Il carcere che umilia non favorisce la rieducazione di Antonio Mattone Il Mattino, 19 ottobre 2016 Il sistema penitenziario italiano costa al contribuente circa 3 miliardi di euro l’anno, ma produce uno dei tassi di recidiva più alti d’Europa. È un grande paradosso, conseguenza di molteplici fattori che possono essere sinteticamente riassunti in un dato di fatto; la galera è stata pensata più per l’afflizione che per il ravvedimento. È un carcere punitivo e infantilizzante quello italiano, dove il recupero e la rieducazione passano prevalentemente per l’obbedienza e la sottomissione ai regolamenti e all’istituzione. La Riforma penitenziaria del 1975 aveva cominciato a recepire i principi dell’articolo 27 della Costituzione che, tra l’altro, dichiara che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Dopo questa legge non sono stati fatti quegli ulteriori passi in avanti necessari a trasformare le prigioni da luoghi di mera custodia, a occasioni per sviluppare percorsi di cambiamento e riscatto sociale che spingessero a sganciarsi dalle maglie della criminalità. C’è da dire che, mentre in questi anni la società ha subito grandi trasformazioni, il carcere è rimasto uguale a se stesso. Una istituzione deresponsabilizzante, dove il periodo della detenzione è contrassegnato per lo più da un ozio forzato che fa sprecare il tempo che dovrebbe essere invece impiegato per la risocializzazione, e per un vero ripensamento della propria vita. Nelle nostre prigioni la routine e il linguaggio di tutti i giorni spingono i detenuti verso una dimensione passiva e infantile che riesce al massimo a formare un buon detenuto, ma non certamente un buon cittadino. È uno spaccato che emerge anche dalle lettere scritte da Enzo Tortora alla sua compagna durante i mesi trascorsi in carcere, pubblicate durante l’estate da Il Mattino. È una straordinaria descrizione della quotidianità vissuta all’interno dei penitenziari. "Sapessi - scriveva Tortora - cos’è l’umiliazione di dover scrivere ogni cosa, la più rutile come una lametta da barba, una lozione, un telegramma che verrà letto prima, in fondo a una domandina". Si dice proprio così - aggiungeva - come all’asilo. E con tanto di "con ossequio" finale. La "domandina" è il modello attraverso cui i detenuti possono fare ogni tipo di richiesta: il lavoro, i colloqui con i volontari, l’accesso ai corsi professionali, le visite mediche e la spesa settimanale. Sono passati oltre 30 anni ma il carcere è rimasto sempre identico a se stesso, nella terminologia come nei ritmi della vita ordinaria. La conta, le ore d’aria, le giornate sempre uguali nelle celle, dove "il tempo è un gocciolare interminabile, inutile, assurdo", e solo se sei fortunato puoi partecipare a qualche attività lavorativa o rieducativa. Il detenuto modello è quello che non crea problemi e come i bambini non deve arrecare disturbo. In questo modo, i carcerati vengono deresponsabilizzati e non diventano i protagonisti del loro percorso di riscatto e di reinserimento nella società. C’è una enorme sproporzione tra l’enorme numero di agenti di polizia penitenziaria presenti nelle nostre carceri e quello di educatori, assistenti sociali, per non parlare degli psicologi, specie ormai in estinzione. I premi e i benefici sono concessi solo per la buona condotta e per l’assenza di sanzioni disciplinari. Si tratta invece di coinvolgere chi ha avuto comportamenti devianti in processi di revisione personale, che devono produrre cambiamenti determinanti, attraverso condotte riparatorie nei confronti di chi ha subito violenza, o nella partecipazione concreta a rendere migliori le condizioni del carcere in cui si vive, solo per fare qualche esempio. Succede che chi è impiegato in una attività retribuita non ha la dignità di lavoratore, diventa un participio e viene chiamato "lavorante". Anche le mansioni vengono sminuite nelle prigioni. Chi raccoglie gli ordinativi della spesa dei detenuti assume l’incarico di "spesino", chi è addetto a spazzare nei luoghi comuni è lo "scopino". Proprio qualche tempo fa mi è capitata tra le mani una domandina che chiedeva "umilmente alla stimatissima Signoria Vostra di poter effettuare un breve colloquio con il volontario". Le notizie di cronaca talvolta ci parlano di detenuti modello che usciti in permesso premio o per fine della pena, commettono reati che appaiono poi inspiegabili agli operatori penitenziari. Chi, invece, durante la carcerazione manifesta un disagio, magari con gesti violenti o autolesionistici viene isolato e tanto spesso trasferito in altro penitenziario, per evitare ulteriori problemi, senza capire che dietro quei comportamenti ci potrebbero essere malesseri o domande inespresse. Il clima di paura e la domanda di sicurezza della nostra società hanno avuto una grande influenza nel determinare un approccio esclusivamente punitivo. Chiudere in cella chi ha commesso reati e buttare la chiave non è solo uno slogan, ma è tutto un modo rassicurante e liberatorio di concepire l’esecuzione della pena. Tuttavia il carcere che umilia i detenuti aumenta la recidiva e non la sicurezza. Questo strabismo sociale è stato colto negli Stati generali dell’esecuzione penale, promossi dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. na discussione articolata in 18 tavoli tematici a cui hanno partecipato operatori del mondo penitenziario, accademici, volontari, intellettuali. Questo confronto dovrebbe produrre alcune proposte di modifiche legislative in materia di esecuzione delle pene. Perché non lo dimentichiamo, la Costituzione parla di pene al plurale, ricordando così che la detenzione non è l’unico modo per scontare una sanzione penale. Il dibattito dovrà continuare nei prossimi mesi per contribuire a quel cambiamento culturale che dovrà trasformare chi è recluso da buon detenuto a buon cittadino. Guai a fare passi indietro sulle carceri. È un’utopia? Edoardo Galeano, intellettuale uruguaiano, ricordato proprio negli Stati generali, diceva che "l’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo, serve per continuare a camminare". Ma nel frattempo perché non cominciare a modificare subito il linguaggio delle nostre galere? Fiducia sul Ddl pensioni delle toghe. Protesta l’Anm: il Governo rinvii il sì di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2016 L’associazione dei magistrati: attendere l’incontro di lunedì. Matteo Renzi "sfila" dal tavolo del vertice del 24 ottobre con l’Anm uno dei tre punti della trattativa, quello del decreto sulla proroga delle pensioni di alcuni magistrati, su cui oggi il governo chiederà la fiducia. Ma le toghe non ci stanno e chiedono a governo e Parlamento di non convertire in legge il provvedimento prima del programmato incontro con il premier e con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, tanto più che la commissione Affari costituzionali del Senato ha espresso un parere fortemente critico sul testo, seppure "non ostativo". Il guardasigilli non si sbilancia sul voto di fiducia che oggi il governo dovrebbe chiedere sul Ddl di conversione del decreto che tante polemiche ha suscitato tra i magistrati. L’Anm ricorda di aver segnalato subito che alcune norme contrastano con la Costituzione e con il diritto comunitario, come peraltro ha rilevato anche la commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Ma il testo è andato in aula senza modifiche rispetto a quello licenziato dalla Camera e così il governo vuole approvarlo, ricorrendo alla fiducia per evitare sorprese sugli emendamenti, visto che la maggioranza non sarebbe compatta. L’iniziativa, però, non è piaciuta all’Anm che, nel raccogliere la disponibilità di Renzi a un confronto sulla riforma della giustizia penale (bloccata dallo stesso premier fino a dopo il referendum), aveva messo sul tavolo altre due questioni: la carenza di risorse negli uffici giudiziari e il decreto sulle pensioni. Chiedendo, per quest’ultimo, una serie di modifiche in sede di conversione. Prima fra tutte la reintroduzione dell’età pensionabile a 72 anni per tutti i magistrati sia per correggere la disparità di trattamento consumata dal decreto (che proroga soltanto poche figure apicali della Cassazione) sia per consentire un graduale avvicendamento e per garantire un congruo periodo di servizio ai nuovi magistrati. Sorpresa: fiducia sul Disegno di legge sgradito agli amici dell’Anm di Errico Novi Il Dubbio, 19 ottobre 2016 "Come si può mettere la fiducia su una legge definita dall’Anm inutile se non dannosa?". Matteo Renzi aveva posto la domanda retorica a proposito della riforma penale. E aveva concluso che prima di darle via libera bisognava "ascoltare gli amici magistrati". Chissà il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo come accoglierà il premier, all’incontro già fissato per il 24 ottobre, se davvero oggi il governo metterà la fiducia sul decreto Cassazione. Che è tutt’altra cosa rispetto alla maxi riforma del guardasigilli Andrea Orlando: si tratta di "Misure urgenti per la definizione del contenzioso" presso la Suprema corte. Si dà il caso però che l’Associazione magistrati si fosse scagliata con furore anche contro questo provvedimento. E in particolare contro la norma, contenuta all’articolo 5, che prevede una proroga del trattenimento in servizio limitata solo ai vertici e ai direttivi delle alte magistrature. Tra questi, Giovanni Canzio e Pasquale Ciccolo, presidente e pg della Suprema corte. L’Anm ha accolto l’eccezione con furibonde recriminazioni. Ci si aspetterebbe da parte dell’esecutivo cautela analoga a quella adoperata per il ddl sul processo penale. E invece oggi l’esecutivo metterà la fiducia sul provvedimento. Dovrà essere convocato un Consiglio dei ministri ad horas, perché la blindatura del decreto Cassazione non era mai stata autorizzata. Renzi non potrà essere presente: è a Washington. La riunione di palazzo Chigi dovrà essere presieduta dal ministro più anziano. Non ci sono dubbi d’altronde sull’orientamento del premier: che al decreto in questione tiene moltissimo, persino più del ministro competente Orlando. Alla decisione si arriva in capo a un paio di giorni ad alta tensione nella commissione Giustizia del Senato. Dove lunedì sera si è deciso di votare subito il mandato al relatore Giorgio Pagliari e di dichiarare decaduti o improponibili cento emendamenti. Abbandono dei lavori per protesta da parte di Forza Italia e Cinque Stelle, con preannuncio di una "forte discussione in Aula" da parte dell’ex guardasigilli Francesco Nitto Palma. Un’accelerazione dei lavori improvvisa e insolita, tanto più se paragonata all’andatura elefantiaca della riforma penale, da ormai un anno e mezzo a Palazzo Madama. Com’è arrivata la maggioranza là dove non ha mai potuto osare su prescrizione, intercettazioni e altre norme chiave del ddl Orlando? Semplice: grazie ai senatori di Ala, il gruppo che fa capo a Denis Verdini. Sono stati loro ad assicurare il numero legale in commissione lunedì sera. Saranno sempre loro mettere al sicuro la fiducia oggi in Aula. "Il carico della Cassazione va alleggerito", nota il senatore Ciro Falanga, vera guida del drappello verdiniano in materia di Giustizia, "c’è un’urgenza oggettiva e incontestabile", secondo il parlamentare di Ala. Che non si lascia impressionare neppure dal "parere critico" approvato la settimana scorsa in commissione Affari costituzionali. "Se il fine è nobile, come in questo caso, si può anche chiudere un occhio di fronte a mezzi non lo sono". Rassicurata dal machiavellico senatore Falanga, la maggioranza aspetterà stamattina che Palazzo Chigi autorizzi la blindatura. Saranno spazzati via così la pregiudiziale di costituzionalità dei Cinque Stelle, gli emendamenti di Felice Casson che vuole eliminare la proroga per i vertici della Cassazione e quelli analoghi di Doris Lo Moro, ex magistrata pure lei e autrice del parere in Prima commissione. Quando il governo decide di fare sul serio, brucia i tempi persino sulla giustizia. Approvata la legge contro il caporalato: pene più severe per chi sfrutta La Stampa, 19 ottobre 2016 È una risposta dura al caporalato, lo sfruttamento dei lavoratori in condizioni disumane da parte di intermediari senza scrupolo, quella che giunge con la nuova legge approvata oggi alla Camera. Su impulso dei ministri Orlando e Martina arriva al traguardo una legge che prevede innanzitutto pene più severe: d’ora in poi saranno sanzionabili, anche con la confisca dei beni, non solo gli intermediari illegali ma anche i datori di lavoro consapevoli dell’origine dello sfruttamento. Ci sarà anche un aiuto concreto alle vittime del caporalato, con l’estensione delle provvidenze del fondo anti-tratta. Tra le novità della normativa anche il potenziamento della Rete del Lavoro Agricolo di Qualità quale strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura. Proprio nei campi il fenomeno registra da sempre la sua maggior rilevanza per lo sfruttamento dei lavoratori stranieri impiegati nelle raccolte stagionali. La nuova legge prevede anche che le amministrazioni statali saranno direttamente coinvolte nella vigilanza e nella tutela delle condizioni di lavoro nel settore agricolo, attraverso un piano congiunto di interventi per l’accoglienza di tutti i lavoratori impegnati nelle attività stagionali di raccolta dei prodotti agricoli. Il piano presentato dai Ministeri del Lavoro e delle Politiche sociali, delle Politiche agricole alimentari e forestali e dell’Interno, sarà stabilito con il coinvolgimento delle Regioni, delle province autonome e delle amministrazioni locali, nonché delle organizzazioni di terzo settore. "Lo Stato - commenta il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina - risponde in maniera netta e unita contro il caporalato con questa nuova legge attesa da almeno cinque anni. Ora abbiamo più strumenti utili per continuare una battaglia che deve essere quotidiana, perché sulla dignità delle persone non si tratta. E l’agricoltura si è messa alla testa di questo cambiamento". "Oggi - commenta il ministro della Giustizia Andrea Orlando - è una grande giornata per il lavoro, per la tutela dei diritti e le persone più deboli: si è realizzato un obiettivo che da sempre caratterizza le battaglie della sinistra, quello per la dignità dei lavoratori e delle persone che sono più esposte alle forme più odiose di sfruttamento". Entusiaste anche le reazioni dei sindacati. "Finalmente una legge buona e giusta che ci aiuterà nella difesa dei lavoratori italiani e stranieri sfruttati da imprenditori privi di scrupoli, da caporali che lucrano sulla loro povertà e sul loro bisogno di lavoro, dalla criminalità organizzata", afferma il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. Mentre di "fatto di grande importanza" che rappresenta "un vero traguardo di civiltà" parlano, in una nota congiunta, la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, e il segretario generale della Fai-Cisl, Luigi Sbarra e il segretario generale della Uila-Uil, Stefano Mantegazza definisce la nuova legge "straordinario passo in avanti". "Ci eravamo presi l’impegno di approvare il disegno di legge sul contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro nero in agricoltura, e lo abbiamo mantenuto", commenta soddisfatto il presidente della Commissione agricoltura della Camera Luca Sani, mentre Don Luigi Ciotti, presidente nazionale di Libera, parla di "un passo in avanti fondamentale, un provvedimento necessario che va a colmare una lacuna dell’attuale legislazione italiana". Di "passo determinante per dare dignità al lavoro nei campi" parla anche il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo che aggiunge come il lavoro nei campi "ora vada tutelato anche per i prodotti importati che arrivano in Italia troppo spesso sottocosto proprio a causa dello sfruttamento, anche minorile". Carcere e beni confiscati nella lotta al caporalato di Annamaria Capparelli Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2016 Diventa legge la lotta al caporalato. Le campagne di raccolta per agrumi e orticole potranno svolgersi sotto il cappello della nuova normativa che dovrà garantire il rispetto delle regole per il lavoro in agricoltura. Il banco di prova sarà poi la campagna estiva del pomodoro. A due mesi dall’approvazione al Senato anche la Camera ha dato ieri disco verde al disegno di legge su "Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura" firmato dai ministri delle Politiche agricole, Maurizio Martina, e della Giustizia, Andrea Orlando. Si tratta di un provvedimento che introduce una stretta pesante sul lavoro illegale. Scattano pene severe e confisca dei beni per chi sfrutta i lavoratori. La legge "Martina-Orlando" parte dalla riscrittura dell’articolo 603-bis del codice penale relativo all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro. Viene punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore chi recluta manodopera da destinare a terzi in condizione di sfruttamento e chi la sfrutta. La pena sale (carcere da 5 a 8 anni e multa da 1.000 a 2mila euro per lavoratore) nel caso in cui si riscontrino minacce e violenze. Nel caporalato rientrano il reclutamento di manodopera da destinare a terzi in condizioni di sfruttamento, la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo difforme dai contratti, la violazione della normativa sull’orario di lavoro, riposi, aspettative e ferie, violazioni in materia di sicurezza e igiene, condizioni di lavoro, alloggi e metodi di sorveglianza degradanti. Costituiscono aggravanti il numero di lavoratori superiori a tre e la presenza di minori. Prevista anche la confisca obbligatoria dei beni, mentre la responsabilità si estende al datore di lavoro. Per evitare poi il blocco dell’attività e la perdita di posti di lavoro scatta il controllo giudiziario dell’azienda affidato ad amministratori nominati dal giudice che affiancano l’imprenditore nella gestione. Ma la mano è più leggera per chi aiuta l’autorità giudiziaria a interrompere il reato. Estese poi le finalità del "fondo anti-tratta" anche alle vittime del caporalato. Un altro cardine della nuova normativa è la Rete del lavoro agricolo di qualità, operativa dal 1° settembre 2015. La Rete viene articolata in sezioni territoriali e si allarga agli sportelli unici per l’immigrazione, alle istituzioni locali, ai centri per l’impiego, agli enti bilaterali e ai soggetti abilitati al trasporto. Chi vuole aderire alla Rete (un processo ancora molto lento) non deve essere stato destinatario negli ultimi tre anni di sanzioni amministrative per violazioni in materia di lavoro, legislazione sociale e pagamento di imposte e deve applicare i contratti. Viene poi sterilizzata per l’agricoltura l’applicazione del sistema Uniemens poiché l’adattamento dovrebbe scattare a gennaio 2018, ma a quella data sarà attuato il libro unico del lavoro che sostituirà Uniemens quale unico documento per gli adempimenti in materia previdenziale e contributiva. E infine via libera al piano per l’accoglienza dei lavoratori agricoli stagionali da realizzare con il coinvolgimento delle regioni, degli enti locali e delle organizzazioni di terzo settore. "Ora abbiamo più strumenti utili per continuare una battaglia che deve essere quotidiana - ha dichiarato il ministro Martina - perché sulla dignità delle persone non si tratta. E l’agricoltura si è messa alla testa di questo cambiamento, che serve anche a isolare chi sfrutta e salvaguardare le migliaia di aziende in regola che subiscono un’ingiusta concorrenza sleale. Dobbiamo lavorare uniti per non avere mai più schiavi nei campi". Martina ha detto che si andrà avanti anche sul fronte dei controlli già aumentati di quasi il 60% nel corso dell’ultimo anno. I silenzi della deputata, tegola Pd su Mafia Capitale di Edoardo Izzo e Grazia Longo La Stampa, 19 ottobre 2016 Troppi i "non ricordo" della Campana su Buzzi: potrebbe essere indagata. Per un verso o per un altro Mafia Capitale continua a mietere vittime. Questa volta si tratta della deputata Pd Micaela Campana, ex moglie di Daniele Ozzimo, uno degli imputati eccellenti, già condannato a due anni e due mesi per corruzione. Molto probabilmente la procura di Roma la indagherà con l’accusa di falsa testimonianza per le dichiarazioni rese ieri durante l’udienza del processo Mondo di Mezzo. Chiamata a testimoniare sui suoi rapporti con il ras delle cooperative Salvatore Buzzi - imputato chiave, con l’ex Nar Massimo Carminati nel processo - la deputata si è trincerata dietro una sfilza di "non ricordo". A fine processo, quindi, la procura chiederà al tribunale di acquisire i verbali e valuterà se indagarla per quella "serie di bugie e reticenze smentite dal contenuto degli atti processuali". L’atteggiamento "smemorato" della Campana ha fatto arrabbiare più di una volta la presidente della Corte, Rossana Ianniello: "Le ripeto per la quarta volta, mentire sotto giuramento è un reato molto grave". La deputata Dem era stata convocata in aula per fornire spiegazioni circa le sollecitazioni di Buzzi per ottenere un’interrogazione parlamentare sull’appalto relativo a un centro rifugiati, bloccato da un giudice del Tar del Lazio. Un’intercettazione rivelava che la Campana salutava Buzzi, via sms, con "Bacio grande capo". E Umberto Marroni, altro deputato Pd, gli inviava il seguente sms: "Ho parlato con Micaela meniamo". Di più, in riferimento alla stesura dell’interrogazione precisava: "La sta preparando Micaela". Micaela Campana si era dunque mossa a favore del boss delle cooperative rosse? In tribunale lo ha negato: "Ricordo che Buzzi mi chiamò spesso per questa interrogazione che voleva facessi: analizzai le carte e decisi di non farla". Perplessità tra i pm anche in merito al coinvolgimento di un viceministro. Il sostituto Luca Tescaroli chiede alla Campana per quale motivo fissò un incontro tra il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico e Salvatore Buzzi. Laconica la risposta. "Fu lui a chiedermelo, ma non so di cosa dovessero parlare". Parole che fanno saltare sulla sedia la presidente della corte Ianniello: "Mi faccia capire, lei fissa un incontro col sottosegretario Bubbico a Buzzi solo perché lui glielo aveva chiesto, senza conoscere le motivazioni di tale richiesta?". Secca la replica: "Non ricordo". Così come non rammenta quando chiese a Buzzi di occuparsi del trasloco del cognato. La Campana conferma invece di aver ricevuto da Buzzi denaro per finanziare sia la sua campagna elettorale a consigliera municipale nel 2001 sia quella dell’ex marito Daniele Ozzimo in Campidoglio nel 2013. Entrambi i finanziamenti sono legittimi, ma la Ianniello ha una curiosità: "Visto che all’epoca si era già lasciata con suo marito perché fu lei a fare da tramite?". La deputata precisa: "Perché lo ritenevo una persona valida per il Campidoglio", precisa la deputata. La testimone, infine, non fornisce spiegazioni su un sms inviatole da Buzzi nel novembre 2014 sull’avvenuto pagamento per la cena di finanziamento del Pd con il premier Matteo Renzi. "Io gli indicai solo il numero di conto corrente. Ricordo le persone della cooperativa alla cena, ma non ricordo di aver visto Buzzi. Di sicuro non mi ha consegnato nulla". E mentre il M5S bolla come "terribilmente imbarazzante sia la Campana, sia il Pd", la deputata ammette di aver agito "ingenuamente. In aula potevo avvalermi della facoltà di non rispondere ed invece ho scelto di sottopormi alle domande dei magistrati in un processo importante per questa città". Caso Magherini, analisi di una sentenza suicida di Luigi Manconi e Valentina Calderone L’Unità, 19 ottobre 2016 Sentenza suicida, nel linguaggio giudiziario corrente, è quella che basandosi su motivazioni fragili, contraddittorie e magari incoerenti, si espone alla possibilità che il verdetto di appello ne rovesci inevitabilmente il senso, la riformi radicalmente o la annulli. Sembra essere proprio questo il caso del verdetto del processo di primo grado perla morte di Riccardo Magherini (il 3 marzo del 2014), per quella vicenda, nel luglio scorso, tre carabinieri sono stati condannati per omicidio colposo. A leggere ora le motivazioni di quella condanna si avverte immediatamente come da lì a una successiva possibile assoluzione il passo sia breve, molto breve, E fin dai primi passaggi, quando il giudice ritiene imprescindibile valutare, e dedicare uno spazio singolarmente ampio, alla "condizione di consumatore di sostanza stupefacente" di Magherini, per riuscire a ricostruire la vicenda del la sua morte. Circa dieci pagine vengono dedicate a scandagliare le sue abitudini di consumo, e numerosi passaggi insistono su quanto, la condotta di assuntore di cocaina, sia stata la causa principale del decesso, a questo ci siamo dovuti abituare a leggere e ascoltare, attraverso le parole di pubblici ministeri e giudici, ogni tipo di offesa postuma nei confronti di persone decedute a seguito di abusi da parte di forze di polizia. Quasi che il comportamento moralmente non irreprensibile della vittime o l’eventuale curriculum penale potesse se non giustificare, attenuare le responsabilità di chi ha usato contro di loro violenza, fino a ucciderle. Ma ancora non ci era capitato di trovare in una sentenza tanto accanimento nei confronti delle tesi sostenute dalle parti civili. Parti civili che avrebbero aprioristicamente condannato "l’operato dei militari" svalutando le condizioni in cui versava Magherini e la condotta da lui tenuta, per non parlare del comportamento di "enti e associazioni" che hanno "immediatamente e duramente esercitato" una "stigmatizzazione" nei confronti dei militari. Dunque, oltre che per sua stessa colpa, dì che cosa è morto Riccardo Magherini? I consulenti del pubblico ministero incaricati dell’autopsia affermano che dai dati tossicologici emerge una situazione di uso ricreazionale di cocaina in soggetto assuntore abituale, ma non si è trovato riscontro all’ipotesi che Magherini fosse "pesantemente" sotto l’effetto della cocaina e, in ogni caso, la "morte per sovradosaggio di cocaina è un’evenienza abbastanza rara". Il giudice, tuttavia, non trova soddisfacenti questa o altre spiegazioni dei consulenti del pm e cerca in tutti i modi di far apparire irrilevante lo stress generato dal prolungato contenimento di Magherini a opera dei carabinieri, così come l’asfissia da compressione toracica provocata dall’ammanettamento a terra. Ripetutamente viene ribadita la legittimità dell’intervento dei carabinieri perché Magherini era "seriamente pericoloso": tanto pericoloso, vorremmo ricordare, da essersi inginocchiato davanti ai militari chiedendo aiuto prima di essere rovesciato a terra. E ancora secondo il giudice non si può sostenere che "gli imputati dovessero fare appello alla propria - eventuale - scienza e coscienza personale". Fossimo al posto dei carabinieri, ci sentiremmo particolarmente turbati dalle parole del giudice, il quale trova inammissibile che "personale militarmente organizzato possa disattendere ordini superiori" dopo aver valutato il caso concreto. Caso concreto che era, tra l’altra minuziosamente disciplinato da una illuminata circolare prodotta dal Comando generale dei Carabinieri, In cui venivano descritte, con tanto di disegni, le azioni da evitare in un intervento con persone in stato di agitazione psico-fisica. L’iniziativa dei militari nei confronti di Riccardo Magherini si è rivelata l’esempio perfetto di "cosa non fare" e la circolare, entrata in vigore un mese prima della sua morte, è stata abrogata due anni dopo, prima del pronunciamento della sentenza. Pur se non si conoscono i motivi della revoca di quella circolare da parte del Comando generale dell’Arma, il giudice pare avere informazioni molto aggiornate in proposito. Dispiace, quindi, che abbia riportato in sentenza solo le proprie valutazioni, senza specificare se siano opinioni personali o se corrispondano al giudizio formulato delle alte gerarchie dei Carabinieri. In ogni casa queste motivazioni lasciano la sensazione che si tratti di una lunga lettera di giustificazioni del giudice per essersi trovato nella condizione di dover condannare i tre carabinieri. L’ossessiva ripetizione della frase "nessuno era sulla schiena né premeva né comprimeva la schiena, o comunque il torace" di Magherini - si conta 15 volte su 20 pagine - e la sintesi della teoria del giudice, contraddetta tra l’altro da alcuni passaggi in cui lo stesso riporta le testimonianze di chi ha visto un carabiniere appoggiare "un ginocchio all’altezza delle scapole" di Magherini. L’ipotesi sostenuta dal giudice è che i carabinieri siano responsabili "solo" di avere mantenuto Magherini in quella posizione troppo a lunga negando la compressione e collocando il nesso causale in un enigmatico gioco fra asfissia da compressione e da posizione, senza ben delinearne i contorni e comunque premurandosi di definire minimo il contributo causale che l’operato dei carabinieri avrebbe avuto nella morte di Magherini. Davvero non si capisce cosa si voglia intendere con questa ricostruzione, ciò che invece si intende benissimo è il fastidio che il giudice ha provato nei confronti degli avvocati di parte civile, in particolare l’avvocato Fabio Anselmo, accusati di aver alimentato "aspettative eccessive" nei familiari di Magherini e "tensioni del tutto inopportune nei confronti della forze dell’ordine". Cambiano i tribunali e cambiano le decisioni tra condanne assoluzioni, ma quello che sembra sempre emergere irresistibilmente è la tendenza a considerare come nemico chi si ostina a pretendere verità per mia morte insensata. Cucchi, i periti del giudice che non danno risposte di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 ottobre 2016 Valutazioni "soggettive". Alla fine, stretti dalle domande del giudice, del pubblico ministero, e degli avvocati, i periti del "caso Cucchi" hanno dovuto ammettere che dietro la conclusione di una "morte improvvisa e inaspettata per epilessia", raggiunta dopo quasi un anno di lavoro, non ci sono riscontri oggettivi. Solo una convinzione, che pure hanno difeso strenuamente, a cui attribuiscono il 60 per cento delle probabilità. Il restante 40 per cento chiama in causa le fratture, correlate al pestaggio subito dal giovane tossicodipendente arrestato il 15 ottobre 2009 e spentosi una settimana più tardi nel reparto detentivo di un ospedale. Gli esperti nominati dal giudice nel tentativo di fare chiarezza, insomma, non l’hanno fatta. Citano fonti scientifiche a supporto della loro opinione, che però si reggono sull’assenza di ipotesi alternative, mentre in questo caso sono loro stessi ad avanzarne un’altra. E i frequenti ricoveri di Cucchi prima dell’arresto, secondo i periti, sarebbero da mettere in relazione all’epilessia, ma nei referti non c’è traccia di quella diagnosi. Come mai? Nessuna risposta. L’ennesimo tentativo di dare una spiegazione scientifica alla morte di Cucchi sembra andato a vuoto. Restano però i risultati raggiunti dall’inchiesta-bis della Procura di Roma, convinta di aver raggiunto la prova del "violentissimo pestaggio" di un detenuto poco collaborativo, con conseguenti bugie e manomissione di atti per far sparire ogni prova da parte dei cinque carabinieri indagati. Da questo sarà difficile tornare indietro, e il processo che a questo punto sembra inevitabile (si vedrà se per "lesioni gravissime" o "omicidio preterintenzionale") dovrà stabilire che cosa sia accaduto la notte di quell’arresto. A prescindere dalle convinzioni, più o meno riscontrate, sulle cause della morte di Cucchi. Il convivente extra-Ue non può essere espulso di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezione prima - sentenza 18 ottobre 2016 n. 44182. Il contratto di convivenza disciplinato dalla nuova legge sulle unioni civili, impedisce di espellere lo straniero, convivente con una cittadina italiana, che deve ancora scontare una parte di pena per una condanna. La Corte di cassazione, con la sentenza 44182 depositata ieri, annulla con rinvio il provvedimento del Tribunale di sorveglianza che aveva adottato la misura dell’espulsione in alternativa alla detenzione. Una misura basata sull’orientamento maggioritario espresso dalla Suprema corte, secondo il quale la convivenza more uxorio non blocca l’espulsione. Per la Cassazione, il principio deve ritenersi superato alla luce della legge 76/2016, che non può essere ignorata. I giudici della prima sezione penale danno il giusto rilevo alla nuova disciplina che, ricordano "è stata giustamente accolta dall’opinione pubblica, dagli operatori e dai teorici del diritto come disciplina epocale". Una norma con la quale sono state riconosciute dall’ordinamento e regolate positivamente le unioni tra persone dello stesso sesso e, con esse, anche quelle di fatto tra eterosessuali. Per i giudici lo scopo perseguito dal legislatore è quello di parificare, "pur distinguendo le relative discipline positive e specifiche la nozione di coniuge con quella di persona unita civilmente". Obiettivo raggiunto introducendo a fianco del matrimonio regolamentato dal codice civile (articolo 82 e seguenti), il cosiddetto contratto di convivenza. La legge inoltre - sottolinea la Cassazione - stabilisce il principio generale secondo il quale, quando nelle leggi dello Stato compare il termine "coniuge" questo deve intendersi riferito anche alla persona civilmente unita ad un’altra con il contratto di convivenza. La stessa parificazione, come espresso nel comma 38 dell’articolo 1, esiste per quanto riguarda le facoltà riconosciute al coniuge dall’ordinamento penitenziario. Della presa d’atto beneficia il ricorrente colpito dall’ordinanza di espulsione, un atto obbligatorio, secondo il giudice di sorveglianza "quale misura sostitutiva da applicarsi nell’ultimo biennio di pena ai condannati privi di titolo di soggiorno". L’immigrato, in Cassazione si era giocato, documentandola, la sua convivenza more uxorio con una cittadina italiana. Per la Suprema corte non si può dunque negare al ricorrente, alla luce delle nuove regole la possibilità di acquisire lo status familiare riconosciuto dalle legge. La Cassazione precisa che sarà compito dei giudici stabilire se la causa ostativa, rappresentata dalla legge sulle unioni civili, sia "sussistente o meno quando l’espulsione viene messa in esecuzione". Minacce e lesioni, il giudice di pace valuta la particolare tenuità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2016 Giudice di pace - Sentenza 14 giugno 2016. Anche delle minacce di morte - "ti devo ammazzare" - ed uno spintone possono rientrare nella "particolare tenuità del fatto" se non hanno prodotto conseguenze gravi e la parte lesa si è completamente disinteressata al procedimento penale. Lo ha stabilito il giudice di pace di Afragola, Margherita Morelli, con una originale sentenza del 14 giugno scorso, dichiarando di non doversi procedere contro l’imputato. Dopo la querela infatti la parte offesa non si era presenta in udienza "nonostante la notifica del verbale contenesse l’avviso che non comparendo il fatto sarebbe stato considerato di particolare tenuità". E da qui parte il ragionamento del giudice secondo cui dopo l’introduzione, da parte dell’articolo 131-bis del codice penale(Dlgs n. 28/2015), della "non punibilità per particolare tenuità del fatto" per alcune fattispecie di competenza del Tribunale - tenuto conto delle modalità della condotta, dell’esiguità del danno e della non abitualità e che per giurisprudenza, ormai consolidata, non si applica ai reati di competenza del giudice di pace - "appare necessaria anche una rivisitazione dell’articolo 34 del Dlgs 274/2000". Una norma di carattere speciale che si applica specificamente ai reati di competenza del giudice di pace, dove si stabilisce che il fatto è di "particolare tenuità" quando rispetto all’interesse tutelato, "l’esiguità del danno o del pericolo che né è derivato nonché la sua occasionalità e il grado di colpevolezza non giustifichino l’esercizio dell’azione penale", guardando anche al pregiudizio che il procedimento "può recare alle esigenze di lavoro di studio di famiglia e di salute della persona sottoposta a indagine o dell’imputato". Il giudice però rileva che il nuovo regime introdotto dall’articolo131-bisrisulta "più favorevole" per il reo rispetto a quello previsto dall’articolo 34, e questo anche in presenza di reati "bagatellari" che suscitano scarso allarme sociale. Considerato che la particolare tenuità può essere dichiarata con sentenza "solo se l’imputato e la parte offesa non si oppongono (comma 3°)". Ciò, prosegue la decisione, nonostante il procedimento penale davanti al giudice di pace risponda "a una necessità conciliativa più che sanzionatoria" e all’esigenza di introdurre un sistema penale "più mite per reati ritenuti di minore allarme sociale rispetto a quelli di competenza del Tribunale". Per cui, nel rispetto della Carta, e il provvedimento cita l’articolo 3 della Costituzione, è necessario che si faccia "più corretta ed adeguata applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto", considerato che le sanzioni vanno "graduate e non applicate indiscriminatamente", tenendo in debito conto la "consistenza del fatto reato e le conseguenze che ne sono derivate per la vittima". In questo senso, visto il rapporto tra le parti, l’esiguità del danno e la "condotta inerte" mantenuta nonostante la notifica del verbale con l’avvertimento che il fatto sarebbe stato considerato di particolare tenuità, "il giudizio non può che concludersi con declaratoria di improcedibilità". Furto in cassetta di sicurezza, la banca deve dimostrate di aver fatto tutto il possibile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2016 Corte d’Appello di Roma - Sezione 1 - Sentenza 17 giugno 2016 n. 3884. In caso di furto del contenuto di una cassetta di sicurezza, per andare esente da colpa, e dunque non dover risarcire alcunché, la banca deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile, alla luce delle più recenti prescrizioni in tema di sicurezza, per prevenire la sottrazione dei beni. Non essendo sufficiente l’aver agito con "diligenza". Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza 17 giugno 2016 n. 3884, respingendo il ricorso di un istituto di credito condannato a pagare 220mila euro a due clienti cointestatari del contratto di custodia. La banca aveva chiamato in causa anche il Ministero della Difesa in quanto il furto era avvenuto con il concorso di alcuni carabinieri addetti alla vigilanza della sede dell’istituto che si trovava nella cittadella giudiziaria. Per il Collegio, però, il tribunale "correttamente" ne aveva escluso la legittimazione passiva perché per i "compiti civili" l’Arma dipende funzionalmente dal Ministero dell’Interno. Mentre la responsabilità diretta della amministrazione andava esclusa perché i militari "hanno sicuramente agito per un fine di profitto strettamente personale, assolutamente non diretto al conseguimento di fini istituzionali, così facendo venire meno il rapporto di occasionalità necessaria e la riferibilità del loro operato alla PA". Riguardo al contratto bancario, la sentenza, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale (n. 28835/2011), ha affermato che "nel caso di sottrazione dei beni custoditi nella cassetta di sicurezza a seguito di furto - il quale non integra il caso fortuito, in quanto è evento prevedibile, in considerazione della natura della prestazione dedotta in contratto - grava sulla banca, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., l’onere di dimostrare che l’inadempimento dell’obbligazione di custodia è ascrivibile ad impossibilità della prestazione ad essa non imputabile per avere tempestivamente predisposto impianti rispondenti alle più recenti prescrizioni in tema di sicurezza raccomandate nel settore". "Non essendo sufficiente - prosegue il testo -, ad escludere la colpa, la prova generica della sua diligenza, dal momento che tale disposizione generale, che regola l’inadempimento delle obbligazioni contrattuali, si applica anche in presenza di una clausola limitativa della responsabilità della banca, da ricondurre all’art. 1229 cod. civ. e che riguardi l’ammontare del debito risarcitorio, non l’oggetto del contratto". L’appellante, al contrario, si è limitato a prospettare "una serie di circostanze attinenti alle specifiche modalità di esecuzione del furto ma senza in realtà fornire la prova positiva dell’esistenza del caso fortuito" che sarebbe stata desumibile, ad esempio, "dall’aver predisposto tempestivamente impianti rispondenti alle più recenti prescrizioni in tema di sicurezza". É invece emerso che il furto era avvenuto senza effrazione, che l’allarme non aveva inviato alcun segnale alla Questura, che le chiavi del caveau erano custodite in un cassetto accessibile ai dipendenti della banca e infine che qualunque dipendente poteva accedervi previa compilazione di un modulo. In definitiva, la banca non ha assolto al proprio onere probatorio, "non avendo neanche spiegato perché le misure predisposte, che avrebbero dovuto tenere conto anche della possibile implicazione di qualche dipendente infedele, non siano state in grado di impedire l’accesso al caveau dei ladri". La Corte ha poi ritenuto veritiera la descrizione del contenuto della cassetta oltre che sulla base della deposizione di un teste anche alla luce della "condizione sociale" dei depositanti considerato che il padre era un "alto funzionario della Banca d’Italia" ed uno degli attori un "alto dirigente bancario". In particolare, secondo quanto allegato, la cassetta avrebbe contenuto numerosi gioielli, ed una collezione di monete d’oro della Banca d’Italia, per un controvalore di 154.937 euro (secondo una perizia del 2001). Considerato che non è stata possibile una ricostruzione "analitica" del contenuto, il tribunale ha liquidato l’importo in via equitativa. Fatture false, sequestro limitato nei confronti dell’emittente di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 18 ottobre n. 43952. Per il reato di emissione di fatture false, è illegittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca commisurato al beneficio fiscale conseguito dall’utilizzatore dei documenti. Occorre infatti, che sia dimostrato il profitto, costituito dal compenso ricevuto dall’emittente. Ad affermare questo importante principio è la Cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 43952 depositata ieri. Nei confronti di due contribuenti veniva disposto un sequestro preventivo per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Più precisamente l’amministratore di una società e il relativo coniuge erano accusati di aver emesso fatture false per consentire l’evasione a terzi. La misura cautelare veniva disposta fino a concorrenza dell’imposta evasa dal soggetto che aveva ricevuto le predette fatture. Il provvedimento, impugnato dagli interessati, veniva annullato dal Riesame secondo il quale chi aveva emesso la fattura era estraneo al profitto del reato. La Procura ricorreva così in Cassazione. I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che le fatture per operazioni inesistenti vedono coinvolti due soggetti: l’impresa che emette i documenti e il soggetto che le riceve e registra nella propria contabilità, beneficiando di un risparmio di imposta. L’articolo 9 del Dlgs 74/2000 esclude che i due possano essere puniti a titolo di concorso, con la conseguenza che occorre verificare il profitto del reato in capo a ciascuno. L’utilizzatore consegue un profitto pari al risparmio di imposta, mentre l’emittente lo consegue ove ricevesse un compenso per l’emissione delle fatture. Non è quindi possibile, dovendosi escludere il concorso, che l’emittente i documenti subisca un sequestro finalizzato alla confisca del possibile profitto del reato, pari al vantaggio economico conseguito dall’utilizzatore delle fatture, atteso che i due profitti sicuramente non coincidono. In capo al soggetto emittente, quindi, è possibile il sequestro solo ed esclusivamente per il profitto, ossia il compenso, conseguito per il suo "servizio". La Suprema corte, richiamando alcuni precedenti, ha peraltro rilevato che in tema di reati tributari, la confisca per equivalente del profitto del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, non può essere disposta qualora dalla commissione della condotta non derivi un effettivo risparmio di imposta né per l’emittente né per il destinatario dei documenti fittizi (sentenza 48104/2013). Ne consegue così che per la misura cautelare non possono esistere automatismi di sorta, poiché il profitto non necessariamente coincide con il beneficio fiscale realizzato dall’utilizzatore. A ciò si aggiunga che, essendo escluso il concorso tra i soggetti, il profitto tantomeno può corrispondere all’importo delle fatture emesse. Nella specie, mancavano gli elementi volti a individuare il citato profitto in capo all’emittente le fatture, atteso che non c’erano prove che agli indagati fosse stata "restituita" l’imposta evasa dal terzo o fossero stati erogati compensi. La Cassazione ha quindi concluso affermando che per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente non può essere disposto sui beni dell’emittente per il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle fatture medesime, poiché la norma esclude espressamente il concorso reciproco tra chi emette il documento e chi lo utilizza. Ne consegue che la misura cautelare può essere eseguita solo nella misura del profitto pari al compenso conseguito per l’emissione delle fatture, tuttavia da dimostrare in sede di sequestro. La decisione conferma l’orientamento già espresso in tal senso dalla giurisprudenza di legittimità (sentenza 35459/2016). In effetti, per il reato di emissione di fatture false, non è di semplice individuazione il profitto e, nella maggior parte dei casi, è identificato nell’Iva o, più in generale, nel beneficio fiscale conseguito dall’utilizzatore. Il chiarimento, quindi, diviene fondamentale, poiché occorrerà che il Pm giustifichi la misura cautelare documentando il profitto ritenuto conseguito dall’emittente. Ma quale repubblica parlamentare? La nostra è una repubblica giudiziaria di Francesco Damato Il Dubbio, 19 ottobre 2016 È un vero spreco di energie quello che si sta facendo nella campagna referendaria in difesa della Repubblica parlamentare voluta dai costituenti e minacciata, secondo gli avversari di Matteo Renzi, dalla sua riforma. Che farebbe diventare la Repubblica "oligarchica", ha sentenziato il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky fra la sorpresa e le proteste di Eugenio Scalfari, convinto che l’oligarchia, intesa però solo come "classe dirigente", sia compatibile con la democrazia. In fondo - si potrebbe dire seguendo il ragionamento filologico di Scalfari - anche il Parlamento è oligarchico, poco importa se composto di quasi 1000 esponenti, come oggi, o di 730, come avverrebbe con l’approvazione della riforma. Alternativa all’oligarchia, sempre secondo il ragionamento di Scalfari, sarebbe la dittatura, non la Repubblica parlamentare che i critici di sinistra della riforma sentono minacciata. I critici di destra invece, preferendo la Repubblica presidenziale, ritengono che nella Costituzione riformata da Renzi rimanga ancora troppa Repubblica parlamentare, in cui i poteri del capo dello Stato e del presidente del Consiglio rimangono invariati. Eppure questi stessi critici di destra, convergendo con quelli di sinistra, accusano Renzi di avere voluto e portato a casa col cosiddetto Italicum una legge elettorale su misura delle sue ambizioni di potere: una legge peraltro ch’egli non difende più con l’ostinazione di qualche mese fa, disponendosi a cambiarla, ma anche prevedendo che potrebbe essere modificata da interventi della Corte Costituzionale, com’è accaduto alla legge precedente voluta dal centrodestra. Ma sono proprio sicuri, a sinistra e a destra, di vivere ancora in una Repubblica parlamentare, rispettivamente, da difendere o da superare? Né da una parte né dall’altra sembrano essersi resi conto che da almeno 24 anni, come documenteremo, viviamo in una Repubblica giudiziaria. Eppure a destra, almeno dalle parti di Silvio Berlusconi, è sistematico il richiamo al ruolo smisurato assunto dalla magistratura, alla quale la politica si arrende sistematicamente, anche dopo essersi proposta, come con Renzi appena approdato a Palazzo Chigi, di riprendersi il proprio "primato". Il fresco rinvio a dopo il referendum del 4 dicembre della riforma del processo penale dopo le proteste dell’associazione nazionale dei magistrati parla da solo. Non è soltanto la "società" ad essere diventata "giudiziaria", come ha lamentato l’ex presidente della Camera Luciano Violante commentando le recenti assoluzioni, nei tribunali, di troppi politici condannati invece nei processi mediatici avviati con gli avvisi di garanzia. Purtroppo è la Repubblica, con le istituzioni di vario livello, ad essere diventata giudiziaria, senza che la sinistra e la destra, alternatesi al governo o addirittura associatesi nelle cosiddette larghe intese, abbiano saputo o addirittura voluto porvi rimedio. Il primo passaggio dalla Repubblica parlamentare a quella giudiziaria risale al 1992, quando i magistrati di Milano impegnati nelle indagini sul finanziamento illegale dei partiti protestarono contro l’ipotesi di una commissione d’inchiesta parlamentare, appunto, su quel fenomeno generalizzato. Il Parlamento vi rinunciò, dopo avere indagato su tutto: dalle banane alla mafia, da Sindona alla P2, dalla costruzione dell’aeroporto di Fiumicino ai soccorsi nell’Irpinia terremotata. Il secondo passaggio lo indicherei nella decisione di Oscar Luigi Scalfaro, fresco di insediamento al Quirinale, sempre nel 1992, di estendere al capo della Procura della Repubblica di Milano le consultazioni per la formazione del primo governo dopo il rinnovo del Parlamento. Seguì l’anno dopo il rifiuto, sempre di Scalfaro, peraltro ex magistrato, di firmare un decreto legge approvato dal primo governo di Giuliano Amato, e contestato dal capo della Procura milanese, sempre lui, per la cosiddetta "uscita politica", e non solo giudiziaria, da Tangentopoli. Eppure quel decreto legge era stato varato in una lunghissima riunione del Consiglio dei Ministri, più volte interrotta per consultazioni fra gli uffici di Palazzo Chigi e del Quirinale sugli articoli via via esaminati. E sul provvedimento uscì la mattina dopo un commento positivo di Eugenio Scalfari, prima che arrivassero il pronunciamento della Procura ambrosiana e l’annuncio del rifiuto del capo dello Stato di firmare. Il 1993 fu anche l’anno della modifica a tamburo battente dell’articolo 68 della Costituzione per togliere dalle immunità parlamentari la richiesta delle "autorizzazioni a procedere" nelle indagini. Ma già degli indagati eccellenti come Giulio Andreotti, intimiditi dagli umori di quella che Violante chiamerebbe "la società giudiziaria", avevano votato a scrutinio palese a favore dei processi a loro carico. Su Bettino Craxi erano state già buttate monetine, accendini, ombrelli in piazza, e i ministri del Pds-ex Pci erano usciti dal governo di Carlo Azeglio Ciampi per protesta contro la Camera -ripeto, contro la Camera, e quindi contro il Parlamento- per avare concesso a scrutinio segreto non tutte ma solo alcune delle autorizzazioni a procedere chieste da varie Procure contro il leader socialista. Un cappio infine era già stato sventolato nell’aula di Montecitorio dai leghisti, che si sentivano gli interpreti più autentici delle toghe. La musica non migliorò, anzi peggiorò decisamente l’anno dopo col primo governo del pur garantista Silvio Berlusconi. Che esordì offrendo il Viminale ad Antonio Di Pietro, il magistrato simbolo allora delle indagini sui politici. Poi il Cavaliere si arrese ai leghisti, sempre loro, presenti nel suo governo col ministro dell’Interno Roberto Maroni e arresisi a loro volta alla protesta corale, con minacce di dimissioni, dei magistrati della Procura milanese, sempre loro, contro un decreto legge che limitava il ricorso alle manette durante le indagini preliminari. Eppure a quel decreto Scalfaro aveva fornito la propria firma senza fare storie. Ed erano seguite alcune scarcerazioni. Le proteste della Procura ambrosiana fecero scoprire a Maroni, pur avvocato, parti del provvedimento che aveva sottoscritto, per sua penosa ammissione, senza rendersene conto. Il decreto fu lasciato decadere, senza peraltro che Berlusconi riuscisse dopo pochi mesi ad evitare la caduta del suo governo per mano proprio della Lega sul terreno già allora scivoloso della riforma delle pensioni, anche se è ancora opinione diffusa che la causa della crisi fosse stata un avviso giudiziario a comparire per corruzione: avviso anticipato dal Corriere della Sera e notificato al presidente del Consiglio mentre faceva col sindaco di Napoli Antonio Bassolino, che ha rievocato recentemente la vicenda in una intervista a Il Dubbio, gli onori di casa ai partecipanti ad una conferenza delle Nazioni Unite sulla lotta alla criminalità organizzata. Per assistere a qualche serio, per quanto insufficiente, tentativo di liberare la Repubblica parlamentare dall’assedio giudiziario si sono dovuti aspettare gli anni di Giorgio Napolitano al Quirinale, dopo che la Procura di Palermo ne aveva clamorosamente violato la riservatezza garantitagli dalla Costituzione intercettandolo al telefono, sia pure "accidentalmente", con Nicola Macino, allora indagato e oggi imputato di falsa testimonianza nel processo in corso da più di tre anni sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Poi la Procura resistette alla richiesta di distruggere le intercettazioni, peraltro ritenute irrilevanti ai fini processuali dagli stessi inquirenti, senza passare per un’udienza che ne avrebbe potuto compromettere la segretezza. Il buon Napolitano, per non lasciare compromesse ai suoi successori - come tenne a spiegare con un comunicato- le prerogative del presidente della Repubblica, anch’esse minacciate da un esercizio invasivo delle funzioni giudiziarie, dovette clamorosamente ricorrere alla Corte Costituzionale. Che gli diede ragione. Ma una rondine, si sa, non fa primavera. Napolitano è ormai un presidente emerito. E il suo successore è già alle prese con l’ipotesi di rendere testimonianza pure lui a quello stesso processo, la cui sola durata è un’enormità. Il riscatto della Repubblica parlamentare dagli assedi giudiziari, altro che dai presunti assalti di Renzi, deve ancora venire. Non è un caso che il presidente del Consiglio abbia deciso di portarsi appresso alla Casa Bianca, per la cena di commiato dal presidente uscente degli Stati Uniti, anche il magistrato Raffaele Cantone, che come capo dell’Autorità anticorruzione è stato considerato fra le personalità più rappresentative dell’Italia, accanto a Roberto Benigni, Paolo Sorrentino, lo stilista Giorgio Armani la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, la campionessa paralimpica Bebe Vio, la direttrice del Cern di Ginevra, Fabiola Gianotti, e l’architetta Paola Antonelli, del Museo internazionale dell’arte moderna. Bologna: alla Dozza dove si vive tra topi, blatte, muffe e vecchie "bocche di lupo" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 ottobre 2016 Presenza di topi nelle sezioni, muffa, blatte che infestano le celle, sovraffollamento e reparti che andrebbero chiusi perché inidonei. È quanto illustrato dalla Garante dei detenuti del Comune di Bologna Elisabetta Laganà nella sua dettagliata relazione annuale del 2016 riguardante il carcere bolognese della Dozza. Nella relazione si evidenziano alcune criticità a seguito di un sopralluogo: le docce comuni della sezione 3A e D, con il soffitto scrostato e ammuffito; è stata segnalata dai detenuti la presenza di scarafaggi anche nelle celle, praticamente in tutte le sezioni; al 2° piano sezioni A, B e C D le docce presentano muffe; al 2° piano i pavimenti sono ancora da rifare, essendo ancora quelli originari di materiale poroso, così come necessiterebbe di ritinteggiatura il corridoio; al 1° piano sezione A le docce presentano muffe; nella sezione penale è stata chiusa la Cappella che aveva subito ingenti danni a causa del crollo di una parte del soffitto derivato dalle infiltrazioni dei locali degli agenti posti al piano superiore. Altro problema segnalato dai detenuti è la presenza delle cosiddette "bocche di lupo", collocate a protezione della finestra del corridoio del braccio B. La relazione, per spiegare questa criticità, fa riferimento all’interessante intervista "Quarant’anni da sorvegliante colloquio con Francesco Maisto a cura di Claudio Sarzotti" pubblicata nel XXII Rapporto Annuale di Antigone 2016 "Galere d’Italia" dove si fa cenno a questa obsolescente struttura che fu, in passato, oggetto di rivolte tra i detenuti. Esse sono, come viene riportato nell’intervista dell’ex magistrato di sorveglianza Maisto, "finestroni che non danno la possibilità di vedere dall’esterno, ma che consentivano solo il passaggio dell’aria e della luce. Proprio come la bocca aperta di un lupo. Riuscii a farle demolire tutte". Nel caso della sezione B penale del carcere bolognese esse impediscono all’aria di circolare, con conseguente aggravio, sia della temperatura nel periodo estivo, che per il ricambio necessario a causa del fumo di sigarette che circola nella sezione. La presenza di esse è stata oggetto di un recente reclamo collettivo al magistrato di Sorveglianza di Bologna dei detenuti ivi ospitati, inviata anche all’ufficio della garante. La relazione sottolinea che le "bocche di lupo" in molte carceri sono state completamente abolite. Altro problema segnalato riguarda la fornitura dell’acqua calda. Criticità che riguarda soprattutto i piani più elevati, in particolare al 3°, provocati dagli abituali problemi dell’impianto di riscaldamento dovuti alla suo deterioramento. Il problema del riscaldamento ed erogazione di acqua calda coinvolge solitamente anche il personale di Polizia penitenziaria. Il disagio patito è stato oggetto di un reclamo collettivo da parte dei detenuti, che oltre avere esposto la problematica all’ufficio della garante, hanno inviato formale reclamo collettivo al magistrato di Sorveglianza di Bologna. A seguito del protrarsi del disagio, anche le camere Penali di Bologna avevano rivolto una segnalazione alle istituzioni competenti chiedendo che la grave situazione fosse immediatamente superata, per il ripristino delle condizioni di detenzione nel rispetto dei principi espressi nella Costituzione e nella Convenzione europea per i diritti dell’uomo previste per il trattamento da garantire alle persone private della libertà personale. La garante Laganà spiega nella relazione che c’è un problema di risorse. Annota che a fronte di un consistente aumento della popolazione detenuta avvenuto negli ultimi anni, non vi è stata una conseguente risposta da parte dell’Amministrazione penitenziaria nel destinare fondi per la manutenzione degli istituti, alcuni dei quali realmente malmessi e obsolescenti. Per denunciare l’enorme divario tra la cifra necessaria e quella disponibile, nella relazione viene riportato un incontro pubblico durante il quale il Provveditore regionale Pietro Buffa ha affermato che per garantire una manutenzione negli istituti di pena italiani servirebbero 50 milioni di euro, mentre ce ne sono solo 4 a disposizione. La Garante non risparmia di denunciare anche il Reparto Osservazione Psichiatrica istituito nella sezione femminile nel febbraio 2016. Più volte ha sollecitato la chiusura perché "totalmente inadeguata alle gravi problematiche da cui le persone che la occupano sono affette". Spiega che tale reparto, in contrasto con il dettato normativo, si presenta come una qualsiasi sezione penitenziaria di piccole dimensioni. Situata in zona di accesso alla sezione femminile, è composta di due celle che affacciano su un corridoio ed è distante dall’infermeria. Per la peculiare collocazione del reparto, le detenute sono sorvegliate dal personale di Polizia penitenziaria che è assegnato alla sezione femminile. Non è dunque garantito, come invece espressamente richiesto dalla norma, che gli operatori professionali e volontari che vi svolgono attività siano selezionati e qualificati con particolare riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti ivi ospitati. Altro problema denunciato dalla relazione è riferito ai costi del cosiddetto "sopravvitto", cioè i generi alimentari e non che possono essere acquistati dai ristretti, in aggiunta al vitto somministrato dall’istituto, tramite elenchi dei generi a disposizione forniti da una ditta che stipula appalti regionali con gli istituti di pena del territorio. Chi gestisce il sopravvitto ? viene denunciato nella relazione annuale - è la stessa ditta che fornisce i pasti, in regime quindi di esclusiva. L’ufficio della Garante dei detenuti riceve segnalazioni riferite sia al vitto che al sopravvitto sia per la qualità che per i costi, che vengono segnalati come notevolmente più alti di quelli indicati nei normali supermercati. Per concludere non manca la denuncia del sovraffollamento (al momento della relazione erano presenti meno di 700 persone, che però ad oggi sono già salite a 737) che "oltre a comportare evidenti problemi di vivibilità e di privacy, è complicato dall’usanza di utilizzare il bagno della cella come deposito per gli alimenti". Roma: decesso di un detenuto, assolti gli agenti Il Messaggero, 19 ottobre 2016 La Cassazione ha respinto il ricorso del Procuratore della Corte di Appello di Roma contro il proscioglimento dei quattro poliziotti coinvolti, a diverso titolo, nella morte di un uomo di 43 anni arrestato per furto e morto il giorno dopo essere stato trattenuto nel commissariato di Anzio, dove venne arrestato l’8 settembre del 2008 per aver tentato un furto in un garage e aver picchiato il proprietario. È stato così confermato il verdetto assolutorio della Corte di Assise di Appello di Roma del 21 ottobre 2015, conforme alla decisione di primo grado della Corte di Assise di Frosinone del 4 ottobre 2013. Sia la Procura che i familiari di Brunetti hanno sempre sostenuto che l’uomo è morto per le percosse ricevute. Quando lo arrestarono diede in escandescenza e venne sedato, portato nel carcere di Velletri, il giorno dopo morì in ospedale. Torino: detenuto fa causa all’Asl, non fu curato nonostante i sintomi di un ictus di Sarah Martinenghi La Repubblica, 19 ottobre 2016 Così ha perso l’uso di un braccio, zoppica, e vive delle pensione di invalidità. Torino, detenuto fa causa all’Asl 2: non fu curato nonostante i sintomi di un ictusPer tre volte era andato in infermeria alle Vallette, lamentando malesseri che sarebbero stati però sottovalutati. Aveva un ictus, che l’ha reso invalido al 50 per cento, e per questo ora un detenuto fa causa all’Asl To 2 chiedendo i danni. Alfredo G., ex agente di commercio, torinese di 44 anni, era finito in carcere con l’accusa di stalking, nel dicembre del 2012, nei confronti della sua compagna. Qualche mese dopo aveva iniziato ad accusare dei formicolii alle mani e agli arti e anche delle paresi facciali che sparivano dopo alcuni minuti. Aveva chiesto di essere visitato per due volte, la prima il 13 febbraio 2013, la seconda cinque giorni dopo. Ma in entrambi casi era stato rispedito in cella, anche se nella sua documentazione sanitaria veniva segnalato che aveva avuto in passato un aneurisma celebrale. Un mese dopo, il 27 marzo, si era sentito male, tanto da essere trasportato d’urgenza al pronto soccorso. L’ictus gli ha provocato danni al lato sinistro del corpo: ora ha un braccio paralizzato, non riesce più a muovere una parte del viso, e zoppica da una gamba. Ha dovuto abbandonare il lavoro e vive dell’assegno di invalidità. Nel 2015 si era rivolto al Ministero della salute per chiedere aiuto, e gli era stato risposto di rivolgersi a un legale. Così ha fatto. Gli avvocati Renato Ambrosio e Gino Domenico Arnone dello studio Ambrosio & Commodo hanno citato in causa, davanti al tribunale civile di Torino, l’Asl To 2 responsabile del servizio sanitario del carcere: una semplice Tac, all’insorgere dei primi malesseri, secondo i legali avrebbe evidenziato il rischio altissimo di "ictus carotideo" che, avrebbe potuto essere prevenuto con una diagnosi precoce. Il tribunale di Torino ha fissato la prima udienza il 7 febbraio. Taranto: il carcere deve rieducare, ma questo non ha i presupposti di Elena Ricci corriereditaranto.it, 19 ottobre 2016 Gli agenti penitenziari chiedono il trasferimento, ma i motivi non sono le minacce. "Non si può lavorare così". La situazione della Casa Circondariale di Taranto non è delle migliori. Questo era un argomento già noto, e che ha ritrovato piena conferma nella visita di questa mattina presso il plesso penitenziario, da parte del segretario generale aggiunto del sindacato Osapp Pasquale Montesano, e del segretario provinciale Angelo Palazzo. Il numero di detenuti è sempre in costante aumento, le esigenze sono tantissime, e il numero di personale a disposizione è carente. L’organico a Taranto, è molto al di sotto, e questo è un fattore che influenza pesantemente la vita lavorativa degli agenti penitenziari. Come racconta Angelo Palazzo, molto spesso gli agenti sono costretti a gestire un intero piano di detenuti, completamente soli, e con turni di lavoro che da sei ore, passano a otto, anche nove ore. "Con questi ritmi lavorativi il personale molto spesso si ammala - spiega Palazzo - l’amministrazione talvolta non comprende che con ritmi del genere, giorno dopo giorno, ammalarsi è inevitabile". A tutto ciò, bisogna anche aggiungere l’età media degli agenti. A Taranto l’età del personale è molto alta, e da una stima, l’età media si aggirerebbe intorno ai 25 - 30 anni. L’unica fortuna, come sottolinea sempre Palazzo, è che il personale di Taranto ha un’ottima formazione. Essendo i detenuti di vario tipo, gli agenti hanno sviluppato ottime abilità e sanno come comportarsi in ogni situazione. Non basta però essere preparati, se si è in pochi. Questo è stato anche uno dei motivi, che di recente ha spinto oltre 40 agenti a chiedere il trasferimento. E a proposito di questo, Angelo Palazzo ci tiene a precisare che il trasferimento è stato chiesto perché gli agenti non accettano questa situazione lavorativa, e non perché sono pervenute minacce di morte. Qualche settimana fa, infatti, un quotidiano locale riportava notizie circa presunte minacce di morte nei confronti degli agenti, da parte dei detenuti. La notizia è stata smentita in conferenza stampa. "Noi abbiamo sempre e solo parlato di aggressioni fisiche, che sono documentate da referti medici, ma mai e poi mai abbiamo parlato di minacce. Abbiamo anche chiesto all’amministrazione penitenziaria se tali episodi si fossero verificati, e l’amministrazione ci ha rassicurati". Dunque, non le minacce, la questione è un’altra. Carenza di personale, turni più lunghi, età del personale. "A Taranto servono più agenti. Anche appena usciti dalle scuole, più giovani. E qui troverebbero una grande palestra, perché il nostro personale qualificato potrebbe insegnare loro come comportarsi in ogni situazione". Ma i problemi non sono finiti e non si limitano solo al personale. I mezzi sono obsoleti e pochi. Spesso le traduzioni dalla casa circondariale verso altri luoghi, si rendono difficili. Non ci sono spazi, e non ci sono mezzi che permettano alla casa circondariale di Taranto di assolvere a quello che in realtà è il suo compito: rieducare. "Rieducare. Questo dovrebbe fare un carcere. Ma quello di Taranto non ha i presupposti". Milano: rastrelli, erbacce e sudore. "L’Idroscalo dei carcerati" di Paolo Foschini Corriere della Sera, 19 ottobre 2016 Le storie dei dieci detenuti che nei prossimi sei mesi cureranno la manutenzione del verde. È il loro secondo giorno di lavoro: "Così ripaghiamo i nostri debiti e alo stesso tempo investiamo sul nostro futuro". Pasquino ha fatto 22 anni, gliene mancano quattro. Oggi sta tagliando i polloni sotto i platani dietro le tribune. Ce n’era bisogno, ormai era una foresta. Per lui e gli altri detenuti che nei prossimi sei mesi faranno la manutenzione del verde all’Idroscalo è il secondo giorno di lavoro. Rosario di anni ne ha 53, dodici li sta finendo di scontare e togliendosi i guanti fa la sintesi: "Di danni alla società ne ho fatti tanti, qui sento di far qualcosa di utile per ripagare il mio debito e allo stesso tempo investo sul mio futuro". Certe volte pare che basti poco. Era stato appena un mese fa quando il sindaco Beppe Sala, come vertice della Città metropolitana cui la Provincia ha lasciato in eredità (anche) l’Idroscalo, aveva detto sì all’impiego dei detenuti per rimetterne a posto le rive. Sparita la Provincia, il budget era andato così a zero che non c’erano più nemmeno i soldi per la manutenzione ordinaria. E l’esperimento dei cento detenuti all’Expo (parte dei quali poi reimpiegati anche a Experience) era "andato così bene che sarebbe assurdo non ripeterlo". Detto fatto, con il provveditore regionale delle carceri Luigi Pagano e il direttore del parco Alberto Di Cataldo si son parlati, hanno scritto, e da due giorni lui e gli altri son lì coi rastrelli in pugno. Dieci in tutto, uno da Opera e nove da Bollate. Tutti provengono dall’esperienza già fatta in Expo. "Bellissima anche quella - dice Adrian, arrivato dalla Romania nel 1994 - ma tutta un’altra cosa: là dovevano dare un servizio alle persone mentre qui dobbiamo fare delle cose, alla sera si deve vedere il risultato. E devo dire che già al secondo giorno è una bella sensazione". Il progetto non c’entra nulla col buonismo. Anche se tra i suoi ingredienti la generosità non manca: un misterioso signore, letto l’annuncio un mese fa, ha donato cinquemila euro al Provveditorato per l’acquisto delle attrezzature, chiedendo solo di restare anonimo. Intanto tra Città metropolitana e ministero della Giustizia è stato stilato un protocollo che definisce obiettivi, strumenti e percorso. Il ritrovo da Opera e Bollate è ogni mattina alle 8.20 in piazzale Dateo, arrivo all’Idroscalo e inizio del lavoro alle 9, doccia poco dopo le 13 in uno spogliatoio, quindi pranzo in una casina in legno della Città metropolitana ("Dopo gli ultimi mesi di street food sul cardo dell’ex Expo - dice Paolo - la differenza con un pasto vero si sente": a provvedere ogni giorno è il Comune di Segrate), infine ripartenza per gli istituti alle 15. Le cose di cui dovranno occuparsi sono tante come spiega per la Città metropolitana l’architetto Andrea Garavaglia: "Riportare all’ordine il verde nelle aree delle rive rimaste incolte negli ultimi due anni. Ma anche rimettere a posto le piccole cose, dalla panchina al muretto, bisognose di intervento. In futuro magari anche con funzioni di controllo agli ingressi. E più avanti si potrebbero inserire compiti di primo soccorso, aiuto a disabili e anziani, trasporto merci e materiali all’interno dell’area". Più i corsi per imparare a far questo e altro, forse la cosa più importante, tenuti dai volontari delle Giacche verdi. Un progetto nato per durare: oggi con questi detenuti, domani con altri. E volontari saranno anche loro, secondo una delle possibilità offerte dall’articolo 21 sul lavoro esterno dei detenuti, ma solo per il primo mese. Poi saranno pagati con i fondi della Borsa-lavoro. "Ma la cosa fondamentale - spiega Paolo - è sfruttare questa opportunità per imparare altre cose che non so: e giocarmela quando sarà fuori del tutto".Con la speranza, scritta nel protocollo, di un risultato triplo: opportunità per loro, e va bene; avere in parco pulito, e pure va bene: ma anche mostrare ai "normali", a quelli fuori, lo sbaglio di chi pensa che "cambiare è impossibile". E che per riuscirci, al contrario, la ricetta migliore non è necessariamente quella di buttare la chiave. Torino: il ristorante Liberamensa apre dietro le sbarre del carcere delle Vallette di Antonella Mariotti La Stampa, 19 ottobre 2016 L’iniziativa a Torino: si prenoterà due giorni la settimana. Gli spazi nuovi sono una fusione di quelli già esistenti, per rimarcare la rinascita della vita di chi è in carcere e cerca una nuova identità senza dimenticare il passato. Il cibo può rendere liberi. Almeno può liberare la mente, in attesa della fine pena e, magari, una volta fuori dalle Vallette, diventerai un cuoco, un panettiere, un pasticciere o metterai su un ristorante tutto tuo. Per adesso il ristorante lo gestisci all’interno del carcere delle Vallette, a Torino, due sere la settimana, facendo parte del gruppo di detenuti che lavora per la cooperativa Liberamensa: con le nuove assunzioni, 16 detenuti tra cuochi e personale di sala e altre attività della cooperativa. Come arrivare - Le Vallette si aprono così per due sere la settimana: venerdì e sabato. L’ingresso al ristorante è dalle 20 alle 20,30 e la prenotazione è obbligatoria: si dovrà lasciare non solo il proprio nome, ma anche il luogo e la data di nascita. È pur sempre un carcere. Nel quartiere più periferico di Torino, dove il carcere dava una connotazione di emarginazione, il ristorante diventa un luogo di partenza per nuove vite. "È un progetto al quale lavoriamo da otto anni, dalla nascita della cooperativa Ecosol, quando sono nati i servizi di catering, di gastronomia e anche un panificio", spiega Piero Parente, presidente della cooperativa Ecosol. Menù degustazione - Il menù sarà a degustazione e cambierà ogni tre settimane. Le materie prime sono a km più che zero: provengono dal panificio del carcere e dal vivaio (per esempio lo zafferano e le erbe aromatiche). E per la carne? "Abbiamo scelto alcuni produttori locali, come per la verdura", aggiunge Parente. "Liberamensa, ristorante in carcere" è stato disegnato, o, meglio, "ridisegnato", dagli architetti Andrea Marcante e Adelaide Testa (dello studio Uda), che hanno lavorato gratis. "Nulla di ciò che esisteva è stato rimosso - raccontano -. Le grate delle inferriate sono state punteggiate da vetri colorati di design e il pavimento in marmette, così come il perlinato alle pareti, ha trovato nuova dignità, alternandosi alle superfici di ceramica". Tavoli e sedie? Ricordano quelli delle vecchie scuole: "Sono nuovi - aggiungono dallo studio Uda -: lunghi tavoli a geometria variabile, che rendono possibili diverse combinazioni con sedute di ispirazione "scolastica", sotto imponenti lampadari in tubo metallico". Uno spazio che vuole rappresentare un percorso si fonde con quello che c’era per diventare "altro". "Un po’ come vorremmo che fosse la vita di chi ci lavora: da dentro a fuori, un giorno". Tutto è stato realizzato con fondi di sponsor di privati e della Compagnia di San Paolo. Piacenza: giornate "Piacenza e il carcere", incontri e premiazione del concorso letterario ilpiacenza.it, 19 ottobre 2016 Torna, nell’ambito del Piano di zona comunale per la città, documento finale di programmazione socio-sanitaria per il territorio urbano, l’appuntamento con le giornate di "Piacenza e il carcere". L’iniziativa, il cui coordinamento è stato affidato dall’Amministrazione comunale a Svep, in collaborazione con la casa circondariale di Piacenza e con le associazioni Oltre il Muro, Verso Itaca, La Ricerca e Caritas Diocesana, prevede tre incontri di sensibilizzazione aperti a tutta la cittadinanza. Il primo giovedì 20 ottobre, alle 10.30, quando il centro Il Samaritano di via Giordani 12 ospiterà il dibattito su "Stranieri e carcere: cultura, tempo, regole, responsabilità", con le testimonianze di don Adamo Afri, cappellano presso il carcere delle Novate, della mediatrice culturale nella struttura piacentina, Naima Serghini, di un detenuto in permesso e di Avoc, associazione di volontari che opera nella struttura penitenziaria de La Dozza a Bologna. Venerdì 21, dalle 10.30 alle 12, presso la sede dell’associazione Amici dell’Arte in via San Siro 13, si cercherà di rispondere all’interrogativo "Carcere: potenziarlo, abolirlo o modificarlo?", con la direttrice della casa circondariale di Piacenza Caterina Zurlo, il garante dei diritti delle persone private della libertà, Alberto Gromi e lo scrittore e sceneggiatore Lorenzo Calza. Sempre venerdì 21 ottobre, allo stesso orario, l’auditorium Santa Maria della Pace sarà teatro dell’incontro sul tema "Carcere e misure alternative, fra esigenza di sicurezza, prevenzione e reinserimento", con il dialogo tra il dirigente delle Volanti della Questura di Piacenza Michele Rana, il funzionario giuridico-pedagogico Patrizio Irsuti, in servizio presso il carcere delle Novate e un rappresentante dell’Ufficio di esecuzione penale esterna di Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Nel pomeriggio di venerdì 21, alle 17.30, presso il centro Il Samaritano si terrà, alla presenza delle autorità cittadine, la lettura pubblica della poesia e dei tre racconti vincitori del premio letterario "Parole oltre il muro - Stefania Manfroni", con l’accompagnamento musicale di Alessandro Colpani, Davide e Paolo Cignatta. Gli scritti finalisti saranno selezionati nello stesso pomeriggio, alle 16, quando presso la sede di Svep si riunirà la giuria, presieduta da Maria Elena Roffi della biblioteca Passerini Landi per la sezione Poesia e per la sezione Racconti da Paola Cigarini, referente della conferenza regionale Volontariato e Giustizia dell’Emilia Romagna, accanto alla quale saranno impegnate nella selezione dei testi alcune componenti del Soroptimist Club di Piacenza. I vincitori verranno poi proclamati venerdì alle 15, all’interno della casa circondariale. All’interno del Piano di zona, per i progetti che costituiscono il "programma per l’esecuzione penale", la Regione Emilia Romagna prevede che la definizione delle relative attività, finanziate con fondi regionali e comunali, si svolga all’interno del Comitato locale Esecuzione penale Adulti (Clepa), che riunisce periodicamente tutte le realtà territoriali impegnate sul tema, presieduto dall’assessore al Nuovo Welfare Stefano Cugini. Padova: Tv2000 presenta il docu-film "Mai dire mai" al carcere Due Palazzi farodiroma.it, 19 ottobre 2016 Il docu-film "Mai dire mai" di Andrea Salvadore, promosso da Tv2000 e diocesi di Padova, sarà proiettato in anteprima nazionale nel carcere "Due Palazzi" di Padova mercoledì 26 ottobre 2016 alle ore 9. Il documentario, presentato in occasione della 73a Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia, è un viaggio attraverso i volti e le storie di chi ha commesso un reato e non solo. Lorenzo, Meghi, Carlo, Armand Davide, Raffaele, Enrico, Chakib, Milva, Kasem, Guido sono dieci volti, storie di vita, ambiti familiari, universi. Dieci persone detenute (otto uomini e due donne) nel carcere "Due Palazzi" di Padova e alla "Giudecca" di Venezia. Le loro esperienze sono narrate in due puntate che saranno trasmesse da Tv2000 in seconda serata, il 6 e 13 novembre 2016, in occasione del Giubileo dei carcerati, nell’anno straordinario della Misericordia voluto da Papa Francesco. Alternano le narrazioni dei detenuti l’intervista al vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla, le esperienze dei cappellani del carcere di Padova, don Marco Pozza, e di Venezia, fra Nilo Trevisanato, il dialogo con i direttori delle case di reclusione Ottavio Casarano (Padova) e Gabriella Straffi (Venezia) e la voce di operatori di altre realtà che operano nelle due "case di pena". Una proposta importante, dirompente, coraggiosa, che senza sconti vuole raccontare umanità, errori e disperazione, dolori e pentimenti, luci e ombre, perdono e misericordia, riconoscere i fatti dando però spazio a speranze e possibilità a percorsi di giustizia riparativa. All’anteprima saranno presenti i detenuti del carcere ‘Due Palazzi’, il vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla, il direttore di Rete di Tv2000, Paolo Ruffini, il regista, Andrea Salvadore, il direttore della Casa di reclusione, Ottavio Casarano, e alcuni rappresentanti istituzionali locali e nazionali. "Mai dire mai" è stato realizzato con la collaborazione della redazione di "Ristretti Orizzonti" e il consorzio "Officina Giotto" e grazie alla disponibilità di: Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria; Corpo di polizia penitenziaria, Casa di reclusione "Due Palazzi" di Padova, Casa di reclusione femminile della Giudecca (Ve), Diocesi di Padova, Patriarcato di Venezia, cooperativa sociale "AltraCittà", Asd Polisportiva Pallalpiede, cooperativa sociale "Rio Terà dei Pensieri", associazione "Il granello di senape". Milano: "Il figliol prodigo", un musical a Opera con i detenuti di massima sicurezza di Fulvio Fulvi Avvenire, 19 ottobre 2016 Un musical in cui si trattano i temi della misericordia, della speranza e della famiglia. Uno spettacolo nel quale ci si interroga sul significato della vita attraverso alcune domande fondamentali: "Cosa cerchiamo? Perché sbagliamo? Perché rischiamo che nessuno più ci perdoni?". Il titolo dello show è "Il figliol prodigo", lo metteranno in scena tredici detenuti di "alta sicurezza" (soprattutto ergastolani) della Casa di reclusione di Milano Opera, il 26 ottobre, all’interno dell’istituto penitenziario che per l’occasione aprirà i cancelli a un pubblico esterno. Il musical è stato scritto in vista del Giubileo dei carcerati previsto a Roma il 6 novembre in presenza di papa Francesco. L’iniziativa, presentata nella sede del Consiglio regionale della Lombardia, fa parte di un progetto di formazione e inserimento lavorativo dei reclusi nel settore artistico nato nove anni fa a Opera, con il sostegno del Ministero della Giustizia, attraverso un laboratorio dove si insegna a recitare, ballare e cantare. Una sfida voluta dal direttore della struttura carceraria milanese, Giacinto Siciliano, che si è affidato all’esperienza dell’attrice, cantautrice e regista Isabella Biffi (in arte Isabeau) per mettere in pratica il principio che "il carcere, superando la logica della punizione, deve rendere visivo un messaggio prezioso: ogni persona è protagonista di se stessa e può cambiare la propria vita". Il lavoro dei detenuti attori è sempre attento, ha specificato Siciliano, alla qualità, "estetica, artistica ed umana". Finora la compagnia del laboratorio di Opera ha prodotto sette musical, con rappresentazioni a Milano, presso l’Auditorium Gaber del Grattacielo Pirelli, nello spazio spettacoli dell’Expo 2015 e al teatro Arcimboldi, ma anche al "mitico" Ariston di Sanremo. "Questo lavoro dei detenuti rappresenta un importante anticorpo rispetto a comportamenti deviati" ha sottolineato nel suo intervento il presidente del Consiglio regionale, Raffaele Cattaneo. Oltre a Siciliano, Cattaneo e Biffi, all’incontro erano presenti il presidente della Commissione Antimafia Gianantonio Girelli, il presidente della Commissione Carceri Fabio Fanetti e l’assessore regionale alle Culture, Identità e Autonomie Cristina Cappellini la quale ha precisato che "forse non tutti comprendono fino in fondo questo progetto il cui obiettivo è anche quello di mettere al centro valori positivi e di speranza per l’intera collettività". Il presidente delle associazioni "Casa della Memoria" e "Vittime di Piazza della Loggia" Mario Milani, sodalizi che hanno collaborato all’iniziativa, ha ricordato che "Il figliol prodigo" verrà rappresentato il 2 novembre anche a Brescia prima di intraprendere una tournée nei principali teatri italiani: "Uno degli scopi del il progetto di Opera - ha precisato Milani - è quello di recuperare una nuova umanità mettendo a confronto le rispettive sofferenze, dimostrare come anche l’arte e la cultura possono diventare uno strumento di lotta alla criminalità e che chiunque può migliorare se stesso regalando ad altri serenità e speranza". Pescara: "Il malato immaginario", in scena il laboratorio di teatro del carcere ilpescara.it, 19 ottobre 2016 Giovedì 20 ottobre doppio appuntamento con questo interessante spettacolo che si terrà al teatro comunale di Atri. Sul palcoscenico anche Nadia Rinaldi. Accanto a lei, dieci detenuti-attori. In prima linea l’associazione Voci di Dentro. "Il malato immaginario" del laboratorio di teatro della Casa circondariale di Pescara e della Onlus Voci di Dentro debutta al teatro comunale di Atri. La commedia, liberamente tratta dall’opera di Molière, andrà in scena giovedì 20 ottobre con un doppio appuntamento: il primo alle ore 10 per gli studenti dell’istituto di Istruzione superiore "A. Zoli", il secondo alle 17 a ingresso libero. Lo spettacolo è patrocinato dal Comune di Atri e vedrà la partecipazione straordinaria dell’attrice Nadia Rinaldi. Accanto a lei, dieci detenuti-attori che hanno frequentato il laboratorio di teatro del carcere di Pescara, diretta da Franco Pettinelli e tre volontari dell’associazione Voci di dentro, presieduta da Francesco Lo Piccolo, che da anni opera all’interno delle carceri dell’Abruzzo con laboratori di scrittura, fotografia, corsi di computer. La stessa dal 2014 porta avanti nel carcere di Pescara il progetto pilota La Città, grazie ai volontari e ai tirocinanti dell’università d’Annunzio. La regia de "Il malato immaginario" è di Helis Lucchesi. Lo spettacolo è stato già rappresentato nel teatro del carcere di Pescara e al Rettorato dell’Università d’Annunzio di Chieti, con la collaborazione del tribunale di sorveglianza e del personale di polizia penitenziaria. "Prigionieri dimenticati", di Katia Anedda. Quegli italiani nelle prigioni all’estero di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 ottobre 2016 Una donna da otto anni si batte per la tutela dei diritti umani dei nostri connazionali detenuti all’estero che non sono affatto pochi: 3.288 di cui 2.576 in attesa di giudizio. Si chiama Katia Anedda, ha 49 anni, e nel 2008 ha fondato l’associazione Prigionieri del Silenzio dopo che il suo ex convivente, Carlo Parlanti, è stato accusato di stupro e in seguito condannato a 9 anni di reclusione negli Usa. "Prima di allora - racconta - non mi ero mai sognata di fare una ricerca su Google con la chiave italiano detenuto all’estero, siamo il paese del diritto e la prigione ci sembra una cosa che non ci appartiene e quindi inconsciamente pensiamo: se è in prigione qualcosa ha fatto, sino a che la prigione non arriva nelle nostre vite" Ora questa donna pervicace ha scritto per Historica Edizioni un libro dal titolo "Prigionieri dimenticati" in cui racconta tredici storie di connazionali che, per leggerezza, per disperazione o per essere caduti nelle maglie intricate e spesso corrotte di sistemi legali esteri, vengono catapultati nell’inferno più nero, portandosi, spesso dietro, le loro famiglie che hanno solo la colpa di amarli. Anedda ci tiene a precisare che "non sono tutti innocenti i casi di cui parlo ma hanno subito uno stato di detenzione che va oltremisura e al di la dell’immaginario umano". I casi - C’è la vicenda del velista produttore televisivo trentino Enrico "Chico" Forti, condannato nel 2000 negli Usa per omicidio, che si è sempre proclamato innocente. In India due ragazzi, Angelo Falcone e Simone Nobili, sono stati in carcere tre anni, con l’accusa di traffico di stupefacenti, prima di essere assolti nel 2009. Avevano firmato un documento di autoaccusa in lingua hindi. Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, sospettati di essere due amanti diabolici, sono stati condannati all’ergastolo per il presunto omicidio di Francesco Montis, all’epoca il fidanzato di Elisabetta. Per la difesa, però, quest’ultimo sarebbe stato ucciso da un malore. Roberto Berardi, imprenditore di Latina, incarcerato in Guinea equatoriale è stato liberato il 9 luglio del 2015. Dal carcere aveva inviato le foto delle torture subite in prigione. L’assistenza legale - In molti paesi le prove vengono raccolte in modo ambiguo e gli interrogatori avvengono senza difensore. Sul suo sito la Farnesina specifica che il nostro apparato diplomatico si impegna a far visita ai detenuti e a fornire nominativi di avvocati locali, ma non a sostenere le spese legali (che possono costare centinaia di migliaia di euro). E così ci sono famiglie che si vendono la casa per aiutare i parenti reclusi all’estero. Colpevoli o innocenti che siano, i nostri connazionali avrebbero comunque tutti diritto a un giusto processo e in gran parte del pianeta questo è impossibile. Per non parlare delle condizioni carcerarie. I dati - Secondo gli ultimi dati dell’Annuario statistico 2016 del nostro ministero degli Esteri i reclusi sono 3.288. Di questi, 2.576 sono in attesa di giudizio, mentre solo 687 sono già stati condannati. L’Europa è il Continente con il maggior numero di casi (2.554, di cui 1.191 solo in Germania e 462 in Spagna), seguito dalle Americhe (461 di cui 77 in Brasile, 79 negli Stati Uniti, 60 in Perùe 48 in Venezuela). I reati più frequenti sono quelli legati alla droga. A Roma - L’opera sarà presentata a Roma dall’ambasciatore Giulio Terzi che ha scritto anche la prefazione e la moderazione di Pino Scaccia. L’appuntamento è per giovedì 20 ottobre alle ore 18,00 alla libreria Cultora in via Ferdinando Ughelli 39. "Voci del verbo andare", di Jenny Erpenbeck. Un professore in pensione scopre i migranti di Gianandrea Piccioli Il Manifesto, 19 ottobre 2016 "La Terra va diventando una fossa atroce per i deboli, i non aventi diritto. (…) Senza valore economico non vi è identità, né quindi riconoscimento, né quindi esenzione dal dominio e lo strazio esercitato dai forti sui deboli". Queste parole di Anna Maria Ortese (in "Corpo celeste") mi sono riecheggiate leggendo lo straordinario romanzo-documento di Jenny Erpenbeck, "Voci del verbo andare", Sellerio. Un professore di filologia classica, da poco in pensione, che vive nell’ex Berlino Est (è sempre vissuto lì e lì è rimasto anche dopo la caduta del Muro), solo (vedovo, abbandonato dall’amante), scopre "i migranti". Comincia a interessarsene, metodicamente, si fa raccontare le loro storie, le paragona alla sua vita passata e presente, sottolinea l’inesistenza (senza passato, senza futuro, senza niente) di persone, concrete e nello stesso tempo "invisibili". E le contraddizioni di regolamenti che li condannano inesorabilmente a una marginalità che poi viene loro rimproverata. La denuncia è implicita e nasce dal confronto tra uno dei "nostri" e "loro", vittime predestinate a essere l’Altro da noi. Nei loro occhi affiora la domanda in cui, secondo Simone Weil, si rivela la sacralità dell’uomo: "Perché mi fai del male?". Il tema è disturbante: la nostra quotidianità e la loro, raccontata senza paraocchi ideologici, ma ogni pagina sottende il silenzio, meglio: la scomparsa della politica. E con la scomparsa della politica il crollo morale di una società. Basta affiancare i personaggi del libro (in gran parte persone realmente esistenti) e le loro storie, alle pagine dei nostri quotidiani e dei loro supplementi pubblicitari, le settimane della moda, i cuochi, le rubriche di arredamento, ai discorsi di chi finge di governare (e magari ogni tanto ci crede davvero), alla bolla del post-Expo milanese o ai deliri sul ponte ndrangheta-mafia… Mondo vero e mondo inventato, decadenza dell’Impero e invasione dei "barbari", l’ incapacità di distinguere il bene dal male, la svendita di ogni traccia culturale, l’anestesia del sentimento, l’indifferenza… è il Satyricon, il ballo sul Titanic, la distopia realizzata. Ci gingilliamo pensando che la Storia ha già visto passaggi analoghi: la fine degli imperi, la transizione all’età moderna, "il mondo fuori dai cardini" di Amleto, le rivoluzioni. In fin dei conti stiamo vivendo il crollo del circolo devastante avviato pochi secoli fa: sfruttamento - produzione - profitto - consumo - sviluppo, ma questa volta dovremmo renderci conto che non si tratta solo di una fase nella storia dell’uomo, ma che siamo sull’orlo di una catastrofe planetaria. La sinistra pensante è disarmata, ridotta alla ripetitività impotente della denuncia e delle formule giuste ma che ci ricantiamo tra di noi, come pensionati ai giardinetti. Alberto Burgio, in un articolo "(Morte della politica", il manifesto, 14 settembre). Per evitarla, partire da noi senza vie di fuga, ha già detto l’essenziale. Ma interpreto quel "noi" del titolo non solo come un noi di sinistra ma come un "noi uomini di un mondo che si ribalta lasciando in prospettiva solo rovine". È difficile il discorso che cerco a tentoni di fare, a me stesso per primo, e a rischio di moralismo. Ma davvero penso che senza una rivoluzione etica, quella che utopisticamente chiude il romanzo della Erpenbeck, quella su cui ha perso la vita Berlinguer, quella su cui si intestardisce il dileggiato Bergoglio, non potremo essere "il sale della terra" o (è quasi la stessa cosa) quella che si chiamava l’avanguardia rivoluzionaria. Forse, in questo momento, servono più Hannah Arendt o Simone Weil che Karl Marx. E le "Piccole Persone" della Ortese possono dirci di più di molte perfette analisi progressiste e la riscoperta del limite, di cui parla Bodei in un recente libretto, più dell’enfasi palingenetica. Forse dobbiamo recuperare il pre-politico: non è vero che "tutto è politica", se Marx non avesse visto coi suoi occhi i guasti della rivoluzione industriale e presa su di sé la sorte delle sue vittime, probabilmente non avrebbe scritto "Il Capitale". Prima della politica vengono non il privato, o il ripiegamento su di sé, ma l’etica, la capacità di distinguere il giusto dall’ingiusto, di mettersi al posto degli altri. E la virtù che Andrea Bonomi in "Io e Mr Parky", Bompiani, chiama decency, cioè decoro, dignità, appropriatezza. Quindi il rispetto di sé e con esso l’esigenza della solidarietà, come insegna il protagonista della Erpenbeck. Il riconoscimento reciproco tra eguali. E soprattutto fare rete tra eguali. Forse la politica dovrebbe ricominciare umilmente da qui, a tessere queste reti, a creare "effervescenza sociale" (Duvignaud). Conosco giovani estranei a partiti o movimenti politici ma che, nella precarietà economica, fanno scelte di vita che interagiscono col sociale o con la protezione ambientale o si dedicano al volontariato. Sfuggono alle statistiche, sono irrelati tra loro, ma numerosi, sia nelle grandi città sia, e ancor più, nella provincia, la mitica provincia italiana, piena di iniziative, anche culturali. Però tutto ciò non riesce a organizzarsi in un sentire comune, ad avere un comune punto di riferimento. Le parole della politica, anche della nostra politica, persino il No al referendum, non coagulano più. Forse perché non sanno più creare nella società l’atmosfera morale che si era creata nell’Europa uscita dalla guerra. Libertà, progresso, convivenza civile: gusci vuoti. Ancora una volta un bisogno di etica prima che di politica. Ancora Simone Weil: "La visione della stella polare non dice mai al pescatore in quale direzione debba muovere, ma egli non avanzerà nella notte se non è in grado di riconoscerla". "Insegno tolleranza nelle scuole per mio figlio ucciso in strada" di Giusi Fasano Corriere della Sera, 19 ottobre 2016 La madre di Nicola, aggredito dai naziskin nel 2008 a Verona per una sigaretta. Rimasero lì per giorni, i bigliettini. Nel punto esatto di Verona in cui Nicola fu aggredito a pugni e calci, mani sconosciute avevano portato lettere, fiori, ritagli di poesie, citazioni, pensieri e saluti annotati su pezzetti di carta. La benedizione per le scuole - Sua madre Maria Annunciata ricorda che quando lui morì vide quei mucchietti di carta sulle pagine dei giornali "ma non me la sono sentita di andar lì, io e mio marito in quei giorni ci siamo sempre tenuti a distanza, stavo male al solo pensiero di avvicinarmi". Qualche settimana dopo suonarono alla sua porta Chiara e Rosa, due professoresse della città. "Siamo venute a portarle questo" si presentarono. E le offrirono la copia di un libro fotografico: avevano raccolto i foglietti lasciati nel vicoletto dell’aggressione, a poche centinaia di metri dall’Arena, e ne avevano fatto un libro, appunto. Volevano la benedizione di Maria Annunciata per usarlo con i ragazzi, nelle scuole. Ogni poesia, ogni citazione, ogni pensiero (anche i più duri contro chi aveva ucciso Nicola) sarebbe diventato uno spunto per discutere in classe di violenza e tolleranza, di giustizia e senso civico, di dolore e coraggio, compreso quello della rinascita. L’ostacolo del dolore - "Quel giorno io e mio marito abbiamo capito che era arrivato il momento di scegliere" ripensa adesso Maria Annunciata. "Potevamo chiuderci nel silenzio oppure cercare di trasformare tutto il nostro dolore in qualcosa di positivo". Hanno scelto l’opzione numero due. E lei, ex insegnante di lettere andata in pensione un paio d’anni prima, ha ricominciato la sua seconda vita con i ragazzi delle scuole. Come ai tempi in cui era prof ma stavolta con incontri, borse di studio, convegni, mostre, presentazione di libri, la realizzazione di un centro civico, giochi di ruolo per i più piccoli. Tutto in nome di suo figlio e di una lotta senza confine contro la sopraffazione. "La violenza è mancanza di rispetto" - Nella vita di Maria Annunciata adesso che ha settant’anni c’è tutto questo, c’è l’impegno con Prospettiva famiglia (rete di insegnanti di Verona e provincia) e c’è Isolina, associazione che si occupa delle donne vittime di violenza. "Perché la violenza", per dirla con le sue parole, "è sempre sopraffazione e mancanza di rispetto. Il mio Nicola era un ragazzo fantastico, positivo, guardava al futuro con fiducia. Non gli ho mai visto fare un solo gesto di prepotenza. Mai. Oggi penso che quello che sto facendo con i ragazzi faccia parte di un destino già scritto, lo stesso che aveva previsto la sua morte così tragica". Cinque giorni di agonia - Accadde la notte fra il 30 aprile e il primo maggio del 2008. Lui (cognome: Tommasoli) aveva 29 anni, nella vita faceva il grafico e quella volta chiacchierava con un gruppetto di amici vicino a Porta Leoni, nel centro storico di Verona. Dei ragazzi gli chiesero una sigaretta, lui rifiutò di offrirla e finì a botte. Nicola arrivò in ospedale in coma, morì dopo cinque giorni di agonia. Si seppe poi che gli autori del pestaggio erano cinque giovanissimi - naziskin, si disse in città - tutti legati agli ambienti dell’estrema destra e alla curva dell’Hellas Verona. Tre sono stati condannati in via definitiva, per gli altri due la Cassazione ha appena deciso che il processo è da rifare in appello. Di tutto questo Maria Annunciata non parla mai con i ragazzi che incontra. "Quello che a loro vorrei trasmettere - precisa - è la certezza che la violenza e la prevaricazione portano sempre e soltanto dolore a chi le subisce ma anche a chi le commette, che il rispetto dell’altro è l’unica via possibile per sperare in un mondo migliore". "Lui parla per me" - Ogni volta che pronuncia il nome di suo figlio la voce si spezza. "Mi dispiace ma questa reazione non riesco ancora a controllarla", quasi si scusa lei con dolcezza. "Mi fa sempre un certo effetto parlare di Nicola al passato, perché a me sembra di averlo ancora accanto, di vederlo nella sua stanza che ho lasciato così com’era. Ce l’ho vicino e per questo vado poco o niente al cimitero. È con me ogni volta che ho davanti i ragazzini delle scuole. È lui che parla al posto mio contro ogni forma di violenza, anche la più piccola". Capitano ogni tanto giorni particolarmente cupi, carichi più di altri di ricordi e tristezza. "Momenti bui", li definisce Maria Annunciata. Come quella volta che, molto tempo dopo l’aggressione, le capitò di passare davanti all’angolo in cui Nicola fu picchiato. "Ancora adesso non è facile..." sospira. Si allontanò da quel posto ripensando a quand’era bambina: "Io sono nata in via Leoni, quelli sono i luoghi della mia infanzia". Contenuti e responsabilità sui social che cambiano di Carlo Melzi d’Eril e Oreste Pollicino Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2016 Pare che in Irlanda - lo riferisce il Guardian - i social network siano preoccupati dai risarcimenti chiesti in seguito ad un fenomeno chiamato porn revenge. Si tratterebbe di procedimenti intentati da ex fidanzate (o fidanzati) per la pubblicazione on-line di foto o filmati con esplicite scene di sesso. Queste immagini, inizialmente realizzate con il consenso dei protagonisti ma destinate a visioni private, una volta mutati i rapporti, vengono diffuse per ripicca sul web. Spesso a questo scopo vengono utilizzate pagine aperte dei più noti social media, che ormai sono diventate il veicolo più veloce per far circolare ampiamente una notizia, se ha un qualche appeal o anche tratti puramente morbosi. Se aldilà della Manica questi procedimenti sembrano essere una minaccia concreta per i gestori delle piattaforme digitali, nel nostro Paese come stanno le cose? Anzitutto, va precisato che pubblicare scatti o video a carattere sessuale di cui si ha legittimo possesso, senza il consenso dei protagonisti, è una condotta illecita. Implica infatti la commissione se non altro di due delitti: diffamazione e illecito trattamento di dati personali. Il primo consiste nella offesa alla reputazione, il secondo nella diffusione senza consenso di dati sensibili non solo con l’intento di causare un danno ma causandolo davvero. La persona offesa, se vuole, può chiedere non solo la punizione del colpevole, ma anche i danni materiali e morali subiti. Ma chi può essere ritenuto responsabile e, dunque, chiamato a risarcirne il danno? Certamente la persona che ha reso di pubblico dominio il materiale. Attenzione: con ogni probabilità non soltanto chi per primo lo ha divulgato in rete, ma anche chi lo ha "rilanciato", contribuendo alla diffusione. È assai più difficile individuare una responsabilità in capo agli internet service provider (Isp) o a chi gestisce il social network. Su questo tema, fornisce qualche spunto il Dlgs 70/2003, che, in attuazione di una direttiva europea, ha disciplinato "alcuni aspetti giuridici dei servizi dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico". Questa disciplina, ormai ritenuta - in assenza di altre più specifiche - il punto di riferimento in materia, esclude una responsabilità del sito che si limita a ospitare contenuti, a meno che il sito stesso non abbia una diretta conoscenza della illiceità o eviti di adempiere a un ordine di cancellazione proveniente dalla pubblica autorità. Pare certo comunque che non esiste una regola che imponga agli Isp di attivarsi autonomamente per ricercare ed eliminare immagini o testi illeciti. Di più: tanto la direttiva europea prima richiamata quanto la legislazione nazionale di recepimento escludono categoricamente un obbligo di monitoraggio ex ante a carico dell’Isp. Il che è perfettamente comprensibile: un obbligo in tal senso stravolgerebbe non solo la natura dei provider, di fatto equiparandoli a chi fa attività editoriale su carta, ma anche, consequenzialmente, il loro modello di business. Con due aggravanti: interferenza non proporzionale sulla libertà di iniziativa economica e rischio concreto che il social network di turno, per evitare di essere chiamato a risponderne poi, finisca per effettuare una operazione in sostanza censoria, con buona pace per la protezione della libertà di espressione degli utenti. Il vero problema sembra quello di capire se oggi chi ospita in rete contenuti generati da terzi non abbia davvero alcun controllo su tali contenuti. Non dimentichiamoci che le esenzioni di responsabilità cui prima si è fatto riferimento sono state in primo luogo pensate per provider assai meno tecnologicamente evoluti rispetto a quelli che oggi caratterizzano il mercato e, in secondo luogo, che esse non si applicano nel caso in cui gli stessi Isp esercitino un controllo effettivo sui contenuti ospitati. Nessun dubbio che i providers di oggi facciano "qualcosa in più" rispetto a quelli di sedici anni fa (che nell’era dei bit corrisponde a quasi un secolo). La domanda rilevante è se questo "qualcosa in più" sia tale e tanto da far cambiare loro mestiere e quindi regime di (ir)responsabilità. Migranti. Milano mette un limite ai profughi, in stazione Centrale 500 posti di Simone Gorla La Stampa, 19 ottobre 2016 Il Comune: l’hub chiuderà la sera appena raggiunta la quota. Porte aperte, ma non per tutti e solo finché si può. Alla stazione Centrale di Milano la svolta nell’accoglienza migranti è arrivata dopo l’ennesimo record di presenze. Oltre 700 persone accolte in locali pensati per contenerne 150, duemila pasti al giorno distribuiti. E l’azienda sanitaria territoriale che ha denunciato una situazione igienica insostenibile. Nell’hub di via Sammartini, il cuore della rete dell’ospitalità milanese, la capienza era già stata aumentata fino al limite, e oltre, per arrivare a 500 posti. Ora chiuderà i battenti, di sera, una volta raggiunta questa soglia. A costo di lasciare fuori qualcuno. L’indicazione è arrivata ieri dall’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino. Una decisione sofferta, che ha portato a tensioni con l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera, che avrebbe voluto un più netto ritorno ai 150 ospiti previsti in origine. Presa anche per dare un segnale, dopo mesi di allarmi e richieste di aiuto rimaste inascoltate. "Semplicemente non abbiamo più posto, a Milano sono presenti 3800 profughi - spiega Majorino - quindi chiediamo un immediato intervento della Prefettura perché siano spostate alcune centinaia di richiedenti asilo". Lo spazio a pochi passi dalla stazione, nato come luogo registrazione e smistamento, è stato via via ampliato fino a diventare un dormitorio. Con l’ondata degli ultimi 11 mila sbarcati in Sicilia, l’affollamento è da giorni oltre la soglia di guardia. Qualcuno ha già preferito affrontare il freddo e dormire in strada, pur di evitare un ambiente dove l’aria è irrespirabile e le brandine occupano ogni centimetro libero. Per l’azienda sanitaria territoriale non è possibile al momento verificare con certezza la presenza di malattie infettive. "Meno persone stanno all’hub e meglio stanno tutti - fanno sapere dal Comune - stiamo cercando di ridurre il numero, ma gli arrivi non si fermano". Alla stazione Centrale una situazione così critica non si era mai verificata, nemmeno con l’esodo in massa dei siriani nel 2015. Allora passavano per Milano soprattutto i transitanti, che subito proseguivano verso Nord. Da qualche mese, le frontiere sigillate e i muri innalzati in tutta Europa hanno cambiato le cose. I migranti sono costretti a fermarsi per lunghi periodi, e spesso decidono di chiedere asilo in Italia. Così la rete milanese è al collasso e l’hub, da centro operativo, si è trasformato in un imbuto per le centinaia di persone che non trovano altro riparo. Tra gli operatori la speranza resta quella di non lasciare nessuno in strada, ma la direzione è chiara: ridurre in tutti i modi il sovraffollamento, prima che la situazione rischi di andare fuori controllo. Droghe. Venerdì sarò processata ma.. continuo a coltivare cannabis di Rita Bernardini Il Bubbio, 19 ottobre 2016 Il prossimo 21 ottobre, difesa dall’avvocato del Partito Radicale Giuseppe Rossodivita, sarò processata a Siena per la disobbedienza civile che feci con Marco Pannella e Laura Arconti (novantenne, dirigente storica radicale) al congresso di Radicali italiani del 2014. Ricordo che la cessione del frutto della coltivazione di cannabis che avevo fatto sul mio terrazzo, era destinata ai malati i quali, nonostante la legge che data quasi 10 anni, non riuscivano (e non riescono ancora oggi, basti leggersi la vicenda di Fabrizio Pellegrini) ad accedere al Bedrocan e agli altri farmaci a base di cannabinoidi che possono curare malattie come la sclerosi multipla, la SLA, il glaucoma, il morbo di Crohn, la fibromialgia, il dolore farmacoresistente, oltre che alleviare le sofferenze di chi è costretto a ricorrere alla chemioterapia o di chi è affetto dall’AIDS. La polizia, intervenuta, sequestrò tutto il "raccolto", anche se io spero che, nella concitazione del momento, qualche "fiore" sia finito nelle tasche di qualche congressista. Di qui, il processo di primo grado che venerdì giunge dunque alla fine dopo altre udienze nel corso delle quali ho avuto l’onore di ascoltare i miei testimoni (anche quelli dell’accusa li considero "miei") che non solo hanno raccontato i fatti per essere stati presenti alla disobbedienza, ma si sono addirittura autoaccusati, come ha fatto Laura Arconti che ha dovuto nominarsi, seduta stante, un avvocato d’ufficio. Maurizio Buzzegoli (dirigente dell’Associazione Radicale di Firenze Andrea Tamburi), chiamato a testimoniare dall’accusa, ha confermato i fatti ricordando come preventivamente avesse avvisato telefonicamente le Forze dell’ordine. Andrea Trisciuoglio (leader del Cannabis Social Club LapianTiamo) e Valentina Piattelli (militante radicale fiorentina), ambedue affetti da sclerosi multipla, hanno descritto con precisione il calvario che devono sopportare i malati per accedere ai farmaci. Inoltre, come difficilmente accade in questo tipo di processi, la "scienza" ha potuto parlare in un aula di Tribunale attraverso le testimonianze del Prof. Diego Centonze (Professore Ordinario di Neurologia, Università di Roma - Tor Vergata) e del Prof. Vidmer Scajoli (Dirigente di Neurofisiopatologia UO presso Istituto Besta, Milano). I due professori hanno spiegato dal punto di vista scientifico quali sono le proprietà terapeutiche della cannabis ma anche le difficoltà tutte italiane per accedere ai farmaci e per fare ricerca. Venerdì prossimo, l’avvocato Giuseppe Rossodivita, proporrà l’eccezione di costituzionalità della legge 309/90 sugli stupefacenti, nella parte in cui la cessione "a qualsiasi titolo" - e quindi anche quando è destinata per esempio all’uso terapeutico - è considerata reato. Da parte mia, dopo quella oggetto del processo di Siena, di coltivazioni ne ho fatte altre. L’ultima è in corso: in questo momento sul terrazzo della mia abitazione prosperano ben 19 piante, alcune delle quali alte oltre due metri e mezzo, come da me documentato costantemente sul mio profilo Facebook. Di questa ennesima violazione della legge, il 21 agosto scorso, ho dettagliatamente informato con una lettera aperta il Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone, il quale però si è ben guardato di procedere come quotidianamente accade nei confronti di centinaia di incolpevoli coltivatori di cannabis per uso personale denunciati, ammanettati, processati, reclusi. Il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale continua ad essere un’arma attraverso la quale le Procure si scelgono i processi da celebrare e quelli da lasciar morire sulla strada della prescrizione. "Giornata europea anti-tratta", la Regione Lazio promuove rete contro sfruttamento l’agone.it, 19 ottobre 2016 In occasione della decima Giornata europea contro la tratta di esseri umani, che si celebra oggi in tutti i Paesi dell’Ue, La Regione Lazio si schiera accanto a chi ancora oggi viene ridotto in schiavitù per lo sfruttamento sessuale, lavorativo, per l’accattonaggio e per le attività illegali. Nasce la "Rete antitratta Lazio", un progetto per l’emersione, l’assistenza e l’integrazione sociale delle persone vittime di tratta che vede la Regione Lazio come ente capofila e che coinvolge come enti attuatori 12 associazioni impegnate sul territorio: Ain Karim, Arci, Be Free, Casa dei Diritti Sociali Focus, Cooperativa Roma Solidarietà, Differenza Donna, Il Cammino, Il Fiore del Deserto, Karibu, Magliana ‘80, Ora d’aria e Parsec. Come spiega Rita Visini, assessore alle Politiche sociali, sport e sicurezza, "secondo il Global Slavery Index nel mondo ci sono 46 milioni di persone che subiscono forme moderne di schiavitù, di cui quasi 130mila in Italia: sono soprattutto prostitute, ma anche lavoratori agricoli, manovali, ambulanti e molti bambini impiegati per l’accattonaggio". Per Visini "sono numeri enormi davanti ai quali la Regione Lazio ha scelto di non rimanere con le mani in mano: il nostro progetto punta a mettere in rete il sistema regionale dei servizi sociali con il Terzo settore e a creare un modello di governance degli interventi anti-tratta per liberare dallo sfruttamento quante più persone possibile, puntando sui percorsi di autonomia". Il progetto è stato finanziato con 1,3 milioni di euro dal Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il lavoro durerà 18 mesi e procederà in tre fasi: l’attivazione di una rete territoriale di ascolto e consulenza (unità di contatto, sportelli, promozione del numero verde antitratta 800.290.290); la presa in carico e la prima assistenza alle persone, attraverso l’accoglienza in strutture residenziali e un periodo di formazione e di orientamento al lavoro; i progetti di inclusione sociale, lavorativa e abitativa, con l’obiettivo di restituire autonomia alle persone. La Rete antitratta Lazio si occuperà anche della formazione degli operatori sociali e di pubblica sicurezza impegnati nel contrasto alla tratta (personale delle strutture di accoglienza dei migranti, commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, forze dell’ordine) e promuoverà iniziative di sensibilizzazione e prevenzione presso scuole, pronto soccorso, Asl, carceri e ispettorati del lavoro. Iraq. La battaglia per Mosul: in prima linea con gli uomini che combattono Isis di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 19 ottobre 2016 A pochi chilometri dagli uomini del Califfato: il racconto dal fronte. Ritirandosi, l’Isis lascia terra bruciata. Dà fuoco ai campi di sterpaglia secca, facili da accendere, come ben sanno i contadini abituati a lavorare d’autunno. Incendia abitazioni, fattorie, distributori di benzina e piccoli carretti carichi di taniche di carburante sparsi nella campagna. Colonne di fumo nero si librano nel cielo. L’orizzonte è offuscato, l’aria inquinata, si aggiunge sporco allo sporco. "Il fumo li nasconde ai droni e agli elicotteri della coalizione alleata. Sotto la sua protezione i jihadisti del Califfato piazzano le cariche esplosive, le mine anti-uomo, nascondono dietro i muri le loro auto kamikaze pronte lanciarsi contro le nostre colonne", dicono i soldati peshmerga (i battaglioni curdi nell’Iraq settentrionale), legandosi fazzoletti scuri attorno al viso. In alto sfrecciano i jet della coalizione guidata dagli americani, con una forte partecipazione canadese. A terra lo sferragliare dei tank, i tremolii del suolo al loro passaggio, l’eco di esplosioni e raffiche. Ma è proprio tutto questo fumo a falsare le percezioni e rendere più drammatico lo scenario di guerra, molto più di quanto non sia in realtà. Rumori, la polvere sollevata dai gipponi sui tratturi bonificati dalle mine, la linea del fronte muta di ora in ora. "L’offensiva per liberare Mosul è cominciata lunedì all’alba. Sono trascorse poco più di 24 ore. E noi siamo avanzati per una quindicina di chilometri. Ma non ci facciamo illusioni. Sino ad ora sono state solo scaramucce. Le vittime appaiono relativamente poche. Gli uomini di Isis agiscono con tattiche da pura guerriglia, si muovono veloci in gruppetti di tre o quattro, colpiscono e scappano. Non ci sono scontri frontali, solo rapide imboscate di un nemico elusivo. Il peggio deve ancora venire. Sarà nella cerchia urbana, nella lotta strada per strada, casa per casa, che si determinerà davvero la battaglia per Mosul", ci spiegava ieri a mezzogiorno il 32enne Harar Salar, capitano della Quarta brigata delle unità Zerevan, posizionata su di una collinetta dominante il villaggio di Tarjallah. Mosul è circa 18 chilometri più avanti. Meno di 60 alle nostre spalle si trova Erbil. Per arrivare alle prime linee abbiamo attraversato un effimero ponticello di fortuna sul fiume Zab, costruito sulle rovine di quello distrutto nel 2014. Sono regioni ben conosciute. Nel giugno di due anni fa furono il teatro della sconfitta catastrofica dell’esercito regolare iracheno. Uno sbandamento epocale. Lo stupore del mondo per eventi che sembravano cronache di orrori medioevali: donne e bambini rapiti, decapitazioni seriali, prigionieri massacrati nel deserto, ragazze yazide vendute al mercato delle schiave sessuali, cristiani costretti alla conversione con la forza oppure a pagare una tassa in vigore secoli e secoli fa, chiese bruciate, musei e siti archeologici devastati. Su questa stessa strada avevamo assistito alla fuga di un’umanità violata e impotente di fronte alle brutalità dei radicali islamici. A fine giugno Abu Bakr al Baghdadi si auto-proclamò "Califfo" proprio nella moschea centrale di Mosul. Pareva invincibile. Ora non più. Se un elemento netto si può cogliere tra le colonne che dalle zone curde attaccano Mosul è il senso di baldanzosa rivalsa. Oggi si avanza, i giorni dell’Isis sono contati, presto la capitale irachena del Califfato sarà conquistata. C’è stato ovviamente un riarmo generale. I Peshmerga parlano con entusiasmo del "Milan", un missile anticarro tedesco che pare sia in grado di colpire con precisione e distruggere le auto-bomba. Il 24enne Alì Abdelrahman racconta dell’"ottimo lavoro" degli istruttori militari della Nato che lo hanno seguito negli ultimi mesi. E specialmente di "Roberto", un ufficiale italiano che ha insegnato a lui e alla sua unità le strategie anti-guerriglia. L’incertezza prevale piuttosto sul dopo. "Nessuno sa bene cosa avverrà della maggioranza sunnita della popolazione di Mosul. Quanti di loro stavano davvero con l’Isis? Quanti ne sono invece ostaggi o collaboratori riluttanti? In verità non lo sappiamo e tutto ciò costituisce una gigantesca ipoteca politica", ci dice una vecchia conoscenza tra i diplomatici occidentali che da anni lavorano a Erbil. Si ipotizza oltre un milione di profughi. Vengono allestititi campi di tende. Il fatto che siano solo poche migliaia sino a ora è così spiegato: l’Isis minaccia di uccidere chiunque cerchi di fuggire. Propaganda e classica confusione delle notizie in guerra vanno a braccetto. Sostiene in modo sorprendentemente diretto Ahmed Meithan, sergente 26enne della Al Furqa al Dhabbiah, traducibile come "L’Unità Dorata", il fior fiore delle forze speciali irachene, mandate specificamente dai comandi di Bagdad per mettersi alla testa delle colonne che prenderanno il centro della città. "Sono oltre tre mesi che ci addestriamo per questo compito. Abbiamo unità simili alla nostra anche a sud e ad est. Militari curdi, milizie sunnite e soprattutto milizie sciite dovranno evitare di entrare nel cuore di Mosul. Lo faremo invece noi, che siamo soldati iracheni, sciiti o sunniti non importa, abbiamo ordini precisi per risparmiare la popolazione ed evitare scontri settari", spiega Meithan. Con un’aggiunta: "Al momento il nostro attacco a tenaglia mira a guadagnare territorio e isolare Mosul. In meno di due giorni abbiamo liberato una ventina di villaggi, molti dei quali curdi. Ci stiamo avvicinando a quelli cristiani. Ma, una volta dentro Mosul città, la sfida sarà più politica che militare. Dovremo guadagnarci la fiducia della popolazione. E sarà molto complicato. Ci sono partiti, minoranze, interessi diversi ed opposti in gioco". Un esempio di tale complessità? L’ex governatore di Mosul, Atheel Al-Nugiafi, che pure tanti accusano di essersi arreso troppo velocemente nel 2014, grazie all’aiuto della Turchia - che ha posizionato circa 2.000 soldati nel villaggio turcomanno di Bashiqa poco più a nord di qui - ha ora creato una milizia sunnita forte di oltre 4.500 uomini. Si chiama "Hashal Watani" (Mobilitazione nazionale). I Peshmerga l’hanno accettata di buon grado come alleata. Ma per il governo di Bagdad è da considerarsi illegale e una violazione della sovranità irachena. Alcune unità della Brigata Dorata fanno da avanguardie alle colonne ferme al bivio di Karamlesh, presso i grandi villaggi cristiani di Bartalla e Hamdanniya, ancora nelle mani di Isis. I suoi combattenti appaiono disciplinati. Divise nere, ben equipaggiati. Il meglio degli oltre 30.000 uomini in armi impegnati nella regione. A differenza del passato, per esempio nelle battaglie contro i quartieri sunniti di Bagdad, o quelle per Tikrit e Falluja nell’ultimo anno, quando si era assistito a saccheggi ed esecuzioni sommarie. In molti casi la sfida contro Isis aveva finito per rivelarsi un boomerang, portando nuovi simpatizzanti alla causa dei jihadisti sunniti. Oggi invece i soldati attendono ordini al riparo dei gipponi. Tra loro si coordinano via radio e con i telefoni portatili. La devastazione nei villaggi però appare disarmante. Tante abitazioni ridotte in macerie, linee elettriche interrotte, canali dell’irrigazione trasformati in trincee e fortilizi, strade bloccate dai crateri. Occorre fare attenzione alle cantine, spesso sono collegate tra loro da tunnel, potrebbero ancora nascondere kamikaze. Le unità peshmerga assieme a quelle regolari arrivate dalla capitale entrano con lenta circospezione. Le mine-trappola sono la minaccia più continua. Noi stessi ne abbiamo viste a decine sui cigli della carrozzabile. Nessuno si avventura sui tratturi non asfaltati senza prima aver ben controllato. Non si vedono civili. Le vie sono deserte, le abitazioni abbandonate, negozi e uffici sbarrati.