Carceri italiane, l’angosciante condizione dei detenuti nel nostro Paese di Gigliola Alfaro Agensir, 1 ottobre 2016 La testimonianza di don Virgilio Balducchi (ispettore generale dei cappellani delle carceri), don Antonio Loi (cappellano a Opera, Milano), don Sandro Spriano (cappellano a Rebibbia, Roma), don Franco Esposito (cappellano a Poggioreale, Napoli). In Italia in prigione possono anche andarci le persone più o meno importanti o che appartengono a una certa classe sociale, ma ci restano poco, al contrario dei poveri. Non solo: sette detenuti su dieci tornano in carcere. Sono le denunce contenute in due articoli pubblicati negli ultimi giorni da due quotidiani nazionali. Il sistema carcere, dunque, nel nostro Paese proprio non funziona? Abbiamo raccolto le reazioni di alcuni cappellani. Disuguaglianze. Per don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, "è vero che in carcere è molto facile che i poveri ci restino più a lungo. Parliamo degli immigrati, che non hanno nessuno e neppure una casa, e dei tossicodipendenti più disperati, delle persone povere e malate. Chi ha le possibilità economiche può difendersi meglio nel processo e ha maggiori alternative fuori dal carcere. Questo fa credere che la giustizia sia diseguale e scoraggia chi deve intraprendere dei procedimenti, anche in campo civile, ma ha meno possibilità economiche". Rispetto alla recidiva, don Balducchi commenta: "Sono i dati ufficiali, che mostrano che chi sconta la pena solo in carcere, senza avere opportunità di professionalizzazione o di lavoro continuativo, recidiva di più. Al contrario chi usufruisce delle pene alternative e di programmi esterni, più difficilmente compie nuovi reati. Perciò, la giustizia italiana dovrebbe utilizzare di meno la pena in carcere e di più le pene sul territorio, con responsabilità, creando posti di lavoro e luoghi di accoglienza". Offrire opportunità. Concorda don Antonio Loi, cappellano nel carcere di Opera, a Milano: "Se in carcere si tengono le persone a non fare niente, continuano a non fare niente. Invece, se si offrono opportunità di lavoro il discorso cambia. Ricordo un libro molto bello del cardinale Martini, ‘Ma questa è giustizia?’, in cui scriveva che bisogna educare le persone a riappropriarsi del valore del tempo, dei soldi, di tante piccole cose della vita, che hanno un valore grande. Vanno date più opportunità, con un po’ meno ristrettezze, e vanno sviluppate anche opportunità culturali. A Opera, ad esempio, ci sono diverse attività di lettura creativa, che aiutano le persone a rientrare in se stesse, e il laboratorio di liuteria. Sono importanti anche le attività di tipo teatrale perché permettono di mettersi in gioco fino ad arrivare alla domanda: quello che ho fatto fino adesso è vero o falso?". Per don Antonio, "l’opportunità di lavoro per uno che nella vita ha sempre lavorato e magari ha fatto una ‘fesserià può riaprire una speranza, anche se non farà più quello che faceva prima. Chi invece ha vissuto sempre di criminalità può scoprire il valore del lavoro".Non a caso, "tra chi usufruisce delle pene alternative al carcere la recidiva è del 19%. E questo dice che forse il carcere non funziona". Ma, ammette, "non so se siamo pronti a percorrere nuove strade". Porte chiuse. "Quando il detenuto esce di galera - denuncia don Sandro Spriano, cappello a Rebibbia, a Roma - è privato di ogni diritto nell’opinione della maggioranza dei cittadini. Tutte le porte vengono chiuse, a cominciare da quelle di noi cristiani. Lo dico anche perché attualmente il più grande amico dei detenuti è Papa Francesco. Mentre la realtà intorno è molto diversa: tutti abbiamo paura di chi è stato in carcere.La recidiva non è soprattutto la capacità di commettere altri reati, ma è l’uscita dal carcere di un povero, che vi era già entrato povero e torna fuori più povero di prima. E deve mangiare, non sa dove dormire, non sa dove poter fare qualcosa della sua vita. Per questo tornano in carcere. Non ci torna facilmente chi trova accoglienza e un lavoro". In carcere, poi, "non ci sono quelli che detengono un potere di qualche tipo, perché con i soldi hanno la capacità di avere avvocati abili che allungano all’infinito i processi, fino a volte alla prescrizione. La maggioranza di chi sta in carcere è effettivamente povera, ma non solo di soldi: ci sono i malati di mente, gli stranieri, le persone che non hanno una famiglia. Sono quei nuovi poveri che la nostra società non riesce ad accogliere in alcun modo". Opera-segno. "L’alto tasso di recidiva è conseguenza di un carcere dove si tengono rinchiuse le persone senza nessun programma serio di reinserimento, di rieducazione. Escono peggiori di come sono entrate. Anche perché vengono private della cosa più importante, gli affetti. Nelle nostre carceri c’è zero affetti", sottolinea don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale, a Napoli. La diocesi ha voluto realizzare un’opera-segno: "Liberi di volare", una comunità di accoglienza per detenuti, che vivono lì gli ultimi due-tre anni di detenzione agli arresti domiciliari. "Al momento - ricorda don Franco - ospitiamo dieci detenuti residenziali e quaranta in affido diurno". Quest’esperienza, avviata quattro anni, dimostra che "la recidiva scende enormemente, fino a meno del 10%, se ci sono opportunità. E questo dovrebbe far interrogare i politici sulla necessità di pensare seriamente a un’alternativa al carcere. Inoltre, un carcerato in un istituto carcerario costa allo Stato oltre 200 euro al giorno, mentre comunità come la nostra non riceve nessuna sovvenzione statale". Eppure, evidenzia il cappellano, "questa è la risposta seria al problema della recidiva: far vivere ai detenuti esperienze positive per tagliare i ponti con il male, facendo prendere coscienza di quello che si è commesso e il desiderio di un futuro nella legalità". Il ministro Orlando: "La riforma del processo penale va fatta ora" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2016 "Questa riforma va fatta e va fatta adesso" dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando, rispondendo "Vedremo, ancora non lo sappiamo" a chi gli chiede se il governo metterà la fiducia. Ma la riforma del processo penale è, di fatto, già congelata almeno fino a giovedì prossimo, quando al Senato si deciderà se, e come, riprenderla. Orlando avverte che, senza riforma, la "crisi" del processo penale permarrà e indebolirà le garanzie. Quanto alle accuse del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo ("È una riforma inutile e dannosa") usate dal premier Renzi per frenare, invita i magistrati a "superare le loro divisioni" perché "il clima di campagna elettorale permanente che si consuma all’interno della magistratura rischia di far dire delle cose di cui poi gli stessi protagonisti non sono del tutto convinti". Ricorda infatti che il Ddl del governo è frutto anche di proposte e correzioni di numerosi magistrati oltre che dell’Anm e perciò dice, non senza una vena polemica: "Prima di replicare (a Davigo, ndr) vorrei capire esattamente cosa non gli piace della legge". Orlando parla alla platea dei penalisti riuniti a Congresso a Bologna. Il suo intervento è incentrato soprattutto sul tema dell’organizzazione della giustizia, cruciale per rendere effettive le garanzie. Di qui la necessità di una riforma che snellisca e velocizzi, evitando così derive populiste e cadute delle garanzie. Tuttavia, al Senato, la riforma è scomparsa dall’ordine del giorno di martedì. Se ne riparlerà, forse, giovedì. Nel frattempo, Renzi e Orlando dovranno concordare una soluzione politica. Il premier è preoccupato che la fiducia - dall’esito incerto per il governo e percepita come grave forzatura politica - diventi una mina sulla strada del referendum costituzionale, e si è giocato la carta Davigo, "il capo dei giudici", per stoppare le aspettative del guardasigilli. Non è escluso, infatti, che giovedì si chieda persino di tornare in commissione per un approfondimento del testo (la richiesta, oltre che dal governo, può venire anche da un gruppo o da un singolo senatore). "Il miglior modo di difendere le garanzie è costruire un processo in grado di fare i conti con la scarsezza delle risorse, con i limiti del sistema, con l’equilibrio tra domanda e offerta di giustizia" spiega Orlando. Se non si esce dalla crisi del processo, "il populismo può spianare la strada a ipotesi regressive. Non ci sarà un nuovo sistema in cui le garanzie verranno rafforzate. Credo si farà qualcosa di peggio, di molto peggio". Il ministro sembra voler rassicurare, insieme agli avvocati, l’elettorato che considera la "sua" riforma "giustizialista", secondo quando sostiene l’opposizione di Centrodestra (Fi e Ala) e una parte della maggioranza, trasversale a Pd e Ncd. Quanto alle critiche di Davigo, ricorda che il testo è "in larga parte" frutto di una commissione composta per lo più da magistrati e fu a suo tempo avallato dall’Anm. Perciò dice di non capire le critiche di Davigo, che forse risentono del "permanente clima da campagna elettorale che attraversa una magistratura divisa". Perciò propone di "unificare" le scadenze elettorali dei magistrati, "in modo che sia chiaro da subito chi ha vinto e chi ha perso". Orlando lancia la sfida: "La riforma si farà. Siamo pronti a sfidare il populismo penale" di Errico Novi Il Dubbio, 1 ottobre 2016 Non si è arreso. "La riforma va fatta ora, ne sono convinto". Andrea Orlando non pare sconfitto né spaurito, dopo il blitz di Renzi sul ddl chiave per la giustizia, la riforma penale appunto. Niente fiducia? "Vedremo", dice laconico il guardasigilli a Bologna, davanti a una platea nervosa ma molto partecipativa di penalisti. Orlando si impegna proprio con gli avvocati, suoi sostenitori leali, a battersi perché "si reagisca ora, subito, alla crisi del processo penale". Perché dopo, se passa ancora tempo, e magari si aspetta di varcare le colonne d’Ercole del referendum e chissà cos’altro, "potrebbero aprirsi scenari inquietanti". Ovvero "la messa in discussione degli stessi principi costituzionali da parte delle forze populiste". Il guardasigilli interviene al congresso dell’Unione Camere penali. Gioca in casa, si trova di fianco al presidente dell’Ucpi Beniamino Migliucci consapevole e persino trascinato dal ruolo che l’avvocatura penale gioca nella partita. Si sprigiona una piccola, paradossale scintilla polemica tra i due: in più di un passaggio il ministro si rammarica con Migliucci per qualche valutazione diffusa poco prima dalle agenzie di stampa, non sempre elogiativa sulla riforma del processo. "La sintesi giornalistica a volte tradisce", spiega il leader dei penalisti. Che infatti è tutto schierato dalla parte di Orlando e contro l’Anm. Adesso d’altronde il guardasigilli sa di giocarsi tutto. Sa che se si impone il sostanziale veto posto da Renzi sul via libera del Senato al ddl, poi sarà impossibile tirar fuori la legge dalle secche del calendario parlamentare, comunque vada il referendum. L’equivoco comunque spinge Orlando a difendersi dall’accusa di una riforma "arrivata alle Camere garantista e destinata a uscire giustizialista" che in realtà Migliucci non ha mai pronunciato. "Si deve essere realisti", argomenta il ministro della Giustizia, "è giusto sfidare il populismo penale, ma si deve ricordare che le forze progressiste non lavorano più per l’estensione delle garanzie". La sinistra non sta più dalla parte della difesa: ad ammetterlo è un guardasigilli che non perde mai l’occasione di rivendicare la propria provenienza da una tradizione marxista. Eppure la sinistra è cambiata, dal punto di vista "culturale": in tutta Europa "c’è stata una involuzione, basta vedere la sospensione di alcune garanzie costituzionali avvenuta in un Paese come la Francia". A maggior ragione riuscire a parlare di "archiviazione per tenuità del fatto, messa alla prova, riforma del carcere" è un risultato di rilievo. "Inserire misure del genere in un ddl sul processo penale non incrocia certo l’attenzione positiva dei media", ricorda il guardasigilli. Orlando dà l’impressione di aver perfettamente colto il senso dell’ossequio di Renzi all’Anm e a Davigo "contro il quale non si può mettere la fiducia", secondo il premier. Il punto politico è un altro, non la magistratura ma il rischio di una controffensiva grillina sulla giustizia proprio a un passo dal referendum. Ma il ministro sa che smascherare la pretestuosità delle critiche di Davigo è l’unico modo per arrivare all’approvazione del ddl in Senato: solo così si disarma l’opposizione rumorosa e si libera la riforma dall’ansia referendaria del premier. Perciò Orlando attacca proprio l’Anm: "Io proporrei una unificazione di tutti i turni elettorali che i magistrati sono chiamati ad affrontare", dice con una punta di ironia. "Si voti per tutto in un arco limitato di tempo: Anm, Csm e Consigli giudiziari. Altrimenti ci troviamo in una campagna elettorale permanente delle toghe, che rischia di falsare la discussione". Le critiche di Davigo, di pm della sua corrente come Sebastiano Ardita, citato da Orlando, sono insomma slogan per vincere la guerra delle correnti. Solo che Renzi poi li prende sul serio e blocca la fiducia al Senato. A margine, il guardasigilli ricorda gli interventi per potenziare gli organici di cancellieri e magistrati: bando a novembre per 1.000 unità di personale, già avviata la procedura al Csm per 360 nuovi giudici. È l’altra risposta di Orlando per smontare le critiche di Davigo (oggi in conclave a Roma con i capi degli uffici di tutta Italia per lanciare nuovi anatemi sul ddl). Il clima da battaglia trilaterale in realtà infiamma proprio i penalisti, che domani voteranno per decidere se confermare la fiducia a un Migliucci nei fatti schieratissimo a difesa del ministro: "La magistratura non può pensare di dettar legge: così come l’avvocatura, si limiti alle proposte, le scelte toccano solo alla politica", dice il presidente dei penalisti. A suo giudizio, da parte dell’Anm c’è stata "arroganza", per esempio sulla prescrizione, quando Davigo ha giustificato l’idea di interromperne il decorso addirittura all’udienza preliminare, perché "tanto a quel punto le prove sono state raccolte. E sì", incalza Migliucci, che è un bolzanino sanguigno grazie alle radici partenopee, "e se si fosse ragionato così Tortora sarebbe rimasto in carcere tutta la vita". E giù un boato di commozione e rabbia che basta a far capire a Orlando da che parte stanno gli avvocati. Impugnazioni, riforma utile… non "inutile e dannosa" come dice Davigo di Giovanni Canzio Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2016 Il progetto di riforma del processo penale all’esame del Parlamento è stato recentemente oggetto di rilievi critici da parte dell’Anm, per bocca del suo presidente, Piercamillo Davigo, critica riassunta nella qualificazione di tale iniziativa come "inutile e dannosa". In realtà, a ben vedere, i rilievi espressi dal dottor Davigo, stando a quello che risulta dagli organi di informazione, riguardano, da un lato, la riforma della disciplina della prescrizione, dall’altro la previsione dell’avocazione da parte del procuratore generale presso la corte d’appello dei procedimenti per i quali, entro tre mesi dalla chiusura delle indagini, il pubblico ministero non abbia deciso se esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione, soluzione, questa, sulla quale sono possibili interventi migliorativi, ferma restando l’esigenza di superare il grave problema dell’incontrollabile stallo dei procedimenti per i quali la fase delle indagini sia irrimediabilmente chiusa. A prescindere da questo limitato aspetto, il disegno di legge all’esame del Parlamento, per la parte processuale, presenta un contenuto esteso a snodi essenziali del processo penale e tende a superare criticità largamente avvertite dagli operatori di settore, recependo in larga parte il prodotto dei lavori condotti da una commissione ministeriale composta da professori universitari, magistrati e avvocati, commissione che a sua volta ha valorizzato le indicazioni contenute nella "Carta di Napoli", elaborata dall’Associazione tra gli studiosi del processo penale, e le proposte approvate dall’Assemblea Generale della Corte di cassazione nel giugno 2015. Nel testo attualmente in discussione, il disegno di legge dedica grande attenzione al tema delle impugnazioni, proponendo alcuni interventi che appaiono essenziali per far recuperare un minimo di effettività all’intero processo penale. È giudizio condiviso, da tutti gli operatori, che l’appello costituisce l’anello debole del sistema processuale; inoltre, ormai da tempo, si è rivelata la situazione di grave difficoltà in cui opera la Corte di cassazione. La riforma ha il merito di affrontare, finalmente, il nodo problematico delle impugnazioni. A titolo esemplificativo, si segnala che sulla disciplina generale delle impugnazioni viene esclusa l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni che non siano punite con l’arresto e si reintroduce il cosiddetto "patteggiamento" sui motivi in appello, seppur escludendolo per i reati più gravi. Con riferimento al giudizio in cassazione si elimina la possibilità che il ricorso pos- 7 Organo supremo della giustizia che assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni e regola conflitti di competenza e di attribuzione, adempiendo agli altri compiti conferitigli dalla legge (art. 65 r.d. 12/30 gennaio 1941). Ha un’unica sede in Roma e giurisdizione su tutto il territorio della Repubblica e su ogni altro territorio soggetto alla sovranità dello Stato sa essere proposto personalmente dall’imputato; inoltre, si prende atto della necessità di assicurare una selezione più efficace dei ricorsi in entrata (nel 2015 risultano sopravvenuti oltre 53mila ricorsi), prevedendo che almeno le inammissibilità evidenti vengano dichiarate in base ad una procedura semplificata, senza formalità; si prevede che in ragione della causa di inammissibilità la sanzione pecuniaria in favore della cassa delle ammende possa essere aumentata. Inoltre, il disegno di legge delimita il ricorso per cassazione alla sola violazione di legge in caso di "doppia conforme" assolutoria; nello stesso tempo amplia i casi in cui la Corte di cassazione provvede all’annullamento senza rinvio. Si propone, poi, la costruzione di un modello legale di motivazione della decisione di merito, che si accorda con l’onere di specificità e decisività dei motivi di ricorso. Un’attenzione particolare viene riservata alla funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge e, quindi, la certezza del diritto, introducendo meccanismi di raccordo tra le sezioni semplici e le sezioni unite della Corte di cassazione, diretti a ridurre i casi di contrasto giurisprudenziale. Si tratta di un complesso di interventi che attraverso alcune mirate modifiche delle impugnazioni sono in grado di apportare effetti migliorativi, né inutili né tantomeno dannosi, sul sistema del processo penale, fermo restando che nessuna svolta radicale del processo in termini di celerità ed efficienza potrà essere realizzata se non si sarà in grado di risolvere il problema del numero abnorme dei procedimenti penali, derivante da un complesso di fattori: ipertrofia del diritto penale, eccessiva latitudine del ricorso per cassazione, numero abnorme degli avvocati cassazionisti. Migliucci (Ucpi): "basta con i diktat dei magistrati, vogliono solo processi infiniti" di Luigi Frasca Il Tempo, 1 ottobre 2016 Parla il presidente Unione Camere Penali. Il leader dei penalisti, che negli ultimi giorni non ha risparmiato forti critiche all’Anm e soprattutto al presidente Piercamillo Davigo sul tentativo di dettare l’agenda di Governo delle riforme, è tornato senza mezzi termini sull’argomento. "È grave che il sindacato delle toghe si ponga di traverso a ogni riforma, da ultima quella del processo penale. Davigo vorrebbe interrompere la prescrizione dopo il primo grado, creando così processi senza fine. E la magistratura di fatto si oppone a tutte le norme che mirano a velocizzare il processo. Noi non siamo affatto d’accordo, né sulla prescrizione né sulla partecipazione a distanza". Sulle riforme i "diktat" della magistratura sono un leitmotiv, e la politica, ha ribadito Migliucci a Orlando, "non deve cedere a tali pressioni e ingerenze". Pressioni che nelle ulti -me settimane hanno fatto porre più volte la questione della possibile fiducia sul provvedimento e creato polemiche in Parlamento: "Sono convinto che la riforma della giustizia debba andare avanti", ha detto il Guardasigilli a margine del Congresso. "Tutti hanno l’interesse a un processo penale più rapido come condizione per assicurare le garanzie e come le condizione perché giustizia sia fatta". Sulla possibilità che venga posta la fiducia sul disegno di legge, Orlando ha replicato: "Vedremo, ancora non lo sappiamo". Certo è che "questa riforma va fatta e va fatta adesso", ha affermato il Guardasigilli, "perché se non si reagisce oggi all’affaticamento e anche alla crisi del processo penale, agganciandosi alla concreta attuazione dei principi, temo che il populismo possa risalire ai principi stessi e metterne in discussione le ragioni fondamentali". Anche Migliucci nella sua relazione ha lanciato un messaggio chiaro: "Basta con il populismo penale", con la ricerca del "facile consenso" da parte del legislatore. Le riforme devono essere razionali, organiche e di sistema. Ma nel Congresso dedicato al rilancio della separazione delle carriere, il leader dei penalisti ha posto l’accento sul fatto che non solo il tema non sia "ulteriormente procrastinabile", ma siano "urgenti" anche la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura. Sono mancate "risposte chiare sui magistrati in politica e sui fuori ruolo", quando è una la sola strada possibile: "Non può essere consentita la spola tra funzioni giudiziarie e incarichi nella politica"; il magistrato che si impegna in Parlamento o al governo deve "necessariamente lasciare la funzione giudiziaria e non farvi più ritorno". Neanche da parte del ministro della Giustizia sono mancate "frecciatine" alle toghe: Orlando si è detto "preoccupato" dal fatto che in questa fase una "campagna elettorale permanente che si consuma all’interno della magistratura, rischia di far dire delle cose di cui poi gli stessi protagonisti non sono pienamente convinti". "Se dovessi proporre una riforma davvero indolore e non soggetta ad accuse di pregiudizio all’autonomia e all’indipendenza della magistratura - ha aggiunto - proporrei una unificazione di tutti turni elettorali che i magistrati sono chiamati ad affrontare, perché superare il clima di campagna elettorale permanente che caratterizza la magistratura probabilmente consentirebbe già di fare un passo avanti significativo". Giustizia, urge riforma radicale di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2016 Una nuova legge sul processo penale, approvata dalla Camera, è in discussione al Senato e sembra che il governo intenda mettere la immancabile "fiducia". Si tratta dell’ennesima "leggina" che modifica, tra l’altro, l’archiviazione, l’appello, il ricorso per Cassazione, la partecipazione a distanza all’udienza dell’imputato detenuto; prevede altresì la delega al governo per la riforma delle intercettazioni al fine di garantire la riservatezza delle conversazioni delle persone "occasionalmente coinvolte nel procedimento", nonché disposizioni di ordinamento penitenziario. Al progetto è stata abbinata una nuova disciplina della prescrizione La netta impressione è che le modifiche proposte, al di là di qualche utilità marginale, non solo aumenteranno la confusione, ma incideranno ben poco sulla gravissima crisi del processo penale" che si manifesta già dalle indagini preliminari. In questa fase esso appare come un Giano bifronte: metà accusatorio, con il monopolio dell’azione penale del pm che ricerca in piena autonomia le prove contro l’imputato e metà inquisitorio, con gli interventi del gip, del Riesame e del gup, i quali decidono sulla fondatezza delle prove raccolte, sulla custodia cautelare e sul destino dell’inchiesta. Questa complessa procedura è la prima causa degli enormi ritardi della giustizia penale. Ora il "Sistema giustizia" non funziona per responsabilità dei governi e delle forze politiche che da molti anni in Parlamento coltivano l’illusione di far ripartire con ricorrenti rattoppi un motore bloccato, tanto più che difettano persino le unità di personale per farlo girare "al minimo": infatti, secondo la Cgil, mancano 6.000 cancellieri e segretari, mentre, per il Csm, mancano ben 1.113 magistrati tra giudicanti e pm. Visti i risultati fallimentari della incredibile stratificazione legislativa abbattutasi sul codice di procedura, con numerose declaratorie di incostituzionalità della Corte Costituzionale, occorre ormai chiedersi se non sia giunta l’ora di voltare decisamente pagina smantellando alla radice l’attuale apparato normativo. Basterebbero pochissime ma decisive innovazioni, quali: 1) Soppressione di gip, Gup e Tribunale del Riesame e istituzione del "Giudice delle Garanzie" (collegiale) che interroga l’arrestato e controlla la legalità dell’arresto, autorizza (e revoca) la custodia cautelare e i sequestri; autorizza le perquisizioni, le intercettazioni e la raccolta delle prove irripetibili; decide di accogliere o rigettare la richiesta del pm di archiviazione dell’inchiesta. 2) Immediato ricorso per Cassazione contro le misure coercitive (arresti e sequestri), solo per violazione di legge. 3) Tempestivo avviso all’indagato di natura e motivi dell’accusa; limiti temporali alle indagini del pm commisurati alle esigenze di acquisizione delle prove, di durata maggiore per i delitti di terrorismo, criminalità organizzata e contro la P.A. 4) All’esito delle indagini: interrogatorio dell’indagato assistito dal difensore, da parte del pm., il quale, ove non ritenga di chiedere l’archiviazione, deposita il fascicolo delle indagini svolte e delle prove raccolte chiedendo il rinvio a giudizio; 5) Nel dibattimento: a) in apertura, contestazione pubblica dell’imputazione e delle prove di accusa e replica della difesa con l’indicazione delle prove a discolpa dell’ imputato; b) verifica preliminare della ammissibilità delle prove; c) arresto e condanna immediata dei testimoni falsi per il (nuovo) delitto di "Oltraggio alla Giustizia"; 6) previsione di termini ordinatori di durata per ogni processo e per ogni grado di giudizio; 7) Decorrenza della prescrizione dalla data della scoperta del reato e cessazione con la richiesta di rinvio a giudizio, ovvero, in subordine, con la pronuncia della sentenza di primo grado; 8) Comunicazioni e notifiche esclusivamente per via telematica; 9) Sanzioni disciplinari per il pm che abbia ripetutamente promosso azioni penali giudicate dal Tribunale prive di fondamento, e per il difensore che abbia sollevato reiterate, ingiustificate eccezioni procedurali al solo scopo di ritardare il corso del giudizio. Parallelamente serve una riflessione sul problema della separazione delle carriere tra pm e giudici, tenuto conto che, essendo quello accusatorio un processo di parti, sarebbe consequenziale (come auspicava nel 1991 Giovanni Falcone che, sin da allora, denunciava l’insufficiente decollo del nuovo processo penale) separare il pm dall’attuale assetto unitario della magistratura per collocarlo - sempre all’interno dell’Ordine giudiziario - in una distinta struttura organizzativa e funzionale, ferme restando le garanzie stabilite nei suoi riguardi dall’Ordinamento giudiziario. Magistratura ed elezioni Csm, penalisti critici di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2016 La questione "magistratura" rimane la vera e propria emergenza della giustizia italiana. Non rinuncia ai toni polemici il presidente delle Camere penali Beniamino Migliucci nella relazione che ha inaugurato ieri il congresso dei penalisti in corso a Bologna. Migliucci, al netto della storica battaglia per la separazione delle carriere, avvertita, sostiene, anche da una parte sempre più larga dell’opinione pubblica e della stessa magistratura, mette l’accento anche su altri punti. Come l’assetto organizzativo e il governo della magistratura e l’indipendenza della funzione giudiziaria. E allora particolarmente deludenti sono state le conclusioni delle due commissioni ministeriali Scotti e Vietti per la riforma del sistema giudiziario. Che, a dire di Migliucci, hanno prodotto complessi articolati incapaci però di toccare in modo significativo l’esistente. Lasciando, per esempio, irrisolto il nodo della spola dei magistrati tra funzioni giudiziarie e incarichi nella politica. Oppure non affrontando in maniera decisa il problema del sistema elettorale del Csm. Quanto a quest’ultimo poi, il presidente dei penalisti contesta anche la recentissima riforma del regolamento interno che gli appare tuttora ben distante dagli obiettivi di trasparenza e correttezza delle nomine. Insomma, messi insieme tutti questi elementi, Migliucci ne conclude per una sostanziale incapacità della magistratura ad autoriformarsi. Quanto all’altro tema caldo del momento, il disegno di legge delega sul processo penale, Migliucci mette nel mirino le norme che alzano le sanzioni per i furti e le rapine. Disposizioni che "produrrebbero ulteriori effetti di carcerizzazione in pieno contrasto con la riforma dell’ordinamento penitenziario, anch’essa prevista dal medesimo disegno di legge. Il fenomeno è ormai tristemente noto e può semplicemente descriversi come la volontà del legislatore di cercare facile consenso, rispondendo ai legittimi timori dei cittadini rispetto a fatti di delinquenza comune". Altri punti sono più convincenti. È il caso dell’introduzione dell’estinzione del reato per condotte riparatorie in relazione ai reati procedibili a querela. "Si tratta di un istituto - avverte Miglucci - che si inserisce in un più ampio e coerente disegno promosso nel corso di questa legislatura, che tende a creare percorsi alternativi di definizione dei procedimenti, con la finalità di decongestionare il processo". Sì poi alla delega al Governo per la procedibilità a querela di alcuni reati attualmente procedibili d’ufficio (reati contro la persona puniti con la sola pena pecuniaria, o con pena massima non superiore a quattro anni). Semaforo verde infine per la riforma della disciplina delle misure di sicurezza personali, con il divieto di applicazione per fatti non previsti come reato al momento della loro commissione. Caso Uva, la procura di Milano impugna la sentenza d’assoluzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 ottobre 2016 La procura di Milano ha impugnato la sentenza della Corte d’Assise di Varese che aveva assolto i due carabinieri e sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale ai danni di Giuseppe Uva, l’ operaio deceduto la mattina del 15 giugno del 2008 dopo essere stato nella caserma dei carabinieri di Varese. I giudici, assolvendo i componenti delle forze dell’ordine avevano escluso il reato per "l’insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere". Al momento dell’assoluzione, dure furono le critiche da parte della sorella Lucia Uva. Ma non solo. Molto dura e articolata la fu la critica espressa dal presidente della commissione bicamerale per i Diritti umani e senatore Pd Luigi Manconi. "Un processo - aveva detto - condizionato da un’indagine condotta in maniera pedestre dal pubblico ministero Agostino Abate, si è concluso com’era fatale che si concludesse". Secondo il parlamentare "Abate ha dominato l’intera vicenda giudiziaria con un comportamento del tutto simile a quello che lo ha portato a trattenere, per oltre 27 anni, il fascicolo relativo all’assassinio di Lidia Macchi, prima che gli venisse tolto di autorità. Per quest’ultimo comportamento Abate è stato infine trasferito. Per quello tenuto nei confronti della vicenda giudiziaria relativa alla morte di Giuseppe Uva è stato sottoposto a una incolpazione da parte della Procura generale presso la Cassazione, che tra l’altro gli attribuiva la violazione di diritti fondamentali della persona. Con queste premesse, - aveva continuato Manconi - con una conduzione dell’indagine oscillante tra improntitudine e negligenza gravissima, tra abusi e illegalità, la sorte del processo era in qualche misura segnata. Resta il fatto, incancellabile, che della morte di Giuseppe Uva, di cui è certa l’illegalità del fermo e del trattenimento per ore in una caserma dei carabinieri, non conosciamo una plausibile ricostruzione". La vicenda - Tutto iniziò il 14 giugno del 2008, quando Giuseppe, 43 anni, di professione falegname, venne fermato ubriaco alle 3 di notte in centro a Varese. Insieme al suo amico Alberto Biggiogero stava spostando una transenna. Arrivarono i carabinieri e li portarono entrambi nella caserma di via Saffi. Qui comincia un buco di due ore, che porta direttamente alle 5 del mattino, quando Giuseppe Uva sarebbe entrato al pronto soccorso con un Tso. Alle 10 la morte per arresto cardiaco, su un lettino del reparto di psichiatria. Sette anni di indagini - compreso il processo con l’assoluzione - non hanno chiarito cosa sia effettivamente successo durante le due ore in caserma. In realtà, già nel 2012 un processo per la morte di Giuseppe Uva fu celebrato, sempre a Varese. L’accusa decise di seguire la pista della malasanità e sul banco degli imputati ci finì un medico, che venne assolto con formula piena nell’aprile del 2012. Nel leggere la sentenza, il giudice ordinò anche di effettuare nuove indagini su quello che sarebbe accaduto in caserma, prima dell’ingresso di Giuseppe in ospedale. Il pm allora incaricato delle indagini, Agostino Abate, non la prese affatto bene e parlò apertamente di pregiudizi nei confronti del suo operato. Proprio Abate, insieme alla sua collega Sara Arduini, un anno e mezzo fa, divenne protagonista dell’incredibile interrogatorio all’unico testimone di quella nottata, Biggiogero. Il video di quanto accaduto è su Youtube: quattro ore di sostanziale massacro, con il teste finito nel pallone, bombardato da domande e da atteggiamenti che in molti hanno definito quasi intimidatori, o quantomeno molto aggressivi, più del lecito per una persona che, in fondo, è soltanto "informata dei fatti" e non accusata di niente. Biggiogero voleva un caffè, Abate gli risponde: "Ha bisogno di drogarsi? Il caffè è una droga". Un’aria pensante, tanto che se ne occupo’ anche il Csm. Alberto Biggiogero era e rimane il testimone chiave di tutta la vicenda. Si trovava in un’altra stanza rispetto a quella in cui c’erano Uva e gli agenti. Alberto sentiva il suo amico lamentarsi e gridare "Basta!". Non sapendo cosa fare, chiamò il 118, la conversazione che ne seguì - tutta agli atti - ha del surreale: "Sì, buonasera, sono Biggiogero, posso avere un’autolettiga qui alla caserma di via Saffi, all’Arma dei Carabinieri?". "Sì, cosa succede?". "Eh, praticamente, stanno massacrando un ragazzo". "Ma in caserma?". "Eh, sì?". "Ah, ho capito, va bè, adesso la mando, eh?". "Grazie". Pochi minuti dopo è il 118 a chiamare la caserma per chiedere spiegazioni, e i carabinieri spiegano di essere soltanto in presenza di due ubriachi, ai quali verrà tolto il cellulare. Passano altri minuti e i ruoli si ribaltano: i carabinieri chiamano il 118 per chiedere un Tso. Secondo la denuncia dei militari, durante le due ore di fermo, Giuseppe Uva era agitato, quasi incontenibile nella sua furia: "Hanno scritto che quella notte lì Giuseppe si picchiava. Ma io dico, cosa facevano loro? Godevano a vedere una persona che si picchiava?", si domanda da la sorella Lucia. Comunque sia, in ospedale a Uva vengono somministrati vari farmaci per sedarlo. In mattinata, il cuore dell’uomo smetterà di battere per sempre. Da sempre la tesi dei familiari è che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all’uomo dagli agenti che lo tenevano in custodia. La notizia dell’impugnazione ha comunque riaperto il caso. "Soffiate": indagini libere. La polizia può agire senza avvisare il pm di Stefano Manzelli Italia Oggi, 1 ottobre 2016 La procura di Bologna: ok alle inchieste dietro segnalazione anonima. La polizia giudiziaria può ritenere opportuno approfondire le segnalazioni anonime di proprio interesse senza però essere tenuta a comunicare nulla al pubblico ministero. Almeno fino all’acquisizione di una vera e propria notizia di reato. Diversamente ogni scritto anonimo che finisce direttamente in procura ha poche probabilità di essere preso in considerazione, salvo eccezioni da valutare caso per caso. Lo ha evidenziato la procura distrettuale di Bologna con la circolare n. 6540 del 15 settembre 2016. Ogni documento anonimo che viene trasmesso direttamente in procura finisce automaticamente in archivio, nel rispetto delle indicazioni procedurali del codice e delle disposizioni di dettaglio. Si tratta delle denunce prive di sottoscrizione e di ogni altro elemento utile alla identificazione del mittente. Oppure dei documenti siglati senza riferimenti concreti al possibile riscontro effettivo dell’autore. A questa regola generale corrispondono però due eccezioni. Se il pubblico ministero ravvisa discrezionalmente nella delazione anonima elementi di interesse operativo potrà segnalare alla polizia giudiziaria l’opportunità di approfondire questi aspetti sul campo. In pratica potrà stimolare l’attività di iniziativa della polizia per avviare indagini ad hoc, senza delega. Oppure se il dominus dell’azione penale ritiene che dall’anonimo possano emergere estremi di un reato di calunnia potrà aprire un fascicolo con delega di indagini alla polizia giudiziaria. Previa archiviazione formale della notizia anonima. Nel caso in cui sia la polizia giudiziaria a ricevere direttamente la segnalazione anonima nessun problema perché la stessa sviluppi autonome attività di riscontro. In questo caso gli organi di indagine non dovranno comunicare nulla alla procura di riferimento. Solo all’esito positivo degli accertamenti andrà trasmessa una esauriente comunicazione di notizia di reato, essendo indifferente il percorso che ha portato ad acquisirla, conclude la circolare. I documenti anonimi archiviati andranno anche prontamente smaltiti, nel rispetto rigoroso degli ambiti temporali di conservazione di questi testi previsto dalla normativa di settore. Una giustizia più civile e moderna di Andrea Orlando L’Unità, 1 ottobre 2016 Caro direttore, commentatori accigliati, facendo leva su ricostruzioni sommarie e talvolta errate, hanno sostenuto in questi giorni le più diverse tesi attorno alla genesi, al contenuto e all’iter del disegno di legge sul processo penale. Così alcuni vi hanno visto un cedimento a posizioni giustizialiste. Altri hanno sostenuto che addirittura trattasi di un’aggressione al lavoro dei giudici. Conosco il motto anglosassone: "Ho delle opinioni, non disturbatemi con dei fatti". E tuttavia non ritengo del tutto inutile tornare, con un po’ di ostinazione, ai fatti. So bene che la politica è fatta anche di segnali sotto traccia, messaggi impliciti, dichiarazioni a corredo di iniziative istituzionali che talvolta non coincidono esattamente tra loro. Ma non dovremmo dimenticare che alla fine poi contano i fatti, e per il legislatore i fatti sono le norme. Che incidono nella vita dei cittadini. Questo è ancor più vero, quando la legge disciplina il tema della privazione della libertà, come nel caso della materia penale. I fatti, allora! Da dove nasce il disegno di legge? Il cuore del progetto è il frutto di un lavoro compiuto da una commissione composta da insigni giuristi (avvocati, magistrati e accademici) presieduta dall’allora Presidente della Corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio, attualmente Primo Presidente della Corte di Cassazione. Da quella commissione scaturiscono le norme finalizzate allo snellimento e all’accelerazione del processo penale. In questo senso vanno gli articoli che prevedono l’estinzione del reato per condotta riparatoria. Si tratta di un meccanismo che consente di estinguere i procedimenti per reati minori, che spesso si concludono con una pena pecuniaria o con la prescrizione, ingolfando, talvolta vanamente, i tribunali. Nello stesso senso vanno le norme che prevedono il passaggio di alcuni reati dall’area della procedibilità d’ufficio a quella della pro cedibilità a querela. In sostanza, la Commissione ha valutato che alcuni reati debbano essere perseguiti se c’è l’impulso della parte offesa. Anche in questo caso si tratta di un intervento finalizzato a deflazionare un sistema sempre più in affanno. Nella stessa direzione si muovono le norme che prevedono motivi più rigorosi per i ricorsi in appello. Il secondo grado è diventato nel tempo il vero "tappo" del processo penale. Circoscrivere il ricorso all’appello è un modo per mantenere il sistema di garanzie offerto dal nostro ordinamento e renderlo effettivo, evitando gli abusi. La nostra Corte di Cassazione è da tempo congestionata da un carico contenzioso che non trova paragone in nessun ordimento. Solo in materia penale registriamo una sopravvenienza di circa 53.539 ricorsi. Le definizioni annue sono 51.702, cioè si avvicinano alla sopravvenienza ma non la superano, facendo aumentare in tal modo le pendenze di anno in anno. A questi dati si aggiunge un contenzioso civile anch’esso insostenibile. Questi dati minano da tempo la funzione fondamentale di nomofilachia della nostra Corte, cioè quella di fissare l’esatta e uniforme interpretazione della legge. Nell’esaminare il disegno di legge governativo, il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Canzio, ha parlato di "modifiche incisive" di un progetto riformatore, che "per la sua efficacia deflattiva, recherà un immediato beneficio a taluni settori nevralgici del giudizio penale di cassazione, preservandolo da un inutile dispendio di tempi e di risorse". Dello stesso tenore, del resto, erano le osservazioni del Procuratore Generale della Corte, Pasquale Ciccolo, che formulava un duplice invito: a trovare "soluzioni di immediata applicabilità", e a impedire che il ricorso in Cassazione si tramuti in una "astuzia dell’ordinamento". Di queste osservazioni si è dunque fatto tesoro. Al nucleo originale del disegno di legge sono state poi aggiunte alcune norme che riguardano l’ordinamento penitenziario e la disciplina sulle intercettazioni. Mi soffermo brevemente su questi due punti. Sul primo. La riforma dell’ordinamento penitenziario risale al 1975. Nelle carceri c’erano quasi esclusivamente detenuti di nazionalità italiana, il fenomeno della tossicodipendenza non era ancora esploso nelle attuali dimensioni, dovevano ancora esplodere le principali guerre di mafia. Il Ministero della giustizia ha elaborato il contenuto della riforma che oggi propone al Parlamento coinvolgendo oltre 200 esperti di questi settori in 18 tavoli che hanno lavorato per oltre un anno. Il risultato è una serie di misure finalizzate ad abbattere la recidiva e a dare solidità all’indicazione costituzionale che prevede la finalità rieducativa della pena. Il carcere oggi è spesso il luogo della passività; l’accesso al beneficio è legato alla buona condotta intesa solo come assenza di note negative. Viene trattato allo stesso modo il detenuto che studia, lavora, intraprende un percorso di riscatto e quello che passa il tempo della propria pena a guardare il soffitto. Un altro carcere non solo è un obiettivo di civiltà doveroso, ma è necessario anche per realizzare più sicurezza, se non si vuole che il carcere resti, come purtroppo spesso è, una sorta di scuola di formazione per i criminali a spese dei contribuenti. Il testo uscito dal Consiglio dei Ministri prevedeva anche una delega per la disciplina delle intercettazioni. Sia chiaro, non è prevista nessuna restrizione per il loro utilizzo come strumento di indagine; vi è anzi un punto della delega che prevede una semplificazione per l’autorizzazione di quelle volte a contrastare la corruzione. La delega è finalizzata piuttosto ad evitare un uso improprio mediante la diffusione delle intercettazioni, soprattutto quando queste non hanno rilevanza penale. Il passaggio alla Camera ha comportato alcune modifiche rilevanti. La prima, voluta dal governo, prevede un inasprimento delle pene per i furti in appartamento. In un quadro generale che vede un calo dei reati, sia di quelli contro la persona che di quelli contro il patrimonio, si manifesta una tendenza opposta, invece, per questo tipo di atti predatori. Si tratta di episodi che colpiscono spesso persone anziane e sole che spesso, oltre a perdere risparmi ed oggetti a cui sono legate affettivamente, perdono per tutto il resto dei loro giorni il senso di sicurezza e di serenità che ciascuno dovrebbe aver garantito entro le proprie mura domestiche. Sempre nel passaggio alla Camera, su emendamento parlamentare, è stata inasprita la pena per il voto di scambio politico-mafioso. Un altro emendamento, ricollegandosi alla norma finalizzata all’accelerazione del processo, ha previsto un termine di tre mesi dopo la conclusione delle indagini per archiviare o rinviare a giudizio. Il passaggio al Senato ha poi accorpato, in questo disegno di legge, quello sulla prescrizione, che nel frattempo era stato licenziato dalla Camera. Modificare la prescrizione era uno degli obiettivi dell’attuale Esecutivo. Esso si trova formulato nei 12 punti della riforma della giustizia da me presentati, e accolto nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza presentata dal governo nel settembre di due anni fa. Lo scopo non era tanto quello di allungare la vita alla pretesa punitiva dello Stato, anche se, va detto, che questa condizione avrebbe, nel tempo, evitato casi clamorosi di impunita, ma quello di scongiurare condotte dilatorie che portavano e portano ad uno scarso utilizzo dei riti alternativi previsti dal nostro ordinamento, rispetto ai quali il ddl prevede alcune innovazioni preordinate ad un loro più intenso utilizzo. La versione uscita dal Consiglio dei Ministri prevedeva una riforma generalizzata ed omogenea dell’istituto. Si prevedeva, infatti, che in caso di condanna si sospendesse per due anni il decorso dopo il primo grado e per uno dopo l’appello. La Camera ha previsto una serie di allungamenti per alcuni tra i più gravi reati contro la pubblica amministrazione. Al Senato la disciplina generale è stata modificata prevedendo due interruzioni di 18 mesi in caso di condanna, nei due gradi di giudizio. Si tratta, come già detto, di una soluzione equilibrata, che da tempo al processo, ma non lo rende infinito, in attesa di valutare gli effetti delle altre misure acceleratorie contenute nel ddl. In sostanza, in condizioni politiche non semplici (Pd e Ncd non avevano esattamente stesso programma sulla giustizia) siamo arrivati sin qui, all’ultimo miglio. Ai garantisti voglio dire che il nostro processo, espressione dei principi costituzionali, è espressione di un visione avanzata e liberale che non va dispersa. Se il processo penale dovesse franare sotto peso delle sue attuali disfunzioni, non vedo all’orizzonte una prospettiva più avanzata. La cultura della paura è forte ovunque e sta vincendo in molti Paesi della civilissima Europa. Vorrei ricordare come alcuni Paesi abbiano sospeso l’attuazione della Carta europea dei diritti dell’uomo ed altri stiano pensando di sottrarsi alla sua giurisdizione. A chi pone la questione dell’effettività della pena e della tutela delle vittime, il cui statuto viene affrontato con il ddl che gli attuali tempi del processo, l’enorme flusso di procedimenti in entrata generano sempre di più impunità e frustrazione delle legittime attese di chi vuole giustizia. Caro Direttore, come vede mi sono limitate ad esporre i fatti e a ricordare il contenuto delle norme. Ciascuno può così formarsi un giudizio. Può misurare la distanza dei fatti delle opinioni e, infine, valutare se l’impegno sia stato ben speso per una riforma che sono convinto renderà più civile, più moderno e più giusto il Paese. C’è un nuovo giudice: si chiama stampa di Beniamino Migliucci Il Dubbio, 1 ottobre 2016 Da tempo gli avvocati penalisti sono consapevoli che sulla scena della politica giudiziaria, ma anche della quotidiana attività professionale, campeggia ormai un "soggetto", ulteriore a quelli tradizionali contemplati dal codice: l’informazione giudiziaria. La stampa riesce spesso a condizionare, a volte anche consapevolmente, singole vicende giudiziarie. Dare pubblica rilevanza ad una posizione piuttosto che ad un’altra, fare filtrare una notizia in un certo momento, assicurare uno spazio di intervento a un soggetto del panorama giudiziario invece che a un altro, riesce a indirizzare l’opinione pubblica. Così come ricordato in un documento pubblicato sul sito dell’Unione delle Camere Penali italiane, nella sezione dedicata all’Osservatorio sul informazione giudiziaria, da tempo gli avvocati penalisti sono consapevoli che sulla scena della politica giudiziaria, ma anche della quotidiana attività professionale, campeggia ormai un "soggetto", ulteriore a quelli tradizionali contemplati dal codice: l’informazione giudiziaria. Da sempre l’Unione delle Camere penali è intervenuta, con propri documenti o comunicati, sulle modalità di presentazione da parte della stampa sia dei temi della politica giudiziaria sia di singole vicende giudiziarie, intravedendo i pericoli, per i diritti del cittadino e per le stesse sorti delle regole del giusto processo. La stampa (tramite prese di posizione o interviste "mirate", la pubblicazione di atti e intercettazioni, la prassi della "fuga di notizie" etc.) riesce spesso a condizionare, a volte anche consapevolmente, singole vicende giudiziarie. Dare pubblica rilevanza ad una posizione piuttosto che ad un’altra, fare filtrare una notizia in un certo momento, assicurare uno spazio di intervento a un soggetto del panorama giudiziario invece che a un altro, riesce a " (de-) formare" l’opinione pubblica, a indirizzarla, a farle assumere determinate posizioni. In proposito, va segnalato un vero e proprio "nuovo genere" di informazione giudiziaria, polemicamente definibile come una sorta di "trailer giudiziario", destinato ad essere partecipe di un’operazione di condizionamento della giurisdizione (sia questo voluto o meno). Avviene così che il martellamento mediatico, in particolare televisivo e sul web, ma non solo, rappresentato dal "combinato disposto" di conferenze stampa degli investigatori, video suggestivi, fughe mirate di notizie, pubblicazioni del contenuto di atti processuali a senso unico, ottiene il risultato di esercitare o comunque tentare un condizionamento sulla giurisdizione. In conclusione, all’esito di un esame anche sommario del "circo mediatico giudiziario" del nuovo millennio ci si deve chiedere se il ruolo degli investigatori ricomprenda anche quello dell’autopromozione delle proprie inchieste e il tentativo di "enfatizzarle" in un’ottica di condizionamento processuale e se il ruolo dei media, quando amplifica e si fa acriticamente garante della fondatezza delle inchieste giudiziarie, sia davvero in qualche modo in linea con quello di "cane da guardia" del potere, romanticamente evocato dai consessi europei. Le motivazioni che condannano Bossetti? Un romanzo. In America sarebbe assolto di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 1 ottobre 2016 Negli Stati Uniti Massimo Bossetti sarebbe stato assolto. In Italia ci vorrebbe un Corrado Carnevale in Cassazione per fare a pezzetti la sentenza che ha condannato all’ergastolo il muratore di Mapello per l’omicidio di Yara Gambirasio e le motivazioni "furbe" che giustificano quel provvedimento. L’unica prova è quella del Dna. Tutto il resto nel processo è sparito, in un clima di smemoratezza collettiva impressionante. Vogliamo ricordare il furgone? Crollato, dopo che un colonnello del Ris aveva dovuto ammettere in aula di aver costruito un video montaggio ad hoc "per esigenza della stampa". E la testimone che diceva di aver visto Bossetti e Yara in auto? Sparita. I tradimenti della moglie, che parevano fondamentali per spiegare lo stato d’animo di Bossetti? Irrilevanti. E così via. Dopo aver spiegato come quella del Dna sia una "prova granitica", i giudici costruiscono il romanzo sul movente e lo svolgimento dei fatti. La Pm Letizia Ruggeri aveva detto in aula "non è possibile individuare un movente certo". Era stato un suo momento di onestà. I giudici hanno invece costruito ex novo un quadro di avances sessuali respinte. E di conseguenza hanno dovuto lavorare di fantasia. Senza poter spiegare come e perché Yara sia salita (spontaneamente, dicono), in una sera di pioggia, sul furgone del muratore, né come i due siano poi arrivati al campo di Chignolo, dove tre mesi dopo il corpo della ragazzina sarà ritrovato. Secondo la sentenza Bossetti, dopo esser stato respinto, prima avrebbe colpito Yara alla testa con un sasso, poi si sarebbe esercitato in un’attività artistico-chirurgica incidendo sul corpo della ragazza con un temperino una serie di X e di Y. Come mai, si si potrebbe chiedere, non c’è traccia di violenza sessuale? Se lo scopo di quella "gita" in campagna era ottenere un rapporto, perché, una volta che la ragazza era intontita dal colpo in testa, non è stata violentata? La sentenza non sa rispondere. Sa solo giudicare l’imputato come sadico, crudele, malvagio, per il dolore che ha provocato nella sua vittima, che sarà poi abbandonata in piena campagna, dove in seguito morirà per il freddo. In sintesi quest’uomo convince una giovanissima ragazza a salire sul suo furgone, ma quando lei rifiuta le sue avances la colpisce, le disegna sul corpo alcune lettere dell’alfabeto, non la violenta pur avendone l’occasione e poi l’abbandona in un campo. Un matto? No, perché Bossetti viene descritto come lucido assassino che agisce freddamente, non d’impeto. Sembra un romanzo, e anche i giudici se ne rendono conto, tanto da scrivere che "la dinamica del fatto resta in gran parte oscura". "Ma ciò - aggiungono - non scalfisce il dato probante rappresentato dal rinvenimento del Dna su slip e pantaloni". I tecnici e gli avvocati della difesa hanno insistito a lungo sulla necessità di trovare tracce non solo del Dna nucleare ma anche di quello mitocondriale. Se non si trovano tutte e due le parti, sarebbe come stabilire che solo il tuorlo senza l’albume caratterizza un uovo. Il Dna mitocondriale di Bossetti non è stato mai trovato, anzi i tecnici dell’accusa hanno anche compiuto un grave errore confondendolo con quello di Yara. La sentenza liquida il problema scrivendo "è un mistero". Ecco dunque qual è la prova per cui un uomo è stato condannato all’ergastolo: "La prova che l’imputato e la vittima sono entrati in contatto". Quindi, senza nesso di causalità, si deduce anche che lui l’abbia uccisa. Entrare in contatto non comporta aver ucciso, direbbe un qualunque Perry Mason. Ecco perché in un tribunale americano o in una nostra attenta Cassazione, Bossetti sarebbe assolto. Lazio: comunicato del Garante regionale dei detenuti sul Memorial Cucchi Ristretti Orizzonti, 1 ottobre 2016 "La tragedia di Stefano Cucchi resta nella memoria della città di Roma, dei suoi luoghi di privazione della libertà e, più in generale, dell’opinione pubblica e del mondo penitenziario. Nonostante la lucida e ammirevole determinazione della famiglia, a sette anni di distanza dinamiche e responsabilità dei fatti sono in gran parte ancora da accertare in sede giudiziaria, mentre resta lo scandalo di un giovane uomo entrato vivo e uscito morto da una settimana di passione tra diversi luoghi di costrizione, ma sempre e comunque sotto la responsabilità di istituzioni pubbliche. Per queste ragioni ritengo che sia un mio preciso dovere istituzionale partecipare al Memorial per Stefano Cucchi di domenica prossima, come parte degli obblighi di monitoraggio, prevenzione e tutela dei diritti che il Consiglio regionale del Lazio ha voluto affidarmi nominandomi Garante delle persone sottoposte a privazione della libertà". Così si è espresso Stefano Anastasia, Garante per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, in merito alla manifestazione che si terrà domenica 2 ottobre 2016 alle ore 10.00, presso il Parco degli Acquedotti in via Lemonia. Milano: il Cardinale Scola e i giusti processi "basta imputati in gabbia" di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 1 ottobre 2016 L’arcivescovo Angelo Scola interviene a un convegno su "Giustizia, diritto e misericordia" e tocca la questione delle gabbie per gli imputati nelle aule processuali: "A me non pare una cosa molto umana - dice il cardinale, bisogna che venga rispettata la dignità delle persone e sia data al colpevole la forza per riscattarsi". Nel giro di poche ore arriva la replica a distanza direttamente dal ministro di Giustizia Andrea Orlando: "È una questione che abbiamo affrontato con i vertici degli uffici milanesi - spiega: non siamo contrari, purché si preservino le condizioni di sicurezza che sono necessarie per alcuni tipi di processo". Una giustizia accompagnata da più misericordia e da meno gabbie. È questo l’auspicio dell’arcivescovo Angelo Scola, parzialmente raccolto - per quanto riguarda le gabbie per gli imputati nelle aule processuali - dallo stesso ministro di Giustizia Andrea Orlando. L’occasione che innesca il dialogo a distanza tra il cardinale e il guardasigilli è un convegno su "Diritto, misericordia e giustizia" organizzato dalla Libera associazione forense e dall’Ordine degli avvocati. "Nonostante la differenza di qualità tra giustizia e misericordia - spiega Scola a una platea di magistrati e avvocati, tra i quali l’ex sindaco Giuliano Pisapia - i due termini non solo hanno punti di incontro esteriore, ma emergono l’uno dall’altro. Se, infatti, il limite è l’espressione dell’umano, e tutti i giorni ne abbiamo consapevolezza, la difficoltà è coniugare una regola che deve essere universale, con un peccato, una colpa che è sempre singolare, dell’individuo". In sostanza, secondo l’arcivescovo "è la giustizia umana stessa a richiedere un "di più", essendo consapevole dei suoi limiti". E quel "di più" sarebbe, appunto, la misericordia, tradotta come "l’assunzione di un rischio, il porre in atto qualcosa di non obbligato, ma che fa leva sulla libertà delle persone e, in prospettiva, su una vita più buona per l’individuo e per la società". Scola riconosce che, purtroppo, il livello del dibattito pubblico su temi come questo è inquinato dalle semplificazioni gridate e poi aggiunge. "È la giustizia stessa, proprio per essere giusta e perché possa giustificarsi di fronte alla società, a chiedere ciò, in vista di risanare, rinnovare e rendere più completi, colui che ha commesso il reato, la vittima e la società". A convegno concluso, il cardinale risponde a una domanda sull’opportunità dell’utilizzo delle gabbie per gli imputati nelle aule giudiziarie. "A me non pare una cosa molto umana - dice, bisogna che venga rispettata la dignità delle persone e sia data al colpevole la forza per riscattarsi". È quanto basta per suscitare, nel giro di poche ore, la replica a distanza del ministro di Giustizia Orlando: "È una questione che abbiamo affrontato con i vertici degli uffici milanesi - spiega: non siamo contrari, purché si preservino le condizioni di sicurezza che sono necessarie per alcuni tipi di processo". Nei giorni scorsi, in effetti, la Camera penale di e l’Ordine degli avvocati di Milano avevano chiesto che venissero rimosse dalle aule del Tribunale le gabbie di ferro per i detenuti, sottolineando che "possono essere sostituite con altre strutture meno impattanti dal punto di vista visivo". Vercelli: educatore s’impicca, era stato condannato per maltrattamenti a disabili di Floriana Rullo La Repubblica, 1 ottobre 2016 "Sono stato dipinto come un mostro, ma in realtà non sono così": potrebbe essere nascosto dietro queste parole il motivo del suicidio di Wlodzimier Wieslaw Winkler, educatore polacco di 52 anni coinvolto nell’inchiesta per i maltrattamenti a disabili ed anziani nella struttura socio-assistenziale de La Consolata di Borgo D’Ale, in provincia di Vercelli. L’uomo si è impiccato nel giardino di casa sua a Cigliano, paese del Vercellese non molto distante dalla "casa degli orrori". Nessun biglietto, ma quelle parole confidate a ad un’amica lascerebbero intendere le ragioni del gesto. Neanche un mese fa Winkler era stato condannato, con rito abbreviato, a 4 anni e 6 mesi, una delle pene più alte inflitte dal giudice per l’udienza preliminare Giovanni Campese ai 18 imputati. Era accusato di maltrattamenti e sequestro di persona. L’inchiesta della questura di Vercelli aveva accertato, anche con l’ausilio di telecamere nascoste, oltre 300 episodi di violenze a danni di alcuni ospiti, principalmente anziani e disabili che venivano strattonati, legati o costretti a stendersi a terra, subendo ogni genere di vessazioni e torture. Le indagini erano partite nell’agosto 2015, dopo la denuncia del padre di una delle pazienti addosso alla quale aveva notato segni inequivocabili di violenza. Soltanto il blitz della polizia, e gli arresti, lo scorso febbraio, avevano messo fine alle vessazioni. Il resto lo ha fatto la giustizia, con una condanna a 49 anni complessivi di reclusione per i 18 imputati. Erano stati undici quelli che avevano chiesto il patteggiamento, sette il rito abbreviato, tra cui appunto Winkler, mentre un solo dipendente è stato mandato a processo. Il gup di Vercelli ha condannato gli abbreviati ad una pena compresa tra i 4 anni e 8 mesi, la più alta, ad 1 anno e 6 mesi di reclusione, quella minore; gli undici imputati che avevano chiesto il patteggiamento hanno concordato una pena che varia dai 4 anni e 5 mesi ad 1 anno e 6 mesi di reclusione. Milano: a lezione in carcere, i ragazzi della Statale entrano a Bollate di Luca De Vito La Repubblica, 1 ottobre 2016 La prima lezione è stata sul tema "giustizia e vendetta", tenuta dai filosofi della Statale Stefano Simonetta e Gianfranco Mormino. Nell’aula del carcere di Bollate stavolta non c’erano solo i detenuti, ma anche 22 studenti iscritti alla facoltà di Filosofia di via Festa del Perdono. Carcerati e giovani filosofi insieme, dentro le strutture della prigione, dove si tiene (per la prima volta) un corso di studi universitario con un pubblico misto. Venti ore di lezione ufficiali, titolo del corso: "Libertà, giustizia e responsabilità". Darà tre crediti sul libretto agli studenti ma anche la possibilità di conoscere da dentro una realtà complessa come quella di un istituto penitenziario: un modo per sfrondare le proprie idee da pregiudizi e luoghi comuni, stando fianco a fianco con persone che hanno avuto un’esperienza di vita completamente diversa. Le richieste arrivate sulla scrivania del professor Sandro Zucchi, direttore del dipartimento di Filosofia, hanno superato di gran lunga i posti a disposizione: per i 44 disponibili (22 a semestre, nel 2017 si replica) si sono fatti avanti in 80. "Gli studenti hanno un’occasione per conoscere la realtà del carcere, i detenuti un’occasione per avvicinarsi agli studi universitari - ha spiegato il professor Zucchi. Si può fare perché la Statale ha firmato di recente una convenzione con gli istituti di pena lombardi e il direttore del carcere di Bollate è d’accordo. Abbiamo ricevuto più richieste di quanti studenti possiamo far entrare, per questo abbiamo dovuto fare una selezione". E scegliere non è stato facile. Nonostante ci sia da arrivare fino a Bollate per dieci giorni, gli studenti erano molto interessati. "Li abbiamo scelti sulla base delle loro motivazioni - spiega Stefano Simonetta, uno dei professori che hanno organizzato l’iniziativa - e il nostro compito non sarà facile. Dovremo mantenere un sottile equilibrio tra un corso che sia soddisfacente dal punto di vista universitario, ma anche di stimolo per chi vive dentro al carcere". Anche da parte dell’istituto penitenziario è stata fatta una scelta. Tra i 15 detenuti che assistono alle lezioni sette sono anche studenti universitari - e quindi seguono un corso e studiano all’interno dell’istituto - mentre altri otto sono stati selezionati dai responsabili dell’area culturale del carcere di Bollate tra i detenuti diplomati. Nella prima giornata il tema "giustizia e vendetta" è stato affrontato attraverso la lettura di alcuni passi di due classici della filosofia: "La violenza e il sacro", dell’antropologo e filosofo francese Renè Girard e "La divisione del lavoro sociale" di Émile Durkheim. "Tutto è andato molto bene - ha detto Simonetta - noi abbiamo avviato il seminario, poi è stata una discussione di gruppo". La prossima lezione sarà il 6 ottobre: "Steccati concettuali e fughe etnografiche, una riflessione antropologica". L’obiettivo finale, oltre ai crediti per gli studenti e la realizzazione di un corso con tutti i crismi, è portare qualcosa di prezioso dentro alle mura del carcere: "Le attività che hanno un impatto al di fuori dell’accademia - ha aggiunto il professor Zucchi - noi docenti di area umanistica le svolgiamo ogni giorno insegnando ai nostri studenti le capacità critiche che sono necessarie per diventare cittadini consapevoli. Questo è quello che facciamo in ateneo e questo è quello che andiamo a fare in carcere". Padova: bomboniere prodotte dai detenuti, con la Cooperativa sociale AltraCittà di Felice Paduano Mattino di Padova, 1 ottobre 2016 Non solo panettoni e colombe della pasticceria Giotto. I detenuti del Due Palazzi, da alcuni mesi, producono e commercializzano anche bomboniere, di tutte le misure, per matrimoni, battesimi, comunioni, anniversari e lauree. In genere confezionate con fiori di carta fatti a mano. Il lavoro dei detenuti è coordinato dalla cooperativa sociale AltraCittà, fondata nel 2003 da dieci donne, tra cui ci sono anche Ornella e Rossella Favero. Le bomboniere si possono acquistare sia on line che nel negozio Altra Vetrina, in via Montà 182. E i 30 lavoratori-soci della cooperativa, arrivata già a tredici anni di vita, non lavorano soltanto nel settore delle bomboniere, ma in diversi campi, sia dell’artigianato che dell’informatica. Tra le altre cose si occupano di legatoria e di restauro di libri antichi, di gestione di biblioteche e archivi, digitalizzazione e anche servizi cimiteriali. Tutti lavori, naturalmente, che hanno la finalità educativa di "favorire l’integrazione delle persone svantaggiate, in particolare dei detenuti e degli ex detenuti". Da tempo AltraCittà ha rapporti continui e costruttivi con vari Comuni, tra cui Padova, Limena e San Giorgio In Bosco, ma anche con scuole, tra cui l’istituto superiore Scarcerle, con i circoli Auser, l’Archivio di Stato e l’azienda Italia Fischer. L’attività artigianale, negli ultimi anni, si è talmente sviluppata che prima i dipendenti di Altra Città, per consegnare la merce ordinata dalla clientela, utilizzavano un piccolo furgone. Adesso, invece, hanno dovuto acquistare un vero e proprio camion, che, per l’occasione, sarà inaugurato sabato prossimo alla presenza di don Marco Pozza. Da poco, nel negozio di via Montà, è anche disponibile una nuovo shopper con uno slogan ironico ed efficace: "libera il galeotto che c’è in te". Roma: genitori detenuti, il rapporto con i figli è vitale di Flavio Mezzanotte retisolidali.it, 1 ottobre 2016 È fondamentale per i genitori e per il loro reinserimento nella società, ma anche per i figli e la loro crescita. L’iniziativa Fantasia Libera… Libera la fantasia, una giornata di festa e d’incontro figli-genitori detenuti nel carcere di Rebibbia avvenuta il 16 settembre, ha destato l’attenzione degli addetti ai lavori, sensibili ai problemi interni agli istituti di pena, dove è vitale mantenere un rapporto con il mondo esterno, ma probabilmente poco spazio ha occupato nelle agende dei media nazionali. Per questo qui vogliamo focalizzare l’attenzione sulla situazione di disagio biunivoco, che sia i genitori che i loro figli vivono. Padri e madri che scontano una pena detentiva, spesso faticano a mantenere vivo il legame d’affetto con i propri figli, vuoi per problemi interni ai nuclei familiari o per le resistenze incontrate nel sistema carcerario. Se il legame con la propria rete sociale viene reciso, spesso il detenuto scarcerato torna a delinquere più di quelli che il legame lo hanno mantenuto. Per questo, ai primi di settembre, è stata firmata a Roma la ratifica del protocollo "Carta dei figli di genitori detenuti", che riconosce la continuità del legame affettivo con il genitore in carcere. Originalmente creato nel 2014, il protocollo è un documento unico in Europa che impegna il sistema penitenziario a confrontarsi con la presenza del bambino in carcere, se pure periodica, e con il peso che la detenzione del proprio genitore comporta. La sua attuazione è importante anche nell’ottica di un reinserimento del detenuto, una volta che abbia scontato la pena. Come ci ha raccontato Daniela De Robert, presidente di Vic onlus e membro del collegio del Garante nazionale diritti persone detenute, la famiglia è una risorsa enorme per quei detenuti che, durante e dopo la fine della pena, mantengono dei legami con i propri affetti. È importante per il loro reinserimento sociale, ma lo è anche in prospettiva futura per i figli, che imparano dal rapporto con i genitori a non commettere crimini in futuro. Parlando di reinserimento in società, spesso il carcere viene sentito dai criminali come uno strumento di sospensione dalle proprie responsabilità nel mondo al di fuori, una sorta di oblio. Che questi detenuti abbiano obblighi sociali, lavorativi o familiari al di fuori, la struttura carceraria non può e non deve favorire questa sospensione di responsabilità. Mantenere il filo diretto con la propria vita al di fuori delle mura detentive favorisce piuttosto una visione della pena da scontare come un momento di riflessione personale e, nel caso dei genitori, mantiene attiva la loro partecipazione alla vita e all’educazione dei loro figli. Bambini e ragazzi che già soffrono un doppio disagio, prima per la lontananza fisica dai propri genitori e poi per lo stigma sociale che si portano addosso, essendo figli di detenuti. Come alcuni casi di eccellenza c’insegnano, negli istituti italiani c’è la possibilità che i detenuti possano usare gli strumenti informatici per instaurare un dialogo telematico con la propria famiglia. Parlare con i propri figli dell’andamento scolastico o avere un colloquio con i loro docenti sarebbe importante per i ragazzi, aiuterebbe mariti e mogli fuori dal carcere a gestire l’educazione della prole e, in ultima analisi, sarebbe un deterrente a tornare a delinquere una volta scontata la pena. Sembra che ci sia una soluzione facile da proporre in una società iper-connessa globalmente già di suo? Purtroppo no. Per ritrosia culturale o estrema cautela, nei carceri italiani è estremamente difficile che ai detenuti venga concesso l’uso di strumenti informatici per navigare su internet o comunicare fuori dalla struttura. Nella Casa Circondariale Rebibbia Nuovo Complesso il dialogo telematico con la famiglia è ancora un miraggio. Nonostante tutto, secondo De Robert, il carcere di Rebibbia è avvantaggiato nella gestione degli spazi, idonei per ospitare un incontro così delicato com’è quello tra genitori e figli. A rotazione, i detenuti possono usufruire di un’area verde dove fare colloqui più lunghi della solita ora a disposizione. Ma i genitori detenuti sono purtroppo tanti e a volte si torna nei vecchi locali per i colloqui. Parlando di spazi, per alcuni bambini il primo contatto con le istituzioni carcerarie può essere traumatico e per questo un’area verde o, ancora meglio, un’eventuale area gioco dove incontrare il proprio genitore favorirebbe quel rapporto già così a rischio. Un’altro trauma da evitare ai minori è al momento dell’entrata negli istituti, dove i familiari dei detenuti vengono per prassi perquisiti: una pratica che può e deve essere attenuata nei confronti dei bambini. La centralità dell’iniziativa di VIC, così come del Gruppo di studenti universitari di Rebibbia "Libertà di studiare", è rivolta alla tutela del minore. I possibili interventi nelle strutture penitenziarie. Da un primo screening che Daniela De Robert ha effettuato sul territorio nazionale in quanto membro del Collegio del garante, ci si è accorti della necessità di formare del personale qualificato a moderare il rapporto genitori-figli nei carceri italiani. Perché oltre le iniziative e il clima di festa degli open day, ciò che risulta è una scarsa continuità nell’impegno del personale carcerario e nei detenuti a mantenere vivo il rapporto di cui sopra. Polizia penitenziaria, direttori e detenuti stessi dovrebbero collaborare perché tutto ciò avvenga tutti i giorni, per vivere così il carcere non come semplice reclusione ma come percorso culturale. De Robert spinge molto sul discorso degli spazi verdi o sulle ludoteche. Se proprio non è possibile istituirli per mancanza di zone riqualificabili nella struttura carceraria, si possono rendere accoglienti quelli già preesistenti. Le resistenze e le ritrosie mentali vanno eliminate prima di progettare modalità e costi di una riqualificazione di quegli spazi. Bari: "Fornelli Biomediterranei", il progetto di reinserimento dei giovani detenuti di Riccardo Resta Corriere del Mezzogiorno, 1 ottobre 2016 Si è tenuto ieri l’ultimo incontro nell’ambito del progetto Fornelli Biomediterranei, il percorso che ha introdotto 10 detenuti nel carcere minorile nel settore alberghiero. Palone: "una grande possibilità di riscatto". Il percorso formativo, realizzato dall’ente di formazione A.B.A.P. in collaborazione con Regione Puglia, Comune di Bari e associazione Stati Generali delle Donne, ha previsto la formazione di 10 ragazzi nella qualifica di "Operatore/Operatrice per l’approvvigionamento della cucina, la conservazione e trattamento delle materie prime e la preparazione di pasti", con un focus specifico sulla valorizzazione della tradizione mediterranea e degli alimenti ottenuti da agricoltura biologica e/o da agricoltura sociale, come patrimonio culturale e materiale dell’intera comunità. Un percorso formativo lungo 320 ore (180 le ore "laboratoriali"), in cui i ragazzi coinvolti hanno potuto discutere di argomenti quali la sicurezza sul lavoro, igiene e sicurezza alimentare, merceologia degli alimenti, sistemi di autocontrollo Haccp, tecniche di conservazione e di cottura, gestione e approvvigionamento della dispensa e quant’altro. "Questo progetto ci permette di raggiungere molteplici obiettivi - ha dichiarato l’assessora allo Sviluppo Economico Carla Palone, intervenuta all’incontro conclusivo al carcere Fornelli: sostenere il diritto alla formazione dei ragazzi detenuti, migliorare la qualità della loro detenzione e provare a insegnare loro un mestiere con la convinzione che sia compito delle istituzioni offrire ai nostri ragazzi, tutti, anche chi ha commesso un errore, una possibilità di riscatto e di costruzione di una vita onesta. Siamo consapevoli che questo sia solo un sassolino nello stagno ma siamo altrettanto fortemente convinti che orientare questi ragazzi ad una professione sia lo strumento educativo e di welfare attivo che il Comune possa mettere in campo. Ringrazio tutte le attività economiche che hanno collaborato e messo a disposizione esperti, maestranze e materie prime agroalimentari di produzione propria per lo svolgimento delle attività di laboratorio di questo progetto e mi auguro che con i ragazzi si possa davvero intraprendere una collaborazione professionale che possa essere spendibile nel mercato del lavoro quando questi saranno liberi e responsabili della propria vita". Cagliari: detenuto del carcere di Uta si laurea in Ingegneria civile sardiniapost.it, 1 ottobre 2016 Scuola e università come strumenti di recupero umano e di riscatto sociale: Renzo, attualmente detenuto nel carcere di Cagliari-Uta, ha tagliato il traguardo della laurea in Ingegneria civile, discutendo ieri mattina la sua tesi con la professoressa Barbara De Nicolo. "Grazie, perché oggi mi avete fatto sentire uno come tutti gli altri", ha detto al termine della mattinata. Un record, ha sottolineato il presidente della Facoltà, Corrado Zoppi, in quanto Renzo ha terminato il corso di studi prima della normale tempistica. "Un esempio - ha detto Zoppi - di forza di volontà certamente da imitare per tutti i nostri studenti". Concetto rafforzato dal prorettore per la semplificazione e l’innovazione amministrativa, Pietro Ciarlo, che ha portato i saluti del Rettore Del Zompo: "La determinazione è fondamentale per uscire anche dalle situazioni più difficili. Il percorso di Renzo lo dimostra una volta di più. Per questo abbiamo voluto essere presenti e festeggiare con lui". Il caso di Renzo non rimarrà isolato. "È stata fondamentale - ha detto Claudio Massa, responsabile dell’Area educativa del carcere di Uta - la collaborazione con il personale dell’Università. Siamo disponibili a sviluppare insieme un progetto che permetta anche ad altri detenuti di conseguire la laurea". Soddisfazione anche da parte dell’assessore regionale della Cultura Claudia Firino: "Rappresenta - scrive su Facebook - per le istituzioni, la politica e per la società intera un esempio positivo di riabilitazione che ci obbliga a un sempre maggiore impegno nel sostenere politiche e percorsi di integrazione sociale". Un popolo di controllori di Stefano Cingolani Il Foglio, 1 ottobre 2016 Non c’è solo la Corte dei Conti: vigilano anche il Consiglio di stato, i Tar, l’Antitrust, la Consob e Bankitalia. Una burocrazia fatta apposta per bloccare ogni decisione. Palazzo Vecchio, Palazzo Chigi, Palazzo Spada: eppure Antonella Manzione non fa la guida turistica. Al contrario, entra ed esce dai palazzi del potere: il potere municipale, il potere esecutivo, il potere di giudicare gli atti del governo. Quando la ex capo dei vigili fiorentini, poi responsabile degli affari giuridici per Matteo Renzi, passerà al Consiglio di stato, come le è stato promesso (per la seconda volta), lascerà anche lei il nocciolo duro dei decisori per ingrossare le fila dei controllori, copiose e aggrovigliate come riccioli barocchi, battendo due record: quello dell’età, perché ha meno dei 55 anni richiesti, e quello del genere, perché solo dieci consiglieri di stato sono di sesso femminile, appena il 9 per cento del totale, la quota più bassa dell’intera magistratura amministrativa e contabile. Non tacchi a spillo, ma scarpe maschili, per lo più nere, lisce e stringate (il mocassino è fuori ordinanza), percorrono i corridoi del palazzo costruito nel 1540 per il cardinale Girolamo Recanati Capodiferro (figlio naturale di Papa Paolo III Farnese, secondo monsignor Angelo Massarelli segretario generale del Concilio di Trento). Consiglieri eccellenti sono stati, tra gli altri, Antonio Catricalà, già presidente dell’Antitrust e al governo con Mario Monti ed Enrico Letta, o Nicolò Pollari, l’ex capo del Sismi, i servizi segreti militari. L’impronta mascolina si sente anche in molte sentenze che hanno fatto notizia. Il 27 luglio il Consiglio ha stabilito in modo "definitivo" che il massaggio shiatsu non è di competenza delle estetiste. Così facendo ha annullato una precedente sentenza del Tar (Tribunale amministrativo regionale) della Liguria. Tra i due organismi c’è una sorta di corsa a rimpiattino, l’uno a smentire o sostenere l’altro, con tanti saluti alla certezza del diritto. Prima di andare in vacanza i consiglieri di stato si sono dati da fare e abbondano le decisioni talvolta sorprendenti sui casi più disparati. Una settimana prima dei massaggi, il Consiglio ha affrontato una questione ben più seria e dirimente: la fecondazione eterologa. Ebbene, ha dato torto alla Regione Lombardia che aveva deciso di farla pagare alle coppie. Questa volta in sintonia con il Tar che aveva già messo in mora la giunta Maroni. La motivazione di fondo è perché verrebbe introdotta una discriminazione tra fecondazione omologa (con gameti della stessa coppia) ed eterologa. Su un punto, però, non è apparso opportuno schierarsi: il canone Rai. Pur sottolineando numerose anomalie, per esempio che il governo non è riuscito a dare una chiara definizione su "cosa debba intendersi per apparecchio televisivo" oggi che la tv la si guarda anche sul telefonino, tuttavia ha deciso di non pronunciarsi. Del resto, la Rai sta nel regno degli intoccabili, meglio che la rogna se la grattino governo e Parlamento. Ma che cos’è il Consiglio di stato? Un tempo era il consilium principis e aveva una funzione politica. L’articolo 100 della Costituzione (lo stesso che regola anche la Corte dei Conti) lo definisce "organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia dell’amministrazione", in altri termini può nello stesso tempo aiutare a fare le leggi e bacchettarle. Come la Corte dei Conti, è una eredità sabaudo-napoleonica. Amedeo VIII nel 1430 istituì il Consilium nobiscum residens presieduto dallo stesso Duca. Carlo Alberto nel 1831 vi rimise mano e Vittorio Emanuele II lo rese più indipendente creando la carica di presidente, affidata al barone Luigi des Ambrois de Névache, tra gli estensori dello Statuto albertino. Non sempre al vertice ci sono stati personaggi di tale spessore, ma, Regno o Repubblica, la levatura è garantita. Come dimostra anche l’attuale presidente: Alessandro Pajno, palermitano, docente universitario, capo di gabinetto dei ministri Mattarella, Iervolino e Ciampi negli anni Novanta, sottosegretario agli Interni nel secondo governo Prodi dal 2006 al 2008. Naturalmente anche qui ci sono stati incidenti di percorso (accuse di concussione, ricettazione di tesori archeologici, corruzione in atti giudiziari), ma suvvia, dove non esistono pecore nere? Il barone di Névache che tanto si batté per il traforo del Frejus, si sarà rivoltato nelle tomba quando il Consiglio ha dato ragione ai No Tav; i tempi sono cambiati e con essi i costumi. Del resto, quella pronunciata il 18 settembre 2015 è stata scritta dal consigliere Carlo Mosca, già prefetto di Roma (scelto da Veltroni), l’uomo che rifiutò di schedare i bambini rom, consigliere del ministro Annamaria Cancellieri nonché autore di cento saggi su vari rami del diritto, insomma un funzionario al di sopra di ogni sospetto. E non riguarda la linea ad alta velocità in sé e per sé, ma piuttosto il presidio Lupi delle Alpi in val di Susa. Il comune allora guidato da una sindaco pro Tav, Gemma Amprino, lo riteneva illegittimo anche perché fonte di tensione visto che si erano verificati diversi atti di violenza, scontri con la polizia, sabotaggi "a opera di ignoti". Il Consiglio di stato ha dato ragione invece ai contestatori che avevano fatto appello, contro una precedente decisione del Tar. Per arrivare a sentenza ci sono voluti tre anni, nel frattempo a Susa è stato eletto un sindaco anti Tav, Sandro Plano, considerato troppo morbido dai grillini valligiani. Questione di punti di vista. Ma il Consiglio di stato è autorità indipendente e non schierata, anche se i suoi membri hanno sempre stabilito un rapporto stretto (da esperti, da tecnici, da magistrati) con i governi, quindi con la politica. Come si accede al sancta sanctorum? Metà dei posti vanno "ai consiglieri di tribunale amministrativo regionale che ne facciano domanda e che abbiano almeno quattro anni di effettivo servizio nella qualifica". Un quarto è destinato a professori universitari ordinari di materie giuridiche, avvocati, magistrati, dirigenti generali delle amministrazioni pubbliche. In tal caso, la nomina spetta al Consiglio dei ministri e il decreto viene firmato dal presidente della Repubblica. E qui la politica è al primo posto. Il resto arriva da un concorso pubblico per titoli ed esami teorico-pratici, al quale possono partecipare i magistrati e i funzionari del Parlamento e dell’amministrazione statale, tutti almeno dirigenti e laureati in Giurisprudenza perché in piazza Capodiferro 13 regna il diritto, non l’economia, la tecnica o la filosofia. Sia pure in forma rovesciata, il Consiglio rimanda alla falsa prospettiva creata da Francesco Borromini proprio nel cortile di palazzo Spada: sembra piccolo, in realtà è molto più grande. Il geniale architetto ha inventato una sequenza di colonne di altezza decrescente e un pavimento che si alza, provocando l’illusione ottica di una galleria lunga 37 metri mentre è di 8 metri; in fondo è stata collocata una scultura che sembra a grandezza naturale, invece è alta solo 60 centimetri. Nelle ampie sole del palazzo ci sono 84 consiglieri (10 fuori ruolo) e 21 presidenti, non molti in apparenza, ma guidano una macchina con altre 324 persone e, soprattutto, sono il vertice di un apparato vasto e spesso contraddittorio di controlli e controllori. L’amico-nemico è il Tar. Ogni regione ha il suo tribunale amministrativo con un presidente e almeno cinque magistrati suddivisi in consiglieri, primi referendari e referendari. Le decisioni vengono prese con l’assenso di tre giudici e possono essere appellabili davanti al Consiglio di stato. Lo scopo è tutelare il cittadino che si sente leso da un qualsiasi atto amministrativo, dunque il Tar diventa il baluardo della libertà individuale, il vendicatore contro lo stato tiranno, il difensore degli oppressi dal castello kafkiano. Previsto dalla Costituzione, è nato solo nel 1971 con la contestazione e con tutte le riforme che hanno dato vita allo stato sociale italiano così come lo conosciamo (le pensioni, il servizio sanitario nazionale, lo Statuto dei lavoratori). E proprio come la maggior parte di quelle riforme, nel corso di questi 45 anni ha subito una metamorfosi, talvolta fino alla transustanziazione. I costi hanno sopraffatto i benefici. Chi doveva essere protetto dalla culla alla tomba è finito vittima di un ingranaggio micidiale, spesso incontrollabile, il cui effetto oggettivo (o talvolta persino voluto) è trasformare la pubblica amministrazione in una foresta pietrificata. Lo stesso effetto è stato provocato da un uso burocratico e predicatorio della Corte dei Conti (lo abbiamo già raccontato nel Foglio del sabato) che ha il benefico compito di controllare come il governo impiega i denari dei cittadini. Vasto programma, avrebbe detto il generale De Gaulle, arduo da realizzare anche per la Ragioneria generale dello stato, l’istituzione che dovrebbe conoscere ogni rivolo nel quale s’incanala la metà del prodotto lordo italiano, 800 miliardi di euro di spesa pubblica corrente e in conto capitale. Un ufficio centrale, nove ispettorati, 14 uffici nei ministeri con portafogli, 103 ragionerie locali. Assorbe circa la metà dei 13 mila dipendenti del ministero dell’Economia. Attraverso questa griglia non dovrebbe passare foglia: i ragionieri sanno, i ministri no e se finiscono in contrasto con la Ragioneria sono guai, come possono testimoniare Giulio Tremonti, Corrado Passera, Elisa Fornero, e persino Fabrizio Saccomanni che alla fine ha nominato ragioniere generale Daniele Franco, suo collaboratore alla Banca d’Italia. Quando nel 1869 il conte Luigi Guglielmo di Cambray Digny, ministro delle Finanze del Regno d’Italia, presentò in Parlamento la legge sulla contabilità dello stato, vi inserì la nascita di un organismo tecnico che rispondesse ai criteri di Cavour: tutta la struttura statale doveva essere organizzata per produrre un buon bilancio, il che vuol dire che le spese autorizzate dallo stato fossero eseguite "con regolarità ed economicità". Dunque il Ragioniere nasce come cerbero della spesa. Nel 1924 il ministro Alberto Dè Stefani lo trasforma in un controllore della legittimità delle decisioni prese e la Ragioneria diventa un corpo di ispettori. Nel 1978 s’aggiunge la programmazione di bilancio e la fatidica legge finanziaria. Eppure a cominciare da allora il debito pubblico è passato dal 70 per cento al 132 per cento del pil. La Ragioneria lo ha visto, ma è rimasta impotente di fronte alle decisioni politiche. Certo, controllare non è la stessa cosa che prevenire. Ne sa qualcosa la Banca d’Italia alle prese con le conseguenze di una crisi creditizia senza fine. Dalla riforma del 1936 la vigilanza è stata affidata pienamente agli occhiuti ispettori di Palazzo Koch. Ciò non ha impedito crac anche gravi, di origini le più disparate (dalle scorribande di Sindona e Calvi fino alla mala gestio del Banco di Napoli o al groviglio senese del Monte dei Paschi), anche se la Vigilanza di Via Nazionale può vantare una specchiata reputazione internazionale. L’ultimo banchiere regolatore (e anche l’ultimo banchiere a vita) è stato Antonio Fazio, ma è inciampato nel 2005 in una guerra per banche nazionali ed europee (Bnl, Bnp, Banco de Bilbao, AbnAmro, Popolare di Lodi, Antonveneta, Santander, in un crescendo rossiniano). Con Mario Draghi governatore s’afferma una concezione più liberista. I nostalgici del controllo amministrativo rimproverano alla banca centrale di aver mollato la presa. L’acquisizione dell’Antonveneta da parte del Montepaschi dimostra che il mercato è spesso il paravento che nasconde la miscela esplosiva di clientelismo e hybris. La Vigilanza ribatte di essere stata talmente vigile da aver scoperchiato lei il calderone a Siena come ad Arezzo con la Banca Etruria o a Ferrara e nel Veneto. Dal 2014 è subentrata l’autorità europea (con il Mvu, Meccanismo di vigilanza unica) che controlla direttamente 129 grandi banche dell’area euro. È arrivato anche il bail-in (il salvataggio a carico degli azionisti e di chi possiede obbligazioni), applicato in modo così rigido da spingere il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco a chiedere un passo indietro, o meglio "più equilibrio tra condivisione dei rischi e stabilità". Le banche centrali nazionali, insomma, sono diventate i terminali di una ragnatela il cui centro è a Francoforte. Una nuova impalcatura tecnocratica s’è aggiunta al corpaccione del vecchio stato amministrativo. È successo per molti versi anche con le Authority chiamate così non per vezzo anglofilo, ma perché derivano dal modello statuale anglo- americano che in questo modo si giustappone a quello italiano. La prima è la Consob, istituita per vigilare sul comportamento delle società quotate in Borsa, la più importante per i cittadini è quella che deve tutelare la concorrenza, l’Antitrust (Autorità garante per la concorrenza e il mercato), l’ultima nata è l’Anac, cane da guardia contro la corruzione, in mezzo ce ne sono altre sei: il Garante della privacy, l’Ivass (assicurazioni) confluita nella Banca d’Italia, la Covip (fondi pensione), l’Agcom (telecomunicazioni), l’Autorità dei trasporti, l’Aeeg (energia). Tutte insieme hanno 2.300 dipendenti e costano, secondo le stime, oltre 600 milioni l’anno. A pagare però non è sempre lo stato: poiché si tratta di un servizio che riguarda il buon funzionamento dei mercati, l’onere ricade sulle aziende vigilate, più le multe alcune delle quali sono davvero consistenti (si pensi ai 103 milioni di euro a Telecom e ai 180 milioni a Roche e Novartis comminate dall’Antitrust di Giovanni Pitruzzella). Il problema, dunque, non è tanto il peso sui contribuenti, quanto la loro efficacia, perché il moltiplicarsi degli apparati non aumenta la loro forza e la loro autorità. Sovrapporre, non sostituire, così lo stato è diventato un patchwork di superfetazioni fatto apposta per bloccare ogni decisione. Più che un Leviatano, un serpente che si morde la coda. La fatidica domanda: chi controlla i controllori? ha una sola risposta: i controlli stessi, una burocrazia che si rispecchia come Narciso nello stagno statalista e viaggia parallela alla politica, anche se spesso ne entra a far parte. Un Narciso che non si autodistrugge, ma al contrario si auto-genera. I governi passano, i consiglieri di stato, i magistrati amministrativi, i ragionieri, restano. E resistono. Lo ha scoperto anche Matteo Renzi: così, messa in soffitta la rottamazione è passato all’entrismo, cominciando proprio dal Consiglio di stato. La rivoluzione al tempo della cyber-guerra di Gianni Riotta La Stampa, 1 ottobre 2016 Se oggi vi collegherete con Internet per una ricerca Google, le email, il vostro blog, non noterete nulla di diverso da ieri. Eppure, sabato primo ottobre nasconde una rivoluzione sul web. Per la prima volta dal 1984 il governo degli Stati Uniti - Barack Obama in persona, secondo i polemisti online - cede il controllo parziale del sistema di governo della rete, gli indirizzi dei siti, la posta elettronica, i cartelli direzionali dell’autostrada web che permettono agli utenti di orientarsi tra sito della Parrocchia, del Comune, elenchi di escort ed Enciclopedia Britannica. Dal 1998 gli americani incaricavano un’oscura agenzia legata al Dipartimento del Commercio, Internet Corporation for Assigned Names and Numbers, Icann, di tracciare "l’elenco telefonico del web", assegnando i suffissi dei siti,.com,.it,.org e dirimendo quale Paese governa certi siti, se una categoria abbia, o no, diritto a domini online, se il porno o un ordine religioso possono gestire spazi autonomi. Pur criticata, per esempio sulla lentezza con cui ha liberalizzato gli accessi a domini non Usa, Icann ha però garantito piena libertà della rete, cresciuta da labirinto della Difesa e delle università americane, a citofono ubiquo del Condominio Terra. Da tempo Paesi e associazioni chiedevano a Icann di sganciarsi da Washington e diventare internazionale, la decisione è arrivata infine il primo ottobre. Tutti felici per l’invisibile rivoluzione online? No. I critici temono che i Paesi autoritari, Russia, Cina, Iran, impongano il loro controllo sulla rete globale, allargando ovunque il pugno di ferro della repressione. In campagna elettorale per la Casa Bianca 2016 l’arcana vicenda si surriscalda, con il candidato repubblicano Trump a giurare che Obama stia svendendo Internet a russi e cinesi. A dargli man forte nel coro di demagoghi, l’ex rivale per la nomination senatore Ted Cruz, persuaso che l’intelligence di Putin e Xi Jinping metta le mani sul contenuto della rete, censurandola preventivamente. I ministri della Giustizia di Texas, Oklahoma, Arizona e Nevada, stati che voteranno Trump, provano a difendere Icann a stelle e strisce, sostenendo si metta a rischio altrimenti il dominio.gov, che ufficializza i siti dell’amministrazione Usa. Temono che sul prestigioso suffisso.gov metta le mani la fabbrica di trolls e falsi online che Vladimir Putin finanzia a San Pietroburgo, via Savushkina 55, ingannando cittadini ed elettori su mandato del Cremlino. Paure esagerate, complotti assurdi, propaganda rabbiosa osservano Tim Berners-Lee e Vint Cerf, padri del web per nulla intimoriti dal passaggio di consegne sui domini. Russia e Cina, semmai, avrebbero assegnato alle Nazioni Unite il controllo del web, per trasformarlo in burocrazia totale, con il Consiglio di Sicurezza a mettere il veto contro ogni protesta di dissidenti, tibetani, progressisti. Il compromesso Icann, che pian piano coinvolgerà nella gestione associazioni internazionali, studiosi, organismi di ricerca, era necessario per evitare la "balcanizzazione" del web, frantumato tra aree libere e no da una virtuale "Cortina di ferro". Che gli Usa restassero da soli al comando non era più sostenibile, ma malgrado il chiasso di Trump, i contenuti della rete non sono a rischio con Icann II. Quel che posterete resterà libero, e, purtroppo, quel che la censura colpiva ieri resterà al bando. Nessun problema dunque? Neppure, perché se gli Usa son stati padrini di manica larga del web, più attenti ai profitti delle aziende che non al controllo dei contenuti, la nuova fase non è priva di rischi. La Cina tiene il suo cosmo digitale sotto controllo, la Russia è leader tra i troll e i "leaks", la sottrazione di dossier poi smistati a individui e organizzazioni che, in nome della "trasparenza", finiscono per dare una mano all’intelligence del Cremlino. Nel 1980 il Nobel per la pace Sean McBride guidò la stesura di un rapporto internazionale Unesco contro l’influenza del libero mercato sui media, presto strumentalizzato in piattaforma di controllo sui giornalisti indipendenti, sostenuta dall’Unione Sovietica. Il web, per ora, resta al sicuro, ma la vigilanza deve tenersi alta per evitare che governi, monopoli, agenzie segrete di troll, finiscano per dominare, astuti e nascosti, il libero crocevia del nostro tempo. Siria. Un anno di raid russi, morti 3800 civili di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 1 ottobre 2016 Un anno fa, i primi caccia russi si alzavano in volo, destinazione Siria. Era il 30 settembre 2015. Un anno dopo, si contano i morti di una guerra senza fine. E alla guerra combattuta sul campo s’intreccia quella diplomatica. Gli Stati Uniti sono sul punto di sospendere i colloqui con Mosca sul tentativo di attuare l’accordo per il cessate il fuoco in Siria: ad affermarlo è il segretario di Stato Usa John Kerry. "Siamo sul punto di sospendere la discussione perché - spiega - è irrazionale nel contesto del bombardamento in atto stare seduti lì tentando di prendere le cose seriamente". Parlando all’Atlantic Council, Kerry ha ricordato che gli Usa non hanno alcuna indicazione della "serietà del proposito della Russia" e ha ribadito il rischio di una imminente cessazione dei colloqui con Mosca, dopo averlo comunicato in una telefonata l’altro ieri al suo collega russo Sergei Lavrov. La risposta di Mosca non si fa attendere. Ed è durissima. Gli Stati Uniti risparmiano i terroristi di Al Nusra per poterli usare al fine di spodestare il presidente siriano Assad. A lanciare la grave accusa è lo stesso destinatario della telefonata di Kerry. Lavrov affonda il colpo, in un discorso tenuto per l’anniversario dell’intervento russo in Siria. Al Nusra, che fino alla fine di luglio era ufficialmente affiliata ad al-Qaeda da cui sarebbe recentemente "separata", è una delle organizzazioni estremiste più potenti attive in Siria, ed è rivale dell’Isis. Secondo il capo della diplomazia russa, gli americani hanno tradito la promessa di separare il gruppo Jabhat Fateh al-Sham, come si è ribattezzato il Fronte Al Nusra, dalle organizzazioni ribelli moderate appoggiate dagli Usa: "Ancora oggi non sono in grado di farlo o non vogliono farlo", sentenzia Lavrov: "Non hanno mai colpito Al Nusra in nessun luogo della Siria". E ha annunciato che ne parlerà con il segretario di Stato Usa, Kerry, chiedendogli formalmente di mettere in atto la separazione dei moderati dai terroristi. Quanto alle accuse rivolte alla Russia, Lavrov chiede agli americani di "mostrare le prove" che l’aviazione o l’esercito russo abbiano colpito obiettivi civili, e assicura che non solo la Russia "non ha usato armi o munizioni proibite", ma "prende precise precauzioni per evitare che siano colpiti civili". Ogni minaccia di punire Mosca per le sue azioni in Siria "è inaccettabile", avverte quindi Lavrov secondo cui in realtà l’accordo con gli americani per il cessate il fuoco "è ancora in vigore". Se "Castello road non può essere utilizzata per consegnare gli aiuti umanitari ad Aleppo - sostiene - è perché si trova sotto minaccia di attacchi terroristici". Ciò che Lavrov non fa è dare un bilancio delle vittime dei raid aerei di Mosca. Bilancio ehe viene aggiornato dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus): sono 3.804i civili morti in un anno di raid aerei russi in Siria, dal 30 settembre del 2015. Ondus precisa che tra loro vi sono 906 minorenni. Tra i morti vi sono 2.746 miliziani dell’Isis e 2.814 di gruppi ribelli, fondamentalisti e qaedisti del Fronte Fatah ash Sham (ex Al Nusra). Secondo l’Ondus, nei due anni di bombardamenti della Coalizione internazionale a guida Usa, fino al 23 settembre, sono morti 6li civili su un totale di 6.213 uccisi. Il numero delle persone che si trovano nelle aree assediate in Siria è arrivato a quasi 900 mila: lo ha confermato il capo delle operazioni umanitarie dell’Onu, Stephen ÒBrien, parlando in video - conferenza al Consiglio di Sicurezza. Non basta. "Ad Aleppo, soltanto questa settimana, 96 bambini sono stati uccisi e 223 feriti. Ognuno è un figlio o una figlia. I dottori sono costretti a lasciare alcuni bambini morire mentre ne salvano altri perché le forniture mediche sono scarse. Decine di migliaia di bambini bevono acqua sporca perché una stazione di pompaggio è stata bombardata ed un’altra è stata disattivata. Operatori umanitari coraggiosi vengono uccisi. I convogli che portano aiuti distrutti. Il mondo sta a guardare mentre si consumano questi orrori. Ogni giorno, continuano... e peggiorano. L’uccisione di innocenti ad Aleppo deve fermarsi", è l’accorato appello del Direttore generale dell’Unicef Anthony Lake. "L’Unicef ed i suoi partner hanno appena consegnato aiuti nelle zone assediate di Madaya, Fouah, Kefraya e Zabadani. Inoltre proseguiamo le nostre operazioni umanitarie ad Aleppo Occidentale e stiamo facendo tutto il possibile per fornire con i camion acqua in tutta la città. Ma questo è ben lontano dall’essere sufficiente. L’unica vera risposta per Aleppo è che termini questa discesa verso un ulteriore orrore", conclude Lake. Ma ad Aleppo si continua a combattere e a morire: Scontri armati sono in corso da ieri mattina attorno alla Cittadella, simbolo della città e patrimonio mondiale dell’Unesco. Siria. Io, fotoreporter e la lenta agonia della mia Aleppo di Karam Al-Masri La Repubblica, 1 ottobre 2016 Quando scoppiò la rivolta, nel 2011, avevo circa 20 anni. Solo due o tre mesi dopo, fui arrestato dal regime. Rimasi in carcere per un mese intero, di cui una settimana in isolamento totale in una cella di un metro quadrato. Fu duro, ma poi riuscii ad uscire grazie alla prima amnistia, nel 2011. All’inizio della rivolta, c’erano delle manifestazioni pacifiche. Niente bombe. Solo la paura di essere arrestati o dei cecchini per la strada. L’anno dopo, nel luglio 2012, Aleppo fu divisa in due: il settore orientale ai ribelli; il settore occidentale al regime. Nel novembre del 2013, a 22 anni, fui rapito dallo Stato islamico. Ero in un’ambulanza con i miei amici, l’autista dell’ambulanza e un fotografo. Quell’esperienza è stata peggiore di quella che avevo fatto nelle prigioni del regime. Fu durissima. Il fotografo ed io uscimmo sei mesi dopo, ma il nostro compagno, il soccorritore, fu meno fortunato. Lo decapitarono dopo cinquantacinque giorni di detenzione. Girarono il video e ce lo fecero vedere: "Guardate il vostro amico. Ecco che cosa vi aspetta". Ero terrorizzato, angosciatissimo. In ogni momento pensavo: "Domani toccherà a me, dopodomani toccherà a me". Ricordo ancora ogni dettaglio. Non ho visto nessun uomo del regime in quella prigione: quelli che erano con me erano ribelli, oppositori, giornalisti. Sono stato torturato in entrambe le carceri. Più duramente dal regime, perché volevano strapparmi una "confessione". L’accusa che mi rivolgevano quelli dello Stato islamico era completamente inventata: avevo una macchina fotografica, dunque ero un "infedele". Non avevano nessun bisogno di interrogarmi. Ho perso la mia famiglia all’inizio del 2014, quando ero ancora prigioniero dell’Isis. Un barile di esplosivo fu lanciato contro il palazzo in cui vivevamo: crollò e morirono tutti quelli che ci abitavano, compresi i miei genitori. Lo seppi solo quando uscii di prigione. I miei amici mi convinsero a non tornare a casa e mi dissero quello che era successo. Seguì un mese di disperazione totale. Quando è iniziato l’assedio, nel 2016, avevo 25 anni. Ma per me, l’assedio è molto meno doloroso del carcere e della perdita dei miei genitori. Prima della rivolta, la mia vita era molto semplice: sono figlio unico, studiavo Giurisprudenza all’università di Aleppo. Oggi non ho più nulla: ho perso la mia famiglia e la mia università. Quello che mi manca di più sono mio padre e mia madre, soprattutto lei. Vivo da solo, non ho nessuno. Ho perso la maggior parte dei miei amici: sono morti o in esilio. La mia esistenza, da quando sono cominciati i bombardamenti, si riduce a cercare di restare vivo. È come se fossi in una giungla nella quale cerco di sopravvivere fino al giorno dopo. Si scappa dai bombardamenti, dalle bombe-barile. È una fuga costante. L’idea di diventare un cineoperatore mi venne nel 2012. Alle manifestazioni filmavo con il mio cellulare e poi caricavo il video su Internet, per dimostrare che c’era davvero una rivolta, che non si trattava, come sosteneva il regime, solo di una decina persone e di "terroristi". Nel 2013, cominciai a lavorare come video-reporter freelance con la France Press e gradualmente il mio livello è migliorato: guardavo come lavoravano gli altri, quelli più bravi, e cercavo di imitarli. Prima non avevo mai pensato di diventare un reporter ma con il tempo ho cominciato ad amare questo lavoro. Avere a che fare con i giornalisti che vivono all’estero, fuori da questa zona assediata, è come una finestra attraverso la quale posso inviare un messaggio al mondo esterno. I massacri e i bombardamenti sono diventati un’abitudine per me, come le immagini dei bambini sotto le macerie, i feriti, i corpi mutilati. Sono cambiato, non è più come prima. Alla fine del 2012, quando ci fu la prima strage, nel vedere un uomo con una gamba strappata mi sentii male e svenni alla vista del sangue. Era la prima volta: ora è una scena abituale per me. Ma la cosa più dolorosa è rivedere la casa dove abitavano i miei. Finora non ho avuto la forza di andarci. Dal 2014, è l’unica zona di Aleppo che preferisco evitare. Non lo potrei sopportare. Stati Uniti. Ecco il minority report della polizia americana di Lorenzo Carbone Il Dubbio, 1 ottobre 2016 A Pittsburgh le forze dell’ordine adottano un software che prevede i crimini. Ad ottobre un software di predizione di crimini verrà utilizzato dalla polizia di Pittsburgh, Pennsylvania, una delle città più violente degli Usa. Come racconta la rivista Science, si tratta di un programma prodotto da scienziati della Carnegie University of Mellon che, attraverso l’immagazzinamento di dati sensibili cercherà di prevedere "chi, dove, quando e cosa" accadrà a livello di criminalità nella città. Programmi simili sono già utilizzati in circa 60 dipartimenti di polizia in America. Ma Crime Scan, cosí ribattezzato, sembra essere a un livello ancora più avanzato. Il matematico dell’Indiana University George Mohler afferma che "Il crimine è simile al funzionamento dei sismi. Dopo un sisma iniziale, basandoci sui dati passati, possiamo prevedere le scosse che avverranno, quando e dove avverranno". Crime Scan immagazzina migliaia di dati di crimini passati, chiamate al 911, testimonianze, reclami. Cerca correlazioni e modelli che si ripetono, calcola le probabilità che un nuovo crimine venga commesso, calcola i luoghi nonché il momento dell’ipotetica esplosione di violenza. Non solo. Come spiegano Will Gorr e Daniel Neill, i due scienziati a capo del progetto: "Un crimine violento o una sparatoria può cominciare con liti verbali tra gang, graffiti d’offesa, vagabondaggio, condotta incivile ecc". Questo software si differenzierà dagli altri per la sua capacità di prevedere l’escalation di crimini violenti sulla base di avvisaglie o crimini minori. Prima di ogni pattugliamento, i poliziotti riceveranno informazioni estrapolate da Crime Scan così da poter concentrare le proprie forze lì dove il computer prevede un innalzamento della violenza. L’iniziativa ha sollevato un’ondata di polemiche contro il capo della polizia di Pittsburgh Cameron McLay, specialmente per il fatto che il test del software verrà effettuato, guarda caso, all’interno di Homewood, un quartiere ad alto tasso criminale la cui popolazione, per il 98%, è afroamericana. Molte associazioni contro il razzismo dichiarano che le previsioni fatte dal computer non sono altro che statistiche viziate che riflettono un preconcetto insito nel sistema di giustizia. Senza considerare che spesso, lí dove e quando il sistema di giustizia e prevenzione crede possa innalzarsi la violenza, la violenza esploderà come risposta naturale. Ma se pensiamo che ciò che accadrà tra pochi giorni a Pittsburgh sia degno di Philip Dick, dovremmo dare un’occhiata a ciò che è stato messo a punto a Chicago da aprile di questo stesso anno. Si chiama "Lista Strategica di Soggetti o Programma di Notifica Personalizzato" e raccoglie dati privati di persone in carne ed ossa, il loro profilo Facebook o qualsiasi cosa riguardante un soggetto che ha commesso un crimine in passato. Una volta che il programma ha raccolto i dati, l’algoritmo calcola le probabilità che il soggetto in questione possa delinquere nuovamente. A quel punto, la polizia non scende dal cielo e ti mette un cerchio al cervello che ti manda in letargo come in Minority Report, ma si presenta alla tua porta e ti dice: "Salve signore, lei è un soggetto a rischio, potrebbe commettere un crimine a breve, perció deve seguirci e frequentare i servizi sociali o i centri di recupero". Scappa dall’Isis, la Svezia dei diritti lo sbatte in galera di Joshua Evangelista Il Dubbio, 1 ottobre 2016 La vicenda "kafkiana" di Mutar Majid veterinario di Mosul. Boliden è una piccola comunità di minatori nella Svezia del nord, a pochi chilometri dalla Lapponia. Mille cinquecento sessantasei anime schive, sicuramente non abituate ai riflettori. Così è stato fino a quando il destino ha portato nel villaggio dei minatori Mutar Muthanna Majid, un veterinario ventiduenne di Mosul riservato e dai modi gentili. Dopo aver vissuto sei mesi sotto le leggi dei tagliagole dell’Isis, che avevano conquistato la sua città, era fuggito con un cugino. Sette mesi nel limbo turco, quindi Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Austria, Germania, Danimarca. Da Copenaghen aveva superato il ponte di Øresund ed era arrivato a Malmö. Doveva essere l’ultima tappa prima della Finlandia dove, gli avevano detto, ricevere un permesso umanitario sarebbe stato facilissimo. Ma un’attivista lo aveva convinto a rimanere in Svezia, terra d’accoglienza per antonomasia, dove grazie al robusto tessuto dei rifugiati iracheni si sarebbe integrato senza troppe difficoltà. Così era finito in un centro d’accoglienza della piccola e gelida Boliden. Ultima fermata, sperava, prima di mettersi a studiare medicina e costruire le basi di una nuova vita. Ma dopo il 13 novembre 2015 la Svezia non è più la stessa. I massacri di Parigi in nome dello Stato islamico scuotono profondamente il paese: l’isteria è capillare, la polizia ha bisogno di dimostrare ai cittadini che non sta con le mani in mano. Non stupisce, quindi, che quando quattro giorni dopo decine di agenti fanno irruzione a Boliden i minatori vanno nel panico. È un corri corri generale per lanciare l’allarme: i rifugiati ospitati dal paese sono terroristi. "Quando ho visto tutta quella polizia ho iniziato a pensare a chi, tra i miei vicini, avrebbero arrestato", ci racconta Majid. "Non avrei mai immaginato che fossero lì per me". Non poteva immaginare che il suo volto e il suo nome erano finiti su tutte le televisioni e i giornali di Svezia. A sua insaputa si era scatenata una vera e propria caccia all’uomo. Le accuse: aver combattuto per lo Stato islamico in Siria ed essere a capo di una rete di terroristi pronti a colpire in Europa. "Mi hanno portato in carcere, chiesto cosa pensassi degli attentati, quante armi avessi con me. Io chiedevo spiegazioni ma nessuno mi rispondeva". Intanto, fuori, si stava scatenando un vero e proprio circo mediatico, del tutto inedito per il paese scandinavo. I direttori farcivano i telegiornali di vox populi allarmati, perché "chissà quanti altri terroristi si nascondono tra gli arabi che ospitiamo". Come per qualunque efferato delitto, le prime persone intervistate sono i vicini di casa, secondo i quali quello strano iracheno la mattina nemmeno salutava. Persino gli altri rifugiati della zona plaudono alle forze dell’ordine per l’arresto, via le mele marce. L’eroe nazionale è Anders Thornberg, il direttore della Säkerhetspolisen, l’agenzia di controspionaggio che ha coordinato l’operazione. La notizia arriva a Mosul, lasciando sgomento il padre Mutars, che non riesce a capacitarsi di come il figlio possa essere stato arrestato per terrorismo. In carcere Majid nega qualunque tipo di contatto con lo Stato Islamico e, a sorpresa, il 22 novembre il procuratore Hans Ihrman ordina il rilascio del giovane perché "non ci sono più elementi che possano rendere fondati i sospetti". Tutte le accuse, che per lo più si basavano su alcuni fotogrammi presi da una telecamera di sorveglianza, sono cadute. Si crea un cortocircuito, il procuratore non può non ammettere l’errore ma se ne lava le mani, spiegando che l’arresto è sintomo di un apparato di sicurezza attento e attivo. Alcuni giornali chiedono scusa per aver sbattuto il mostro in prima pagina, altri, come l’Aftonbladet, si giustifica perché "è stata la polizia stessa a chiederci che volto e nome del sospettato fossero resi pubblici". Secondo Mårten Schultz, professore di diritto civile all’Università di Stoccolma, "quello che è successo in Svezia non ha alcun precedente nella storia del paese". Majid riceve centinaia di messaggi d’odio ed è costretto a cancellare il suo profilo Facebook. Torna nella piccola Boliden, dove le persone sono ancora diffidenti: la liberazione non ha avuto la stessa rilevanza mediatica dell’arresto e quindi non capiscono perché il terrorista sia ora libero di circolare tra loro. "Prima dell’arresto soffrivo perché ero considerato solo un profugo senza volto, ora invece il mio volto lo conoscono tutti. E non so cosa sia peggio". In questo clima Majid sorprende tutti: dà una festa aperta alla cittadinanza, perché vuole spiegare chi è veramente, che viene seguita dalle principali testate nazionali e persino da Al Jazeera. Quando incontriamo Majid sono passati dieci mesi dall’arresto. Bastano pochi minuti di conversazione per far emergere tutti gli intrecci della vicenda che non si sono ancora districati. Ci fa vedere una minaccia di morte che ha ricevuto tempo fa in un plico, emblema dell’interesse morboso che continua a stuzzicare in esaltati e neo-fascisti. Il suo legale ha chiesto allo stato un milione di corone (oltre centomila euro) di risarcimento; ne ha ricevuti solo dodicimila (poco più di milleduecento euro). Ma le preoccupazioni sono altre: le prassi per la concessione dello status di rifugiato sono cambiate e a breve il suo permesso di soggiorno temporaneo scadrà. "Se mi rimandano in Iraq sono fottuto, a Mosul chiunque può ucciderti". Inoltre, a quanto ne sa, il suo nome figura ancora nel registro dei sospettati di terrorismo. Ma non si dispera, anzi. Ha trovato una casa editrice che ha deciso di investire su di lui e così si ritrova alla Fiera del libro di Goteborg a presentare la sua opera, che non è la sua storia, come si potrebbe pensare, ma un manuale di lingua araba. "Imparare la nostra lingua potrebbe essere per gli svedesi il primo passo per rompere la diffidenza". Duterte: "Sono l’Hitler delle Filippine" di Gianluca Di Donfrancesco Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2016 "Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei….. ci sono tre milioni di drogati. Sarei felice di macellarli". Non ci sono possibilità di equivocare. Le parole pronunciate dal presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, sono chiarissime (tocca semmai puntualizzare che l’Olocausto fece sei milioni di vittime e non tre). Ma Duterte, nella conferenza stampa tenuta a Davao, davanti alle telecamere schierate, ha deciso di andare sul sicuro e ha spiegato: "Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno..." e ha indicato se stesso. La guerra alla droga lanciata a giugno nelle Filippine ha già fatto circa 3.500 vittime. Quasi 40 morti al giorno, un bilancio da guerra civile come non si registrava dai tempi del regime di Marcos. E come Duterte spiega in modo chiaro, gli obiettivi dello sterminio eseguito da squadre di vigilantes oltre che dalla polizia, non sono solo gli spacciatori, ma gli stessi tossicodipendenti. Sono loro che Duterte "sarebbe felice di eliminare per salvare la prossima generazione". L’immediata reazione del Governo tedesco, pur comprensibile, non sembra cogliere nel segno. Il ministro degli Esteri, Martin Schaefer, ha affermato che "non è possibile fare paragoni con l’unicità dell’atrocità della Shoah e dell’Olocausto". Ma Duterte non vuole fare paragoni, punta semmai all’emulazione. È questo che stupisce: "Vuole essere spedito davanti alla Corte penale internazionale? Perché ci sta riuscendo", ha commentato Phil Robertson, vice direttore per l’Asia di Human Rights Watch. Il Congresso ebraico mondiale ha definito le affermazioni "rivoltanti". Reazioni che scivoleranno addosso al presidente filippino senza lasciar traccia. Trattato dai media come un fenomeno da baraccone, amante delle esagerazioni, Rodrigo "The Punisher" Duterte, sta mantenendo le promesse fatte nella campagna per le presidenziali, vinte il 9 maggio, quando gridava nei suoi comizi: "Tutti voi, spacciatori e trafficanti, voi figli di puttana, vi ucciderò tutti". Il soprannome di The Punisher, Duterte se l’era già guadagnato durante i 20 anni da sindaco a Davao (Mindanao), per i metodi spicci usati contro la criminalità e che gli erano costati l’accusa di aver utilizzato squadre della morte. Lo stesso Duterte si è vantato di aver eliminato 1.700 criminali. Ieri, interrogato dalla commissione del Senato che sta indagando sulla guerra alla droga, un sicario ha ammesso di aver fatto parte di uno di quegli squadroni, ha affermato che gli ordini di uccidere arrivavano da Duterte e si è autoaccusato di aver ammazzato più di 50 persone. Il presidente ha rigettato le accuse come "fabbricazioni". Per sfuggire al massacro, 700mila tossicodipendenti e piccoli spacciatori si sono consegnati alle autorità. Secondo Duterte, sarebbero 3,7 milioni i "drogati" di shabu, la metanfetamina più diffusa nel Paese (31 dollari al grammo). Cifra probabilmente esagerata: i dati ufficiali si fermano a 1,3 milioni di tossicodipendenti. La comunità internazionale ha già espresso la sua condanna. "Fanculo", è stata la replica di Duterte, che ha anche minacciato di ritirare le Filippine dall’Onu. Solo poche settimane fa ha dato del "figlio di puttana" a Obama, colpevole di voler sollevare la questione al vertice Asean in Laos di metà settembre, generando un clamoroso incidente diplomatico. Criticato dalla democrazie, Duterte, almeno a parole, cerca sponde meno sensibili alle tematiche dei diritti umani: Cina, Vietnam, Russia. Le politiche del neo-presidente rischiano però di destabilizzare un Paese già minacciato dalla guerriglia di Abu Sayyaf, l’organizzazione integralista islamica più pericolosa e strutturata del Sud-est asiatico, che controlla porzioni di territorio nelle Filippine e che ha issato il vessillo nero dell’Isis. Secondo i media locali, giovedì, Duterte avrebbe rivelato di aver cercato di aprire un canale di dialogo con i suoi leader, durante la campagna elettorale, offrendo una qualche forma di governo federale. Per poi aggiungere che oggi, da presidente, non sarebbe più disposto a parlare di pace con Abbu Sayyaf. Di fatto ad agosto ha ordinato una escalation nelle operazioni militari. Oggi, il peso filippino ha lasciato sul terreno il 3,9% e ha chiuso il peggior mese di contrattazioni da ottobre del 2000, spinto al ribasso dall’emorragia di capitali che ha colpito la Borsa: 274,2 milioni di dollari a settembre, con l’indice in calo del 2%. La moneta viaggia oggi ai minimi da sette anni ed è stata la peggiore tra le valute asiatiche questo mese, nonostante nel secondo trimestre dell’anno, l’economia abbia messo a segno la crescita più robusta dopo l’India.