Riforma del processo penale a rischio, i verdiniani non la votano di Errico Novi Il Dubbio, 18 ottobre 2016 A Palazzo Madama sembra di trovare una perfetta proiezione parlamentare del concetto di Balcani. Una maggioranza vera non c’è, o meglio c’è solo quando alcune piccole componenti vogliono si manifesti. La golden share è nelle mani di un gruppo, quello di Ala, e in materia di giustizia di un senatore in particolare, Ciro Falanga. Che si definisce così: "Un indisciplinato". Traduce lui stesso: "Do voto favorevole solo ai provvedimenti che mi convincono. Il decreto che proroga il trattenimento in servizio per i vertici della Cassazione mi convince". Altri meno: per esempio il ddl che riforma il processo penale. "Capisco di poter dare sui nervi", prosegue Falanga, "io avevo pure provato a suggerire vie d’uscita, per la riforma del processo, ma con quelle norme che allungano a dismisura la prescrizione non me la sento: voterò contro l’intero ddl". Ecco, nelle dichiarazioni del senatore di Ala, raccolte dal Dubbio in una pausa dei lavori in commissione Giustizia, sembrerebbe esserci il futuro prossimo di Palazzo Madama. Via libera al decreto Cassazione, da domani o, se si corre, da oggi pomeriggio in Aula, ma rinvio che pare sempre più inevitabile per la riforma penale. Dovrebbe essere così. Dovrebbe. Perché il provvedimento d’urgenza che ritarda il congedo per i direttivi delle Alte Corti (Cassazione ma anche Consiglio di stato, Corte dei Conti e Avvocatura dello Stato) procede verso l’Aula gravato da un pregiudizio enorme: il parere "critico" della commissione Affari costituzionali. Un caveat arrivato la scorsa settimana all’unanimità e messo per iscritto da Doris Lo Moro, senatrice dem e magistrato calabrese. Vi si leggono considerazioni diametralmente opposte a quelle uscite due settimane fa dalla Affari costituzionali di Montecitorio, che aveva promosso il decreto. La commissione presieduta da Anna Finnocchiaro ha curiosamente raggiunto conclusioni diverse. Con un documento, pur non ostativo, che segnala "discriminazioni arbitrarie e ingiustificate" per i numerosi magistrati che non beneficeranno della proroga nonostante rientrino nella stessa fascia d’età dei destinatari. Tra questi ultimi, presidente e pg di Cassazione, Giovanni Canzio e Pasquale Ciccolo. Incidente misterioso. Perché una cosa è certa: il premier segretario Renzi tiene molto al provvedimento, ancor più del guardasigilli Orlando. Ed è incomprensibile, almeno a un primo sguardo, l’autogol in cui è inciampato il Pd con quei dubbi insinuati da Lo Moro. Appena il testo lascerà la commissione Giustizia e approderà di filato in Aula, andrà subito ai voti una pregiudiziale di costituzionalità dei Cinque Stelle. E poter dire che a vacillare sulla costituzionalità del decreto è proprio il partito di maggioranza, sarà un ottimo punto a favore dei grillini. Stranezze da fine corsa per un’istituzione che la riforma costituzionale dovrebbe di fatto archiviare. Stranezze legate anche al referendum che su quella riforma apporrà il sigillo: è come se il Pd si fosse precostituito l’alibi per un eventuale no dell’Aula al decreto. L’ipotesi non può essere del tutto esclusa. Anche se il sì del senatore Falanga è un balsamo. "Poco fa in commissione ho fatto notare che insieme ai profili di criticità il provvedimento sulla Cassazione ne ha altri positivi. E che, in sintesi, la specificità delle figure a cui è destinata la proroga corrisponde a una circostanza eccezionale qual è l’eccessivo carico sofferto dalla Suprema corte. Eccezionalità", spiega Falanga, "che a me sembra fare agio sugli elementi di non non certissima costituzionalità". Il parlamentare campano conferma di essere un punto di riferimento, in materia di giustizia, tra i senatori del gruppo di Denis Verdini: "In genere condividono le mie posizioni e accolgono i miei giudizi. Riguardo alla riforma penale la mia idea è chiara: con la prescrizione così come definita nel testo attuale non me la sento di dire sì. Né alla norma sui tempi del processo né al ddl nel suo insieme". E così faranno, probabilmente, gli altri 17 senatori della decisiva pattuglia verdiniana. Il destino al Senato sembra già scritto. E in particolare quello del decreto Cassazione pare protetto dalla sottile, rivelatrice astuzia prognostica di Falanga: "Sì, può darsi pure che i magistrati esclusi impugnino l’articolo 5 del decreto, quello che proroga i pensionamenti per la Cassazione: ma i giudici costituzionali si pronuncerebbero quando i pochi destinatari avranno già trascorso in servizio il loro anno in più. Perché mai dovremmo temere che questa proroga salti?...". Ermini, Responsabile Giustizia Pd: "niente pena sospesa per crimini odiosi" di Sabrina Pignedoli Il Giorno, 18 ottobre 2016 "Per i reati particolarmente odiosi verso le persone, come certe truffe ai danni degli anziani, dovrebbe essere vietata l’applicabilità della sospensione condizionale della pena". David Ermini, deputato e responsabile giustizia del Pd, crede che per le truffe ai danni di anziani sia necessario inasprire le sanzioni rispetto al testo di legge attuale? "Il reato di truffa andrebbe completamente aggiornato, anche perché attualmente vengono messi a segno raggiri che hanno un valore economico davvero notevole e sarebbe necessario rendere le sanzioni proporzionate, come è avvenuto per la corruzione. Per i reati commessi nei confronti degli anziani c’è già l’aggravante comune dell’aver profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa". Si tratta di un’aggravante che non si applica automaticamente, visto che non sono indicati limiti specifici di età? "Esatto, è il giudice che deve valutarne la sussistenza caso per caso. E non credo sia corretto indicare un limite anagrafico, perché anche i giovani possono essere persone deboli. Diciamo che riformando la legge sul reato di truffa, si può inserire un’aggravante specifica sugli anziani". Gli anziani spesso sono soggetti deboli non solo per i reati di truffa. "Ne abbiamo tenuto conto anche nella nuova disciplina sulla non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Infatti, non possono essere considerati reati di tenue gravità quelli commessi nei confronti di soggetti con minorata difesa". A Milano i magistrati per fermare una banda di rom dedita alle truffe agli anziani contestano l’associazione per delinquere per poterli arrestare. Crede che sia un buon metodo, da ripetersi? "Assolutamente sì. È giusto se ci sono gli estremi, cioè se si dimostra che il fine del gruppo era proprio quello di mettere a segno questi odiosi reati. Non è però la prima volta che il 416 viene contestato, è avvenuto per casi analoghi". C’è anche il problema della certezza della pena. I truffatori sono professionisti del raggiro, ma nella maggior parte dei casi non fanno un giorno di carcere, per la sospensione condizionale o per la prescrizione. "Questo è un problema: le pene previste per la truffa sono basse, per cui l’arresto scatta solo in pochi casi. Ovviamente non si può pensare di prevedere 5 anni di pena per chi ha messo in atto un raggiro da 300 euro. Anche se credo che le sanzioni dovrebbero essere maggiormente proporzionate al danno arrecato alla vittima: se il malvivente porta via a un’anziana la pensione di 500 euro che è l’unica sua risorsa è giusto che venga punito più severamente". Per reati che destano forte allarme sociale come questi, com’è possibile essere certi che alla fine di un processo, con condanna definitiva, il malvivente sconti la pena? "Nel caso di reati particolarmente odiosi, come quelli nei confronti di anziani o di persone deboli, non dovrebbe esserci la sospensione della pena. Anche se so già che questa mia proposta solleverà polemiche tra i giuristi. Ma non è solo per una questione di giusta sanzione; è anche un segnale". Che in Italia non si rimane impuniti? "Mio figlio ha comprato una telecamera su internet, ma nel pacco c’era una bottiglietta di acqua. Abbiamo sporto denuncia per truffa, ma non è facile risalire al responsabile. Il messaggio che rischia di passare a un ragazzo di vent’anni è che sia possibile raggirare le persone e restare impuniti. E io non voglio che mio figlio, che i nostri giovani, pensino questo". Qui c’è anche la questione della difficoltà nelle indagini e della mole di lavoro? "Sì, un problema è che le forze dell’ordine, così come i giudici, hanno troppi fascicoli da prendere in considerazione: in Italia ogni cosa ormai è diventata condotta penale. Occorre depenalizzare, distinguendo i reati gravi da quelli lievi". Ecco perché hanno massacrato Stefano Cucchi di Giovanni Tizian L’Espresso, 18 ottobre 2016 Doveva essere una "brillante operazione antidroga". Ma la coca non venne trovata. Di qui le botte. L’ipotesi su cui lavora la procura di Roma. Nel caso Cucchi due sole sono le cose certe: i segni del pestaggio e la morte. Tutto il resto è stato avvelenato da bugie, depistaggi, verità di comodo. Tuttavia, tra le carte e le testimonianze finora raccolte dagli inquirenti, concentrati sull’inchiesta bis sulla morte del ragazzo, c’è qualche indizio sulla genesi di quella violenza e in particolare sulla condotta dei carabinieri che hanno avuto in custodia Stefano la sera dell’arresto. La procura della Capitale indaga infatti su cinque militari dell’Arma e ha raccolto testimonianze decisive per delineare il contesto in cui è maturata la violenza. Il pestaggio più grave, infatti, andrebbe collocato subito dopo la perquisizione, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. E il movente, peraltro suggerito già nella sentenza di primo grado, è da rintracciarsi nella delusione per un’operazione non riuscita, con i carabinieri "infastiditi" dall’atteggiamento del giovane poco collaborativo. L’ipotesi probabile insomma è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo. È questo lo scenario che emerge dalle informative in mano ai pm che da più di un anno lavorano alla nuova indagine. E che gli stessi magistrati hanno tentato di approfondire durante gli interrogatori. Una dinamica di questo tipo spiegherebbe anche perché non è mai stato fatto il fotosegnalamento, obbligatorio in caso di arresto. Foto e impronte mancanti, per nascondere i segni sul volto del ragazzo, già picchiato. Altro tassello mancante in una storia torbida di giustizia negata, dove persino una perizia, l’ultima, sul corpo di Cucchi genera ulteriori polemiche sulla probabile causa di morte. Un esercizio di equilibrismo compiuto dai periti, in cui riconoscono le fratture delle vertebre, ma sostengono che Stefano potrebbe essere morto di epilessia. L’ipotesi probabile è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo. L’intervista alla sorella di Stefano. Che racconta: "I carabinieri quella sera prima di andare via con mio fratello in manette dissero a nostra madre: "Signora non si preoccupi, per così poco domani suo figlio sarà a casa". Invece non lo vide mai più. Sei giorni dopo era sul tavolo dell’obitorio per l’autopsia". "La cosa è andata troppo oltre" - Il movente, dicevamo. Tracce del lavoro di ricostruzione dei pm ricorrono nel verbale dell’interrogatorio di un testimone chiave, l’appuntato Riccardo Casamassima. Sarà lui ad accusare Roberto Mandolini (indagato per falsa testimonianza), all’epoca comandante della stazione Appia, quella da cui partirono i militari per arrestare Cucchi. Mandolini sapeva, sostiene il teste. Tanto da confessargli: "È successo un casino i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato". E Casamassima, nel verbale del 30 giugno 2015, si spinge oltre: "Sembrerebbe una cosa preparata prima, cioè che i carabinieri sapevano che Cucchi aveva un quantitativo importante e lo cercavano a casa dei genitori, non trovando nulla per estorcergli hanno cominciato a menarlo". Il procuratore Giuseppe Pignatone commenta: "Che è andata oltre...". Gli inquirenti insistono, gli chiedono di spiegarsi meglio: "Dottore è inusuale, quando io faccio più di un arresto durante l’anno per me diventa una cosa di routine, invece gente che non è abituata a fare questo tipo di attività si sono esaltati e può essere scattato qualcosa nella loro testa". Infine, prima di chiudere il colloquio con il pm Giovanni Musarò, Casamassima aggiunge: "Il pestaggio di Cucchi era finalizzato a farsi dire dove era custodita la droga che i colleghi pensavano di trovare all’interno dell’abitazione". Dichiarazioni che potrebbero diradare la nebbia di silenzi che avvolge il mistero della morte di Cucchi. E in effetti la droga Stefano ce l’aveva, ma non a casa dei genitori. La custodiva nell’appartamento a Morena. Un quantitativo importante, acquistato da poco. A consegnare i 900 grammi e passa di hashish e un etto di cocaina alla magistratura saranno i genitori del geometra romano venti giorni dopo la sua morte. Dopo, cioè, essere stati nell’abitazione per recuperare gli effetti personali del figlio. Che qualche anomalia ci sia stata nell’operazione Cucchi, lo rivelano anche le contraddizioni nelle deposizioni dei carabinieri al centro dell’inchiesta della procura capitolina. Pubblicamente escludono che l’arresto sia stato propiziato da confidenti. Privatamente, così emerge dai dialoghi intercettati, questa possibilità invece emerge. Per esempio, Roberto Mandolini racconta di un esposto dei genitori delle scuole Appio Claudio in cui segnalavano un "giovanotto magro col cane che spacciava". Dice anche, Mandolini, che grazie a Cucchi, in passato, avevano fatto altri arresti fornendogli nomi di altri pusher. L’ex comandante fu sentito quale testimone nel primo processo. E sotto giuramento raccontò la sua versione: "C’era un clima particolarmente disteso e l’arrestato era persona tranquilla e spiritosa". Tale idillio però è, secondo gli investigatori, in palese contrasto con quanto davvero accadde nei momenti successivi al fermo di Cucchi. Il carabiniere scelto Stefano Mollica, in servizio alla stazione Casilina - dove Stefano Cucchi avrebbe dovuto fare il fotosegnalamento come da prassi - dice tutt’altro. Mollica è uno dei due militari incaricati di accompagnare Cucchi dalla caserma di Tor Sapienza, dove aveva trascorso la notte in cella, al tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto. Ai giudici ha raccontato, ma lo ha ribadito di recente davanti ai pm di Roma, che "il rossore del viso di Stefano Cucchi faceva impressione, io non ho mai visto niente del genere in vita mia... camminava a fatica, era claudicante, stava malissimo era molto sofferente". Dice, poi, che giunti al tribunale di piazzale Clodio, incontrano il collega Stefano Tedesco, uno degli autori dell’arresto e ora indagato nell’inchiesta bis. Tedesco si è lasciato sfuggire un particolare - sostiene un altro appuntato quel giorno in compagnia di Mollica - cioè che Cucchi "era stato poco collaborativo al momento del fotosegnalamento". E sempre il collega di Mollica ha aggiunto: "Era evidente che aveva subito un pestaggio". Il fotosegnalamento, come si diceva, non verrà mai eseguito: eppure nel verbale di arresto si legge "identificato a mezzo rilievi fotosegnaletici e dattiloscopici". Perché Cucchi non viene fotografato? Nessuno risponde a questa domanda. Ma una delle ipotesi più probabili, al vaglio anche dei magistrati, è che Stefano era già stato picchiato violentemente. Per questo sarebbe stato meglio evitare foto che potevano diventare prove. L’ipotesi che il movente del pestaggio sia da ricercare nella delusione dei militari per non aver trovato la grande quantità di droga che si aspettavano ha anche un sostegno giudiziario nella prima sentenza emessa sulla morte di Cucchi, quella che ha assolto gli agenti penitenziari. I giudici della Corte d’Assise sono stati infatti i primi a ipotizzare, seppur quasi di passaggio, che "il Cucchi sia stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare atteso l’esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa - l’operazione dell’arresto era stata propiziata da una fonte confidenziale - mentre il giovane aveva mantenuto una comprensibile reticenza circa il luogo dove realmente egli abitava". Ed è seguendo questo filo rosso che ora si stanno muovendo gli inquirenti che hanno messo sotto indagine i carabinieri. Quelle vertebre fratturate - Insomma, ci sono verità che il corpo livido e senza vita di Stefano Cucchi non potrà mai rivelare. Di quella drammatica notte del 15 ottobre 2009 molte cose restano ancora da chiarire. È in quelle ore che matura la fine di Cucchi. Sono passate da poco le 23, in via Lemonia, periferia sudest di Roma. Stefano è arrivato da poco, ha appuntamento con Emanuele Mancini. Qui viene fermato mentre gli cede, per 20 euro, un pezzo di hashish. Il verbale di arresto racconta di 20 grammi di fumo sequestrati, due dosi di cocaina e 2 pasticche di ecstasy. In realtà queste ultime non sono pasticche di droga, ma Rivotril per la cura dell’epilessia. A quel punto gli agenti, su ordine del loro superiore maresciallo Roberto Mandolini, procedono alla perquisizione dell’abitazione dei genitori di Stefano, il cui indirizzo è segnato sul documento di identità del ragazzo. Lì sono convinti di trovare il resto della droga. Che, invece, non troveranno. Ciò che accadrà dopo è un intricato castello di ipotesi e sospetti. L’unica certezza, da quel momento in poi, è che Cucchi viene picchiato. Lo dicono i giudici, lo confermano almeno quattro carabinieri, lo dice anche l’ultima perizia tanto contestata che parla dell’epilessia. Già, la perizia firmata Francesco Introna: frutto di dieci mesi di lavoro e che trascina dietro di sé non poche polemiche. Il legale della famiglia Cucchi aveva chiesto persino l’incompatibilità del professor Introna per la sua passata appartenenza alla massoneria. Alla fine però la "fratellanza" di Introna è stata considerata un’affiliazione datata e ormai non più significativa. Superato questo ostacolo, il lavoro dei periti è proseguito e due settimane fa hanno consegnato i risultati: nessuna causa certa ma due ipotesi, una considerata più probabile dell’altra. La prima: l’epilessia, che gli stessi professori del collegio peritale però definiscono "non documentabile, priva di riscontri oggettivi, ma supportata solo da rilievi clinico-scientifici"; la seconda: la frattura delle vertebra S4, "comunque indotta che avrebbe provocato l’insorgenza della vescica neurogenica", cioè di una disfunzione dell’apparato urinario. E proprio questo punto che la difesa della famiglia Cucchi utilizzerà nelle prossime fasi. A partire dalla prossima udienza di incidente probatorio, il 18 ottobre. Mai nessuna perizia prima, infatti, aveva certificato la frattura che avrebbe poi compromesso la vita di Stefano. L’avvocato Fabio Anselmo ha da tempo chiamato a collaborare il professore Vittorio Fineschi, ordinario di Medicina legale alla Sapienza, lo stesso che ha svolto l’autopsia, per conto dei magistrati, sul corpo di Giulio Regeni. E che già un anno dopo la morte di Stefano aveva prodotto un’analisi secondo cui Cucchi è morto "per cedimento cardiaco connesso con le entità traumatiche ricevute". In pratica le fratture avrebbero innescato quel processo che poi ha portato al decesso del giovane romano. E quelle stesse fratture potrebbero essere state causate dalle botte prese da Cucchi perché i carabinieri non avevano trovato la droga che si aspettavano. "Mio fratello non è morto di epilessia, era in ospedale per le botte ricevute", riflette la sorella Ilaria. Poi fa una pausa, fissa il cartello con scritto via Lemonia: "Era nelle mani dello Stato, al sicuro, invece è stato massacrato". Dario Fo e Franca Rame, un fascicolo di polizia lungo 50 anni di Massimo Pisa La Repubblica, 18 ottobre 2016 Per più di mezzo secolo le questure italiane hanno aggiornato il dossier annotando spostamenti e amicizie. Siamo andati a leggere quelle carte. "Caro Lorenzo, ti prego di voler disporre la redazione di una biografia, il più possibile dettagliata, sul noto comico Dario Fo, anche dal punto di vista politico (ad esempio, la asserita appartenenza alla R.S.I.). La richiesta perviene dall’alto e mi permetto, quindi, di raccomandarti un lavoro che sia fatto presto e bene". Lo scandalo a "Canzonissima" è deflagrato da meno di un mese, alla cacciata di Dario Fo e Franca Rame sono seguite due interrogazioni parlamentari (Davide Lajolo del Pci, Oreste Lizzadri e Luciano Paolicchi del Psi) e al Viminale sono in fibrillazione. Il 21 dicembre 1962 il capo della Divisione Affari Riservati, Efisio Ortona, scrive al questore di Milano Lorenzo Calabrese. Quelle informazioni sono preziose, servono ad arginare la tempesta. Il giorno di Santo Stefano il solerte questore ("Le notizie sono state raccolte e selezionate con scrupolosa attenzione") spedisce quattro pagine di riservata. Le origini, gli studi, i successi in teatro. Poi la polpa: "Il Fo, nel 1944, aderì alla R.S.I., arruolandosi volontario in una formazione di cc.nn. di stanza a Borgomanero (Novara), aggregata al battaglione paracadutisti "Folgore"". La notizia resterà inedita per altri due anni. "È noto l’orientamento comunista - prosegue il documento - si orienta verso la corrente di sinistra del P.s.i. Non consta, però, che aderisca a tale partito". Da Dario a Franca. "La Rame risulta decisamente orientata verso il P.c.i., al pari di tutti i membri della sua famiglia originaria". Chiosa finale: "Sia il Fo che la Rame serbano regolare condotta e sono immuni da precedenti penali". Per più di cinquant’anni le questure e le prefetture di mezza Italia hanno aggiornato i loro fascicoli e quelli del Ministero dell’Interno sul Maestro. Schedato, controllato, "attenzionato" come voleva il gergo poliziesco dell’epoca. Siamo andati a leggere quelle carte inedite, conservate negli archivi. E, a consultarle, si legge una storia in controluce di Fo, vista attraverso le lenti di uno Stato occhiuto. Già dal 19 febbraio 1960, quando un appunto della questura di Firenze annota che "ha partecipato a una manifestazione indetta da un Circolo culturale controllato dal partito comunista". Nelle schede che la polizia gli dedica, Fo "ha terrore della "macchinizzazione" e di qualsiasi oggetto meccanico e la sua formazione politica subì, per colpa della moglie accesa comunista, una spinta verso la corrente carrista del partito". Tiene mostre di quadri con "scarso successo a causa, soprattutto, del valore artistico dei quadri esposti". Compra una pistola - è già il 1975 - "Flobert marca Franchi calibro 4,5 mediante esibizione del passaporto". Fa teatro e militanza, e i fascicoli si gonfiano. Ha già fondato da due anni "La Comune", la compagnia con cui poi occuperà la palazzina Liberty a Milano, quando al Viminale arriva una riservata del questore di La Spezia Ferrante, datata 3 ottobre ‘72. "I noti attori Dario Fò (sic) e Franca Rame hanno trascorso un periodo di ferie estive a Vernazza", insieme a "una quindicina di giovani capelloni", cioè i loro attori, che "per il loro abbigliamento trasandato hanno suscitato un certo malcontento tra la popolazione". Ma c’è di più: la polizia scopre che da Vernazza "la Rame ha spedito a più riprese una serie di vaglia telegrafici ad estremisti ristretti in varie carceri". Tra i destinatari ci sono il brigatista Umberto Farioli, Augusto Viel della XXII Ottobre, Sante Notarnicola della banda Cavallero. È l’inizio del filone di indagini sul "Soccorso Rosso", la rete di assistenza legale ed economica ai detenuti politici della sinistra extraparlamentare. Il primo a voler vederci chiaro è il sostituto procuratore genovese Mario Sossi, la polemica con Fo finirà con accuse reciproche e un processo per diffamazione sospeso durante il sequestro del magistrato da parte delle Br. Intanto indaga Milano, e il 6 settembre 1973 al Viminale arriva una riservata del questore di Milano Allitto: sta nascendo il Comitato unitario del Soccorso Rosso e "i coniugi Franca Rame e Dario Fo - scrive - a quanto si è appreso sarebbero i promotori dell’iniziativa". Le relazioni pericolose della coppia vengono vivisezionate. Fo, scrive il 14 giugno 1974 il questore di Pisa, viene "incluso nel noto elenco ministeriale di extraparlamentari di sinistra che operano eversivamente in direzione delle carceri". Il numero di telefono del gran giullare circola parecchio. È nell’agenda di Petra Krause, arrestata in Svizzera nel 1975 ("il più importante e al tempo stesso inafferrabile ufficiale di collegamento del terrorismo continentale ed extracontinentale", la definirà nel 2001 la relazione finale della Commissione Stragi), di militanti dell’Autonomia Operaia, di appartenenti all’Olp arrestati ad Alessandria, di brigatisti rossi marchigiani coinvolti nel rapimento di Roberto Peci. Le polizie di mezza Italia si affannano a cercare la pistola fumante a conferma di quel vecchio appunto del Sid (fonte "Anna Bolena", nome in codice dell’impresario Enrico Rovelli, datato 1974), che voleva Dario Fo come "grande vecchio" delle Br, ma non la trovano mai. Nemmeno quando, il 29 gennaio 1980, il Maestro smarrisce un foglio manoscritto a quadretti dentro una cabina telefonica della stazione di Cesenatico. Il vicequestore di Forlì, Della Rocca, telegrafa immediatamente al Viminale il contenuto: "Cara Franca, mi è stato chiesto di farti un’ambasciata per Tino Cortiana e Maria Tirinnanzi (militanti Fcc, ndr) detenuti a Novara, che chiedono l’aiuto di Soccorso Rosso. Si farà una riunione venerdì sera al Circolo Turati a Milano". Ci va un brigadiere, e non trova nessuno: "Si presume - scrive - che non è stata svolta nessuna riunione". Ci prova allora il Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza a seguire la pista dei soldi ai detenuti, cercandone la provenienza. Tra il 29 aprile e il 28 luglio 1980, le Fiamme gialle producono tre relazioni classificate "riservatissimo" sugli introiti di Fo, Rame, di Nanni Ricordi e dei loro compagni della "Comune": ne elencano gli incassi degli spettacoli, le spettanze Siae e Rai, le "possidenze immobiliari". Gli anni Ottanta e Novanta glaciano la febbre rivoluzionaria ed eversiva e le notizie su Fo da spedire al Viminale si diradano. Eccolo nell’83 polemizzare con gli Usa che gli negano il visto, e nell’87 a riproporre al Teatro Cristallo Morte accidentale di un anarchico: "Hanno assistito 800 persone - annota la Digos - per lo più giovani gravitanti nella nuova sinistra. Esplicita è stata la critica al sindaco Paolo Pillitteri, definito "uomo bicicletta"". Nel 1993, il nome di Fo è ancora in un elenco di "aderenti alla sinistra extraparlamentare di Milano e provincia". Partecipa a manifestazioni per Sofri, Bompressi e Pietrostefani, viene invitato al Leoncavallo, sfila contro il Cpt di via Corelli. Poi tramonta anche la stagione dei "disobbedienti". L’ultimo appunto è del 2006, una formalità per la presentazione delle Liste Fo alle comunali milanesi del 2006 e del 2011. Il Maestro non fa più paura. Fabio Savi, killer della Uno Bianca in sciopero della fame: chiede un pc in cella Corriere della Sera, 18 ottobre 2016 Chiede anche di poter svolgere un lavoro in carcere e di essere trasferito. Zecchi, presidente dell’associazione vittime: "Non mi fa pena. Ha fatto tanto male, cosa vuole?" Fabio Savi da una settimana ha cominciato lo sciopero della fame. Condannato all’ergastolo e in carcere da 22 anni, Savi, 56 anni, uno dei capi della banda della Uno Bianca, è ora detenuto a Uta (Cagliari): da tempo vorrebbe avere un pc per scrivere libri (è già al quarto) e un lavoro da poter svolgere dentro l’istituto e, non vedendosi accontentato, chiede con forza il trasferimento in un’altra struttura carceraria. "Solo così puo’ protestare" - "Lo sciopero della fame - spiega il suo difensore, l’avvocato Fortunata Copelli - è l’unica forma di protesta che Savi può adottare nella speranza di farsi ascoltare, accettando tutte le conseguenze che potrà avere sul suo stato di salute". La penalista ha anche inviato un sollecito al direttore del carcere di Cagliari segnalando come da parte del Dap "non ci sia stato alcun riscontro" alle richieste avanzate da Savi. Il precedente sciopero della fame - Alcuni mesi fa, il cosiddetto "Lungo" della banda, che tra gli anni Ottanta e Novanta uccise 24 persone ferendone oltre cento tra Bologna, la Romagna e le Marche, si è visto bocciare dalla Cassazione il ricorso con cui chiedeva di commutare il carcere a vita in 30 anni di reclusione. Alcuni anni fa Savi, l’unico dei tre del gruppo a non essere un poliziotto, aveva intrapreso uno sciopero della fame mentre era detenuto a Voghera: lamentava condizioni disagevoli e denunciava la necessità di essere trasferito in un carcere per potersi avvicinare ai familiari che vivevano a Firenze. Zecchi: "non mi fa pena" - "Mi dispiace per lui, non c’è niente che mi faccia pena". È il commento di Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione che raccoglie i familiari delle vittime della banda della Uno Bianca. Savi chiede di essere trasferito dal carcere di Uta (Cagliari). "Fabio - prosegue Zecchi - era presente a quasi tutti gli assalti, ha un bel coraggio a chiedere di fare. Lui ha dato la possibilità agli altri di fare? Come può pretendere delle cose quando ha fatto tanto male, quando ha tolto la vita a tante persone? Non riesco proprio a capire come faccia". Gratuito patrocinio, paga il Fisco di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2016 Ministero della Giustizia - Circolare 3 ottobre 2016. Lo Stato paga i propri debiti ammettendo la compensazione con imposte e contributi. Il meccanismo, già previsto per le detrazioni spettanti per lavori finalizzati al risparmio energetico (legge di stabilità 208/2015), opera dal 17 ottobre anche per gli avvocati che hanno difeso soggetti ammessi al gratuito patrocinio. Le liti civili, penali, tributarie e amministrative esigono una difesa tecnica, che è onerosa. Se mancano requisiti di reddito (euro 11.528) e la pretesa giudiziaria non è palesemente infondata, si può attivare una procedura di "gratuito patrocinio" attraverso l’Ordine degli avvocati, o direttamente all’ufficio del magistrato penale. Al termine del processo, indipendentemente dall’esito della lite, l’avvocato designato come difensore viene remunerato dallo Stato, il quale attinge da uno specifico capitolo di bilancio denominato "spese di giustizia". Con decreto del 15 luglio il fondo per le spese di giustizia destinato a remunerare le prestazioni degli avvocati è stato dotato di 10 milioni di euro e, con circolare del 3 ottobre il ministero della Giustizia, ha chiarito i meccanismi del pagamento. Imposte dirette e indirette, tasse e contributi da pagare per i dipendenti possono essere pagati, dagli avvocati che hanno ottenuto un decreto di liquidazione per patrocinio prestato gratuitamente, utilizzando una procedura informatica. Si tratta della stessa procedura che ammette le compensazioni per i fornitori dello Stato (Dl 35/2013) e per le imprese che hanno eseguito lavori di riqualificazione energetica a favore di condomini con esiguo reddito (legge 208/2015 ). La circolare rende compensabili tributi e contributi previdenziali degli avvocati, con quanto dovuto dall’ erario agli avvocati stessi, in qualsiasi data i crediti siano maturati. La compensazione dei crediti degli avvocati può anche essere parziale, quindi è possibile pagare mediante compensazione i debiti verso l’erario o verso gli istituti previdenziali anche se il credito del professionista è di importo superiore a quanto si chiede di compensare. Il professionista dovrà attivarsi con fattura elettronica oppure fattura cartacea registrata su piattaforma elettronica. Dell’avvenuta registrazione, detta piattaforma darà notizia agli interessati. Gli adempimenti a carico dei professionisti che intendono fruire della compensazione riguardano quindi la registrazione sulla piattaforma elettronica, una serie di dichiarazioni (con modalità telematiche di firma digitale) di responsabilità circa l’avvenuta liquidazione da parte dell’autorità giudiziaria e la mancata loro opposizione a tale liquidazione. I tempi previsti dalla circolare vanno dal 17 ottobre 2016 (invio delle richieste) al 30 novembre dello stesso anno: successivamente, la piattaforma elettronica elaborerà l’elenco dei crediti ammessi in compensazione con relative comunicazioni sia ai professionisti che all’Agenzia delle entrate e agli enti di previdenza. La richiesta di compensare debiti verso l’erario non esime dalla rispetto dei tempi di pagamento: sarà quindi necessario che il professionista tenga ben presenti le scadenze, poiché vanno rispettate indipendentemente dal sistema di pagamento. Diversamente, al danno di attese spesso pluriennali, si potrebbe aggiungere la beffa di sanzioni per omesso o ritardato pagamento a causa del ritardo nel certificare la compensazione. Guida in stato di ebbrezza: non è reato il no al prelievo di sangue se si fanno altri esami di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2016 L’automobilista che si rifiuta di sottoporsi al prelievo del sangue non commette reato, se acconsente al prelievo di altri liquidi biologici, permettendo comunque di accertare l’eventuale stato di alterazione. La Corte di cassazione, con la sentenza 43864, annulla senza rinvio la condanna inflitta dal giudice di merito per il reato previsto dall’articolo 187 del Codice della strada (comma 8), perché il ricorrente, che aveva già ammesso di aver fatto uso di sostanze stupefacenti, si era sottoposto all’esame delle urine, sufficiente a provare l’assunzione di droga. La Suprema corte sottolinea l’errore del giudice di merito che aveva considerato il rifiuto di proseguire gli accertamenti presso una struttura sanitaria pubblica per ulteriori esami, sufficiente di per sé a far scattare la condotta penalmente rilevante. La Cassazione ricorda che lo scopo della norma non è quello di sanzionare il no ad un particolare prelievo di campioni biologici, quanto quello di "punire" i comportamenti che impediscono di accertare le ragioni della guida pericolosa. Nel caso esaminato non c’era da parte del ricorrente la volontà di sottrarsi alla prova della "verità". Violenza sessuale, insostenibile la valutazione parcellizzata dei singoli contatti sessuali Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2016 Reati contro la persona - Violenza sessuale - Configurabilità del delitto - Pluralità di atti non diretti a zone oggettivamente "erogene" - Valutazione globale e unitaria - Sussistenza. Per la configurabilità della violenza sessuale, la rilevanza di tutti quegli atti che, in quanto non direttamente indirizzati a zone chiaramente e pacificamente definibili come erogene, possono essere rivolte al soggetto passivo anche con finalità del tutto diverse (come i baci e gli abbracci), deve costituire oggetto di accertamento da parte del giudice di merito, in base ad una valutazione che tenga conto dell’intera condotta attiva, del contesto di effettivo svolgimento dell’azione e dei rapporti personali e non intercorrenti tra gli individui coinvolti. Nella fattispecie esaminata, il giudice di merito ha correttamente operato una interpretazione complessiva e non atomistica dei singoli atti in cui si è espletata la condotta dell’imputato, correttamente collocando i gesti incriminati in una serie di antefatti che tradivano palesemente la natura sessuale della stessa: la presa dei fianchi della donna con le mani da parte dell’imputato e la successiva adesione del suo corpo al proprio costituisce un’invasione della sfera più intima della persona, che, unitamente ad abbracci avvolgenti, baci non graditi e toccamenti del seno forzatamente distolti da parte della donna - anche in considerazione del rapporto di subordinazione lavorativa esistente tra i soggetti coinvolti - contribuisce ad integrare la fattispecie della violenza sessuale. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 4 ottobre 2016 n. 41469. Reati contro la persona - Violenza sessuale - Elemento soggettivo del reato - Dolo generico - Configurabilità - Sussiste. Per costante giurisprudenza, l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è integrato dal dolo generico, inteso come coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente. Pertanto, non è necessario che gli atti sessuali in esame siano diretti al soddisfacimento del desiderio del soggetto agente né rilevano possibili fini ulteriori (concupiscenza, gioco, umiliazione morale e personale, ecc.) eventualmente perseguiti dallo stesso. È dunque da sanzionare, in base ai principi generali del dolo penalmente rilevante, l’eventuale interpretazione posta a sostegno dell’assoluzione di merito fondata sull’involontarietà degli atti sessuali accertati. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 4 ottobre 2016, n. 41469. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza sessuale - In genere - Atti sessuali commessi "ioci causa" o con finalità di irrisione - Irrilevanza penale - Esclusione - Fattispecie. In tema di violenza sessuale, il gesto compiuto "ioci causa" o con finalità di irrisione è qualificabile come atto sessuale punibile ai sensi dell’articolo 609-bis c.p., allorquando, per le caratteristiche intrinseche dell’azione, rappresenta un’intrusione violenta nella sfera sessuale della vittima. (Fattispecie di schiaffo e palpeggiamento sulla natica, accompagnati da esclamazione in apparenza galante e da successivo atteggiamento irridente). • Corte cassazione, sezione III, sentenza 15 gennaio 2015, n. 1709. Reati contro la persona - Violenza sessuale - Elemento oggettivo - Violenza fisica - Intimidazione psicologica - Coazione della vittima - Atti sessuali repentini - Consenso viziato - Dissenso. In tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo, oltre a consistere nella violenza fisica in senso stretto o nella intimidazione psicologica in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, si configura anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti improvvisamente all’insaputa della persona destinataria, in modo da poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso e comunque prescindendo, nel caso di minori infra-quattordicenni, da un consenso, ancorché’ viziato, o dal dissenso comunque manifestabile. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 10 novembre 2014, n. 46170. Reati contro la libertà sessuale - Atti sessuali - Nozione. La nozione legislativa di "atti sessuali" (rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 609-bis c.p., ma anche dell’articolo 600-bis c.p.) ricomprende oltre a ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto conopeo tra soggetto attivo e soggetto passivo, ancorché fugace ed estemporaneo, o comunque coinvolgendo la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia finalizzato e normalmente idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale. Ne consegue che anche i palpeggiamenti, i toccamenti e gli sfregamenti corporei, posti in essere nella prospettiva del reo di soddisfare o eccitare il proprio istinto sessuale, in quanto coinvolgono la corporeità della vittima, possono costituire una indebita intrusione nella sfera sessuale di quella. • Corte cassazione, sezione Unite penale, sentenza 14 aprile 2014, n. 16207. Reati contro la persona - Violenza sessuale - Atti sessuali - Nozione - Bacio o abbraccio - Fattispecie - Valutazione complessiva - Necessità - Condotta di reato - Contesto dell’azione - Rapporti tra le parti coinvolte - Riconducibilità. Configura il reato di violenza sessuale, anche l’atto sessuale concretatosi in un bacio o in un abbraccio, purché sintomatico di una compromissione della libera determinazione sessuale del soggetto passivo. Un tale accertamento, tuttavia, esigerà una valutazione concreta del caso, da porsi in essere alla luce della condotta complessiva, del contesto in l’azione si è svolta, dei rapporti tra le persone coinvolte, e di ogni altro elemento utile. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 4 marzo 2014, n. 10248. Chiedo scusa se parlo male di Falcone e del maxiprocesso di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 18 ottobre 2016 Il maxi-processo di Palermo fu il maxi-errore di Giovanni Falcone. Lo fu sul piano giudiziario, politico e mediatico. Ma ancor di più da un punto di vista "psicologico", perché Falcone volle trasformare quelle indagini e quel processo in terra di Sicilia in qualcosa di eroico, in gesto epico. E volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare, alla sconfitta della Mafia. E qui sta l’errore di politica giudiziaria che disvela una cultura poco laica della giustizia: il pensare cioè, che il processo non sia semplicemente il luogo dove si confermi o si bocci l’ipotesi accusatoria nei confronti di ogni singolo imputato, ma invece l’arma con cui si combattono i fenomeni sociali trasgressivi e illegali come il terrorismo o la criminalità organizzata. Una cultura, in un certo senso quasi religiosa, sicuramente da Stato etico, che mi pare appartenga anche al magistrato Alberto Cisterna, che ha scritto su questo giornale un autorevole commento nel quale, valorizzando la politicità del maxiprocesso, così esulta. "?per la prima volta si voleva processare la Mafia", con la emme maiuscola. Quasi si trattasse di una signora imputata che di cognome faceva Mafia, per l’appunto. Va ricordato, solo a parziale comprensione dell’iniziativa (e della cultura di cui fu vittima) di Giovanni Falcone, che erano gli anni in cui la discussione sulle norme che regolavano il processo penale e il codice Rocco del ventennio non aveva ancora portato alla riforma, che entrò in vigore il 24 ottobre 1989, a cavallo tra la sentenza di primo e quella di secondo grado del maxiprocesso. Quando si passò da un sistema inquisitorio (quello anche della "caccia alle streghe", non dimentichiamolo mai) a uno almeno "tendenzialmente" accusatorio, la cultura di molti magistrati non era ancora pronta allo strappo. Falcone lo sarebbe invece stato, se non lo avesse accecato quel sogno eroico di dare, attraverso un processo, una svolta di legalità e di pacificazione alla sua Sicilia. Purtroppo la storia andò diversamente. Ma va anche ricordato come andarono le cose dal punto di vista giudiziario e come entrarono in scena anche la politica e addirittura un governo. Il fascicolo degli indagati da Falcone si chiamava "Abbate Giovanni più 706", ottomila pagine. Più di settecento persone che avrebbero costituito, secondo il collaboratore di giustizia Buscetta (bravo a denunciare i nemici, ma mai gli amici mafiosi) una cosca con organizzazione verticistica. Da questo gruppo mafioso 231 persone uscirono subito indenni, neppure rinviate a giudizio e altre 114 assolte dalla sentenza di primo grado (che comunque aveva accolto la tesi di Buscetta) del 16 dicembre 1987. I condannati nel processo di primo grado rimangono 260. Siamo già oltre il dimezzamento della cosca così come descritta da Buscetta e avallata dal dottor Falcone. È questo anche il momento della polemica con Leonardo Sciascia che dalle colonne del Corriere della sera lancia l’allarme: "Nulla vale di più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". Ma Falcone e il "pool antimafia" (un magistrato non dovrebbe mai essere "anti" o "pro" qualcosa o qualcuno) hanno ormai troppo potere per poter essere scalfiti. Infatti, come ricorda ancora Alberto Cisterna, "?i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi?". E così il cerchio si chiude, manca solo la benedizione del Papa. Nonostante il successo mediatico, nelle aule di giustizia le cose andarono in seguito diversamente, e la Corte d’appello fece a pezzetti il "teorema Buscetta", negando il fatto che la struttura verticistica influenzasse ogni singolo atto criminoso, esaminando ogni caso individualmente e ridando una sorta di laicità al processo. Vennero così cancellati 7 ergastoli su 19 e altri 86 imputati vennero assolti. E così siamo a due terzi di innocenti sui famosi 707 dell’esordio. La storia sarebbe finita in questo modo, molto ordinario e poco eroico di un processo di criminalità organizzata, se non fosse entrata in scena la politica. Un magistrato abile e intelligente come Falcone sapeva bene che un processo costruito a quel modo, puntato solo sulla parola dei "pentiti" e con tutte quelle assoluzioni, pur con grande consenso mediatico, avrebbe potuto diventare il suo fallimento, il suo "maxi-errore" qualora non avesse superato lo scoglio della Cassazione. E la prima sezione presieduta da un giudice preparato e pignolo come Corrado Carnevale era proprio quella cui venivano assegnati i processi sulla criminalità organizzata. Magistrati attenti e scrupolosi, rigorosi sulle procedure, avrebbero potuto mettere in discussione qualche superficialità, qualche approssimazione nella verifica dei riscontri alle parole dei "pentiti". Lo stesso ruolo di Buscetta avrebbe potuto uscire ridimensionato da una sentenza rigorosa. La Cassazione era sotto gli occhi di tutti, in quei giorni, e Falcone non poteva perdere quella battaglia. Fece di tutto per vincere. Aveva lasciato da un anno il palazzo di giustizia di Palermo, dopo aver subito uno schiaffo che ancora gli bruciava perché il Csm aveva privilegiato l’anzianità del collega Meli alla presidenza dell’ufficio istruzione, ed era al ministero di Giustizia quale direttore generale degli affari penali. La situazione politica era più che traballante (le camere furono sciolte il successivo 2 febbraio) e una vittoria, almeno giudiziaria, sulla mafia deve esser parsa a un governo debolissimo una piccola rivincita sulle proprie incapacità. Così il ministro di Giustizia Martelli, probabilmente su suggerimento di Falcone, ma anche sollecitato dal presidente della commissione bicamerale antimafia Luciano Violante, mise nel mirino il giudice Carnevale. Ai monitoraggi sull’attività della prima sezione di Cassazione, da cui l’alto magistrato uscì trionfante (il quotidiano La Repubblica titolò "Carnevale ha ragione"), si accompagnò la fanfara mediatica "sull’ammazzasentenze" per sottrarre il maxi-processo alla prima sezione della Cassazione. O almeno al suo presidente. E così fu. Carnevale fece domanda per il ruolo di presidente di Corte d’appello a Roma. E il 30 gennaio, senza neppure una camera di consiglio, una sentenza frettolosa e impaurita incoronò il "teorema Buscetta" come verità politica e giudiziaria. Che importa se da quel momento la mafia, ancor più feroce, insanguinò la Sicilia e l’Italia con le sue stragi? E che importa se quella decisione, e tutte le leggi speciali che ne seguirono (ancor oggi paghiamo con l’ergastolo ostativo le conseguenze dello sciagurato decreto Scotti-Martelli) uccisero lo Stato di diritto? Importa, certo che importa. Ma forse non a tutti. Emilia Romagna: protocollo d’intesa per formazione detenuti come tecnici teatrali modena2000.it, 18 ottobre 2016 Teatro come opportunità di cambiamento per chi vive l’esperienza del carcere, teatro come occasione per restare in contatto con la società, come strumento per il reinserimento sociale e lavorativo di detenuti, sia adulti che minori. Questo in sintesi il senso della nuova intesa sull’attività di teatro nelle carceri, valida fino al 2019, che vede coinvolte oltre la Regione, l’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna, il coordinamento Teatro Carcere e, per la prima volta, il Centro per la giustizia minorile dell’Emilia Romagna e Marche. A sottoscrivere il protocollo, questa mattina a Bologna, la vicepresidente e assessore al welfare, Elisabetta Gualmini, l’Assessore alla cultura, Massimo Mezzetti e l’Assessore alla scuola e formazione, Patrizio Bianchi. La Regione, da quest’anno ha aumentato lo stanziamento di fondi per sostenere le attività previste dal protocollo, portandolo dai 30 mila euro previsti negli scorsi anni a 50 mila euro. Oltre a favorire lo sviluppo delle attività teatrali in carcere il protocollo prevede la realizzazione di percorsi formativi (tecnico luci, macchinista teatrale, falegname, sarto per i costumi) in grado di offrire ai detenuti l’opportunità di apprendere un mestiere teatrale spendibile per il loro reinserimento sociale. "Desidero sottolineare le novità che abbiamo introdotto in questo nuovo protocollo- ha dichiarato la vicepresidente, Elisabetta Gualmini- da un lato l’allargamento degli assessorati coinvolti, grazie all’impegno di Patrizio Bianchi e Massimo Mezzetti, che ringrazio. Dall’altro l’unificazione del target di destinatari, tra minori e adulti. Svolgere attività teatrale dentro alle carceri sia per i minori che per gli adulti - spiega Gualmini - è un obiettivo pregevole e aiuta a promuovere le competenze, le potenzialità delle persone soggette a misure restrittive che hanno bisogno di ritrovare fiducia e speranza per un loro futuro nella legalità e nella vita sociale anche attraverso il lavoro". L’attività di teatro in carcere è ormai da più parti riconosciuta come valido strumento di conoscenza e crescita personale delle persone soggette a misure restrittive ma, come ha sottolineato l’assessore Mezzetti, "è un’esperienza che ha consentito di varcare la soglia invalicabile del pregiudizio, dello stigma sociale". Per l’assessore Bianchi, invece, "l’attuazione di percorsi formativi legati al progetto Teatro in carcere e lavorare in modo integrato con gli assessorati alla cultura e al welfare, significa mettere al centro delle politiche regionali la persona, in questo caso i detenuti, e ragionare in un’ottica di lungo periodo che consenta il loro reinserimento sociale e lavorativo". In base all’intesa, il coordinamento Teatro Carcere, costituito nel marzo del 2011 per promuovere le attività culturali all’interno degli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna (Ferrara, Parma, Castelfranco Emilia, Reggio Emilia, Bologna e Forlì),ha il compito di sviluppare i contenuti, organizzare seminari, attività laboratoriali, percorsi formativi ed elaborare proposte che verranno presentate al tavolo tecnico regionale per essere sostenute economicamente. Ai soggetti firmatari spetterà anche il compito di ricercare ulteriori risorse, oltre a quelle fornite annualmente dalla Regione, promuovere la circuitazione delle esperienze di teatro carcere in Emilia-Romagna presso teatri e spazi culturali, pubblicare la rivista annuale "Quaderni di teatro carcere". Ogni anno le esperienze teatrali attivate negli Istituti penitenziari della regione hanno coinvolto da 100 a 150 detenuti e oltre un migliaio di spettatori esterni. Alessandria: detenuto 32enne si toglie la vita in carcere, possibile indagine interna alessandrianews.it, 18 ottobre 2016 Era stato arrestato giovedì dagli agenti della squadra mobile un marocchino di 32 anni. Sabato pomeriggio si è tolto la vita in carcere, impiccandosi con i lacci delle scarpe alle sbarre. Sarà probabilmente aperta un’inchiesta. Sembra fosse in attesa di una visita dello psicologo. L’ultimo caso di suicidio a San Michele risale al 2008. Sembra fosse in attesa di un colloqui con psicologo del carcere il 32enne sabato pomeriggio, poco prima delle 17, si è tolto la vita, impiccandosi con i lacci delle scarpe alle sbarre della finestra della casa di reclusione San Michele di Alessandria. Abderrahim Fajli era stato arrestato giovedì dagli agenti della squadra mobile della Questura. Doveva scontare sette anni di reclusione per una serie di reati che andavano dalla rissa alla rapina. Era stato fermato nel pressi dei giardini della stazione, dopo due giorni di pedinamenti. Una lunga serie reati commessi a partire dal 2008 sia in questa provincia sia in quella pavese. Nell’aprile del 2010 sempre nei pressi dei giardini della stazione di Alessandria era arrestato dalla Polizia per un rissa che vedeva coinvolti altre persone, nel gennaio 2009 sempre nei pressi della stazione ferroviaria si era reso responsabile del reato di violenza privata, rapina, lesioni aggravate nei confronti di una donna che era stata aggredita violentemente dall’uomo. Nel dicembre del 2008 si era reso ancora autore di una rissa avendo colpito sotto il mento con un collo di bottiglia un uomo provocandogli una ferita. Nel novembre 2010 era stato responsabile dei reati di rapina e lesioni poiché aveva aggredito un uomo dopo averlo derubato del suo zainetto e colpito con calci e pugni. Infine, nel maggio 2009 a Stradella (Pv) era stato denunciato per il reato di atti osceni in quanto aveva esibito i genitali ad una donna che camminava sulla strada pubblica. Arrestato, era stato portato in carcere, dove ha scelto di togliersi la vita. La prassi vuole che, all’arrivo in carcere, i detenuti vengano sottoposti a visita medica. Se il medico lo ritine opportuno, si fissa un colloquio con lo psicologo. Era solo Abderrahim Fajli in cella quando ha ideato la sua fine. L’Agente di Polizia Penitenziaria di servizio, subito dopo aver fatto l’apertura delle celle della Sezione per la socialità, si è accorto immediatamente dell’accaduto Ie ha dato l’allarme. Purtroppo sono stati vani i tentativi di soccorso per rianimarlo, anche con l’ausilio di altri colleghi e dello staff infermieristico. Il segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria, il Sappe, punta il dito contro le condizioni dei detenuti, e degli agenti. "Al 30 settembre scorso, nella Casa di Reclusione S. Michele ad Alessandria erano detenute 313 persone rispetto ai 260 posti letto regolamentari: 25 erano gli imputati, 288 i condannati", dice Vincente Santilli. Nei prossimi giorni è possibile che venga avviata un’indagine per capire come sia potuto accadere che il 32enne abbia messo in atto il suicidio. Era del 2008 che non accadeva a San Michele. Donato Capece, segretario generale aggiunge: "Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome!, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione". Cagliari: detenuto minorenne tenta di impiccarsi, salvato dal compagno di cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 ottobre 2016 Pare che poco prima abbia ricevuto la notizia della morte di un familiare, per questo sabato il ragazzino, un algerino, si è stretto una corda al collo, è salito su una sedia e si è lasciato andare. Per fortuna è stato soccorso dal compagno di cella che per qualche istante è riuscito a tenerlo sospeso: a quel punto gli agenti penitenziari sono intervenuti e dopo averlo soccorso hanno chiamato il 118 e scortato il giovane in ospedale. È accaduto nel carcere minorile sardo di Quartucciu, in provincia di Cagliari. A rendere nota la tragedia sfiorata è stato il segretario generale aggiunto della Cisl-Polpen Giovanni Villa, il quale ha denunciato che "per garantire un’adeguata sorveglianza è necessario avere a disposizione più uomini". Il carcere minorile di Quartucciu è stato più volte al centro dell’attenzione per diverse notizie di cronaca. La più recente, nel mese di giugno, riguarda l’incendio appiccato in una cella da tre detenuti. Lo rese noto il segretario regionale del Sappe, Luca Fais. "Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, gestiti però con grande coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari - raccontò Fais -. Nonostante un fumo denso, i poliziotti hanno salvato la vita ai tre detenuti che avevano dato fuoco a tutto il materiale che si trovava nella cella. Alcuni sono rimasti intossicati". Secondo il sindacalista, "a incidere pesantemente su questi eventi sono le criticità del reparto di polizia penitenziaria di Quartucciu. Come può una Direzione con un organico di 20 unità fare fronte per garantire i livelli minimi di sicurezza quantificati in 15 posti di servizio? I poliziotti penitenziari di Quartucciu, nei primi quattro mesi dell’anno, hanno espletato un totale di 2.400 ore di lavoro straordinario e vengono regolarmente richiamati in servizio anche durante il riposo settimane e le ferie". La struttura e le sue criticità - Attualmente - secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia - il carcere minorile ospita 13 detenuti. La struttura dell’istituto penitenziario minorile di Quartuccio viene ben descritta dall’associazione Antigone durante l’ultima visita. Costruito all’epoca delle carceri d’oro (1980-81), l’Ipm di Cagliari doveva essere un carcere di massima sicurezza. Nel dicembre 1983 si decise invece di utilizzarlo come istituto per i minori, fino a quel momento detenuti in un braccio del (ex) carcere di Buoncammino a Cagliari. Fu adattato nel giro di pochissimi giorni. Mantiene le caratteristiche della massima sicurezza, con doppia cancellata che impedisce di vedere all’esterno dalle celle, sebbene il sistema di elettrificazione anti-scavalco del muro perimetrale non sia mai stato attivato. Nei primi anni 80 la zona, ora urbanizzata, era campagna aperta. L’Ipm non è inserito nel sistema di trasporto pubblico, nonostante la richiesta e nonostante la nuova circonvallazione sia predisposta (con una piazzola). Al momento quindi operatori, familiari, ragazzi dell’Ipm e dell’area penale esterna che si recano al carcere devono utilizzare taxi, macchine private o altri mezzi come motorini o biciclette (poco sicure a causa del traffico e della mancanza di pista ciclabile). L’istituto, ha un cortile interno con aiuole, prato e alberi. Lo spazio verde per i colloqui con i familiari è dotato di due gazebo e passerella in legno costruiti nel laboratorio di falegnameria. Ci sono ampi spazi sia per i laboratori che per tutte le altre attività (Ciclo-officina, Lavanderia, Giardinaggio, Musica, Murales e Giornalino). La palestra è stata recentemente ristrutturata: è dotata di reti da calcetto (montate), rete da pallavolo e canestri per il basket (smontati e disponibili), panche di legno fatte nel laboratorio di falegnameria e spogliatoi con docce. Campi sportivi esterni: calcetto, calcio a 11, basket/tennis. Nella palazzina a quattro piani ci sono gli uffici amministrativi, gli uffici degli educatori, la cucina con la mensa e la caserma. La cucina - pulita e ordinata - è unica per utenti e personale: lo stesso cuoco cucina per i ragazzi e per lo staff. Delle aree detentive, una è abbandonata, disattivata per mancanza di fondi dal gennaio 2007. I detenuti si trovano nella sezione al primo piano. Vi sono tre celle da tre letti, ognuna dotata di ampie finestre e di bagno con doccia, wc, bidet, lavandino e acqua calda. Non ci sono fornelletti dal momento che i ragazzi non sono autorizzati a cucinare nelle celle. L’arredamento è carente e arrangiato con mobili vecchi. Il riscaldamento non funziona e le celle che danno sulla parete esposta al vento di Maestrale risultano fredde. Una stanza comune è utilizzata come mensa. I giovani adulti hanno una cella autonoma rispetto ai minori, ma durante le attività stanno tutti insieme. Il blindo è chiuso dalle 20 alle 7.30 durante l’inverno, e dalle 23 alle 7.30 durante l’estate (con elasticità per condizioni climatiche, in particolare per il caldo si tiene aperto chiudendo solo le sbarre). Al piano terra due stanze sono utilizzate per l’attività di lavanderia, con commesse per una lavanderia industriale esterna (Nivea) e l’Esercito, e una per la Ciclo-officina. Nei cortili e nelle scale interne i muri sono decorati da murales, grazie a un progetto che nel 2008 ha affidato a writers un laboratorio ad hoc. Anche alcune sale comuni sono state decorate di recente nell’ambito di recenti laboratori di pittura. Vi sono sala socialità, teatro, sala tv (in cui si proiettano anche film in dvd), cappella e diverse sale per laboratori (non tutte in uso). La struttura richiederebbe lavori di manutenzione. Il muro perimetrale - denuncia Antigone nella descrizione - in alcune parti sta cedendo e, in particolare, alcuni corridoi e l’interno delle celle presentano evidenti problemi di umidità alle pareti. Tali manutenzioni, così come il rinnovo del mobilio, non vendono fatte per mancanza di fondi e in alcuni casi si tinteggiano le pareti con l’aiuto dei ragazzi. Trend positivo per l’esecuzione penale non detentiva - Il Dipartimento della giustizia minorile ha pubblicato un aggiornamento quindicinale ben dettagliato riguardo i dati statistici per fornire un quadro sintetico e aggiornato dei minori autori di reato in carico ai servizi della giustizia minorile. Ci sono i dati riguardanti gli Uffici di Servizio Sociale per i minorenni (Ussm), che seguono i minori in tutte le fasi del procedimento penale, in particolare nell’attuazione dei provvedimenti giudiziari che non comportano una limitazione totale della libertà; dei Servizi minorili residenziali composti dai Centri di prima accoglienza (Cpa), che ospitano temporaneamente i minori arrestati, fermati o accompagnati a seguito di flagranza di reato; delle Comunità ministeriali e del privato sociale, in cui sono collocati i minori sottoposti alla specifica misura cautelare prevista dall’art. 22 del D. P. R. 448/88 (collocamento in comunità) e infine i dati riguardanti gli Istituti penali per i minorenni, che accolgono i minori detenuti in custodia cautelare o in esecuzione di pena. Il dato positivo che emerge dal rapporto riguarda l’esecuzione della pena alternativa: la maggior parte dei minori autori di reato è a carico agli Ussm nell’ambito di misure all’esterno. La detenzione, infatti, assume per i minorenni carattere di residualità, per lasciare spazio a percorsi e risposte alternativi, sempre a carattere penale. Per quanto riguarda gli ingressi negli Istituti penali per i minorenni negli anni dal 2006 al 2015, dal dato emerge che nel 2015 c’è stato un leggero aumento di unità - 1068 ingressi - rispetto all’anno precedente dove ne risultavano 992. L’aumento è anche l’effetto della modifica normativa introdotta dal Decreto Legge 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modificazioni in Legge 11 agosto 2014 n. 117, ovvero l’estensione della competenza dei Servizi minorili fino al compimento dei 25 anni di età dei cosiddetti "giovani adulti". Cagliari: Caligars (Sdr); tentati suicidi in cella, la reclusione genera forte disagio psichico Ristretti Orizzonti, 18 ottobre 2016 "L’impatto con una istituzione totalizzante, in cui predomina l’assenza di libertà, provoca sempre un corto circuito emotivo. Spazio e tempo cambiano radicalmente e l’individuo deve fare i conti con un ambiente ostile, a prescindere dall’umanità degli operatori. Non è facile, soprattutto quando si è giovani e in attesa di giudizio, mantenere un giusto equilibrio tra i riferimenti valoriali. Se poi si aggiungono sensi di colpa è molto facile andare in tilt". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento al gesto disperato di Martin Aru che è stato salvato miracolosamente dagli agenti della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Cagliari-Uta, avendo messo in atto un tentativo di suicidio. "Le strutture detentive, specialmente quelle di più recente costruzione come Cagliari-Uta, rispondono prevalentemente - sottolinea Caligaris - a esigenze di sicurezza. Distanti dai centri abitati, anonime, difficili da raggiungere, dispersive, con aperture di celle automatizzate offrono locali non adeguati ai bisogni di risocializzazione e reintegro. Paradossalmente la decantata sicurezza è quasi esclusivamente strutturale con mura alte e spazi senza identità giacché il numero di Agenti della Polizia Penitenziaria è ridotto all’osso e quello degli Educatori ancora più esiguo". "Le nuove carceri costruite in Sardegna, sembrano confermare e amplificare il sospetto - rileva ancora la presidente di Sdr - che abbiano il ruolo di contenere le persone dentro le celle. Benché il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) indichi nelle diverse circolari le stanze detentive soltanto come luoghi di pernottamento, di fatto la maggior parte della vita dei ristretti si consuma dentro uno spazio angusto o al più in un corridoio o in una saletta di socialità dove si trovano un biliardino, qualche mazzo di carte o una dama. Questo vale per i detenuti che hanno superato le diverse fasi di giudizio così come per coloro che sono in attesa della prima udienza". "I tentativi di suicidio, anche quando si configurano come atti dimostrativi, esprimono un grave disagio che può essere previsto solo in particolari condizioni. Non possono essere gli Agenti o gli Educatori o gli Psicologi o gli Psichiatri a fare la prevenzione. È l’insieme della struttura, quindi degli spazi, delle professionalità in équipe e della concezione della pena umana e risocializzante a limitare i casi. Se invece, come sempre più spesso accade, gli Agenti e/o Medici e Infermieri sventano i tentativi di suicidio occorre - conclude Caligaris - interrogarsi sulla qualità della vita dentro i Penitenziari e sulla finalità della detenzione". Bologna: alla Dozza muffa, blatte e carenza di acqua calda, la Garante bacchetta l’Ausl Dire, 18 ottobre 2016 E poi malfunzionamenti, annoso problema dell’affollamento, infiltrazioni e persino topi. È quanto illustrato dalla Garante dei detenuti Laganà nella sua relazione annuale. Condizioni igieniche critiche del carcere bolognese della Dozza. È quanto illustrato dalla Garante dei detenuti del Comune di Bologna Elisabetta Laganà nella sua relazione annuale che aggiunge come la Ausl nella relazione preparata dopo la visita del 22 giugno tenderebbe minimizzerebbe alcuni problemi, dando per risolte alcune criticità invece ancora presenti. L’annoso problema del sovraffollamento (al momento della relazione erano presenti meno di 700 persone, che però, il 4 luglio, erano già salite a 714) che, "oltre a comportare evidenti problemi di vivibilità e di privacy, è complicato dall’usanza di utilizzare il bagno della cella come deposito per gli alimenti". L’azienda osserva però che "nonostante lo stanziamento dei fondi per gli interventi di manutenzione della cucina del maschile, i lavori non hanno avuto inizio, causa anche la necessità di provvedere ad ulteriori manutenzioni, che determinano la sforatura del budget previsto". Muffe nelle docce, la cui formazione deriva dal malfunzionamento degli aspiratori malfunzionanti per rotture frequenti "non di causa tecnica", e la conseguente indicazione di realizzare dei rivestimenti in materiale plastico, oltre al problema delle infiltrazioni nel soffitto della Cappella del penale. E poi il problema delle blatte: Ausl afferma che "sembra essere risolto, così come quello degli insetti degli ambienti umidi, per cui si raccomanda alla ditta di disinfestazione di eseguire interventi con maggiore frequenza, e auspica il ripristino dei dissuasori meccanici antipiccione, dato che i volatili sono ancora numerosi". Per Laganà "la struttura presenta costanti problemi di infiltrazioni, e necessita di continua manutenzione. Soprattutto l’area delle docce comuni risente in modo più grave di questo disagio, e spesso i soffitti, malgrado gli interventi di risanamento, si ricoprono nuovamente di muffe nocive per la salute". Al 16 luglio erano stati realizzati i pavimenti nella maggior parte delle sezioni, che ora sono molto più igienizzabili; una stanza da adibire a persona disabile, al primo piano della sezione infermeria; la modifica dell’impianto elettrico nella sezione 3C per permettere alla persona l’accensione e lo spegnimento della luce e televisione della cella (unica sezione in cui questa modifica è stata realizzata); i lavori al secondo piano della sezione femminile per avere spazi per attività lavorative, che ora ospitano la sartoria e alcune stanze. Tuttavia, prosegue, "nella visita del 21 luglio è emerso che le docce comuni della sezione 3A e D hanno il soffitto scrostato ed ammuffito, ed è stata segnalata dei detenuti la presenza di scarafaggi anche nelle celle, praticamente in tutte le sezioni". Inoltre, al secondo piano sezioni A, B e C,D le docce presentano muffe, e i pavimento sono ancora da rifare". Ancora, "al primo piano sezione A le docce presentano muffe, e nella sezione penale e" stata chiusa la cappella, che aveva subito ingenti danni per il crollo di una parte del soffitto a causa delle infiltrazioni dai locali degli agenti al piano superiore". Altro problema "più volte segnalato dai detenuti, diversamente da quanto descritto dall’Ausl, è la presenza delle blatte, a cui si aggiunge anche qualche segnalazione sull’esistenza di topi". Un altra criticità segnalata dai detenuti del penale è "la presenza delle cosiddette bocche di lupo, finestroni che non danno la possibilità di vedere dall’esterno, ma che consentono solo il passaggio dell’aria e della luce, che nella sezione B penale impediscono all’aria di circolare". Infine, Laganà ricorda "un problema storico della Dozza, quello della fornitura di acqua calda, soprattutto nei piani più elevati, provocato dal deterioramento dell’impianto di riscaldamento" e che "i disservizi segnalati dai detenuti vengono puntualmente esposti all’Amministrazione penitenziaria", aggiungendo che "il problema del riscaldamento ed erogazione di acqua calda coinvolge, solitamente, anche il personale di Polizia penitenziaria". Il disagio, conclude la garante "è stato oggetto di un reclamo collettivo da parte dei detenuti, che l’hanno inviato formalmente al magistrato di Sorveglianza di Bologna", oltre che di una "segnalazione alle Istituzioni competenti delle Camere penali di Bologna, inviato il 19 febbraio a seguito del protrarsi del disagio". Sondrio: delegazione della Regione Lombardia in ispezione al carcere "è tutto ok" di Michele Pusterla Il Giorno, 18 ottobre 2016 Visita di una delegazione della Regione Lombardia dopo le proteste dei detenuti. "Avevo visitato la struttura nel settembre 2015. Da allora sono stati fatti significativi passi avanti. Ho riscontrato una situazione che rasenta la perfezione: sono state realizzate diverse attività. C’è una valida biblioteca, una bella palestra col pavimento in legno, va fatto un plauso al territorio per la grande partecipazione, diverse le donazioni effettuate e interessanti i progetti varati dalla direttrice Stefania Mussio, dirigente molto attiva la quale ha coinvolto i detenuti". Al termine della visita questo il giudizio sulla Casa circondariale espresso da Fabio Fanetti (Lista Civica Maroni), presidente della Commissione regionale sulla situazione carceri. "Abbiamo parlato pure coi detenuti - dice all’uscita Fanetti - ora 38. Vogliamo capire la situazione da tutti gli attori. La direttrice ha fatto scegliere ai reclusi il colore con cui dipingere i muri delle singole celle. C’è un progetto per il verde pulito, 2-3 detenuti sono impegnati nella raccolta mele. Aprirà, inoltre, un laboratorio per la pasta che impegnerà almeno un ospite. L’assistenza sanitaria è bene erogata. C’è, forse, solo un problema di comunicazione fra le varie istituzioni. Ho colto nelle parole una direttrice propensiva al fare". Il vice presidente Michele Busi (Lista Civica Ambrosoli): "Le criticità relazionali in via di miglioramento". Alla mattina la Commissione aveva incontrato Monica Fumagalli per Ats (ex Asl) e Asst (ex Aovv), dalla quale aveva ricevuto rassicurazioni sugli standard qualitativi in ambito di assistenza sanitaria, e il Garante dei detenuti, Francesco Racchetti, che tempo fa ha lasciato l’incarico. "La collega in Regione Paola Macchi molto si è adoperata per promuovere l’incontro - ha affermato Matteo Barberi, consigliere in Comune dei 5 Stelle -. Diamo un segnale forte all’amministrazione comunale affinché prenda a carico la questione-carcere". "Non è un’ispezione inquisitoria - riflette Fabio Pizzul (Pd) - ma la nostra presenza è finalizzata a recuperare un clima positivo". C’erano pure Francesca Valenzi e Antonino Porcino del Provveditorato amministrazione penitenziaria Lombardia. Roma: quando il reinserimento dei detenuti comincia in un’Isola Solidale di Roberta Pumpo romasette.it, 18 ottobre 2016 La struttura di via Ardeatina ospita 50 uomini di diverse età e nazionalità impegnati in varie attività. Il sottosegretario Ferri: "È una risorsa preziosa". Detenuti ed ex detenuti considerati una risorsa per la società e non un peso o persone da emarginare. Questo il tema al centro del convegno "Lo spazio ritrovato. Il reinserimento del detenuto nell’ambiente sociale" che si è svolto venerdì 14 ottobre nella sede dell’Isola Solidale di via Ardeatina. In attività da quasi un anno la casa è composta da 30 stanze, una cappella, uffici, una mensa spaziosa, un ampio giardino, l’orto, un campo da calcio e uno di bocce. Ospita 50 uomini di diverse età e nazionalità in regime di semilibertà, a fine pena o in licenza premio. Vengono loro proposte varie attività: c’è chi coltiva l’orto, chi lavora nel laboratorio di falegnameria, chi in quello di calzoleria. "Questa casa vuol essere una risposta propositiva e fattiva alle necessità di un percorso di risocializzazione e di progressivo e graduale reinserimento sociale - ha spiegato Alessandro Pinna, presidente de L’Isola Solidale -. Il soggiorno all’isola offre agli ospiti l’opportunità di fare un percorso tendente alla responsabilizzazione e alla consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni". Per Vittoria Stefanelli, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Roma, strutture simili aiutano il lavoro della magistratura. "Molti nostri detenuti sono fuori sede - ha spiegato -, vengono da Secondigliano e da posti degradatissimi. Quando sappiamo che con loro, in carcere, si è lavorato bene e abbiamo già dei risultati li mandiamo in strutture come questa che offrono la possibilità di reinserire il soggetto, ovviamente un passo alla volta: oggi con il permesso premio e domani, semmai, con l’opportunità di lavoro che gli si può offrire". Tra gli ospiti dell’Isola Solidale c’è Saverio, 80 anni. Deve scontare una lunga pena per l’omicidio del genero. "Il fatto brutto", come lo chiama lui, è avvenuto il 4 dicembre 2013 al termine di una lite in strada. All’Isola solidale coltiva l’orto. A suo modo è contento di non essere da solo ma scoppia in lacrime pensando al motivo per il quale è agli arresti. "Ho fatto una cosa orribile - dice, è giusto che paghi, ma mi manca la mia famiglia". L’unica cosa che desidera è sentire "anche solo per telefono" la moglie e la figlia che hanno troncato ogni rapporto con lui 3 anni fa. "Io da qua non esco più e vorrei sentirli almeno una volta". C’è poi chi la sua condanna all’ergastolo l’ha tramutata in qualcosa di positivo. A raccontarlo è Francesco Falleroni, segretario generale della Fondazione Federico Ozanam Vincenzo De Paoli."La Fondazione ha seguito un detenuto italiano condannato all’ergastolo che ha già scontato 22 anni di detenzione. Per buona condotta ha ottenuto il permesso di uscire la mattina e rientrare la sera. Ha creato una cooperativa con altri 60 detenuti e, per il suo impegno, in questi giorni gli è stato concesso di vivere una vita quasi normale: non dovrà più rientrare in carcere tutti i giorni e potrà continuare ad aiutare i detenuti che vogliono reinserirsi nella società". "Il percorso rieducativo proposto dall’Isola Solidale, basato sul rispetto delle regole di convivenza, lo spirito di servizio e la progressiva assunzione di responsabilità, senza dimenticare di riservare "spazi aperti" al mondo esterno, rappresenta una risorsa preziosa - ha affermato Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, merita di essere valorizzata e imitata, soprattutto per una realtà complessa come quella di Roma. Infatti, la sola Capitale conta 14 detenute femmine e 38 detenuti maschi in semilibertà, più 28 detenuti maschi in regime di art. 21 (lavoro all’esterno del carcere), senza dimenticare 885 persone (780 maschi e 105 femmine) non detenute, ma che si trovano in regime di affidamento o di messa alla prova". Il Comune di Roma punta l’attenzione alle mamme detenute con figli. "Su questo tema a breve ci saranno novità - ha detto Laura Baldassarre, assessore capitolino alla Persona - vogliamo migliorare i momenti di visita ai genitori detenuti da parte dei figli cominciando dall’orario, evitando che coincida con quello di scuola, passando poi a permessi premio per momenti significativi della vita dei bambini, come i compleanni". Hanno partecipato al dibattito, tra gli altri, anche Cinzia Calandrino, provveditore Amministrazione Penitenziaria delle Regioni Lazio-Abruzzo e Molise, Patrizio Gonnella, presidente associazione Antigone, Rosella Santoro, direttore della Casa circondariale di Civitavecchia e Orazio La Rocca, giornalista de La Repubblica. Napoli: "Il Carcere possibile", gara tra chef stellati a Poggioreale di Sara Stellabotte ildenaro.it, 18 ottobre 2016 La difficoltà di trovare lavoro per chi ha la fedina penale sporca e soprattutto l’assenza di una vera e propria preparazione lavorativa sono spesso i principali ostacoli per ogni detenuto per il suo reinserimento sociale. L’importanza dell’attività lavorativa all’interno di una realtà carceraria è ribadita anche nell’ordinamento penitenziario italiano (legge 375/75 art.15). Il lavoro all’interno del carcere non risponde solo a ragioni di carattere pratico, ma consente nel contempo di abbattere la monotonia e restituire al singolo un senso di utilità sociale. Il carcere diventa, dunque, non solo il luogo di punizione, espiazione della pena, ma occasione di formazione e soprattutto recupero. Nasce così da un’idea dell’Associazione "Il Carcere Possibile", con il supporto no-profit dell’Associazione Wine&Thecity, un’iniziativa senza precedenti: martedì 18 ottobre, la navata della Cappella del Casa Circondariale di Poggioreale, storica struttura di detenzione, risalente al 1905, ospiterà un pubblico di circa settanta persone per una gara culinaria; la serata sarà inaugurata dall’aperitivo di pizze fritte di 50Kalò di Ciro Salvo. La cena rappresenta solo l’ultimo tassello di un percorso di formazione avviato nelle settimane precedenti e curato da tre note eccellenze campane. Ad offrire nozioni di cucina e trucchi del mestiere Marianna Vitale, Una Stella Michelin di Sud Ristorante di Quarto, Peppe Guida, Una Stella Michelin di Antica Osteria Nonna Rosa di Vico Equense e Alfonso Caputo, Una Stella Michelin de la Taverna del Capitano di Nerano; gli chef hanno guidato i detenuti, raggruppati in tre brigate, nella realizzazione di piatti che saranno presentati e votati da esperti nella serata evento. Ad accompagnare le tre portate le fragranze dell’azienda vitivinicola Villa Matilde. Lo scopo della serata consiste nel raccogliere fondi a sufficienza affinché l’iniziativa da unicum possa trasformarsi in un progetto permanente di cucina all’interno della realtà penitenziaria. I più poveri d’Europa di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 18 ottobre 2016 Dopo la Grecia, l’Italia è il paese europeo dove la povertà è aumentata di più dal 2008. Al Sud ci sono più italiani che stranieri nei centri Caritas. Cresce la miseria tra i giovani senza lavoro. La caritas chiede un piano universale entro il 2020, ma il governo ha approvato una misura per soli due anni con fondi insufficienti per affrontare l’emergenza. Siamo il paese dove il rischio povertà è aumentato di più in Europa. Tra il 2008 e il 2015 - i primi sette anni di una crisi che durerà almeno per la prossima generazione - la percentuale delle persone a rischio povertà è salita dal 25,5% al 28,7%. Peggio di noi ha fatto solo la Grecia, passata dal 28,1% del 2008 al 35,7%. La fotografia scattata dall’Eurostat in occasione della giornata mondiale contro la povertà, va vista insieme al rapporto Caritas 2016 su povertà ed esclusione sociale presentato ieri. In Italia vivono in uno stato di povertà assoluta 1 milione 582 mila famiglie, 4,6 milioni di persone. È il numero più alto dal 2005 ad oggi. Senza contare coloro che sono in "povertà relativa": 8 milioni 307 mila, pari al 13,7% delle persone residenti. Nel 2014 erano il 12,9% in un settore dove si registrano le "nuove povertà" dei "working poors", chi lavora e non arriva alla fine del mese. La povertà si sta trasformando e colpisce trasversalmente alle appartenenze nazionali, i ceti sociali e le professioni. Di solito sono gli stranieri a chiedere aiuto ai centri Caritas. Nel 2015, soprattutto a Sud, per la prima volta la percentuale degli italiani ha superato di gran lunga quella degli immigrati. Se a livello nazionale il peso degli stranieri continua a essere maggioritario (57,2%), nel Mezzogiorno sono il 66,6%. Cambia inoltre la composizione anagrafica dei poveri. Rispetto al vecchio modello della rappresentazione che considerava più indigenti gli anziani, oggi la povertà "assoluta" colpisce giovani e giovanissimi in cerca di occupazione e gli adulti rimasti senza impiego. Senza contare la povertà infantile, ricorda Save The Children: un milione di minori vive in povertà assoluta, mentre altri 2 in povertà relativa. Un bambino su 10 non può permettersi un abito nuovo, uno su 20 non riceve un pasto proteico al giorno. Percorrendo lo spettro dell’esclusione sociale si arriva la margine estremo: profughi e richiedenti asilo. Sui 153.842 arrivati in Italia, nel 2015 7.770 si sono rivolti alla Caritas: il 61,2% è in povertà economica (61,2%), il 55,8% soffre di disagio abitativo. Il sistema Caritas è tra quelli che supplisce alla totale mancanza di assistenza e integrazione di queste persone. L’organizzazione ritiene che il governo Renzi abbia "scardinato" lo storico disinteresse della politica nei confronti della povertà stanziando 1,1 miliardi in due anni, più i 500 milioni aggiunti di recente. Ne servirebbero sette per affrontare solo la povertà assoluta. Dati sufficienti per escludere che le due misure transitorie, il sostegno per l’inclusione attiva (Sia) e l’assegno per la disoccupazione (Asdi) che nel 2017 diventeranno reddito di inclusione (Rei), costituiscano una "misura universale di contrasto alla povertà". Questo ha detto ieri il ministro del lavoro Poletti chiudendo il cerchio di una lunga operazione di confusione operata dal governo tra gli strumenti di contrasto alla povertà, il reddito minimo e il reddito di base universale. Il Rei è un mix dei primi due ed è stato presentato da Poletti come "un sostegno economico condizionato all’attivazione di percorsi verso l’autonomia". Di "universale" tuttavia non ha nulla perché l’erogazione di un sussidio fino ai 400 euro sottoporrà famiglie numerose e disagiate a un’intesa attività di profilazione, controllo e coazione da parte dei servizi sociali e per l’impiego. Il tutto per accettare un lavoro (quale?). Questo è l’approccio settoriale e categoriale che non ha nulla a che vedere con il reddito minimo garantito richiesto dall’Unione Europea sin dal 1992. L’Italia è l’unico paese europeo, insieme alla Grecia, a non avere un simile strumento. Per dare l’idea della sproporzione dei mezzi, per il solo RSA (Revenu de solidaritè) la Francia spende 10 miliardi di euro l’anno. Stando ai calcoli dell’Istat un reddito di questo tipo costerebbe in Italia tra i 14,9 e i 23,5 miliardi di euro all’anno. Cifre realistiche e alla portata di mano. Se solo il governo avesse usato i 10 miliardi degli 80 euro e gli 11 (e anche più) miliardi di sgravi inutilmente erogati alle imprese per il Jobs Act. La Caritas è consapevole dei limiti dell’operazione e si augura che il governo metta in campo "un piano che porti all’adozione di una misura universalistica e ben congegnata contro la povertà assoluta" entro il 2020. "Ora si tratta di capire - aggiunge - se quanto realizzato sin qui esaurirà il percorso riformatore - lasciandolo così perlopiù incompiuto - o invece verrà seguito dal passo che segue: la progressiva estensione del Rei a tutti gli indigenti" e il coinvolgimento degli enti locali. Dalle slide di Renzi sulla manovra non sembra emergere alcun piano pluriennale di questo tipo. Per com’è stato concepito il "Rei" potrebbe essere un altro passo per mettere al lavoro (alcuni) poveri in condizione di ricattabilità e estrema subordinazione. Emergenza migranti, l’Italia chiede aiuto anche agli Stati Uniti di Grazia Longo La Stampa, 18 ottobre 2016 Tre le proposte: rivedere i corridoi umanitari, più controlli in Africa, unificare le leggi europee. Per affrontare l’emergenza immigrazione, l’Italia non si rivolge solo all’Europa, ma coinvolge anche gli Stati Uniti. Al vertice G6 dei ministri dell’Interno, in programma nella capitale giovedì e venerdì prossimi alla scuola superiore di polizia, siederà infatti anche una delegazione americana. La questione è complessa e delicata e il premier Matteo Renzi chiede la collaborazione al presidente Usa Barack Obama. Non a caso, del resto, il nostro capo del governo ha portato con sé a Washington, per il dinner State di stasera con Obama, anche Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, avamposto strategico per l’accoglienza dei migranti. Nei due giorni di vertice romano, il nostro Paese si appresta dunque a rafforzare la cooperazione internazionale. Fitta l’agenda degli appuntamenti in programma, che pone all’attenzione sostanzialmente tre aspetti. Il primo parte dal presupposto che l’Italia non potrà continuare a svolgere in eterno l’attuale ruolo di corridoio umanitario per i migranti, recuperati a poche miglia dalle coste libiche. È fondamentale, quindi, un impegno in tal senso anche delle altre nazioni che devono farsi carico degli sbarchi quanto noi. Il secondo fronte di discussione prevede la valutazione delle operazioni di filtraggio, identificazione e dei campi di accoglienza: dovrebbero avvenire nell’area del Sahara, prima che i trafficanti di esseri umani si avvicinino alle coste della Libia. Il terzo nodo da sciogliere concerne l’esigenza di nuove leggi europee per gestire in maniera globale l’arrivo di migranti e profughi. Un problema, quest’ultimo, di non facile soluzione. Proprio ieri il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha stigmatizzato la posizione finora mantenuta dall’Unione europea. "Sui migranti la Ue ci ha tirato un bidone, non rispetta quote - afferma il titolare del Viminale. Sono stati disattesi gli accordi sulla redistribuzione. Potevamo essere l’Italia che lascia morire i migranti ma abbiamo deciso di essere l’Italia del coraggio e siamo andati a prenderli in mare. Questo è il coraggio delle leadership, per salvare vite umane". Ma certamente occorre una svolta. E lo stesso premier Renzi, prima di partire per gli Usa, a proposito dell’accoglienza migranti ha commentato: "Il meccanismo europeo va cambiato, stop al festival dell’egoismo. Le risorse ci sono, ma vanno spese meglio. E anche noi dobbiamo fare di più". Purtroppo in Italia i soldi sono esauriti, i Centri di accoglienza sono al collasso e molte associazioni onlus rischiano lo sfratto. I numeri sono drammatici: per scongiurare che l’intero sistema nazionale occorre un miliardo di euro entro la fine dell’anno. Il G6 romano -presieduto dal ministro Alfano - avrà proprio l’obiettivo di individuare le strategie più adeguate. Intorno al tavolo si confronteranno con il nostro Paese Spagna, Francia, Germania, Regno Unito e Polonia. Oltre alla delegazione statunitense parteciperà anche la Slovacchia, in qualità di presidente di turno Ue. E poiché l’emergenza dei flussi migratori è legata anche a quella del terrorismo islamico, saranno presenti anche il commissario europeo per l’unione della sicurezza, il coordinatore europeo antiterrorismo. Attesa anche per l’intervento di William Lacy Swing, direttore generale Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Contro il bullismo c’è un piano, per le scuole in arrivo 2 milioni di euro di Antonella De Gregorio Corriere della Sera, 18 ottobre 2016 Formazione dei docenti, campagne di comunicazione e una Giornata contro il bullismo a scuola, il 7 febbraio. Dieci azioni per combatterlo e un protocollo per sensibilizzare i giovani su diritti e doveri del web. Giannini: "Non un’ora in più ma alleanza educativa". Un’alleanza tra scuola, famiglia e studenti. Ma anche un Piano massiccio in dieci azioni (e due milioni di euro). Così le istituzioni dichiarano guerra al bullismo, con un occhio alle vittime, una "call to action" agli educatori e nessuna scusante: "i bulli sono dei vigliacchi". "La forza del bullo è quella di mettervi al margine ma voi non vi dovete sentire di meno di nessuno. Parlatene e reagite", ha detto Laura Boldrini, Presidente della Camera dei deputati, in occasione dell’evento "In scena contro il bullismo", al teatro Palladium a Roma. Insieme alla presidente Boldrini, sul palco la ministra dell’istruzione, Stefania Giannini: insieme hanno sottoscritto un Protocollo d’Intesa per la diffusione dei contenuti della Dichiarazione dei diritti e doveri in Internet, elaborata dall’omonima Commissione di studio istituita dalla presidente della Camera. La firma è arrivata al termine di un incontro-performance in cui sono state presentate varie iniziative promosse dalla Camera dei deputati e dal Miur per un uso consapevole di Internet, per la conoscenza dei diritti e dei doveri di ciascuna persona, per la prevenzione e il contrasto del bullismo, del cyberbullismo e del discorso d’odio in Rete. L’attrice Paola Cortellesi ha portato sul palco il suo monologo contro il bullismo. Presenti anche i ragazzi di "Mabasta", il primo movimento anti bullismo animato da studenti, nato al Galilei-Costa di Lecce; Ernesto Caffo, presidente di Sos Telefono Azzurro e la direttrice dei programmi Italia-Europa di save The Children, Raffaela Milano. "Diritti e doveri" - "Internet è qualcosa che è entrato sempre più nelle nostre vite. È un’opportunità ma è uno strumento che bisogna conoscere molto bene, perché ci sono tanti rischi e incognite. I ragazzi molto spesso dimenticano che hanno dei diritti anche in Internet ed è giusto che le scuole li preparino ai loro diritti e doveri sul web", ha detto Boldrini, che ha parlato del Protocollo e dei "14 articoli per sensibilizzare i giovani a un uso responsabile di Internet, perché la rete bisogna saperla usare e non fare errori o commettere leggerezze che possono costare molto cari". Dieci azioni - Accanto al protocollo, il Piano del Miur. Che tra le "azioni" per scardinare il fenomeno, prevede l’istituzione della "Prima Giornata nazionale contro il bullismo a scuola". Appuntamento il 7 febbraio 2017, la stessa data del Safer Internet Day indetto dalla Commissione Europea, per sottolineare come sempre più spesso il bullismo prenda la forma di cyberbullismo. In quella giornata verranno presentate le migliori proposte didattiche elaborate dalle scuole per sensibilizzare, prevenire e contrastare bullismo e cyberbullismo. Ci sarà poi una Campagna Nazionale di comunicazione, "Il Nodo Blu contro il Bullismo", primo spot istituzionale, che sarà progettato e realizzato interamente dagli studenti. E poi il rafforzamento del Sic Italia, Safer Internet Centre, come punto di riferimento per la sicurezza dei giovani sul web; il proseguimento della collaborazione tra Miur e Polizia di Stato e tra Miur e Telefono azzurro, la realizzazione di un format televisivo dal titolo "Mai più bullismo" in collaborazione con Rai 2 e la sigla di due altri protocolli d’intesa tra Miur e R. F. Kennedy Foundation of Europe onlus e tra Miur e azienda ospedaliera Fatebenefratelli. E, ancora, tre progetti rivolti direttamente ai ragazzi: "Verso una scuola amica, bulloff" in collaborazione con Unicef, il tour del film "Un bacio", di Ivan Cotroneo, attraverso matinée nei cinema dedicate alle scuole e il concorso "No hate speech". Formazione - Un capitolo è dedicato alla formazione per i docenti, prevista nell’ambito del Piano Nazionale di Formazione appena presentato dal ministero: a partire dal 2017, 16mila docenti di ogni ordine e grado di scuola saranno formati per l’acquisizione di competenze psico-pedagogiche e sociali per la prevenzione del disagio giovanile nelle sue diverse forme e per l’attivazione di percorsi di formazione di tipo specialistico legati al fenomeno del bullismo e cyberbullismo. Strumenti per scegliere - Il Piano arriva un anno dopo l’emanazione delle "Linee di orientamento per azioni di prevenzione e di contrasto al bullismo e al cyberbullismo". E mira a dare ai ragazzi "la capacità di scegliere sempre e comunque". "Quello che vogliamo fare adesso è darvi gli strumenti perché questa capacità di scelta" possa orientare i ragazzi nella "selezione di ciò che è positivo o negativo", ha detto Giannini. Alleanza educativa - Che ha ricordato come da alcuni anni "più di 80mila ragazzi sono stati coinvolti nel programma Generazioni Connesse". Da oggi le istituzioni scolastiche potranno realizzare interventi di sensibilizzazione, prevenzione e contrasto del bullismo e del cyberbullismo. "Il rispetto si trasmette con il linguaggio, gli atteggiamenti e i comportamenti, a scuola e fuori dalla scuola - ha aggiunto il ministro -. La scuola deve insegnare, e praticare, la cultura del rispetto. Non può esistere un’ora in più per insegnare questo ma un modello educativo che va praticato tutti i giorni" e serve "una gigantesca alleanza educativa, anche con la famiglia. È l’unica vera arma - ha concluso Giannini - che noi abbiamo contro forme di drammatica solitudine". Iraq. Amnesty denuncia gravi violazioni dei diritti umani Askanews, 18 ottobre 2016 Lo ha denunciato oggi Amnesty International in un rapporto, rilanciando l’allarme sul rischio di ulteriori violazioni di massa durante le operazioni militari per strappare la città di Mosul all’Is. Il rapporto si basa su oltre 470 interviste. Milizie paramilitari e forze governative irachene hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani e crimini di guerra, nei confronti di migliaia di civili fuggiti dalle zone controllate dal cosiddetto Stato islamico (o "Is", o Daesh, nell’acronimo arabo). Lo ha denunciato oggi Amnesty International in un rapporto intitolato "Uccisi per i crimini di Daesh: violazioni dei diritti umani contro gli sfollati iracheni ad opera delle milizie e delle forze governative", rilanciando l’allarme sul rischio di ulteriori violazioni di massa durante le operazioni militari per strappare la città di Mosul all’Is. Testimonianze di 470 persone. Il rapporto si basa su oltre 470 interviste a ex detenuti, testimoni, familiari di persone uccise, scomparse o in prigionia, funzionari, attivisti, operatori umanitari e altri ancora. "Dopo essere fuggiti dall’orrore della guerra e dalla tirannia dell’Is, i civili arabi sunniti vanno incontro alla brutale vendetta delle milizie e delle forze governative e vengono puniti per i crimini commessi da quel gruppo" - ha detto Philip Luther, del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. L’appello al governo iracheno. "L’Is costituisce un’assai concreta e mortale minaccia alla sicurezza dell’Iraq ma non può esservi alcuna giustificazione per le esecuzioni extragiudiziali, le sparizioni forzate, la tortura e le detenzioni arbitrarie" - ha sottolineato Luther. "Mentre inizia la battaglia per riprendere Mosul, è fondamentale che le autorità irachene prendano tutte le misure necessarie per evitare che questi agghiaccianti episodi non si ripetano ulteriormente. Gli stati che sostengono le operazioni militari contro l’Is in Iraq devono dimostrare che non chiuderanno ancora una volta gli occhi" - ha proseguito Luther. Il germe della vendetta. Il rapporto denuncia i massicci attacchi per vendetta e la discriminazione nei confronti degli arabi sunniti sospettati di essere stati complici dei crimini dell’Is o di aver dato sostegno a quel gruppo. Molti di loro hanno abbandonato le loro case durante le operazioni militari lanciate nel 2016 in tutto l’Iraq, tra cui Falluja e i suoi dintorni (nella provincia di Anbar), al-Sharqat (provincia di Salah al-Din), Hawija (provincia di Kirkuk) e Mosul (provincia di Ninive). Le milizie a maggioranza sciita coinvolte in queste violazioni dei diritti umani, conosciute come Unità di mobilitazione popolare, sono da tempo sostenute dal governo iracheno che fornisce loro armi e sostegno finanziario. Dal 2016 fanno ufficialmente parte dell’esercito dell’Iraq. Rapimenti di massa, uccisioni e torture. Le ricerche di Amnesty International hanno provato che, durante le operazioni del maggio e del giugno 2016 per riconquistare la città di Falluja e le zone limitrofe, le milizie a maggioranza sciita e probabilmente anche le forze governative hanno commesso crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani. In un episodio scioccante, almeno 12 adulti e quattro minorenni della tribù Jumaila fuggiti da al-Sijir, a nord di Falluja, sono stati vittime di esecuzioni extragiudiziali dopo che il 30 maggio si erano consegnati a uomini che indossavano divise militari e della polizia federale. I maschi sono stati separati dalle donne e dai bambini più piccoli, poi sono stati allineati e fucilati. Almeno altri 73 adulti e minorenni della stessa tribù, sequestrato alcuni giorni prima, sono tuttora scomparsi. Torture e uccisioni di minorenni. Le milizie hanno sequestrato, torturato e ucciso adulti e minorenni della tribù Mehemda che erano fuggiti da Saqlawiya, un altro centro a nord di Falluja. Il 3 giugno sono stati catturati circa 1300 maschi della tribù: tre giorni dopo oltre 600 di loro, con segni di tortura sui loro corpi, sono stati consegnati alla polizia della provincia di Anbar. I sopravvissuti intervistati da Amnesty International hanno raccontato di essere stati detenuti all’interno di un’azienda agricola abbandonata, picchiati e privati di acqua e cibo. Un sopravvissuto ha riferito che 17 suoi familiari risultano ancora scomparsi e che un altro è morto, con ogni probabilità a seguito delle torture subite. La testimonianza. "C’era sangue sulle pareti. Ci picchiavano con qualunque cosa avessero a portata di mano: pale, tubi di gomma, cavi elettrici, sbarre di metallo. Salivano sopra di noi con gli stivali, ci insultavano, ci dicevano che questa era la vendetta per il massacro di Speicher [la base militare dove l’Is catturò e uccise sommariamente circa 1700 reclute sciite]. Due persone sono morte davanti ai miei occhi". Una commissione d’inchiesta istituita dal governatore di Anbar ha concluso che 49 persone catturate a Saqlawiya sono state uccise (fucilate, bruciate o torturate a morte) e che altre 643 restano scomparse. Il governo locale ha annunciato l’apertura di indagini e il compimento di arresti ma non ha fornito informazioni sugli sviluppi. Atrocità non solo a Falluja. I rapimenti e le uccisioni di massa nella zona di Falluja non sono stati episodi isolati. In tutto il paese, migliaia di arabi sunniti fuggiti dalle aree controllate dall’Is sono stati sottoposti a sparizione forzata da parte delle milizie e delle forze di sicurezza. Nella maggior parte dei casi, sono stati fatti sparire dopo che si erano consegnati alle forze filo-governative o dopo essere stati catturati nelle loro abitazioni, nei campi per sfollati o a posti di blocco lungo le strade. Secondo un parlamentare, dalla fine del 2014 le Brigate Hizbullah hanno rapito e fatto sparire fino a 2000 uomini al posto di blocco di al-Razzaza, che segna il confine tra la provincia di Anbar e quella di Karbala. Il mancato controllo delle autorità irachene. "Le autorità irachene - ha concluso Luther - la cui complicità e mancanza d’azione rispetto a queste violazioni di massa hanno contribuito all’attuale clima d’impunità, devono riprendere il controllo sulle milizie e dire a chiare lettere che queste gravi violazioni non saranno più tollerate. Devono indagare in modo imparziale e indipendente su tutte le denunce di torture, sparizioni forzate ed esecuzioni extragiudiziali. Non farlo perpetuerà il circolo vizioso di violenza, repressione e ingiustizia e getterà l’allarme sull’incolumità dei civili che si trovano ancora a Mosul"- ha concluso Luther. Torture durante la detenzione. Tutti i maschi in fuga dalle zone controllate dall’Is e considerati in età da combattimento (grosso modo, tra 15 e 65 anni) sono sottoposti a controlli di sicurezza da parte delle autorità irachene e di quelle del governo regionale curdo, per verificare se abbiano legami con l’Is. Queste procedure sono opache e spesso profondamente irregolari. Alcuni dei fermati vengono rilasciati entro pochi giorni ma altri vengono trasferiti in centri di sicurezza e vi rimangono per settimane o mesi in condizioni terribili, senza poter contattare alcuno e senza essere portati di fronte a un giudice. Detenuti appesi in posizioni dolorose. I detenuti hanno riferito ad Amnesty International di essere stati tenuti appesi in posizioni dolorose per lunghi periodi di tempo, di essere stati torturati brutalmente anche con la corrente elettrica e di essere stati minacciati che le donne della loro famiglia sarebbero state stuprate. Molti hanno dichiarato di aver "confessato" sotto tortura, fornendo informazioni sull’Is o su altri gruppi armati. Le stesse denunce di tortura sono state riscontrate nei racconti di persone arrestate delle forze di sicurezza curde a Dibis, Makhmur e Dohuk, nella Regione autonoma curda. Un uomo ha denunciato: "Mi hanno picchiato con un cavo sottile sulle piante dei piedi. A un altro detenuto hanno spento una sigaretta sul corpo, a un altro che aveva solo 15 anni hanno gettato addosso della cera bollente. Volevano che confessassimo che facevamo parte di Daesh". La triste tradizione dei tribunali iracheni. I tribunali iracheni sono tradizionalmente inclini a basarsi su "confessioni" estorte con la tortura per condannare, spesso a morte, persone sospettate di gravi reati al termine di processi del tutto irregolari. Finora nel 2016 sono state eseguite almeno 88 condanne a morte, per lo più per reati di terrorismo. Sono state emesse altre decine di condanne a morte e almeno 3000 prigionieri si trovano nei bracci della morte in attesa dell’esecuzione. L’obbligo di essere rifugiati. Dalla metà del 2014 decine di migliaia di iracheni sono stati costretti, dalle forze governative irachene, dalle forze di sicurezza curde e dalle milizie, a diventare sfollati. A molti di essi è impedito di tornare a casa, ufficialmente per motivi di sicurezza, mentre altri subiscono limitazioni arbitrarie e discriminatorie alla libertà di movimento. Spesso queste persone sono confinate in campi per sfollati, con scarse possibilità di guadagnarsi da vivere o di accedere a servizi essenziali. Iraq. Operazione Mosul: non ripetere le vendette contro i civili di Falluja di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 ottobre 2016 In un rapporto reso pubblico oggi, Amnesty International ha esortato le forze armate irachene, quelle che combattono al loro fianco e gli stati alleati a non ripetere a Mosul i crimini di guerra commessi per rappresaglia e vendetta a Falluja e in altre zone dell’Iraq strappate nel 2016 allo Stato islamico. Il rapporto, basato su oltre 470 interviste a ex detenuti, testimoni, familiari di persone uccise, scomparse o in prigionia, funzionari, attivisti e operatori umanitari, denuncia le gravi violazioni dei diritti umani - tra cui sparizioni e torture - commesse dalle milizie paramilitari a maggioranza sciita e dalle forze governative irachene nei confronti di migliaia di civili fuggiti dalle zone controllate dallo Stato islamico e, per questa mera circostanza, sospettati di essere stati complici del gruppo armato o di avergli dato assistenza. Le milizie a maggioranza sciita coinvolte nella maggior parte degli episodi, conosciute come Unità di mobilitazione popolare, sono da tempo sostenute dal governo iracheno che fornisce loro armi e sostegno finanziario. Dal 2016 fanno ufficialmente parte dell’esercito dell’Iraq. Le ricerche di Amnesty International hanno provato che, durante le operazioni del maggio e del giugno 2016 per riconquistare la città di Falluja e le zone limitrofe, le milizie a maggioranza sciita e probabilmente anche le forze governative hanno commesso crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani. In un episodio scioccante, almeno 12 adulti e quattro minorenni della tribù Jumaila fuggiti da al-Sijir, a nord di Falluja, sono stati vittime di esecuzioni extragiudiziali dopo che il 30 maggio si erano consegnati a uomini che indossavano divise militari e della polizia federale. I maschi sono stati separati dalle donne e dai bambini più piccoli, poi sono stati allineati e fucilati. Almeno altri 73 adulti e minorenni della stessa tribù, sequestrato alcuni giorni prima, sono tuttora scomparsi. Le milizie hanno sequestrato, torturato e ucciso adulti e minorenni della tribù Mehemda che erano fuggiti da Saqlawiya, un altro centro a nord di Falluja. Il 3 giugno sono stati catturati circa 1300 maschi della tribù: tre giorni dopo oltre 600 di loro, con segni di tortura sui loro corpi, sono stati consegnati alla polizia della provincia di Anbar. I sopravvissuti intervistati da Amnesty International hanno raccontato di essere stati detenuti all’interno di un’azienda agricola abbandonata, picchiati e privati di acqua e cibo. Un sopravvissuto ha riferito che 17 suoi familiari risultano ancora scomparsi e che un altro è morto, con ogni probabilità a seguito delle torture subite. Questa è la sua testimonianza: "C’era sangue sulle pareti. Ci picchiavano con qualunque cosa avessero a portata di mano: pale, tubi di gomma, cavi elettrici, sbarre di metallo. Salivano sopra di noi con gli stivali, ci insultavano, ci dicevano che questa era la vendetta per il massacro di Speicher. Due persone sono morte davanti ai miei occhi". Una commissione d’inchiesta istituita dal governatore di Anbar ha concluso che 49 persone catturate a Saqlawiya sono state uccise (fucilate, bruciate o torturate a morte) e che altre 643 restano scomparse. Il governo locale ha annunciato l’apertura di indagini e il compimento di arresti ma non ha fornito informazioni sugli sviluppi. I rapimenti e le uccisioni di massa nella zona di Falluja non sono stati episodi isolati. In tutto il paese, migliaia di arabi sunniti fuggiti dalle aree controllate dall’Is sono stati sottoposti a sparizione forzata da parte delle milizie e delle forze di sicurezza. Nella maggior parte dei casi, sono stati fatti sparire dopo che si erano consegnati alle forze filo-governative o dopo essere stati catturati nelle loro abitazioni, nei campi per sfollati o a posti di blocco lungo le strade. Secondo un parlamentare, dalla fine del 2014 le Brigate Hizbullah hanno rapito e fatto sparire fino a 2000 uomini al posto di blocco di al-Razzaza, che segna il confine tra la provincia di Anbar e quella di Karbala. Il rapporto di Amnesty International denuncia anche il costante ricorso alla tortura, da parte delle forze di sicurezza e delle milizie, nei centri usati per i controlli di sicurezza, nelle strutture detentive non ufficiali gestite dalle milizie e in quelle ufficiali dirette dai ministri della Difesa e dell’Interno nelle province di Anbar, Baghdad, Diyala e Salah al-Din. Tutti i maschi in fuga dalle zone controllate dall’Is e considerati in età da combattimento (grosso modo, tra 15 e 65 anni), infatti, sono sottoposti a controlli di sicurezza da parte delle autorità irachene e di quelle del governo regionale curdo, per verificare se abbiano legami con l’Is. Queste procedure sono opache e spesso profondamente irregolari. Alcuni dei fermati vengono rilasciati entro pochi giorni ma altri vengono trasferiti in centri di sicurezza e vi rimangono per settimane o mesi in condizioni terribili, senza poter contattare alcuno e senza essere portati di fronte a un giudice. I tribunali iracheni sono tradizionalmente inclini a basarsi su "confessioni" estorte con la tortura per condannare, spesso a morte, persone sospettate di gravi reati al termine di processi del tutto irregolari. Finora nel 2016 sono state eseguite almeno 88 condanne a morte, per lo più per reati di terrorismo. Sono state emesse altre decine di condanne a morte e almeno 3000 prigionieri si trovano nei bracci della morte in attesa dell’esecuzione. Brasile. Scontri in carcere fra gang rivali, uccisi otto detenuti Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2016 Otto persone sono morte durante uno scontro fra gang rivali nel carcere brasiliano Enio Pinheiro dos Santos di Porto Velho, nello Stato di Rondonia. "Gli scontri sono cominciati in mattinata - ha dichiarato Jobson Bandeira, il direttore del penitenziario - le due fazioni si sono affrontate ed hanno appiccato il fuoco in una cella, dove erano rinchiusi otto detenuti. Sono morti tutti asfissiati per il fumo dei materassi dati alle fiamme. Due feriti sono stati trasportati in ospedale in gravi condizioni". Gli scontri fra bande rivali in carcere continuano a essere frequenti in Brasile. Domenica 16 ottobre nel carcere di Boa Vista, nel nord del Paese, 25 detenuti sono morti dopo una lite fra gang di narcotrafficanti. Un portavoce della polizia ha riferito al quotidiano ‘O globo che sette persone sono state decapitate mentre altre sei sono state carbonizzate. Durante gli scontri sono stati presi in ostaggio anche un centinaio di visitatori, che poi sono stati rilasciati. La rivolta è scoppiata quando un gruppo di detenuti, armati di coltelli e bastoni, è riuscito a penetrare in un’altra ala del penitenziario, dove erano rinchiusi esponenti di un’altra banda criminale rivale. Nella prigione di Boa Vista, che ha una capienza di 740 detenuti, al momento sono rinchiuse 1.400 persone. Il governo regionale ha inviato nel carcere un distaccamento di polizia antisommossa, che ha fatto irruzione durante la notte per poi gestire il rilascio degli ostaggi, la maggior parte dei quali erano donne. Secondo la polizia gli scontri tra le fazioni rivali nel carcere di Porto Velho sono scoppiati dopo la lite nel penitenziario di Boa Vista.