luogo ri-umanizzante. Qui le voci di cattolici e radicali si uniscono da tempo. Accadrà di nuovo domenica 6 novembre, giorno che il Papa ha dedicato al Giubileo dei carcerati, "consegnando" idealmente la "cattedrale del mondo", San Pietro, ai detenuti che potranno esserci fisicamente con le loro famiglie, al personale degli istituti di pena, ai cappellani, ai volontari nonché a tutti quelli che potranno "partecipare" solo da lontano. Accadrà perché voi radicali avete liberamente deciso di aggiungere, in quello stesso giorno, col vostro stile, ma in voluta stereofonia, una Marcia lungo la via della giustizia, accostando il nome del vostro storico leader, Marco Pannella, a quello del Papa. I nomi di riferimento pesano sempre, ma i cristiani sono donne e uomini di sostanza e, dunque, conta di più la qualità delle intenzioni. Siamo stati attenti a tante vostre iniziative e denunce in tema di carcere. Come potremmo non esserlo anche stavolta? Anche la Cei aderisce alla marcia del 6 novembre per l’Amnistia e la Giustizia Il Dubbio, 20 ottobre 2016 La Conferenza Episcopale Italiana "aderisce alla IV Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Liberta" intitolata a Marco Pannella e Papa Francesco, organizzata per il 6 novembre a Roma dal Partito Radicale Transnazionale Nonviolento e Transpartito, in occasione del Giubileo dei Carcerati". Una marcia "che si snoderà tra le vie della capitale dal carcere di Regina Coeli fino a Piazza San Pietro. Lo ha comunicato, fa sapere il Partito Radicale Transnazionale Nonviolento e Transpartito, il sottosegretario e portavoce della Cei Don Ivan Maffeis martedì sera a Radio Radicale, durante la trasmissione Radio Carcere, condotta da Riccardo Arena. "La Cei guarda con attenzione a questa iniziativa e come segreteria generale dà una convinta adesione - ha detto Maffeis, ricorda la nota - l’iniziativa è vista da parte nostra come una occasione proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica e più in generale il mondo politico sulla situazione in cui il nostro sistema penitenziario versa. L’augurio, e voglio metterci anche l’impegno, è che ci sia una accoglienza delle istanze portante avanti proprio per superare il degrado in cui i detenuti, ma non solo i detenuti, penso agli agenti, ai volontari, agli educatori, oggi si muovono. Si è trattata di una decisione maturata con il segretario generale, Monsignor Nunzio Galatino; il presidente Bagnasco è stato informato e condivide le finalità dell’iniziativa". Sono già "molte le adesioni" di esponenti del mondo cattolico all’iniziativa del 6 novembre, tra i quali decine di cappellani delle carceri - si legge nella nota - insieme "a Don Antonio Mazzi, Don Luigi Ciotti e alla Comunità di Sant’Egidio". Intanto "salgono a 720 venti i detenuti che faranno lo sciopero della fame il 5 e 6 novembre. Con il digiuno di dialogo si chiede conto al ministro della Giustizia Andrea Orlando degli esiti concreti degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale (conclusisi ormai da molti mesi) e all’intero Governo e al Parlamento della "riforma immediata dell’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena" che deve riguardare tutti i detenuti, nessuno escluso", viene spiegato. Sì al "decreto Canzio" con la fiducia. I magistrati: "È incostituzionale" di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2016 Il decreto "ad Canzio", dal nome del presidente della Cassazione e primo beneficiario, doveva passare senza se e senza ma ed è passato. Con la fiducia, la numero 59. Ieri pomeriggio l’ok definitivo del Senato alla conversione del decreto legge di fine agosto voluto da Matteo Renzi, accettato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, firmato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che sancisce la disuguaglianza dei magistrati, in barba alla Costituzione (articoli 3 e 107). Come hanno detto il Csm, l’Anm, il sindacato delle toghe, e la commissione Affari Costituzionali. L’Anm ieri sera ha ribadito che il provvedimento è "di dubbia costituzionalità" e che è "un grande passo indietro" per il settore Giustizia. In queste ore la Giunta sta valutando se annullare l’incontro con Renzi e Orlando, previsto per lunedì prossimo: appena l’altro ieri aveva lanciato un appello al governo perché rinviasse ogni decisione sul decreto a dopo il vertice. Ma, evidentemente, l’esecutivo non dà peso ai rappresentanti dei magistrati, le recenti dichiarazioni lusinghiere di Renzi sul presidente Piercamillo Davigo restano parole. Secondo la nuova normativa hanno diritto a un anno di proroga dalla pensione i soli vertici della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti che non abbiano compiuto 72 anni di età entro il 31 dicembre. Coincidenza vuole che il presidente della Cassazione Giovanni Canzio compirà 72 anni il primo gennaio 2017. I sì sono stati 159, 24 i no, un astenuto. M5s e Forza Italia non hanno partecipato al voto. Ad annunciare la fiducia la ministra Maria Elena Boschi mentre il guardasigilli Orlando era in tv, a La7, a perorare il Sì al Referendum. Alla Camera era filato tutto liscio ma al Senato, dove i numeri della maggioranza sono sempre sul filo di lana, il voto era a rischio. Felice Casson, indipendente del Pd venerdì presenta in commissione l’emendamento per cancellare dal decreto legge, che contiene anche altre disposizioni, le norme "ad Canzio", M5S, Forza Italia e Lega si dicono pronti a votarli. Paura della maggioranza del Pd che lunedì sera, con molte assenze dell’opposizione, contrariamente a quanto previsto dal calendario, mette al voto le modifiche, che vengono bocciate. Ma Casson, con il collega di partito Ricchiuti, martedì ripresenta gli emendamenti in Aula. Il governo si prende 24 ore di tempo per decidere cosa fare anche perché Renzi è impegnato nella sua campagna referendaria alla Casa Bianca. Ieri, viene lanciato il paracadute, la fiducia, ignorando in maniera plateale l’Anm. Il sindacato delle toghe si era schierato contro il decreto legge non solo per la norma "ad Canzio" ma anche perché prevede la riduzione a un anno del tirocinio per i magistrati e aumenta, in corso d’opera, da 3 a 4 gli anni dopo i quali un magistrato può chiedere di trasferirsi. Lo sciopero sembra più vicino. La decisione sarà presa il 28 ottobre dal cosiddetto parlamentino dell’Anm. Ma intanto ieri la Giunta ha pure puntualizzato di essere stata "ignorata" e si è detta "disorientata" per la fiducia e per il voto "in tutta fretta". Il Senato converte in legge il decreto Cassazione, contestato dall’Anm di Errico Novi Il Dubbio, 20 ottobre 2016 Piercamillo Davigo farà fatica a crederci: il governo passa con il rullo compressore della fiducia sulle precedenti profferte di alleanza. Gli "amici magistrati" non sono più amici o almeno li si può deludere. Blindato e convertito dunque in via definitiva dal Senato (159 voti a favore, 24 contrari e un solo astenuto) il "decreto Cassazione". Dentro ci sono le norme che prorogano i vertici della Suprema corte e che il sindacato dei giudici aveva aspramente contestato. Niente da fare: il presidente dell’Anm si era illuso che Renzi potesse ripensarci, mercoledì sera gli aveva lanciato un estremo appello affinché sospendesse l’iter di conversione. Lo vedrà lunedì prossimo, in un vertice a tre con il guardasigilli Andrea Orlando. Ma da quella "trattativa" è stato già stralciato il trattenimento in servizio limitato ai soli ruoli apicali delle alte corti. L’esecutivo è andato per la propria strada senza neppure inviare una lettera di scuse all’Associazione magistrati. Saltano tutti gli schemi sulla giustizia: salta lo schema della "fiducia che mi guardo bene dal porre su provvedimenti ritenuti dannosi dagli amici giudici", sempre per dirla con lo slancio affettuoso a cui il premier si lasciò andare a fine settembre. E non si capisce più che senso abbia lo stop imposto dal presidente del Consiglio alla riforma del processo penale. Dopo il voto di ieri sopravvive un solo appiglio logico: il maxi ddl con dentro prescrizione e intercettazioni è stato messo in freezer non per compiacere Davigo ma per evitare che i Cinque Stelle attaccassero il governo sulla giustizia in piena campagna referendaria. Non fosse così, bastava metterci la fiducia. Ieri è rimasta di sasso la stessa minoranza dem. "Parliamoci chiaro, questo provvedimento può passare solo con la fiducia, l’esecutivo sa che rischierebbe moltissimo su alcuni articoli", dice Doris Lo Moro, senatrice calabrese non renziana ed ex magistrata. Lei aveva firmato il parere "critico" uscito la settimana scorsa dalla commissione Affari costituzionali. Ricorda che gli articoli 5 e 10 del decreto "introducono in maniera del tutto inappropriata norme assolutamente discriminatorie". Sono appunto i passaggi del provvedimento in cui si stabilisce il rinvio del congedo per le funzioni apicali di Cassazione, Corte dei Conti, Consiglio di Stato e Avvocatura dello Stato. C’è un altro passaggio di Lo Moro che segna la discussione mattutina, celebrata in attesa che il ministro Maria Elena Boschi annunci la fiducia, e riguarda il guardasigilli Orlando. Il quale, osserva la senatrice della minoranza dem, "è stato qui in occasioni importanti, anche per rivendicare il prodotto del suo lavoro, oggi non c’è ma fa male a non esserci, perché su questo provvedimento è costretto a metterci la faccia insieme a Renzi". In realtà Orlando preferirebbe evitare il "doppio binario" sulla giustizia: indifferenza alle richieste dell’Anm sul decreto convertito ieri ma congelamento, "per non far dispiacere Davigo", della riforma penale, alla quale lui, il guardasigilli, ha dedicato due anni di lavoro. Orlando non si intesta il doppiopesismo imposto mediante fiducia. Ad ascoltare Lo Moro e altri sconcertati senatori Pd (da Lucrezia Ricchiuti a Maria Grazia Gatti) resta in aula il sottosegretario Gennaro Migliore. L’inspiegabile è motivato, secondo parte dell’opposizione, dalla necessità di sdebitarsi con Giovanni Canzio, primo presidente della Cassazione e tra i pochi destinatari della proroga. Quagliariello, Giovanardi e Calderoli chiamano in causa le decisioni assunte dal magistrato sui quesiti referendari e sulla mancata remissione alle sezioni unite dei ricorsi in materia di stepchild adoption. Insinuazioni su cui glissa il Cinque Stelle Maurizio Buccarella, l’unico in Aula a ricordare le "limitazioni al diritto di difesa nei ricorsi civili in Cassazione" pure previsti dal decreto: non ci sarà più "la possibilità per l’avvocato di conoscere in anticipo le motivazioni di un’eventuale inammissibilità". Finisce con l’insuperabile senatore di Ala Ciro Falanga, che con i voti suo e dell’intero gruppo verdinano garantisce la fiducia al governo. "Diamo una lezione di democrazia", urla tra gli applausi, ironici e impotenti, di mezzo emiciclo. L’impossibilità di valutare i magistrati italiani di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 ottobre 2016 Il Csm ha detto no anche a Orlando: bocciate le proposte di modifica al sistema. Non sembra proprio esserci spazio per una valutazione dell’operato dei magistrati in Italia. Dal 2008 le toghe italiane sono tenute a sottoporsi ogni quattro anni a valutazioni formali sulla loro professionalità, necessarie a permettere gli scatti di anzianità e dunque di stipendio. Formali perché, nella sostanza, i giudizi forniti prima dai consigli giudiziari e poi dal Consiglio superiore della magistratura finiscono per consistere nella quasi totalità dei casi in una mera celebrazione copia-incolla dei meriti di giudici e pm, spesso palesemente slegata dai risultati effettivamente ottenuti da quest’ultimi. Due anni fa, Luigi Ferrarella calcolò sul Corriere della Sera che dal 2008 al 2013 sono state effettuate dal Csm 9.535 valutazioni e che solo in 145 casi il giudizio dell’organo di autogoverno dei magistrati è stato "non positivo" o "negativo". Un’evenienza quindi rarissima, che peraltro comporta soltanto un rinvio, rispettivamente di uno e due anni, della valutazione del magistrato (e del suo scatto stipendiale). Così, nonostante il periodico emergere di episodi di malagiustizia, errori e leggerezze da parte delle toghe, le valutazioni nei confronti dei magistrati continuano a essere quasi tutte appiattite su giudizi entusiasticamente positivi, risultando inutili per le loro stesse finalità: chi promuovere se sono tutti "eccellenti"? Ci pensano le correnti togate… Che le valutazioni di professionalità rappresentino ormai vuoti formalismi privi di qualsiasi utilità sostanziale lo dimostra il caso, paradossale, delle valutazioni effettuate dal Csm nei riguardi dei magistrati posti fuori ruolo, come quelli impegnati in politica. L’ex toga Anna Finocchiaro, ad esempio, ha ottenuto nel corso dei suoi ventotto anni di carriera in Parlamento ben sette valutazioni di professionalità positive, il massimo previsto in termini di progressione di carriera per i magistrati. In tutte queste verifiche, il Csm ne ha certificato "l’indipendenza, imparzialità ed equilibrio, ma anche capacità, laboriosità, diligenza e impegno dimostrati nell’esercizio delle funzioni espletate" (anche se non si comprende di quali funzioni si stia parlando, dato che quelle giudiziarie non sono esercitate da Finocchiaro da più di un quarto di secolo). Il meccanismo di valutazione è talmente ridicolo che persino il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, non ha potuto fare a meno di profilare negli ultimi tempi un intervento legislativo in materia. A margine di un convegno organizzato dal Consiglio nazionale forense lo scorso 13 settembre, il ministro ha aperto alla possibilità di "introdurre una presenza con voto dell’avvocatura nei consigli giudiziari", riconoscendo che la verifica delle capacità dei magistrati "non può prescindere dal giudizio di tutti coloro che sono chiamati alla valutazione della funzionalità in concreto degli uffici". In altre parole: dato che i magistrati hanno dimostrato di non essere capaci di valutare la professionalità dei loro colleghi in modo obiettivo, preferendo rinchiudersi in un’esaltazione acritica del loro operato, si consenta anche agli avvocati, protagonisti in prima linea della vita nella aule di giustizia, di esprimere la propria opinione sulla condotta professionale dei magistrati. "Si tratta di aprire una dialettica nella quale non vedo alcun pericolo per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura", ha aggiunto Orlando in maniera molto fiduciosa. Niente da fare: quattro ore dopo, in serata, il plenum Csm aveva già bocciato gli emendamenti con cui si proponevano aperture sul diritto di voto agli avvocati, inclusa la proposta avanzata dal primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, il quale aveva evidenziato - invano - che "il tavolo della giustizia non può essere sbilenco" e che "la ricchezza dei contributi non può che migliorarne la qualità". Una speciale categoria di funzionari pubblici, in Italia, ha deciso di proseguire con il suo corporativo - e irresponsabile - quieto vivere. Violenze al G8 di Genova, lo Stato condannato a maxi risarcimento di Patrizio Gonnella e Andrea Oleandri Il Manifesto, 20 ottobre 2016 La sentenza. Giudice riconosce un alto indennizzo per un attivista tedesca. Furono "condotte di vera tortura", ma il reato ancora non c’è. Dopo 15 anni arriva una condanna per le violenze perpetrate alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001. Si tratta di quella con cui una giudice del tribunale civile di Genova ha condannato lo Stato Italiano a risarcire una ragazza tedesca con 175 mila euro per danni morali e fisici dovuti alla privazione dei diritti, alle lesioni patite, alle umiliazioni che dovette sopportare e alle gravi violenze alle quali ha assistito. Nel dettaglio la giudice Paola Bozzo Costa ha riconosciuto 40 mila euro per i reati, 80 mila euro per i due terribili giorni trascorsi nella caserma di Bolzaneto e 55mila per il danno subito. Tra le poche cause civili arrivate a sentenza per quella "macelleria messicana", questa finora è la più ingente in quanto ad entità del risarcimento. Risarcimento che tuttavia non fa giustizia per le "condotte di vera e propria tortura" attuate con "la volontà di cagionare dolore nell’abusare delle rispettive posizioni di potere e autorità" che Tanja W., ventiduenne all’epoca, ha subito. Da trent’anni chi, come l’associazione Antigone, si occupa di tortura, va dicendo che questo reato è l’unico direttamente previsto dalla nostra Costituzione laddove, all’articolo 13, è scritto che "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". A dirlo oggi è anche questa giudice quando parla di "lesione di diritti della persona a protezione costituzionale che non sono oggetto di tutela della norma penale sanzionatrice in questione". In poche parole si può procedere con il risarcimento per quelle torture, ma nessuno dei responsabili potrà essere punito. Dunque ancora una volta un giudice in un tribunale italiano parla di tortura sentenziando, al tempo stesso, come in Italia non si possa fare giustizia nei casi in cui questo crimine contro l’umanità si manifesti. A farlo fu già il giudice chiamato a pronunciarsi sulle violenze perpetrate contro due detenuti nel carcere di Asti. Portati in isolamento furono denudati, gli venne razionato il cibo, impedito di dormire e furono sottoposti a percosse quotidiane. Fatti che, pur qualificandosi come tortura ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite, non potevano essere perseguiti come tali, scriveva il giudice nella sentenza, poiché in Italia non esiste una legge che riconosca questo reato. Ora il caso di Asti è dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, anche grazie al sostegno di Antigone nella stesura del ricorso, e a breve è attesa la sentenza dei giudici di Strasburgo. Sentenza che il Governo ha provato a evitare patteggiando 45mila euro a ognuno dei torturati. Offerta rispedita al mittente dalla Corte. Così come era stata rispedita al mittente, in questo caso dagli stessi trentuno ricorrenti, un’analoga offerta per archiviare il ricorso pendente proprio sulle torture a Bolzanento. Offerte con le quali si è provato a rimediare a un ritardo quasi criminale, quello che il nostro Parlamento ha accumulato per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. È dal 1988, da quando lo stesso Parlamento ratificò la Convenzione delle Nazioni Unite, che l’Italia aspetta questa norma. Una lacuna che nell’aprile del 2015 ci ha fatto notare la stessa Corte Edu nella sentenza con la quale il nostro Paese venne condannato per le torture alla scuola Diaz. All’indomani di quella pronuncia il presidente del Consiglio Renzi, attraverso un tweet, prese l’impegno di far approvare questa legge. Un impegno che il Senato, nel mese di luglio, ha affossato. L’Italia è ancora il paradiso dei torturatori. Per questo motivo giovedì scorso Antigone ha organizzato una manifestazione davanti a Montecitorio cui hanno partecipato numerose organizzazioni per i diritti umani e studentesche, il sindacato con la Fp-Cgil, gli avvocati delle Camere Penali e i giudici di Magistratura Democratica. In quella piazza abbiamo chiesto proprio a Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando di impegnarsi in prima persona. Dopo 28 anni non si può ancora aspettare. Antigone: Renzi e Orlando s’impegnino per far approvare subito la legge contro la tortura Ristretti Orizzonti, 20 ottobre 2016 Diaz e Bolzaneto: un altro giudice ci ricorda come in Italia non si possa fare giustizia nei casi di tortura. Gonnella: "Renzi e Orlando si impegnino per far approvare subito la legge". "Condotte di vera e propria tortura". "La volontà di cagionare dolore nell’abusare delle rispettive posizioni di potere e autorità". È quanto scrive la giudice del tribunale civile di Genova Paola Luisa Bozzo Costa nella sentenza con la quale riconosce a Tanja, una delle tante persone che subì violenza nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001 a Genova, danni morali e fisici per 175 mila euro. Vere e proprie torture che in sede penale non sono state punite poiché, come scrive la stessa giudice, la "lesione di diritti della persona a protezione costituzionale non sono oggetto di tutela della norma penale sanzionatrice in questione". "Ancora una volta - dichiara Patrizio Gonnella - un giudice italiano ci ricorda come in Italia non si possa fare giustizia". "Era già accaduto per le torture nel carcere di Asti. In quel caso il giudice mise nero su bianco che le violenze subite da due detenuti erano torture ma che, per l’assenza di una norma ad hoc, non erano perseguibili come tali". Quelle torture sono ora al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (anche grazie alla collaborazione di Antigone nel predisporre i ricorsi), così come lo sono le violenze nella caserma di Bolzaneto e lo sono state in passato quelle alla scuola Diaz. In quest’ultimo caso i giudici di Strasburgo condannarono l’Italia proprio per quelle torture, sollecitando il nostro Paese a dotarsi di una legge. Una sollecitazione cui l’Italia ha risposto con l’affossamento della legge in discussione in Parlamento, sostituendo la sua approvazione ad un tentativo di patteggiamento con i due detenuti di Asti e i trentuno ricorrenti delle violenze a Bolzaneto. 45mila euro ciascuno per rinunciare al ricorso e alla presumibile condanna. Una compensazione che la Corte nel caso di Asti e i ricorrenti nel caso di Bolzaneto hanno rispedito al mittente. Si aspettano dunque, a breve, le sentenze per entrambi questi casi. "Nonostante la legge in discussione da oltre due anni, nonostante l’impegno internazionale assunto nel 1988, quando l’Italia ratificò la Convenzione Onu contro la tortura, nonostante l’impegno assunto da Renzi all’indomani della condanna per le torture alla scuola Diaz, il nostro paese resta il paradiso dei torturati" dichiara Gonnella. "Giovedì scorso con decine di organizzazioni della società civile italiana - prosegue il presidente di Antigone - siamo stati in piazza Montecitorio per chiedere subito la legge". "Una richiesta rivolta al Presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando che rinnoviamo. L’Italia - conclude Gonnella - non può essere ancora terra di impunità per chi si macchia di crimini contro l’umanità". Andrea Oleandri Ufficio Stampa Associazione Antigone Omicidio di Ilaria Alpi, il somalo Hasci Omar Hassan assolto dopo 16 anni di prigione di Italo Carmignani e Michele Milletti Il Messaggero, 20 ottobre 2016 Di fronte a quel ragazzone somalo a cui per sedici anni il carcere e l’ingiustizia hanno tolto inutilmente la vita e il sorriso, il primo dubbio diventa l’ultima domanda irrisolta: chi ha ucciso la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin a Mogadiscio il 20 marzo del 1994? Un dubbio riemerso dalle nebbie del deserto somalo dopo l’assoluzione di Omar Hashi Hassan, passato da il solo colpevole all’unico innocente con la sentenza della Corte d’Appello di Perugia e con la formula "per non avere commesso il fatto". Assoluzione e revoca di qualsiasi limitazione della libertà personale del somalo: Hassan abbraccia la mamma di Ilaria Alpi (da sempre convinta, come ha ribadito il legale della famiglia Alpi, "della sua innocenza ed estraneità al duplice delitto") e alcuni amici in aula. "Se è vero che Hassan è stato condannato dobbiamo avere anche il coraggio di ammettere che possa essere innocente", aveva detto il sostituto procuratore generale Dario Razzi al termine della requisitoria in cui aveva chiesto l’assoluzione. "Grazie a Dio è finita. Ora devo cercare la mia famiglia perché sono 19 anni che non la vedo e per questo ho bisogno urgentemente dei documenti", le parole a caldo di Hassan. "Mi hanno rovinato, mi hanno sequestrato. Però grazie a Dio, all’aiuto dei giornalisti e di questi giudici sono stato finalmente liberato". Chi di certo non è stato liberato dalla rabbia e dalla frustrazione è la mamma di Ilaria. "Sono contenta per Omar, ma resto depressa e amareggiata. Perché è come se lei e Miran Hrovatin fossero morti per il caldo che faceva a Mogadiscio", dice la signora Luciana e nelle sue parole vince la sfiducia: "La verità non l’abbiamo e secondo me non l’avremo mai. Dovrebbero avere un po’ di vergogna tutti questi magistrati che si sono susseguiti nelle indagini di Ilaria ad essere a questo punto dopo 23 anni d’inchieste. Dopo le battaglie che abbiamo fatto mio marito e io. Dai giudici non mi aspetto niente". Una posizione, quella di Omar Hassan, che ha ricevuto una svolta proprio dalle parole del suo grande accusatore, anche lui somalo, Ahmed Ali Rage detto Jelle, che prima alla trasmissione tv "Chi l’ha visto?" del febbraio 2015 e poi per rogatoria alla procura di Roma, aveva ribaltato le accuse ammettendo di "non avere detto a nessuno che Hassan faceva parte del commando", responsabile del duplice delitto e nemmeno "che sia stato lui a uccidere". Parole che fecero sentire Hassan, fiducioso nei confronti della giustizia. Ma che ora aprono scenari inquietanti. "Io non lo so che cosa farò, parlerò col mio avvocato e vedrò il da farsi, perché non ho più voglia di essere presa in giro da queste persone perché ci hanno riempito di bugie di depistaggi e non hanno combinato nulla", conclude la madre di Ilaria. Il sospetto che si sia messo in moto un meccanismo per sviare le indagini è stato instillato dallo stesso grande accusatore Jelle: gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e, secondo quanto da lui raccontato, avrebbero "promesso denaro" in cambio di una sua testimonianza al processo in cui avrebbe dovuto "accusare un somalo del duplice omicidio". Di certo c’è che, prima di essere uccisa assieme all’operatore Hrovatin, Ilaria Alpi stava indagando su un traffico d’armi e aveva da poco intervistato un capo locale, il sultano di Bosaso, poi divenuto uno dei testimoni chiave della vicenda. L’ipotesi che la loro morte possa essere collegata proprio al mercato clandestino delle armi prende piede fin da subito, poche settimane dopo il ritrovamento dei due corpi. Sono i servizi segreti italiani a indicare quattro somali come possibili mandanti: il colonnello Mohamed Sheikh Osman (trafficante d’armi legato al clan Murasade), Said Omar Mugne (amministratore della Somalfish), Mohamed Ali Abukar, Mohmaed Samatar. Proprio quel viaggio al porto di Bosaso e l’essere saliti a bordo della motonave "21 ottobre", vascello della Somalfish, dove avrebbero documentato la presenza di una partita d’armi marchiata CCCP, sarebbe stata loro fatale. Caso Ilaria Alpi. Dopo 16 anni al 41bis gli dicono: "Sei innocente" di Selene Pascarella Il Dubbio, 20 ottobre 2016 Hasci Omar Hassan non ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A ventidue anni dalla morte della giornalista del Tg3 e del suo operatore, assassinati in un agguato a Mogadiscio nel 1994, la Corte d’Appello di Perugia ha messo la parola fine a un processo che lo stesso procuratore generale Dario Razzi ha definito fondato su un quadro probatorio "bianco", "senza immagini, senza niente". Hassan è ufficialmente un "capro espiatorio", che ha pagato con una condanna a ventisei anni, sedici dei quali già scontati e passati al 41 bis, per un omicidio in cui non ha avuto nessun ruolo. "I processi che hanno visto condannato Hasci - ha commentato uno dei legali Antonio Moriconi - si sono retti esclusivamente su un falso testimone, tra l’altro prezzolato. Ora questo signore dopo tanti anni ha raccontato come sono andati realmente i fatti e la corte di Perugia ha dovuto inevitabilmente assolvere Omar Hassan". "Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che Omar Hassan possa essere innocente" - così si è chiusa la requisitoria del Pg che per primo ha chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto, sostenuto dal legale della famiglia Alpi, da sempre convita dell’innocenza di Hassan, e della Rai, parte civile nel processo. Hassan è ufficialmente un "capro espiatorio", come spesso ha detto il suo legale Douglas Douale, che ha pagato con una condanna a ventisei anni, sedici dei quali già scontati, per un omicidio in cui non ha avuto nessun ruolo. Un "omicidio concordato" lo ha definito nel 2014 la madre di Ilaria, Luciana Alpi, su cui "tutte le nostre forze di sicurezza, dalla polizia ai carabinieri, alla Digos, non sono stati all’altezza di farci conoscere la verità". L’atto di onestà con cui l’accusa ha messo una pietra tombale sulla colpevolezza di Hassan sarà il primo gradino per poter avere verità e giustizia sul caso Alpi, facendo emergere i nomi degli esecutori materiali del delitto e dei loro mandanti? Il passato non induce all’ottimismo. Ilaria Alpi, il giorno della sua morte, il 20 marzo, stava battendo una pista in cui credeva molto. Giunta a Mogadiscio come inviata del Tg3 per seguire la guerra civile che infiammava la Somalia, stava sbrogliando un intricato traffico di rifiuti illegali e armi, che sembrava coinvolgere sia le autorità locali che quelle italiane. Solo poche ore prima ne aveva parlato a lungo con il sultano del Bosaso e forse era a caccia di prove o di conferme quando lei e Miran sono stati freddati mentre attraversavano in auto la parte nord della capitale. Hasci Omar Hassan lavorava nell’albergo dove alloggiavano la Alpi e Hrovatin ed è stato tra gli ultimi ad averli visti vivi. I pilastri su cui per più di tre lustri si è poggiata la sua condanna a ventisei anni sono stati due: Ahmed Ali Rage, detto Gelle, che all’epoca dei fatti dichiarò di essere stato presente sul posto, indicando Hassan come uno dei membri del commando, e Ali Mohamed Abdi Said, l’autista del mezzo del mezzo su cui viaggiavano Ilaria e Miran, il primo a fornire una ricostruzione dell’agguato e, dopo mille ripensamenti, a confermare la versione di Gelle. La testimonianza di Said ha iniziato a fare acqua già nel 1997. Abdi ricostruisce le concitate sequenze del duplice omicidio di fronte al pm Franco Ionta, cadendo in macroscopiche contraddizioni. Dice di essere stato colpito dalle schegge del parabrezza fatto esplodere da uno degli aggressori a colpi di kalashnikov, ma nelle immagini scattate subito dopo la morte della Alpi appare privo di ferite e addirittura di macchie di sangue. Il destino della seconda testimonianza chiave contro Hassan è storia recente. Dopo essere scomparso alla vigilia del processo di primo grado a carico di Hashi, nel 2015 Gelle viene rintracciato da una troupe di Chi l’ha visto? in Inghilterra. Di fronte alla giornalista Chiara Cazzaniga sconfessa l’intera deposizione. Non solo non è mai stato presente all’agguato ma la sua è stata una testimonianza "su commissione": "Hassan non c’entra nulla, sono stato pagato dagli italiani per dirlo". "Dovevo indicare un somalo", ha detto Gelle nell’interrogatorio arrivato per rogatoria all’udienza di revisione lo scorso giugno, e così è venuto fuori il nome di Hassan. Ma perché l’accusa ha trovato una sponda nella testimonianza di Abdi? Dal momento che Ali Mohamed Abdi Said è morto, una settimana dopo essere tornato a Mogadiscio dall’Italia, nel 2003, la risposta, come ogni elemento di questo giallo all’italiana, può essere solo ricostruita montando insieme, con infinite cautele, le mille verità degli attori dell’affaire Alpi. Alcuni dei quali, ha messo in guardia Luciana Alpi si sono rivelati "venditori di fumo". Abdi e Hashi viaggiarono sullo stesso aereo per incontrare gli inquirenti in Italia. Strana scelta quella di fare volare insieme vittima e carnefice, giustificata solo dal clima di quel momento, in cui, come dirà Rosy Bindi nella commissione d’inchiesta per il caso Alpi alla Camera, "c’erano i somali che volevano far partire qualcuno" che potesse indicare un colpevole, e gli italiani "che volevano che per forza qualcuno arrivasse". Così per la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è arrivata una verità di comodo. Ora che è stata smantellata per sempre è giunto il momento di chiedersi chi l’ha voluta a tutti i costi e perché. Che poi è l’unico modo per trovare i mandanti e gli esecutori dell’omicidio. Mafia Capitale, scena muta del governatore Zingaretti di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2016 Nel giorno in cui il Partito democratico, tutto, resta in silenzio di fronte alla reticenza della loro deputata Micaela Campana davanti ai giudici del processo Mafia Capitale, un altro esponente dem è chiamato a testimoniare in aula bunker. Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio doveva essere sentito ieri, ma si è avvalso della facoltà di non rispondere. A differenza della Campana che si è celata dietro molti "non ricordo" (tanto da rischiare nei prossimi mesi un’indagine per falsa testimonianza), il governatore ha preferito rinviare la sua deposizione. Zingaretti era finito nei guai dopo alcune dichiarazioni di Salvatore Buzzi rese nel giugno 2015, che gli sono costate le accuse di corruzione e turbativa d’asta. Il ras delle coop raccontava tra le altre cose di un ruolo del governatore nella spartizione dei lotti di una gara d’appalto ("gara del calore") indetta dalla Regione. Buzzi riferisce di averlo saputo da Luca Gramazio (ex consigliere regionale del centrodestra, anche lui sotto processo in primo grado) che smentisce. I Pm decidono di chiedere l’archiviazione con questa motivazione: "La natura de relato di parte delle dichiarazioni di Buzzi, e l’assenza di conferme da parte di Gramazio sono elementi che impongono l’archiviazione". Dopo quelle accuse, Zingaretti ha sporto denuncia contro Buzzi e adesso lo attende "il processo a suo carico", ha detto ieri. Ma prima di dedicarsi ai testimoni, nell’aula bunker di Rebibbia, ieri mattina, per qualche minuto il problema non era la presunta Mafia Capitale che si sta processando. Ma un articolo del Fatto Quotidiano pubblicato lunedì scorso dal titolo "Obiettivo: insabbiare Mafia Capitale" e un altro del Sole 24 Ore che riprendeva una sintesi dell’intervento al convegno in Cassazione sul tema "Il processo di mafia trent’anni dopo" del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. L’avvocato Alessandro Diddi, difensore di Salvatore Buzzi detenuto con l’accusa di essere il braccio destro dell’ex Nar Massimo Carminati, ha chiesto di acquisire gli articoli per segnalare come questi possano condizionare l’imparzialità del Tribunale. Il problema, quindi, ieri erano i giornalisti del Fatto, peraltro - ci bacchetta il legale - poco presenti in aula durante le udienze ma attivi quando si tratta di dedicare paginoni alla presunta mafia a Roma. Di "forme di pressione psicologica sul Tribunale" poi, parla invece un altro avvocato intervenuto a sostegno del collega Diddi. I magistrati, però, si sono opposti alla richiesta di acquisire gli articoli di giornale: non si può fare la rassegna stampa ogni mattina, anche perché è irrilevante ai fini del processo. E sulla stessa linea l’avvocato di Libera, Giulio Vasaturo, che invece ha sottolineato l’importanza del lavoro giornalistico e del diritto costituzionale di cronaca. Il Tribunale, presieduto da Rosanna Ianniello dà ragione alla Procura: i pezzi del Fatto e del Sole 24 Ore così non finiscono agli atti. Vengono invece acquisiti altri articoli, quelli pubblicati anni fa sul quotidiano Cinque Giorni. L’editore è Giuseppe Cionci, l’imprenditore anche lui accusato da Buzzi. Cionci, dopo l’interrogatorio dell’ex presidente della 29 giugno è stato indagato per corruzione. E anche per lui la Procura ha chiesto l’archiviazione. Come Zingaretti, anche l’imprenditore romano ha denunciato Buzzi per calunnia spiegando come il giornale di cui è editore da tempo aveva svelato "inciuci tra le cooperative sociali, vicine al centro sinistra, facenti capo a Buzzi e Alemanno". Nella richiesta di archiviazione per Cionci scrivono i pm: "L’esistenza della grave inimicizia segnalata costituisce un ulteriore elemento di sospetto delle dichiarazioni di Buzzi idoneo a depotenziare la valenza accusatoria delle sue indicazioni con riferimento a Cionci e ai soggetti con i quali questi avrebbe commesso le azioni delittuose". Già due giorni fa in udienza, la procura aveva ottenuto di far finire agli atti tre articoli su Cinque Giorni, in uno "si fa riferimento a minacce di rivolte ai giornalisti". Acquisito un pezzo pubblicato il 5 aprile 2011 che titolava "Alemanno a tavola con le cooperative" e metteva in pagina le foto di una cena alla presenza anche di Buzzi. E agli atti ci è finito anche un altro articolo del 27 aprile 2012 pubblicato sempre sullo stesso giornale: "Vogliono spararci". La colpa del quotidiano è stata quella di essersi occupato dei punti verdi qualità, che dovevano essere un’occasione di rilancio delle periferie romane e invece sono risultati essere spesso uno spreco di soldi pubblici: molte delle strutture ora sono abbandonate o inutilizzate. Al direttore editoriale Giuliano Longo è arrivata anni fa una lettera di minacce: "Longo Giuliano hai rotto il cazzo con i punti verdi, pensa ad altro stronzo. Ti faccio un regalo adesso. Ti avverto, poi ti trovo e ti sparo". Le storie di Fabrizio Corona e Fabio Savi dimostrano che il carcere è inutile di Christian Raimo Internazionale, 20 ottobre 2016 Due notizie di cronaca ci riportano a parlare di galera. Qualche giorno fa Fabrizio Corona è stato sospeso dall’affidamento in prova ai servizi sociali ed è tornato in carcere, a San Vittore, perché sembra aver commesso un altro reato (intestazione di beni fittizi per tre milioni e passa di euro); da una settimana Fabio Savi, uno dei killer della Uno bianca e attualmente detenuto nel carcere di Uta (Cagliari), è in sciopero della fame - protesta per poter ottenere un computer e un lavoro da svolgere all’interno dell’istituto. Corona e Savi sono probabilmente tra i personaggi pubblici più odiosi che si possono menzionare. Il primo è uno sbruffone, un piccolo delinquente recidivo. Il secondo è uno degli assassini più feroci della storia italiana, tra la fine degli anni ottanta e la metà dei novanta con i suoi fratelli Alberto e Roberto - entrambi poliziotti - ha messo a segno decine di rapine ma soprattutto ha ucciso 24 persone e ne ha ferite un centinaio, incarnando fino all’arresto un incubo per chiunque viveva in Emilia-Romagna. Se si riascoltano un paio di interviste televisive con Corona e con Savi se ne ricava un senso di profonda inquietudine. A Maurizio Costanzo che gli chiede della sua condizione fisica, Corona racconta che non ha i più i denti - li ha persi, ci fa capire, in una rissa in prigione - e si toglie una placca artificiale che ha in bocca. A Franca Leosini, in una delle puntate più toccanti di Storie maledette, Savi prova a inserire una logica nel furore stragista che ha caratterizzato le azioni della banda della Uno bianca: "Io non volevo uccidere per uccidere, lo facevo per soldi". Per entrambi l’avidità di denaro ha eliminato qualunque scrupolo morale. Le loro auto-narrazioni - entrambi hanno scritto diversi libri su di sé in carcere - sono piene di un’autoindulgenza stucchevole oltre che repellente. Eppure. Eppure il punto di vista su di loro cambia radicalmente quando parlano delle condizioni di vita in carcere e dei diritti dei detenuti. Il non senso della vita in cella viene espresso con una lucidità che entrambi non dimostrano per nessun altro tema. Come si è visto, il carcere non ha mutato il carattere di Corona, ma - se possibile - ne ha esaltato gli aspetti di alienazione, regalando ai suoi stessi occhi uno stigma da fuorilegge e un’aura di vittimismo che hanno solo indurito la spacconaggine. Il caso Corona - All’inizio di Abolire il carcere (il libro scritto da Luigi Manconi, Federica Resta, Valentina Calderone e Stefano Anastasia) si legge: È stata Belén, all’anagrafe María Belén Rodríguez, a esprimere le considerazioni più pertinenti a proposito della condanna a tredici anni e due mesi di carcere inflitta a Fabrizio Corona. […] "Lui ha un problema, ha fatto degli errori, ma in realtà l’unico problema che ha sono i soldi". E ancora: "Secondo me la condanna che dovevano dargli è una grandissima multa salata e basta. Lui è in galera perché ha una malattia per i soldi" afferma Belén in una intervista al settimanale Oggi, il 22 dicembre 2014. Nelle parole della donna c’è l’eco (poco importa se inconsapevole) della più avanzata dottrina penalistica e della più ragionevole pedagogia per l’età adulta. Entrambe le ispirazioni tengono conto, nel ponderare qualità ed entità della sanzione per chi infrange le regole, della personalità del reo e dell’esigenza di rendere la pena effettivamente deterrente - dunque utile alla società - oltre che non inutilmente vessatoria nei confronti del condannato. Ed entrambe intendono sottrarre la misura punitiva al cupo e ottuso automatismo del "chiudere la cella" per tot anni o per sempre e "gettare via la chiave". E, infatti, nel caso di Corona, solo un tipo di sanzione capace di intervenire efficacemente sulla sua "patologia", la dipendenza dal denaro, può rispondere a quanto previsto dalla Carta costituzionale e dal nostro ordinamento. Può, cioè, sia svolgere una funzione preventiva - ovvero dissuaderlo dall’acquisire illegalmente risorse economiche - sia perseguire una finalità rieducativa, inducendolo a riflettere criticamente sulle conseguenze della propria dipendenza dal denaro. Letto alla luce dell’ultimo provvedimento contro Corona - il quale pare sia riuscito a procurarsi, anche mentre stava scontando la detenzione, più di tre milioni di euro con varie attività illecite e a nasconderli in un conto in Austria e in un controsoffitto di un appartamento a Milano - non viene da dare ragione a Belén? A che scopo metterlo in galera? Non si sarebbe potuto semplicemente multarlo pesantemente, interdirlo dalla possibilità di gestire società, penalizzarlo in altri modi, più incisivi per la sua patologia criminale e più utili per la società? Quale deterrente, quale riabilitazione, quale rieducazione gli sta dando la galera? Il caso Savi - Il caso di Fabio Savi è più delicato. Gli omicidi della Uno bianca sono stati una ferita enorme: la ferocia fino all’arresto e la consapevolezza che gli assassini appartenevano alle forze dell’ordine hanno germinato un forte bisogno di autodifesa in chi ha subìto questa lunga serie di omicidi. Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della banda della Uno bianca commentava ieri le richieste di Savi con: "Mi dispiace per lui, non c’è niente che mi faccia pena". Il sindaco di Bologna Virginio Merola già nel 2014 - di fronte alla richiesta di allora di una tramutazione dell’ergastolo in una pena a trent’anni attraverso il ricorso al rito abbreviato - dichiarava: "È irricevibile. Non si tratta di escludere il fatto che la pena serve anche e soprattutto a recuperare chi ha commesso dei reati. Il problema è che il reato che hanno commesso queste persone è enorme. Per noi di Bologna equivalgono al 2 agosto [anniversario della strage alla stazione ndr] e a cose di questo tipo. Non è possibile che noi si accetti qualche sconto di pena per queste persone". L’interrogativo serio che bisogna continuare a porsi è quello sull’utilità della detenzione. Se è impossibile non essere toccati dalle parole di Merola, allora bisogna ammettere però la sconfitta sempre rinnovata dello stato di diritto, di fronte alle eccezioni, alle enormità, al trauma inguaribile. Un particolare dà forse il senso di questo fallimento: nelle carceri italiane le persone che lavorano sono solo l’11 per cento, e nella maggior parte dei casi svolgono lavori che riproducono la dimensione carceraria - spazzini, portalettere interni. Sono un’assoluta minoranza coloro che realizzano prodotti o servizi utili per l’esterno. L’interrogativo serio che allora bisogna continuare a porsi è quello sull’utilità della detenzione per come è prevista e ancora di più per come è attuata in Italia. Le altre opzioni non solo dovrebbero essere più facilmente disponibili - comprese cure di tipo psichiatrico - ma soprattutto occorre considerare dati concreti sull’efficacia delle pene alternative, nell’eliminare le recidive per esempio. La nostra coscienza procede incerta, ma non possiamo non domandarci: è possibile che per ricucire queste ferite laceranti inferte al corpo sociale, l’unica modalità sia escludere vita natural durante i responsabili da ogni possibilità di recupero? È immaginabile praticare una qualche forma di giustizia riparativa, anche in casi estremi come quelli della Uno bianca, invece di un’infinita esecrazione? Sentenze, la correzione dell’errore di fatto impone un nuovo giudizio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2016 Corte di cassazione, sentenza 19 ottobre 2016, n. 44321. La Cassazione ammette che la giurisprudenza è spaccata sulla correzione dell’errore di fatto e supera i dubbi scegliendo tra diversi orientamenti. I giudici aderiscono al principio in base al quale la correzione dell’errore di fatto in sentenza impone di riconsiderare il motivo di ricorso. Si deve dunque procedere alla sostituzione della decisione resa "nulla" dall’errore e la procedura di correzione non si può esaurire nell’udienza camerale, conseguente alla proposizione del mezzo straordinario, ma deve essere articolata in due distinte fasi: l’immediata caducazione del provvedimento viziato e la successiva udienza per la celebrazione del rinnovato giudizio per cassazione che può portare alla sostituzione della precedente sentenza. Doppio reato edilizio senza tenuità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2016 Corte di cassazione, sentenza 19 ottobre 2016, n. 44319. Esclusa la particolare tenuità del fatto per chi costruisce un soppalco, alzando il tetto, e apre due punti luce sulla facciata esterna di un palazzo situato in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico. Il tutto senza la Dia e senza il permesso di costruire. La violazione contemporanea di due disposizioni di legge relative a reati della stessa specie sbarra la strada alla non punibilità, prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale, nei casi in cui l’offesa al bene tutelato sia lieve. La Corte di cassazione, con la sentenza 44319, respinge tutte le giustificazioni dell’autore degli abusi, che aveva di fatto creato all’interno del suo palazzo un vero e proprio piano ammezzato, con una scala interna che portava al soppalco "intermedio" alto 2 metri e 30, dotato di due bagni e di un paio finestre "lucifere" prive di affaccio ma visibili dall’esterno dell’immobile. Per fare il soppalco "incriminato" i solai di copertura erano stati alzati di almeno mezzo metro, una circostanza che aveva indotto il vicino a costituirsi parte civile per i danni. Malgrado il ricorrente abbia avuto torto su tutti i punti, la Cassazione annulla la sentenza impugnata per quanto riguarda la sanzione. Un "benefico" effetto della sentenza della Corte costituzionale (56/2016) in virtù della quale il delitto paesaggistico, se con l’abuso non si verifica un aumento volumetrico superiore al limite indicato dalla norma (articolo 181, comma 1 bis, del Dlgs 42/2004) é "derubricato" a semplice contravvenzione. Ma, anche se la pena è abbattuta, la condotta non può restare impunita, come sarebbe accaduto se i giudici avessero accolto la richiesta di applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale. Per la Cassazione, correttamente, la Corte di merito aveva escluso che nel caso di creazione di un nuovo piano abitabile, si possa parlare di offesa di particolare tenuità. Sul punto i giudici di merito avevano respinto la tesi della difesa secondo la quale l’altezza di 2,30 metri avrebbe escluso l’abitabilità, a fronte di una previsione di legge che fissa la soglia minima a 2 metri e 70. Secondo la Cassazione, infatti, i 40 centimetri in meno sono certamente di ostacolo all’agibilità, ma non impediscono al proprietario dell’immobile di vivere comodamente nel suo ammezzato con doppi servizi. La tenuità del fatto, abitabilità a parte, non avrebbe comunque potuto essere riconosciuta, perché erano state violate in contemporanea più disposizioni della legge penale: il codice sui beni paesaggistici (articolo 181, Dlgs 42/2004) e il testo unico sull’edilizia (articolo 44, lettera c, Dpr 380/2001). L’articolo 131-bis del Codice penale non può essere applicato, quando l’imputato commette più reati della stessa indole, o infrange più volte "la stessa o diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio punendi". Per la Suprema corte è la stessa norma a considerare il fatto nella sua dimensione "plurima": una valutazione d’insieme che rende irrilevante l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui questo si articola. Non passa neppure la questione sollevata dalla difesa sulla legittimazione del vicino, che non aveva provato alcun danno, a costituirsi parte civile. La Suprema corte spiega, infatti, che non è necessario fornire la dimostrazione del pregiudizio subìto. Nel caso di abusi edilizi il proprietario confinante può costituirsi parte civile non solo se vengono violate le norme civili che regolano le distanze tra le costruzioni, ma anche nel caso di inosservanza di queste indipendentemente dalle distanze. Trasferendo il principio al caso esaminato, l’innalzamento del solaio con conseguente aumento della volumetria abitabile e del carico urbanistico, fatto violando le norme sulle costruzioni, era potenzialmente idoneo a produrre un danno al vicino. Tanto basta per affermare il diritto al risarcimento. Il difensore della parte civile va liquidato in base alla complessità dell’attività svolta di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2016 Corte di Cassazione - Sezione IV -Sentenza 19 ottobre 2016 n. 44342. Il difensore della parte civile nel giudizio penale deve essere liquidato in considerazione dell’effettivo sforzo profuso nell’attività difensiva. Così risulta del tutto generica e, quindi, giuridicamente illegittima, la condanna inflitta al reo relativamente alle spese sostenute dalle costituite parti civili liquidate nel caso concreto in complessivi 1759 euro con la formula "se e in quanto dovute", per ciascuna di esse (6 nel caso concreto). Il principio della Cassazione - La Cassazione - con la sentenza n. 44342/2016 - ha chiarito come il gup non avesse per nulla rispettato il criterio da utilizzare nella liquidazione delle spese. In questo caso si deve fornire adeguata motivazione sia per l’individuazione delle voci riferibili effettivamente alle singole attività dedotte, che sulla congruità delle somme liquidate, avuto riguardo ai parametri normativamente fissati, al numero e all’importanza delle questioni trattate e alla natura ed entità delle singole prestazioni difensive. Il principio, peraltro, non trova alcun ostacolo dall’abrogazione delle tariffe professionali a opera del Dl 1/2012 articolo 9, comma 1 (convertito dalla legge 27/2012) e anzi devono essere ribaditi i criteri appena enunciati. E se da un certo punto di vista il giudice non è più legato ai limiti minimi e massimi fissati nel determinare ciò che deve essere rifuso a titolo di compenso per le prestazioni del patrono di parte civile, egli deve comunque fare riferimento, così come previsto dal Dl 1/2012, ai parametri stabiliti dal Dm 20 luglio 2012 n. 140 e pertanto fornire adeguata e specifica motivazione sulla loro utilizzazione. In particolare nella tabella B) allegata al Dm 140/2012 sono elencati quei parametri specifici per la determinazione del compenso come valori medi di riferimento per la liquidazione. Si tratta - si legge nella decisione - di valori non vincolanti per il giudice che può discostarsene solo se fornisce motivazioni di un più corretto adeguamento del compenso liquidato all’effettivo contenuto e complessità della prestazione professionale. L’errore commesso dal gup - Nel caso concreto, invece, il gup del Tribunale di Trani ha provveduto a determinare in maniera globale l’entità delle spese sostenute dalla parte civile, senza specificare, come invece necessario, alla luce di quanto detto la ripartizione delle somme riconosciute in relazione all’attività di difensore svolta nelle diverse fasi del procedimento. Non è quindi quello che è stato effettuato nel caso concreto avendo il giudice liquidato in via del tutto generica a ciascuna delle parti civili (6) la somma richiamata in precedenza, adottando un’espressione assolutamente generica "se e in quanto dovuto". Logica conclusione l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla liquidazione delle spese delle parti civili e rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. Più sei ricco, meno paghi... se sei povero, resti in galera di Valter Vecellio L’Indro, 20 ottobre 2016 Parrebbe la scoperta dell’acqua calda, ma è altrettanto vero che certe ovvietà non bisogna stancarsi di dirle e ripeterle perché lo sono assai meno di quanto si può credere. E dunque: in carcere, non solo in Italia, possono finirci indistintamente abbienti e poveracci, "nobili e plebei", si sarebbe potuto dire un tempo; e al di là dell’esser giusta o meno la detenzione (altra "acqua calda": i primi, spesso, con maggior merito rispetto i secondi), tutte le statistiche e le rivelazioni documentano che chi appartiene a determinate classi sociali ha più probabilità di cavarsela a mercato migliore; da qui, il detto che la legge è per tutti uguale, ma che non tutti sono uguali per la legge. E non solo se la cavano pagando meno dazio; beneficiano di preferenziali corsie, cosicché i loro percorsi vengono esaminati con maggiore celerità e qualche scrupolo in più. Giustizia di classe, si può ben dire, e pazienza se si verrà additati come sinistrorsi succubi di teorie più o meno marxisteggianti. Del resto, ecco cosa dicono quattro persone che nel pianeta carcere operano e vivono da sempre: l’ispettore generale dei cappellani delle carceri don Virgilio Balducchi; e tre cappellani di grandi carceri: don Antonio Loi (Opera, Milano), don Sandro Spriano (Rebibbia, Roma), don Franco Esposito (Poggioreale, Napoli). "È vero che in carcere è molto facile che i poveri ci restino più a lungo", riconosce don Balducchi. "Parliamo degli immigrati, che non hanno nessuno e neppure una casa, e dei tossicodipendenti più disperati, delle persone povere e malate. Chi ha le possibilità economiche può difendersi meglio nel processo e ha maggiori alternative fuori dal carcere". E per quel che riguarda la recidiva? "Sono i dati ufficiali, che mostrano che chi sconta la pena solo in carcere, senza avere opportunità di professionalizzazione o di lavoro continuativo, recidiva di più. Al contrario chi usufruisce delle pene alternative e di programmi esterni, più difficilmente compie nuovi reati. Perciò, la giustizia italiana dovrebbe utilizzare di meno la pena in carcere e di più le pene sul territorio, con responsabilità, creando posti di lavoro e luoghi di accoglienza". Don Antonio Loi traccia quella che potrebbe essere un’equazione: "Se in carcere si tengono le persone a non fare niente, continuano a non fare niente. Se si offrono opportunità di lavoro il discorso cambia. Ricordo un libro molto bello del cardinale Martini, "Ma questa è giustizia?", in cui scriveva che bisogna educare le persone a riappropriarsi del valore del tempo, dei soldi, di tante piccole cose della vita, che hanno un valore grande. Vanno date più opportunità, con un po’ meno ristrettezze, e vanno sviluppate anche opportunità culturali. L’opportunità di lavoro per uno che nella vita ha sempre lavorato e magari ha fatto una fesseria può riaprire una speranza, anche se non farà più quello che faceva prima. Chi invece ha vissuto sempre di criminalità può scoprire il valore del lavoro". È così? Le cifre fornite dal Ministero della Giustizia confortano questa tesi: la recidiva tra chi usufruisce delle pene alternative al carcere è bassa: il 19 per cento. Più che raddoppiata tra quei detenuti che invece conoscono solo il carcere. "Questo", sintetizza il sacerdote, significa "che forse il carcere non funziona. Però non so se siamo pronti a percorrere nuove strade". Sentite ora don Spriano: "Il detenuto è privato di ogni diritto nell’opinione della maggioranza dei cittadini. Tutte le porte vengono chiuse, a cominciare da quelle di noi cristiani: tutti abbiamo paura di chi è stato in carcere. La recidiva non è soprattutto la capacità di commettere altri reati, ma è l’uscita dal carcere di un povero, che vi era già entrato povero e torna fuori più povero di prima. E deve mangiare, non sa dove dormire, non sa dove poter fare qualcosa della sua vita. Per questo tornano in carcere. Non ci torna facilmente chi trova accoglienza e un lavoro". "L’alto tasso di recidiva", dice don Spriano, "è conseguenza di un carcere dove si tengono rinchiuse le persone senza nessun programma serio di reinserimento, di rieducazione. Escono peggiori di come sono entrate. Anche perché vengono private della cosa più importante, gli affetti". Da ultimo, il cappellano di Poggioreale don Franco Esposito, animatore di un progetto pilota: "Liberi di volare", una comunità di accoglienza per detenuti, che lì vivono gli ultimi due-tre anni di detenzione agli arresti domiciliari. Racconta: "Al momento ospitiamo dieci detenuti residenziali e quaranta in affido diurno. È un’esperienza avviata quattro anni; dimostra che la recidiva scende enormemente, fino a meno del 10 per cento, se ci sono opportunità. E questo dovrebbe far interrogare i politici sulla necessità di pensare seriamente a un’alternativa al carcere. Inoltre, un carcerato in un istituto carcerario costa allo Stato oltre 200 euro al giorno, mentre comunità come la nostra non riceve nessuna sovvenzione statale". La giustizia italiana fatta a pezzi da un film capolavoro su Amanda Knox di Salvatore Merlo Il Foglio, 20 ottobre 2016 E il reciproco amore tra i giornalisti e i magistrati diventa un labirinto senza uscita, una via senza meta, il solito di quasi tutte le tresche clandestine e adultere, che hanno il nulla come ultimo scopo: abissi senza sfogo. "La gente adora i mostri. Quando ne ha la possibilità, vuole vederli", dice a un certo punto Amanda Knox, imperscrutabile e inintelligibile, vittima o carnefice, in questo documentario kolossal americano in onda su Netflix, questo romanzo sospeso tra Kafka e Dostoevskij, girato con una sapienza narrativa tanto prodigiosa quanto elusiva, un racconto in cui tutto, dai protagonisti ai comprimari, sembra giocare per rendere ogni parola, e persino la verità giudiziaria, ammesso che esista, ancora meglio revocabile, ritrattabile, smentibile, a suscitare dunque altri ingarbugliamenti, più fiere sospettosità, vaste nubi di nuovo gas che quasi offuscano lei, Amanda, lei che dà il titolo a questo film stilisticamente perfetto dei registi Brian McGinn e Rod Blackhurst, girato lungo cinque anni di lavoro, e che alla fine ha in realtà per protagonisti la giustizia italiana, machiavellica e grossolana, e un giornalismo corrivo alle più ardue dissennatezze della morbosità, pronto a maneggiare il fango e la monnezza proveniente dai corridoi delle procure, a distribuirli a piene mani sulle colonne dei quotidiani. Magistrati e giornalisti, dunque, selvaggiamente avvinghiati come figure del valzer, il pubblico ministero di Perugia Giuliano Mignini - la probità affettata, le preghiere inginocchiato in chiesa, le citazioni evangeliche, l’accademismo letterario, e una vena di narcisistico bigottismo - inscalfibile nel perseguire sin dai primi giorni successivi all’omicidio di Meredith Kercher, la tesi dell’assassina sessuomane, a suggerirla ai media, sempre col gelato sorriso di chi ha dalla sua parte una logica inoppugnabile, se non addirittura la verità. E poi il cronista del Daily Mail, Nick Pisa, capelli al gel, cravattone, abito blu iridato, cui non interessa la complessità, ma il gioco a spese della complessità: si abbeverava di dettagli morbosetti, e talvolta persino fasulli, provenienti dagli ambienti giudiziari, tutto quel genere di informazioni pseudo erotiche, utili a rafforzare la tesi dell’accusa, che in quei mesi crescevano, s’ingigantivano, scavalcavano il senso delle proporzioni: "Certo, diverse notizie non si sono rivelate vere", confessa a un certo punto, "ma siamo giornalisti e riportiamo quel che ci viene detto. Se avessi perso tempo a verificare avrei dato un vantaggio alla concorrenza". Ecco dunque i due "anti eroi" di questo film, secondo un classico schema da sceneggiatura cinematografica, ecco Pisa e Mignini, il cronista britannico e il magistrato italiano, che raccontando l’omicidio e le sue implicazioni, e raccontando diffusamente anche se stessi ("il mio modello è Sherlock Holmes", si abbandona a dire a un certo punto il pm mentre tiene in bocca una pipa spenta), fanno pian piano emergere uno strapotente cortocircuito, quell’imprendibile intreccio di vanità, sensazionalismo, pressione pubblica, rapporti contorti tra media e pm, quel velenoso pasticcio che in Italia ben conosciamo e che il giornalista anglosassone, con singolare compiacimento racconta così: "Il nome in prima pagina su uno scoop mondiale è come fare sesso". E fu lui, infatti, a pubblicare sul tabloid per il quale allora lavorava il diario intimo che Amanda aveva scritto in prigione, in uno stato di fragilità e di prostrazione, quando a un certo punto, al solo scopo di destabilizzarla psicologicamente e spingerla a confessare, le fu raccontato dalle autorità italiane - sembra incredibile - che era ammalata di Aids. Ebbene, in quel diario Amanda si confessava, elencava nel dettaglio tutte le persone con le quali aveva avuto rapporti sessuali nel corso della sua giovane vita, le persone dalle quali dunque avrebbe potuto aver contratto la malattia. Quell’elenco fu pubblicato dal Daily Mail, qualcuno lo aveva passato al giornalista - "Chi mi ha dato il diario che Amanda scrive in carcere? Un giornalista non rivela mai le propri fonti" - e una volta reso pubblico, ebbe l’effetto di confermare e rafforzare in maniera determinante la tesi della procura (confermata in Appello ma poi smontata in Cassazione), dunque la tesi di Mignini, che descriveva Amanda come una malata di sesso, una figura dominante, una mangiatrice di uomini capace di manipolare il suo ragazzo, e coimputato, Raffele Sollecito. Scrisse il Guardian dopo l’assoluzione definitiva: "Gli inquirenti si sono resi colpevoli di grottesca incompetenza, panico da pressione mediatica e misoginia". Col risultato che di tutta la vicenda, alla fine, non si è capito nulla, se non il fatto che, forse, giustizia non è stata fatta. In carcere resta solo Rudy Guede per "concorso in omicidio". Concorso con chi? E anche nel film, Brian McGinn e Rod Blackhurst lasciano che i dubbi, i retro-pensieri, le favole torbide formino un insieme stordente, capace d’incarnare ogni suppurazione e insensatezza d’una giustizia degradata a spettacolo. Calabria: accordo Regione-ministero per il reinserimento lavorativo dei detenuti il Velino, 20 ottobre 2016 Stipulato un protocollo che prevede attività di formazione professionale nelle strutture penitenziarie di Laureana di Borrello, Reggio Calabria e Catanzaro. Il ministero della Giustizia e la Regione Calabria, "in linea di continuità con la strategia politica di intervento per favorire il reinserimento socio-lavorativo delle persone in esecuzione penale e per mettere in sinergia le risorse per lo sviluppo del territorio e per la sicurezza sociale", hanno stipulato oggi un protocollo che punta allo sviluppo di percorsi stabili di reinserimento socio-lavorativo. Ciò dovrà avvenire, secondo quanto previsto nell’accordo ministero-Regione, attraverso le seguenti attività: la realizzazione di un frantoio nell’istituto penitenziario di Laureana di Borrello, la formazione professionale dei detenuti e l’inserimento lavorativo nel settore della produzione dell’olio d’oliva, la conservazione e commercializzazione delle olive; la realizzazione di una sartoria per favorire la riqualificazione professionale e l’inserimento lavorativo delle detenute della Casa Circondariale di Reggio Calabria Arghillà; la realizzazione di un laboratorio di panetteria per favorire la formazione professionale e l’inserimento socio-lavorativo dei detenuti dell’Istituto Penale per minorenni di Catanzaro; la definizione di percorsi di reinserimento socio-lavorativo per i giovani adulti detenuti negli Istituti penitenziari per adulti per favorire l’accesso alle misure alternative alla detenzione. "Il protocollo - si legge in una nota del Ministero - sancisce un nuovo corso nell’ambito della collaborazione con la Regione Calabria, volto a rafforzare la cooperazione inter-istituzionale per favorire l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale nel territorio regionale ed il reinserimento stabile nella società civile. La strategia generale è quella di collegare stabilmente i settori produttivi del territorio con i servizi sociali pubblici, la rete di protezione sociale e di accompagnamento, i servizi di formazione professionale ed istruzione attraverso un’azione di sistema volta a favorire la progettazione partecipata". I progetti, per un importo complessivo di 680mila euro, sono finanziati dalla Regione Calabria. Liguria: diritti dei detenuti, Pastorino e Palma chiedono la legge sul garante primocanale.it, 20 ottobre 2016 Incontro fra il consigliere regionale di Rete a Sinistra Gianni Pastorino e il garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma, a Genova in visita ufficiale per motivi istituzionali. "Un confronto molto positivo: occasione ideale per riferire sull’andamento della proposta di legge, presentata da Rete a Sinistra, che punta all’istituzione di un garante regionale anche in Liguria - dichiara Pastorino - Non solo, è stata un’opportunità anche per fare il bilancio sulla condizione carceraria in questa regione e sulle problematiche connesse". Pastorino e Palma concordano: "Un rammarico che la legge regionale non sia stata ancora approvata, e quindi che la nomina sia tuttora vacante - sottolinea Pastorino - Ma per certi versi questa situazione può trasformarsi in un vantaggio. La Liguria, infatti, potrà essere la prima regione a sperimentare una figura di garante innovativa, ancora più in linea con le ultime questioni normative poste a livello internazionale". "Bisogna ricordarlo, sono davvero numerosi i soggetti che hanno contribuito alla discussione: rappresentanti delle istituzioni carcerarie e del mondo accademico, associazioni di volontariato laiche e cattoliche, organizzazioni mobilitate per il rispetto dei diritti dei carcerati. Tutti hanno dato un giudizio molto positivo del nostro testo - ricorda Pastorino - Ora è necessario un ultimo sforzo, l’ultimo balzo in avanti: licenziare il documento definitivo e portarlo in aula; il voto, ci auspichiamo positivo, colmerà una lacuna che in questa regione dura da troppi anni". Bolzano: primo caso di project financing riferito all’edilizia carceraria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2016 Il Nuovo istituto, realizzato da un gruppo di aziende, sarà inaugurato nel 2018. Mentre negli Usa tramonta l’era delle carceri private, in Italia il modello potrebbe prendere piede. È slittata a giugno 2018 l’inaugurazione del nuovo carcere di Bolzano a causa di alcuni ritardi nei lavori e problemi con la gara di appalto. Questa struttura, voluta fortemente dalla Provincia autonoma di Bolzano, potrebbe essere definito il prototipo del carcere privato. Nel 2013 la Provincia Autonoma ha pubblicato il bando di concessione dal valore di 72 milioni di euro, riguardante il finanziamento, la progettazione e la costruzione del nuovo istituto penitenziario. Il vincitore dell’appalto viene indicato anche come gestore delle questioni interne. Il terreno su cui sorgerà il penitenziario - 18 mila metri quadri d’estensione - sono stati acquistati dal Gruppo Podini e Rauch di Bolzano. Vincitore dell’appalto è Inso, controllata della società romana delle costruzioni civili Condotte spa. Una società leader nel mercato italiano che include operazioni nell’ambito del tunnel del Monte Bianco, della metropolitana milanese e della Tav in Toscana. Il carcere - progettato per 220 detenuti - è il primo esempio in Italia di partnership pubblico-privato applicata alla reclusione ed il primo caso di project financing riferito all’edilizia carceraria. Ciò è dovuto dall’articolo 43 del Decreto Liberalizzazioni promosso dall’ex governo Monti che introduce il cosiddetto "Project financing per la realizzazione di infrastrutture carcerarie. " Come si legge nel decreto, la misura è stata introdotta per "fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri, " riconosce "al concessionario, a titolo di prezzo, una tariffa per la gestione dell’infrastruttura e per i servizi connessi" e obbliga il concessionario a "prevedere che le fondazioni di origine bancaria contribuiscano alla realizzazione delle infrastrutture, con il finanziamento di almeno il venti per cento del costo di investimento. " Quello di Bolzano non sarà il primo carcere privato d’Italia, ma ci si avvicina molto. Il rischio che potrebbe avvicinarsi lo spettro del business privato sul sistema penitenziario è finora scongiurato. A riassicurarci è stato lo stesso ministro della Giustizia Orlando a proposito della realizzazione di nuove carceri: "È del tutto avveniristico in Italia pensare a carceri di proprietà dei privati e gestite dai privati, come avviene negli Usa, dove il business ha avuto come effetti l’aumento del numero dei detenuti. Io sono contrario alla privatizzazione, credo che ci siano anche dei vincoli costituzionali, l’esecuzione della pena non può essere delegata a un altro soggetto. Nel nostro Paese poi, con la criminalità mafiosa, sarebbe addirittura inquietante". Novara: ex Campo Tav, i detenuti terminano la sistemazione dell’area novaratoday.it, 20 ottobre 2016 I detenuti del carcere di Novara hanno concluso la pulizia dell’area non abitata del campo, che era invasa di rifiuti e erbacce. È proseguito nella mattinata di ieri, mercoledì 19 ottobre, l’intervento di pulizia e sistemazione dell’ex-campo base della Tav in via Alberto da Giussano eseguito dall’Assa con l’impiego dei detenuti volontari in uscita premio dal carcere di via Sforzesca. Come noto, l’iniziativa denominata "Giornata di recupero del patrimonio ambientale" si svolge nell’ambito del protocollo triennale sottoscritto tra Comune, Casa Circondariale, Magistratura di Sorveglianza, Ufficio esecuzioni penali esterne, Assa e Azienda territoriale per la casa. Nonostante l’impegno dei partecipanti alla giornata del 4 ottobre e l’ingente quantità di rifiuti rimossa durante quel primo intervento, data l’estensione e il totale degrado nel quale versava l’area (che è ritornata al Comune dopo un periodo di sequestro) per ultimare i lavori è stato necessario un secondo intervento. I detenuti volontari, accompagnati come sempre dagli agenti della Polizia penitenziaria, sotto il coordinamento di Assa e con l’ausilio di mezzi e personale Assa, in particolare dei detenuti "cantieristi" in azienda da legge regionale 34/2008, hanno provveduto alla mondatura delle degli spazi aperti e alla rimozione degli ultimi rifiuti. Biella: la fioritura dei cimiteri è affidata ai detenuti newsbiella.it, 20 ottobre 2016 Un accordo tra la direzione della casa circondariale, l’associazione Ricominciare e il Comune riaprirà le porte del carcere per i detenuti che partecipano ai corsi di orticoltura e giardinaggio all’interno delle mura protette della struttura cittadina: saranno i fiori e le piante coltivati nelle serre di via dei Tigli a ornare le aiuole dei cimiteri cittadini in vista della ricorrenza di Ognissanti. E saranno i detenuti stessi, insieme ai dipendenti comunali, a provvedere all’abbellimento dei viali e degli spazi verdi attorno alle tombe. "Era un progetto già realizzato nel passato" sostiene l’assessore Valeria Varnero "e grazie alla collaborazione della direttrice della casa circondariale e dell’associazione Ricominciare, siamo riusciti a farlo ripartire in tempi rapidissimi". I detenuti del corso di giardinaggio lavoreranno all’allestimento delle aiuole con la supervisione di un agronomo, mettendo a frutto le nozioni apprese durante le ore di formazione professionale in carcere. Il costo massimo per il Comune sarà di 500 euro, da versare all’associazione Ricominciare come rimborso delle spese sostenute per la coltivazione dei fiori. Napoli: assolto dopo 23 anni, l’avvocato cerca di rintracciarlo e scopre che è morto di Ferruccio Fabrizio La Città di Salerno, 20 ottobre 2016 Un imprenditore napoletano è stato anche in carcere in Germania accusato dalla moglie di averle sottratto la figlia. La tenacia di una penalista napoletana gli ha restituito giustizia postuma. La moglie tedesca, Carola Hinz, lo accusò di aver sequestrato la figlia di 7 anni. Ma non era vero. Mario Ferraro, imprenditore napoletano, si fece quattro anni di carcere, adorato dalla bambina e del tutto innocente. Al contrario, fu la donna a tentare di portargliela via e a rendersi irreperibile. Il tribunale italiano gli ha restituito giustizia, dopo 23 anni. Troppo tardi. Uscito dalla prigione nel 2004, l’uomo si è ammalato ed è morto in solitudine con un tumore al cervello. Scioccato dalla profonda ingiustizia, aveva fatto perdere le sue tracce. Nemmeno la figlia, oggi trentenne, aveva più sue notizie. E quando il suo avvocato ha cercato di rintracciarlo tra i conoscenti per regalargli la consolazione della sentenza, è spuntato solo un vecchio compagno di banco: "Mario Ferraro si è spento, a 59 anni". La sua vicenda creò un caso diplomatico Italia-Germania. Ferraro fu arrestato a Pilsen, Repubblica Ceca e rilasciato su pressioni del governo Ciampi. Fermato di nuovo in Germania, fu condannato alla prigione, sentenza definitiva a fine 1999, quattro scontati nel penitenziario di Monaco di Baviera durante i governi D’Alema e Berlusconi. Poi sulla vicenda è calato il silenzio, anche politico. Lo ha squarciato una tenace penalista napoletana, Esther Lettieri, che nel giudizio di riconoscimento di sentenza straniera ha impugnato quella condanna del tribunale tedesco e dimostrato quello che già all’epoca appariva un incredibile errore giudiziario durante il quale l’uomo si appellò a tutti: da Maurizio Costanzo al capo dello Stato. Grazie alla ricostruzione del legale, è stato assolto dall’ottava sezione penale della Corte d’Appello di Napoli che ha rigettato in 16 punti la richiesta del tribunale tedesco. Ferraro aveva sposato Carola Hinz a Pomezia e vissuto con la moglie e le due figlie in Germania fino all’ottobre 1992 quando si recò in visita in Italia con una delle due bambine e il consenso della moglie. Ma poco dopo la magistratura tedesca emise un provvedimento cautelare nei suoi confronti per sequestro di minore: la moglie, mentre l’uomo era lontano, lo aveva denunciato a sorpresa, chiesto e ottenuto dal tribunale tedesco un divorzio lampo e senza contraddittorio. Fu l’inizio di un calvario. Il tribunale dei minorenni di Napoli affida la piccola al padre, motivando la decisione anche con i ripetuti tentativi della moglie di rapire la bambina. Lo stallo divide come un muro di Berlino i due coniugi, lui in Italia con Manuela, la moglie in Germania con la seconda figlia. Eppure, sottolinea la Corte d’Appello, l’uomo dichiarò la sua disponibilità a riportare la figlia alla madre a patto di poterla vedere senza essere arrestato. Nonostante l’intervento del ministero degli affari esteri gli consentì di rimettere piede sul suolo tedesco, l’imprenditore finì in manette di nuovo. Gli anni del carcere, la malattia e la solitudine segneranno la sua vita. Un macabro messaggio sul suo profilo Facebook, il volto di un uomo assetato di sangue, l’ultima sua traccia. Fino alla sentenza di innocenza. Fino alla morte. Milano: fiamme in una cella del Beccaria, due agenti intossicati La Repubblica, 20 ottobre 2016 Ad appiccare il fuoco è stato un detenuto di isolamento, già evaso dal carcere minorile di Torino. Un detenuto in cella d’isolamento ha appiccato un incendio nel carcere minorile Beccaria di Milano. Due agenti, intervenuti per spegnere le fiamme, sono rimasti intossicati e sono stati trasportati al pronto soccorso del San Carlo. A denunciare l’accaduto è Funzione pubblica Cgil Lombardia: l’episodio confermerebbe l’insufficienza del personale del Beccaria. Come scrive il sindacato, l’istituto "soffre di pesanti carenze d’organico e di diverse problematiche", per cui è necessaria "una maggiore attenzione anche per poter gestire quei giovani detenuti con particolari caratteristiche". Secondo il comunicato, il detenuto che ha appiccato l’incendio era stato trasferito a Milano dopo essere evaso, qualche giorno fa, dal penitenziario minorile di Torino. Augusta (Sr): assegnato il Premio Castelli per i detenuti, 166 opere in concorso Askanews, 20 ottobre 2016 Detenuti e autorità a confronto sul tema del "perdono". È avvenuto nel carcere di Augusta, in occasione del Premio "Carlo Castelli" - concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane - durante il quale 250 detenuti hanno incontrato le autorità locali in un evento organizzato dalla Società di San Vincenzo De Paoli. "Non è stata soltanto la solita premiazione di un bando di concorso - ha dichiarato Antonio Gianfico, Presidente Nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli - ma l’occasione per dare voce ai carcerati su un argomento tanto significativo come il perdono". Si sono incontrati per riflettere insieme - riferisce una nota - oltre cento carcerati, alcuni dei quali in regime di alta sicurezza, più di 150 volontari vincenziani, la stampa e le autorità. Erano presenti anche l’arcivescovo di Siracusa, monsignor Salvatore Pappalardo; il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo; ed il direttore della Casa di Reclusione di Augusta, Antonio Gelardi. Tra i relatori del convegno "La libertà del perdono" hanno partecipato: Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio Bachelet assassinato nel 1980; Caterina Chinnici, figlia del giudice Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia nel 1983; Maria Falcone, sorella di Giovanni Falcone, che ha trovato la morte nella strage di Capaci del 1992; Angelica Musy, moglie di Alberto Musy, ucciso a Torino nel 2012; Renato Balduzzi, membro laico del CSM ed il giornalista Luigi Accattoli. Alla giuria del premio Castelli sono pervenuti 166 elaborati, provenienti da 80 diversi istituti penitenziari. Le opere finaliste sono state raccolte in un volume dal titolo: "Il cuore ha sete di perdono". Tre i vincitori: al primo posto il racconto di Diego Zuin "E allora ti chiedi"; al secondo Simone Benenati con "Perdonare: una grazia infinita da dare e ricevere"; al terzo "Notti tra Morfeo e morfina" di Domenico Auteritano. Ai tre vincitori saranno devoluti 1.000 euro per finanziare l’acquisto di attrezzature e materiale didattico di un’aula scolastica in India; 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di un giovane adulto dell’IPM "Malaspina" di Palermo; 800 euro per l’adozione a distanza di una bambina del Kazakistan per 5 anni. Roma: "Sole cuore amore" di Daniele Vicari, la Festa del Cinema vista da Rebibbia di Francesco Di Brigida Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2016 Entrarci come ospite non è facile. Devi lasciare un documento insieme a tutti gli effetti personali, soprattutto il telefono. Un po’ come i controlli alle partenze in aeroporto. Ma qui devi anche compilare una dichiarazione sui carichi pendenti. Cioè si sottoscrive che si è incensurati. Superata la grande porta d’acciaio che separa il "dentro" dal "fuori" entri in un micro-mondo di lunghi corridoi, edifici in mattoni gialli che hanno grate sulle finestre come occhi e panni stesi per occhiaie colorate. Si ha la percezione che in ognuno di quei mattoni ci siano storie che non vorresti ascoltare, ma che sono accadute e poi sono state giudicate. Scortati dalle guardie di turno si arriva all’Auditorium del Carcere di Rebibbia, la sala dov’è nato il celebre Cesare deve morire, teatro shakespeariano diretto da Fabio Cavalli prima, pietra miliare dei Taviani poi. Quest’anno la Festa del Cinema di Roma ha esordito tra le mura penitenziarie con la proiezione di qualche titolo dalla sua kermesse. Domenica i soli detenuti con i loro familiari hanno visto Sing Street, mentre lunedì con l’ingresso aperto al pubblico è stata la volta di Sole cuore amore di Daniele Vicari. I detenuti erano in un quarto di sala a loro riservata. E gli sguardi delle scolaresche presenti sembravano percorsi da mille pensieri e interrogativi al loro arrivo. Mentre lo stesso regista presente in sala ha confessato più emozione lì che sul tappeto rosso dell’altro Auditorium, quello di Renzo Piano. Io sedevo a metà sala, appena davanti a quella benedetta fila con un paio di metri di corridoio a consentirti di distendere comodamente le gambe. Su quella fila e fino a fondo sala i veri padroni di casa: i detenuti. E i secondini a controllarci tutti. Quando Francesco Montanari compare sul grande schermo si leva un: "Anvedi chi ce sta! Er Libanese!". Ogni tanto un sorriso per i tanti commenti e battute dei detenuti ti viene. È un vociare che sa di libertà, magari lunga solo un film, ma preziosa da condividere. Quindi ben venga pure la difficoltà di comprendere alcune parole sussurrate dagli attori. In questo piccolo paradosso che è Rebibbia non t’innervosisce, come farebbe certamente in qualsiasi altro cinema. Anzi. Il trittico di parole più banale "sole cuore amore" attraverso la cinepresa di Vicari si dipana in un ritratto lucido dell’odierna periferia romana. La storia dei protagonisti, una coppia di trentacinquenni con quattro figli è trasversale e supera i confini delle proprie location. Ritrae la vita sacrificata e pendolare di chi dall’hinterland passa due ore sui mezzi pubblici per raggiungere un posto di lavoro mal pagato, racconta delle tensioni per mantenerlo e i mille problemi che riducono al minimo le ore di sonno. La salute ci mette il suo intaccando Eli, una Isabella Ragonese profondamente ispirata, e ogni equilibrio si farà ancora più fragile e faticoso. Vicari non è perfetto come Ken Loach ma proprio per questo mette in scena un cinema ancor più reale, vivido, a volte crudo con i suoi risvolti, altre tenero, altre ancora spassoso. Com’è la vita. Pur quando difficile, una risata ci può scappare. Qualche intreccio narrativo resta un po’ sospeso. Scelte autoriali, ma il film seppur dal basso è altissimo, anche socialmente. Non perché lo suggeriscano i titoli di testa per via del Ministero che lo ha co-finanziato. Il merito dell’autore resta grande perché sintetizza in una storia semplice l’aggressività egoistica dei nostri tempi, l’importanza dell’accoglienza della famiglia per l’individuo e la dignità necessaria del lavoro. I personaggi ti entrano sotto la pelle. A volte con piacere come il Mario affettuoso e disoccupato di Montanari, altre con sensazioni molto meno positive. Come per il ruvido principale di Eli interpretato da Francesco Acquaroli. La vicenda di Eli s’intreccia anche con quelle di Vale, performer che arrotonda babysitterando i figli dell’amica e gestendo con difficoltà il rapporto con la madre e quello con la compagna di lavoro. L’elemento danza si pone come punteggiatura ideale per le vicende della famiglia separando i blocchi narrativi con coreografie tra Forte Prenestino e altre periferie di Roma. Periferie come Rebibbia, che ne ha incarnato perfettamente lo spirito. Giovedì 20 ottobre i detenuti del G12 saliranno sul palcoscenico per Dalla città dolente, pièce teatrale per la prima volta trasmessa in diretta al Museo MAXXI per la Festa del Cinema e in streaming online dal sito del Centro Studi Enrico Maria Salerno, l’associazione che si occupa di cultura e integrazione all’interno del carcere. Se la montagna non va da Cesare, Cesare va alla montagna. Era Maometto, ma stavolta va bene così. Napoli: cena nel carcere di Poggioreale, chef stellati e detenuti ai fornelli La Repubblica, 20 ottobre 2016 Serata "gourmet" senza precedenti nel penitenziario, con portate preparate dai celebri Alfonso Caputo, Peppe Guida e Marianna Vitale, coadiuvati in cucina da undici reclusi. Martedì 18, alle 19.30, le porte del Carcere in via Nuova Poggioreale si sono aperte ad un pubblico di settanta persone, per quella che è stata un’iniziativa senza precedenti per l’Istituto penitenziario di Napoli: una cena gourmet, preparata da tre chef stellati. Alfonso Caputo, Peppe Guida e Marianna Vitale, coadiuvati ai fornelli da undici detenuti, tutti in giubba da cuoco. Una sorta di master chef, una gara culinaria, con tanto di giuria e premi in palio. La chiesa del carcere per una sera è stata così trasformata in un ristorante con tavoli apparecchiati a festa e un menu in tre portate. Il direttore dell’Istituto Antonio Fullone ha accolto gli ospiti, tutti rigorosamente senza cellulare. Il primo ad arrivare è stato Gennaro Migliore, sottosegretario al ministero di Giustizia, chiamato a fare anche il gastronomo per una sera, come presidente della giuria. Tanta società civile in sala, ma anche il capo del Dipartimento della Giustizia minorile Francesco Cascini, il presidente Corte d’Appello Giuseppe De Carolis, il procuratore generale Luigi Riello e il sindaco Luigi de Magistris. Tutti hanno contribuito alla serata con una donazione di 75 euro, perché la finalità del progetto è la raccolta di fondi a sostegno delle iniziative della onlus "Il carcere possibile", da sempre impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti e nella loro formazione. "La nostra idea - ha dichiarato Sergio Schiltzer, presidente della Onlus - è creare un laboratorio permanente di cucina per i ragazzi di Poggioreale, per offrire loro opportunità concrete di crescita e formazione per un futuro possibile oltre le sbarre", Gli chef hanno partecipato con molta dedizione. "Ho più ricevuto che dato", ha commentato Peppe Guida, chef della premiata Osteria Nonna Rosa di Vico Equense, che ha guidato una brigata di tre detenuti nella preparazione di un delicato "Vermicello di Gragnano Igp con lupini, pomodorini arrosto, cacio e pepe". Ma il piatto e quindi la brigata che ha conquistato la giuria (composta da Santa Di Salvo, Natascia Festa e Conchita Sannino) è stata la "Minestra di mare con verdure e frutta di stagione" di Marianna Vitale, cuoca di rango di Sud Ristorante: una costruzione di oltre cinquanta ingredienti che ha visto impegnata la brigata di Poggioreale dalle due del pomeriggio. Il terzo piatto in gara, "Totani all’aceto invecchiato, salsa di zucca e profumo di finocchietto selvatico", è stato premiato per "la conoscenza e i saperi trasmessi ai detenuti" ed è stato firmato da Alfonso Caputo chef della Taverna del Capitano di Nerano. "Tutti gli chef hanno accolto il nostro invito con entusiasmo e senza alcun compenso, senza di loro questo progetto non sarebbe stato possibile", ha spiegato Donatella Bernabò Silorata, che ha organizzato la serata con l’associazione Wine&Thecity e con il supporto di tanti mecenati (Pastificio di Martino, Azienda vinicola Villa Matilde, L’Orto di Lucullo, Corbarì, Schettino Cucine e Festeggiando banqueting). La staffetta di solidarietà a favore del progetto ha visto in campo anche un’altra stella della gastronomia locale, il pizzaiolo Ciro Salvo che ha fritto le sue celebri montanare nel cortile del carcere. In chiusura il dessert dei fratelli Roberto e Vincenzo Mennella. E per tutti i cuochi detenuti un premio speciale e ambito: un pranzo con i loro cari tra le mura del Carcere. Radio Carcere: la Marcia del 6 novembre per l’amnistia e la Giustizia Ristretti Orizzonti, 20 ottobre 2016 L’ultima puntata del programma di Riccardo Arena su Radio Radicale. Titolo: "Marcia del 6.11.2016 per l’amnistia e la Giustizia: le adesioni della Cei, dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia, della Camera Penale Roma, del Coordinamento Regionale della Polizia Penitenziaria per la Cgil dell’Emilia Romagna e dell’associazione Psicologo di Strada Onlus". Link: http://www.radioradicale.it/scheda/489221 Libri. "I passi perduti", Franco Bertè dà voce ai detenuti del "suo" carcere recensione di Antonio Galluzzo spettacolinews.it, 20 ottobre 2016 Vite sprecate che in molti casi erano già scritte ma pur sempre, e a maggior ragione, vite. "I passi perduti sono quelli persi per sempre camminando come un criceto in gabbia, inutilmente, in tondo, senza meta. Sono i passi di chi sta qui dentro." Lo dice la nostra Costituzione: la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Difficile non apprezzare questo principio, ma nelle carceri italiane viene applicato? O, semplicemente, nella realtà il carcere è un mondo a parte, con una sua dimensione stravolta dalla mancanza di spazio e dall’inutilità del tempo che passa? Chi ha raccolto queste storie conosce molto bene quel mondo a parte: ha scelto di viverci dentro, di aiutare le donne e gli uomini che stanno dietro i detenuti. È il loro medico, la prima persona che incontrano all’ingresso e quella a cui si rivolgono per i malanni del corpo ma più spesso per le ferite dell’anima. Se "fuori" l’insorgere dello sconforto è mitigato dai progetti, è raffreddato dal quotidiano, si scioglie negli affetti, "dentro" il tormento è contrapposto al nulla: niente affetti, niente progetti, niente calore. Ed ecco che l’ascolto può segnare la differenza tra la disperazione e la speranza, l’ascolto di Franco Berté, ogni giorno, delle voci tra le mura del "suo" carcere. Dietro ciascuna storia, anche spaventosa, c’è un essere umano che ha sbagliato, come Giacomo assassino senza un perché, Perini spietato killer della ‘ndrangheta che non conosce l’esercizio del pianto, Rossella ladra compulsiva. Vite sprecate che in molti casi erano già scritte, ma pur sempre, e a maggior ragione, vite. Quelle voci ora possiamo sentirle anche noi. Il film "Portami via", di Marta Santamato Cosentino, racconta i Corridoi umanitari di Gian Mario Gillio articolo21.org, 20 ottobre 2016 Jamal, dalle carceri di Assad a Torino. La storia della famiglia Makawi raccontata nel docufilm "Portami via", di Marta Santamato Cosentino e Invisibile film. La nostra intervista. "Portami via" è un documentario, un film, che ripercorre la storia di una famiglia siriana, ora in Italia, grazie ai "Corridoi umanitari". Cosentino, com’è nata l’idea di realizzare questo progetto? L’idea di realizzare un docufilm è nata un po’ per caso; ci eravamo occupati di "Corridoi umanitari" prima ancora del loro reale avvio insieme a Gad Lerner. Eravamo venuti a conoscenza di questo progetto pilota in Europa che poteva sembrare lapalissiano, nella pratica, ma rivoluzionario nel panorama europeo: mettere a disposizione di persone vulnerabili, in paesi devastati da guerre e conflitti, un aereo e un visto umanitario per agevolare il passaggio in paesi sicuri e accoglienti, evitando così il possibile rischio di morte in mare o subire patimenti e torture da parte di scafisti senza scrupoli. L’unica soluzione ragionevole. Abitando a Beirut, città di partenza per le persone coinvolte dal progetto, ho deciso contattare gli operatori sul campo. Da una curiosità iniziale la mia attenzione è poi diventata esigenza e poi, lo ammetto, un onore: poter essere prossima a molte persone; ad una famiglia in particolare, quella Makawi, diventata la protagonista del racconto e con la quale ho stretto una forte amicizia. Cosa sono i Corridoi umanitari? Sono vie di accesso legali e sicure per richiedenti asilo; una buona pratica che permette il raggiungimento in un Paese terzo sicuro. Il meccanismo europeo non prevede che il richiedente asilo possa attivare la protezione internazionale direttamente nelle proprie Ambasciate. Questo spiega il motivo per cui molte persone, che avrebbero diritto all’asilo politico, sono invece costrette ad affrontare la rotta del mare o la rotta Balcanica e coprire distanze infinite, come ad esempio dal Libano o dalla Turchia, in maniera illegale e rischiosa. I Corridoi umanitari sono una delle vie d’accesso legali e sicure; un’altra è quella messa in atto da Medici senza Frontiere che mette a disposizione delle navi di salvataggio". Quali sono state le tappe del docufilm? L’incontro con gli operatori di Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e della Comunità di Sant’Egidio - promotori dei Corridoi umanitari insieme alla Tavola valdese - è stata la conditio sine qua non del nostro lavoro, senza di loro non sarebbe stato possibile. Presi per mano io e Manolo Luppichini, il mio collega di viaggio e avventura, siamo stati guidati e accompagnati in questo percorso di conoscenze e messi nelle condizioni di poter operare sul campo attraverso interviste, riprese e la raccolta di dati. In questo peregrinare tra famiglie e storie, nella ricerca di persone vulnerabili da sostenere e condurre in Italia, ho potuto incontrare la famiglia di Jamal Makawi, che poi è diventata la protagonista del nostro video. "Portami via" è nato in corsa, dal semplice desiderio di parlare di questa grande "tragedia umanitaria", ma in modo più ambizioso rispetto ad una pura testimonianza giornalistica. Prima di allora non mi ero mai cimentata in un documentario così lungo, della durata è di sessanta minuti, e seppur in punta di piedi, entrando così fortemente nella vita di altre persone. Quando ho incontrato la famiglia Makawi ho avuto la presunzione di voler diventare, in qualche misura, il loro diario di viaggio, spero di esserci riuscita nel rispetto della loro dignità e della veridicità del racconto. Per raccontare e divulgare quella che ritengo una chance per la salvezza. L’incontro con gli operatori dei Corridoi umanitari "è stata una poesia della salvezza" ha detto anche Jamal. Qual è la storia della famiglia Makawi? La famiglia risedeva a Tripoli, siamo stati insieme per un mese, quello prima della loro partenza verso l’Italia. Sempre insieme siamo partiti e arrivati a Torino: la città che li ha ospitati e dove ancora oggi continuiamo a vederci regolarmente, seppur io viva Milano. Le testimonianze di Jammal sono tutte molto forti e poetiche allo stesso tempo, lui si è messo a nudo e ha messo in luce i suoi sentimenti. Jamal è stato in carcere per molto tempo, 115 giorni, torturato e interrogato dal regime di Assad. Se oggi è qui con noi è perché non hanno trovato nulla per poterlo trattenere. Lui sostiene che se avessero davvero sospettato di lui oggi non sarebbe riuscito a raccontarlo. Molte persone invece hanno potuto incontrarlo in Italia e apprezzarlo, proprio com’è avvenuto in occasione della serata pubblica dedicata ai Corridoi umanitari promossa dal Sinodo valdese e metodista di Torre Pellice alla quale era stato invitato a fine agosto. Il film racconta una storia fatta di ricordi, di presente e di futuro. Abbiamo documentato anche i primi due mesi a Torino, raccogliendo le loro prime impressioni. Un mondo nuovo: l’Italia. Una cultura nuova con abitudini, tradizioni e usanze a diverse, ne sono uscite chiavi di lettura interessanti. Siamo abituati a vedere e giudicare l’altro ma non sappiamo come l’altro, invece, vede noi. La loro storia è stata un’altalena tra entusiasmo, da una parte, e salti nel buio dall’altra. Un aereo per la salvezza che porta verso l’ignoto, questo era il Corridoio umanitario per loro, sapere cosa stavano lasciando e non dove sarebbero andati a finire. Lunedì scorso, a Milano, in occasione della presentazione pubblica di "Portami via", è arrivata una bella notizia, una novità: la famiglia ha ottenuto il riconoscimento di protezione internazionale per cinque anni che darà loro diritto ad ottenere la cittadinanza italiana e dunque a poter lavorare. La storia della famiglia Makawi è paradigmatica perché racconta la quella di tante famiglie siriane. Famiglia composta da otto persone che viveva ad Homs, luogo dove la repressione del regime è stata pesante e dove già da tempo, per usare le parole di Jamal "si sentiva da tempo che qualcosa di molto grosso stesse bollendo in pentola". Seppur la famiglia non fosse politicamente coinvolta, ha patito come tante altre le brutalità della rivolta in atto. Forti e toccanti i racconti di Jamal ricordano le torture subite nel periodo di detenzione. L’unica colpa era, probabilmente, quella di aver aiutato persone come lui a superare il dolore e la sofferenza delle ingiustizie. La musica di Saro Cosentino, mio papà e grande musicista se posso permettermi, accompagnano le immagini del nostro lavoro con toccante sintonia". Diritti di stampa? Sì, ma prima diritto di parola di Alessandro Zaccuri Avvenire, 20 ottobre 2016 Da un po’ di tempo la Buchmesse non è più soltanto quella che tecnicamente viene definita una fiera di diritti, nel senso della compravendita di libri da tradurre e pubblicare nei diversi mercati nazionali. Questo resta un aspetto irrinunciabile della kermesse, d’accordo, ma a Francoforte il termine "diritti" può essere inteso anche in un’altra eccezione. I diritti umani, esatto. Almeno uno dei quali, quello alla libera espressione del pensiero, è stato addirittura indicato come "valore non negoziabile" nel corso della cerimonia inaugurale di ieri. Non è una novità assoluta, ripetiamolo, come dimostra il programma del Weltempfang, l’ormai irrinunciabile forum internazionale all’interno del quale intellettuali e scrittori dibattono i temi caldi del momento. L’impressione però è che in questo 2016, tra l’acuirsi delle crisi umanitarie e l’avanzata dei populismi globali, l’attenzione in materia sia più alta che mai. Aggiustamento dopo aggiustamento, del resto, la Buchmesse ha assunto una struttura sempre più concentrata sull’editoria di lingua inglese, con il conseguente rischio di un duplice sbilanciamento per effetto di una Brexit pressoché irreversibile e del trumpismo non proprio debellato. Ma anche dal punto di vista della politica estera tedesca c’è tutto l’interesse a fare in modo che l’azione di accoglienza dei rifugiati avviata dalla cancelliera Angela Merkel non rappresenti un’eccezione in un’Unione Europea propensa più a ripristinare le frontiere che cancellarle definitivamente. E così, a dispetto della presenza in sala delle coppie reali dei Paesi Bassi e del Belgio (ospite d’onore della Buchmesse 2016 è la regione in cui olandese e fiammingo si alternano in un bilinguismo a tratti contrastato ma sempre vivace), il vero protagonista della serata inaugurale finisce per essere il presidente dell’Europarlamento, il tedesco Martin Schulz. Nel cui passato - oltre a un memorabile duetto con l’ex premier Berlusconi - c’è posto per un rapporto assiduo e decisivo con i libri. Inizialmente abbondonati sui banchi di scuola e ritrovati poi sui banconi delle librerie per le quali Schulz ha lavorato e di cui è stato titolare. È tra le pagine dei classici che ha scoperto che l’Europa è la patria comune di Goethe e Dickens, di Herta Müller e Lessing, di Jorge Semprún e Primo Levi. Il discorso che ha preparato sarebbe già eloquente, ma quando gli si presenta l’occasione Schulz improvvisa e rilancia. Lo spunto glielo offre il presidente dell’associazione dei Librai ed editori tedeschi, Heinrich Riethmüller. Dopo una fugace lamentela sulle politiche governative che rendono complicato il mestiere di chi pubblica e vende libri, estrae a sorpresa un breve messaggio che la scrittrice turca Asli Erdogan (nota anche in Italia grazie a Il mandarino meraviglioso, pubblicato da Keller) è riuscita a far trapelare dal carcere in cui è imprigionata dal 16 agosto scorso con altri 22 giornalisti, tutti accusati di complicità nel tentato golpe. Nel 2008, ricorda Riethmüller, Asli Erdogan faceva parte della delegazione ufficiale della Turchia, ospite d’onore alla Buchmesse di quell’anno. Il fatto che ora la donna sia detenuta per le sue opinioni è uno scandalo intollerabile, aggiunge. Schulz non ci pensa due volte e ribadisce che senza libertà di parola non esiste democrazia. "Il Governo turco deve liberare immediatamente queste persone", dichiara. La presa di posizione non è irrilevante, dato che tra meno di un mese la Germania sarà l’ospite principale della Fiera del libro di Istanbul ed è difficile che l’appello a favore di Asli Erdogan e dei suoi compagni di prigionia passi inosservato. Di diritti umani, in ogni caso, si parla anche quando ci sono di mezzo i diritti editoriali. Le contrattazioni sono appena cominciate, ma a quanto pare uno dei titoli italiani più richiesti all’estero è Lacrime di sale (Mondadori), il libro nel quale la giornalista Lidia Tilotta ha raccolto la toccante testimonianza di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa che tanti hanno imparato a conoscere attraverso Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Alla Buchmesse, inoltre, è arrivata una piccola rappresentanza di editori siriani, che hanno fatto di tutto per non rinunciare a questa che, non senza orgoglio, il direttore della manifestazione Juergen Boos ama descrivere come una settimana di pace in un mondo martoriato dalla guerra. Olandesi e fiamminghi, da questo punto di vista, hanno da condividere una storia esemplare ( This Is What We Share, "Ecco che cosa condividiamo", è il motto che campeggia sul loro padiglione). Le loro terre hanno conosciuto conflitti terribili e particolarismi spietati, ma guardateli adesso, il narratore Arnon Grunberg e la giovane poetessa Charlotte Van den Broek. Lui scrive in olandese, lei in fiammingo, e il discorso inaugurale lo fanno a due voci. Prima di iniziare, però, bevono un sorso d’acqua. Dallo stesso bicchiere, si capisce. Stati Uniti: Obama chiude ai privati, ma le lobby puntano sulle strutture intermedie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2016 Negli Usa finisce l’era delle carceri private grazie all’intervento dell’amministrazione Obama, ma le aziende hanno deciso di restare nel settore della "correzione" spostandosi dai penitenziari alla gestione delle "strutture intermedie" come le "halfwayhouse", centri per la reintegrazione nella società di ex detenuti o persone con disabilità mentali o di altra natura. Ma non solo: stanno acquistando anche centri per il recupero dei tossicodipendenti e altre strutture usate per sorvegliare o sanzionare senza ricorrere al carcere i 4,7 milioni di americani in libertà vigilata. Il ministero della Giustizia americana lo aveva annunciato ad agosto che avrebbe messo fine agli accordi con le imprese che gestiscono le prigioni private. La numero due del ministero della Giustizia Usa, Sally Yates, ha disegnato un bilancio piuttosto severo delle attività dei gruppi privati che gestiscono le prigioni. Secondo uno studio messo in campo dall’organizzazione California Prison Focus, dal 1990 ai giorni nostri il numero delle persone detenute nelle carceri private degli Stati Uniti è aumentato del 1.600 per cento e non è un caso: più alto è il numero dei detenuti e maggiori sono gli introiti. In quasi venti anni le prigioni private negli Stati Uniti sono arrivate ad essere oltre cento. Questo business non dà segni di crisi: le società private di detenzione statunitensi hanno visto aumentare i loro profitti da 760 a 5.100 milioni di dollari. I costi più alti della carcerazione non ricadono sul settore privato perché i detenuti più malati o più pericolosi sono collocati nelle strutture pubbliche. Ma come guadagnavano le carceri private? Attraverso la manodopera a basso costo dei detenuti. Il mercato statunitense delle carceri private, come riportava un articolo uscito su The Post International, "è dominato interamente dalla Correction Corporation of America e dalla Geo Group, che ha acquistato le concorrenti Correctional Services Corporation e Cornell Companies rispettivamente nel 2005 e nel 2010". Oltre all’annuncio del ministero della Giustizia, c’è anche l’annuncio di Hillary Clinton che promette di mettere fine "all’era delle carcerazioni di massa". Durante il penultimo confronto televisivo con Trump, ha anche evidenziato come gli afroamericani e gli ispanici finiscano più facilmente in carcere e quindi più penalizzati rispetto ai bianchi. Le aziende private che gestivano le carceri sono quindi finite in crisi. Dall’annuncio del ministero della Giustizia, ad oggi, hanno perso più il 30 per cento del loro valore in Borsa. Ma per poter sopravvivere, e riassicurare gli azionisti, sono passate subito al contrattacco: sono rimaste sempre nel campo penale per lo sfruttamento economico e hanno subito acquistato numerosi centri di correzione un tempo gestiti da aziende familiari. Le associazioni dei diritti civili sono già sul sentiero di guerra: sostengono che la scelta politica che si manifesta nella tendenza a ridurre le punizioni soprattutto detentive per i crimini (con la depenalizzazione di quelli minori) rischia di essere frenata proprio dall’esistenza di un settore economico che vive e prospera solo se questo tipo di "business" cresce. In poche parole c’è il rischio che, ancora una volta, la lobby influirà nelle scelte dei legislatori e la depenalizzazione e la decarcerizzazione rimarrà solo un sogno. Iraq. La presa di Mosul e la pace difficile di Franco Venturini Corriere della Sera, 20 ottobre 2016 L’attacco a Mosul è una scommessa rischiosa, che può essere vinta o persa dall’Occidente e dai suoi alleati anche a prescindere dall’esito del castigo militare che si vuole infliggere agli uomini del Califfato. Non a caso la battaglia è stata receduta da molti mesi di preparazione più politica che operativa, e non a caso i contrasti etnici e i diversi interessi strategici scuotono ancora oggi, mentre l’offensiva è in corso, il variegato fronte dell’armata anti Isis. Le milizie sciite telecomandate da Teheran non dovranno entrare a Mosul, per evitare che possano prendersela con la popolazione sunnita? Lo assicura il governo iracheno e lo prevedono gli americani che discretamente dirigono le operazioni, ma resta da verificare se gli sciiti obbediranno sapendo che a Bagdad comandano i loro correligionari e che gli Usa, con le elezioni alle porte o appena passate, più di tanto non potranno fare. I peshmerga hanno fama di ottimi soldati, ma il premier iracheno Abadi vuole limitare il loro contributo perché teme le rivendicazioni curde su Mosul. E anche i turchi hanno mire sulla città che è stata a lungo ottomana: per questo vogliono partecipare alla battaglia, e poi sedere al tavolo della pace. Tutte mine etnico-politiche che possono esplodere più facilmente se gli uomini del Califfato terranno duro fino alla fine come stanno facendo nella ridotta libica di Sirte, se lo scontro comporterà gravi perdite civili o se i civili diventeranno gli "scudi" dei jihadisti. Che possono insomma esplodere se il prezzo della vittoria risulterà tanto alto da affiancarsi per settimane o per mesi alla carneficina siriana di Aleppo. L’America del vecchio o del nuovo presidente potrebbe sopportarlo? E cosa accadrebbe se alla battaglia di Mosul si accompagnassero, come temono alcuni servizi occidentali, una nuova offensiva terroristica in Europa, e il non pacifico ritorno a casa di un buon numero di foreign fighters sedotti a suo tempo dai messaggi dell’Isis? Anche nella migliore delle ipotesi, quella di una presa militare di Mosul che segnerebbe la fine del Califfato in Iraq e il contenimento dell’Isis nel territorio siriano, la via della vittoria è irta di ostacoli e di possibili derive. Ma quel che può accadere "durante" la battaglia, malgrado il sangue che sarà versato per infliggere ai tagliagole la loro prima e necessaria sconfitta (con i militari italiani impegnati in prima linea nel recupero dei feriti), rischia di diventare un episodio di contorno rispetto alle trappole pronte a scattare "dopo" la battaglia. Nel day after della vittoria, le trombe potrebbero non squillare a lungo. Di sicuro il turco Erdogan rivendicherebbe a favore dei turcomanni e dei sunniti a lui legati, vale a dire a favore di Ankara, il "mantenimento degli equilibri di Mosul" che già va reclamando. Ma sarebbero altri equilibri, quelli interni all’Iraq, a decidere tra l’avvio di una pace che potrebbe poi contagiare la Siria e la paradossale disgregazione del Paese "vittorioso". Con lo scontato seguito, in questo secondo caso, di una guerra civile dal cui esito nascerebbero nuovi confini e nuove liti locali e regionali. Se questa è una prospettiva oggi realistica, lo si deve a una serie di errori prima e di egoismi etnico-religiosi poi. Quando gli americani abbatterono il sunnita Saddam (che non suscita certo rimpianti) e consegnarono il potere iracheno alla maggioranza sciita, i confratelli iraniani ricevettero in dono una autostrada nuova di zecca per le loro ambizioni. Non solo. I governi iracheni, dopo il ritiro Usa nel 2011, se ne infischiarono delle promesse fatte a Washington e costruirono un potere esclusivamente sciita, escludendo man mano i sunniti e osteggiando la semi-autonomia dei curdi. Il Paese si è così di fatto diviso tra sciiti, sunniti e curdi a suon di polemiche e di attentati, mentre altre sanguinose rivalità esplodevano all’interno di ognuna delle tre fazioni. La conquista di Mosul, quando avverrà, sarà un bivio tra la spaccatura lungo linee etnico-confessionali e riforme sin qui mai attuate che parlino di parità e di riconciliazione, di autonomie e di ricostruzione, di ripartizione dei proventi petroliferi (peraltro in calo) e di nascita di un parlamento non settario e corrotto come quello attuale. Per vincere davvero a Mosul si deve poi vincere a Baghdad, questa è la doppia battaglia appena cominciata. Con Assad e Putin spettatori interessati. Argentina. Sciopero delle donne contro il femminicidio Geraldina Colotti Il Manifesto, 20 ottobre 2016 Dopo l’omicidio di una sedicenne, l’astensione per un’ora da tutte le attività. "Non una di meno. Non una precaria in più". Così le donne argentine hanno sfilato ieri, vestite a lutto per dire basta al femminicidio. È stato definito "il mercoledì nero dell’Argentina". Prima, dalle 13 alle 14 (le 19 e le 20 in Italia), le femministe hanno realizzato uno storico sciopero, il primo del genere in Argentina: per un’ora, si sono astenute da ogni attività. Nei giorni precedenti, avevano lanciato questo appello: "Nel tuo ufficio, la tua scuola, il tuo tribunale, la tua redazione, il tuo commercio o la fabbrica nella quale stai lavorando, fermati per un’ora per dire basta alla violenza maschilista, perché noi ci vogliamo tutte vive". I femminicidi, in Argentina, sono in preoccupante aumento: 19 casi negli ultimi 18 giorni, uno ogni 23 ore. L’ultimo, quello della sedicenne Lucia Perez, ha scosso l’opinione pubblica, ponendo il tema della violenza sulle donne al centro dell’attenzione. La ragazza è stata drogata, violentata e impalata nella zona turistica di Mar del Plata: "Un’aggressione sessuale disumana", ha detto la magistrata Isabel Sanchez, incaricata del caso. Due uomini - uno di 23 anni, l’altro di 41 - sono stati arrestati. Ieri, il fratello di Lucia ha reso pubblica una commovente lettera, e anche la madre ha invitato a manifestare "Perché non ci siano altre Lucie". La campagna #NiUnaMenos ha preso avvio nel marzo del 2015. Il giorno prima venne ritrovato sotto un ponte il cadavere seminudo di Daiana Garcia, 19 anni, violentata e asfissiata con un calzino. L’idea dello sciopero delle donne è nata in Islanda il 24 ottobre del 1975, quando il 90% delle islandesi si astenne per un’ora da ogni attività. E di recente si è ripetuta in Polonia. Anche ieri, la partecipazione è stata altissima. Con rabbia e commozione, hanno risposto in molti paesi dell’America latina: Bolivia, Venezuela, Uruguay, Honduras, Colombia. E in Messico, dove - a seguito della mattanza di Ciudad Juarez - ha preso forma la nozione giuridica di femminicidio. Solidarietà anche dalle femministe italiane, spagnole, francesi e tedesche. "Come tutte voi, compagne, voglio le donne della mia Patria vive", ha scritto in Facebook la ex presidente argentina, Cristina Kirchner, invitando a partecipare allo sciopero. Cristina, ha chiesto di marciare "per tutte quelle donne che, come Milagro Sala, hanno lottato per dare nome e diritti a chi prima non ne aveva nessuno". La deputata indigena Milagro Sala è in carcere dal dicembre scorso con l’accusa di aver sottratto denaro pubblico nella costruzione di case popolari autogestite. Sala, che fa parte dell’organizzazione indigena Tupac Amaru e della Central de los Trabajadores Argentinos (Cta) ha sempre respinto le accuse e denunciato le manovre politiche del governatore di destra Gerardo Morales. Per lei si è mobilitato anche il papa Francesco, che ha avuto modo di conoscerla durante l’incontro con le organizzazioni popolari in Vaticano, e che le ha inviato un rosario in carcere. La Cta ha aderito allo sciopero insieme ad altre organizzazioni sindacali, in crescente agitazione contro i massicci licenziamenti, l’aumento delle tariffe, la privatizzazione e la chiusura degli spazi per la libera informazione decisi dal presidente neoliberista Mauricio Macri. "Vi voglio vive e in tutti gli spazi politici e sociali, nella scienza e nella cultura, in ogni spazio che porti la nostra società verso un luogo più giusto e ugualitario, nella giustizia e negli ospedali. Nelle scuole e per strada", ha scritto Cristina. Dieci giorni fa, nella città di Rosario, una grande manifestazione di donne, al termine di un incontro nazionale, è stata brutalmente dispersa dalla polizia. Oltre 30 i feriti, anche giornalisti. Iran: libero il pastore protestante condannato per crimini contro lo Stato asianews.it, 20 ottobre 2016 Behnam Irani ha scontato i sei anni di carcere previsti dalla condanna ed è stato rilasciato. In cella avrebbe subito abusi e maltrattamenti. Condannato a 10 anni un imprenditore statunitense di origini iraniane. Secondo l’accusa ha "collaborato" con Washington. Dopo aver trascorso sei anni nelle carceri iraniane, il pastore protestante Behnam Irani è tornato in libertà e ha lasciato la sua cella nel carcere di Ghezel Hesar, la più grande del Paese circa 20 km a nord-ovest di Teheran. Secondo quanto riferiscono ambienti della comunità religiosa di appartenenza, l’uomo avrebbe scontato per intero i termini della pena e per questo è stato rilasciato. Behnam Irani, 43 anni, è un cristiano protestante originario di Karaj, circa 20 km a ovest della capitale iraniana. Egli è sposato con Kristina, una cristiana armena, e hanno due figli: Rebecca di 11 anni e Adriel di 5. La conversione è avvenuta nel 1992 e, dicesi anni più tardi, la scelta di diventare pastore e guida di una comunità. Secondo quanto racconta il presidente di Truth Ministries, Irani è stato arrestato una prima volta nel dicembre 2006 e la seconda volta ad aprile 2010; in entrambi i casi egli è finito sotto processo con l’accusa di "crimini" contro la sicurezza nazionale. Con questo capo di imputazione, prosegue DeMars, finiscono alla sbarra persone che svolgono funzioni religiose in un appartamento privato e quanti compiono proselitismo o "convertono musulmani a Cristo". Il secondo e definitivo fermo (clicca qui per il video) risale al 14 aprile 2010, mentre era in corso una funzione religiosa in una casa di preghiera. Gli uomini del ministero dell’Intelligence della Repubblica islamica lo hanno prelevato, sequestrando al contempo Bibbie, materiale cristiano, dvd e altri oggetti. Rilasciato su cauzione, egli è finito a processo nel gennaio 2011 e condannato per "crimini contro la sicurezza nazionale". Alla pena di un anno, le autorità hanno sommato i cinque anni di pena (sospesa) inflitti nel 2008 in seguito al primo arresto e al primo processo. Fin dall’inizio della sua prigionia Behnam Irani ha dovuto affrontare diversi problemi fisici e malattie; a questo si aggiungono le percosse subite per tutto il promo anno dalle guardie di sicurezza del carcere. Per questo ha subito un calo drastico della vista, difficoltà di parola e di locomozione. Ulcere e altre malattie ne hanno minato il fisico ma non la resistenza e "con l’aiuto di Dio", conclude DeMars, egli è riuscito a sopravvivere. In Iran i gruppi protestanti evangelici non godono del riconoscimento dello Stato. Tale riconoscimento è dato alle comunità cristiane cattoliche e ortodosse, oltre a diverse altre minoranze (diverse dall’islam). Esse hanno libertà di culto e di attività sociali verso i loro correligionari, ma è loro vietato il proselitismo. Le comunità protestanti, da questo punto di vista, praticano la loro fede "nell’illegalità", talvolta insieme a pronunciate espressioni di proselitismo. Alcuni amici del pastore Benham avevano espresso il timore che lui potesse essere condannato per apostasia e giustiziato. Ma finora in Iran non è passata alcuna legge sull’apostasia. Al rilascio del pastore protestante segue la condanna a dieci anni di carcere per un uomo d’affari statunitense di origini iraniane, incarcerato assieme al padre 80enne per "aver collaborato" con il governo "ostile" di Washington. Siamak Namazi, esperto di relazioni internazionali e consulente per diverse aziende, dovrà scontare 10 anni di prigione. In cella anche il padre Baquer Namazi, ex impiegato Unicef ed ex governatore della provincia di Khuzestan prima della Rivoluzione islamica del 1979. In cella con condanne a 10 anni per "collaborazionismo" con gli Usa sono finite anche altre tre persone: Nezar Zaka, americano di origini libanesi e altre due persone identificate con le sole iniziati di FHA e AA. Secondo la tv di Stato iraniana Zaka avrebbe intrecciato "numerosi e profondi legami" con l’intelligence statunitense e fornito informazioni vitali per la sicurezza nazionale.