L’uomo che lotta per migliorarsi non piace a molti Il Mattino di Padova, 17 ottobre 2016 "Viene da pensare che l’uomo che lotta per migliorarsi non piace a molti": è una frase detta da un detenuto dell’Alta Sicurezza, uno di quelli classificati come "i mafiosi", e quindi gli irrecuperabili. A Padova da qualche anno si è sperimentato invece di credere nella possibilità del cambiamento, ma la fatica è enorme perché il percorso è pieno di ostacoli. L’ultimo, posto dall’Amministrazione penitenziaria, pareva voler imporre la chiusura di questa sperimentazione, ma alla fine i dirigenti delle carceri hanno capito che far partecipare queste persone ad attività, come il progetto di confronto con le scuole, non è un regalo, ma una sofferenza e una fatica, che però danno un senso alla carcerazione. E lo spiegano bene le testimonianze che seguono, di persone condannate per gravi reati che si trovano a dover mettere in discussione tutto il loro passato proprio di fronte a dei giovanissimi studenti. Frequentare Ristretti Orizzonti non è quel passatempo che in molti pensano Sono arrivato nel carcere di Padova nel 2009, ero appena uscito dal regime duro del 41bis, le prime lettere che ho ricevuto dai compagni detenuti rinchiusi in altri istituti dicevano "Caro amico, sei stato fortunato ad arrivare a Padova, lì si sta bene", allora mi sono fatto una risata amara nel sentire dare del fortunato ad un ergastolano solo perché trasferito in un altro carcere. Dopo anni di immobilismo ho cominciato a frequentare la redazione di Ristretti Orizzonti, dove ho incontrato tanti detenuti della Media Sicurezza, che mi hanno spiegato che questa attività non è un passatempo pieno di privilegi, ma un percorso travagliato e in salita. Una delle proposte della redazione è il progetto scuola/carcere, che consiste nel confrontarsi con gli studenti delle scuole superiori del Veneto. Per tre giorni alla settimana ti siedi davanti a un centinaio di studenti, e ti senti gli occhi di tutti quei giovani addosso, quegli occhi che sembra che ti penetrino fino a dentro l’anima, per non parlare delle loro domande che ti inchiodano, il confronto con loro non è facile per più motivi, diverso contesto territoriale, mentalità, età, ma tutto quello che si fa nella redazione non è facile. Nei miei 24 anni di detenzione gli anni passati alla redazione sono stati i più impegnativi, frequentare la redazione ti responsabilizza perché sei cosciente che alcune persone ti hanno dato la loro fiducia, ma sei cosciente che questo tuo percorso è visto in malo modo anche da chi sta fuori, in particolare da chi vive in quei territori del sud dove la fa da padrone una subcultura per cui le istituzioni sono il nemico. Ma la cosa che più fa rabbia e ti demoralizza è che proprio per le istituzioni rimango un irrecuperabile, infatti questo mio percorso di reinserimento è reso sempre più difficile con trasferimenti o disposizioni dei vertici dell’Amministrazione che mi impediscono di frequentare la redazione perché sono un detenuto dell’Alta Sicurezza. Qualcuno però ha capito che questo ritorno al passato manderebbe in fumo anni di percorso di reinserimento costati impegno e sacrifici non solo a me, ma anche alle persone che hanno creduto in questo progetto come i volontari che ci hanno seguito costantemente. Se tornassi indietro sicuramente rifarei la scelta di frequentare la redazione, sia per le persone che ci ho trovato sia perché potermi confrontare con la società esterna mi ha aiutato a togliermi quei paraocchi che mi aveva messo la subcultura dominante sul territorio da cui provengo, di certo mi preparerei meglio ad affrontare le critiche e mi difenderei dalle delusioni e difficoltà che a volte le istituzioni ti fanno trovare puntualmente sulla via di questo percorso. Viene da pensare che l’uomo che lotta per migliorarsi non piace a molti. Frequentare Ristretti Orizzonti non è quel passatempo che in molti pensano, ma un vero lavoro pieno di responsabilità che ti migliora e ti avvicina alla società esterna. Tommaso Romeo Ci sto lavorando seriamente, sul mio cambiamento Quando si cambia un certo stile di vita è perché si elaborano dei sentimenti nuovi, criticando profondamente il proprio passato. Un lavoro faticoso è quello della rinascita, fatto di giorni che pesano come mattoni. Io ci sto lavorando seriamente sul mio cambiamento perché ci credo, sono lontani quei giorni in cui credevo che le istituzioni fossero qualcosa di strano, di sbagliato, questo accadeva perché culturalmente non capivo il significato del rispetto delle regole e delle leggi. Ma in tutti questi anni di carcere ci sono state delle persone che hanno contribuito al mio totale cambiamento, e anche se come ergastolano sono chiuso, inutile, immobile come un masso, voglio cercare di ricostruire il mio diritto ad una vita normale. In tutti questi anni per non farmi distruggere dalla prigione ho appreso tante cose: scrivere per raccontarsi, comunicare con il prossimo per uscire fuori con la mente, per sentirsi ancora vivi. Un ergastolano ha ben poco da sperare, ciò non toglie che io sento il bisogno di essere diverso anche se sono in carcere, ho delle responsabilità verso quelle persone che mi seguono, la fiducia che mi danno diventa un impegno sempre maggiore. Certo non è facile quando si vive da diversi anni in carcere, ma il coraggio sta proprio nel correre là dove gli altri si sono fermati. Tutto questo l’ho appreso solo perché adesso sono un uomo maturo, e non più quel giovane scapestrato che non ha saputo scegliere bene, tra le esperienze brutte e quelle buone io mi sono fatto coinvolgere solo da quelle brutte. Colpito da un lutto familiare, il mio declino è stato inevitabile anche per mia scelta, perché pensando alla vendetta ho ferito ancora di più la mia famiglia. Oggi cerco di dimostrare che sono diventato responsabile non solo per la mia vita ma anche verso il prossimo, assumendomi le mie responsabilità verso quella società fatta di studenti, di persone che entrano qui in carcere per confrontarsi con noi e comprendono il mio cammino di crescita. Nei primi tempi, io che mi trovo in una sezione di Alta Sicurezza non capivo nulla, mi sembrava tutto strano, diverso, ma poi abbiamo iniziato, carta e penna e giù a scrivere e scrivere e riflettere sul passato. Se voglio cambiare devo elaborare quel passato e guardare al mio futuro, se mai dovessi avere un futuro da uomo libero, ma per adesso devo camminare da solo perché c’è tanta strada da fare e sarà faticosa. Io credo però di essere pronto per proseguire e sono fiducioso perché mi sento diverso e cambiato. Gli anni passano per tutti ed io non faccio più parte del mio passato, io guardo al presente dentro queste mura, che mi sta aiutando a diventare una persona diversa. Giovanni Zito Spesso metterci la faccia comporta essere giudicati con durezza Sono in carcere da più di venti anni, la mia è sempre stata una carcerazione difficile, non accettavo le regole dei vari istituti e avevo un modo tutto mio di ragionare, spesso litigavo con gli agenti, questo modo di reagire mi ha portato diverse sanzioni disciplinari fino a quando ho avuto la fortuna di essere trasferito a Padova, dove sto scontando il mio ergastolo. Non appena arrivato mi sono reso conto che era un carcere diverso, perché ti offriva delle opportunità, e man mano che passavano i giorni mi sentivo sempre più vivo a livello psichico, sentivo crescere dentro di me la voglia di dare il meglio, però essendo allocato nel circuito di Alta Sicurezza le opportunità erano minime, fino a quando su mia richiesta ho iniziato uno speciale cammino nella redazione della rivista Ristretti Orizzonti, all’inizio con un corso di scrittura e in seguito come redattore, partecipando ai convegni, al progetto scuola/carcere. Ascoltando le domande degli studenti, fatte dopo aver sentito le testimonianze raccontate dai miei compagni detenuti della Media Sicurezza, ho cominciato a riflettere sul mio passato e sul mio modo di pensare, sentendo la voglia e la necessità di mettermi in discussione e di raccontare la mia storia. Ho avuto fiducia nelle persone che mi hanno permesso di iniziare questo lungo e difficoltoso percorso e non ho mai pensato che mi avrebbe portato privilegi o benefici, anzi ho potuto constatare che spesso "metterci la faccia" comporta essere giudicati con durezza. Recentemente una nuova disposizione dell’Amministrazione aveva vietato a noi del circuito Alta Sicurezza di svolgere attività unitamente ai detenuti di Media Sicurezza, ma sarebbe stato davvero un tragico paradosso tornare al punto di partenza, e per fortuna l’esperienza di cambiamento che stiamo facendo può continuare. Aurelio Quattroluni Ventunesimo anno trascorso in carcere di Aurelio Quattroluni (detenuto in AS1) Ristretti Orizzonti, 17 ottobre 2016 Ventun anni. Provate a immaginare in una vita normale quante cose si possono fare, quanti momenti si possono vivere. Momenti belli o dolorosi, comunque sia è vita vera e, come tutto ciò che accade sulla terra, un evento accade, si elabora e si supera assieme alle persone che ami e che ti stanno vicino. Vivere da ergastolano invece appare oggi come una tragedia con cui bisogna convivere, ogni santo giorno che ci si sveglia, assieme ai familiari che per tutti questi anni mi sono rimasti vicino. I miei due figli, quando li ho lasciati a malapena camminavano, mi sono perso i loro pianti, il loro primo giorno di scuola, la loro adolescenza e nonostante tutto posso dire di essere fortunato grazie a mia moglie, che li ha educati e soprattutto ha fatto in modo che io non fossi uno sconosciuto per loro. Anzi, in questi lunghi anni di distacco è stata capace di tenere viva ed autorevole la mia presenza in casa e nei cuori dei miei figli e oggi nei miei nipotini. Tutto questo mi dà la speranza di lottare ogni giorno; non posso però negare che ci sono giorni in cui desidero morire piuttosto che vivere il futuro senza alcuna certezza. Poi ritorno in me, consapevole che fare certi pensieri è un peccato, specie per quelle persone che tragicamente perdono la vita. Allora mi dico che vale la pena lottare anche quando non si ha più la forza, e quindi metto i miei perché su carta con la speranza che possano smuovere le coscienze delle Istituzioni, affinché pensino sul serio non a lasciarci morire in carcere ma ad aiutarci a fare un percorso di reale reinserimento nella società. Vi racconto quel maxi-processo di 30 anni fa di Alberto Cisterna Il Dubbio, 17 ottobre 2016 La lotta a Cosa Nostra: a Palermo andò in scena il capolavoro giudiziario di Falcone. Fu tutto il bene e tutto il male della magistratura. Trent’anni dall’inizio del maxiprocesso di Palermo. Alla sbarra quasi 500 imputati. I rappresentanti ed i gregari dei più importanti mandamenti della mafia siciliana. Un’impresa costata la vita a tanti servitori dello Stato, ed a Falcone e Borsellino tra i primi. Un’impresa osteggiata dentro e fuori la magistratura italiana. I nemici esterni ed interni del maxiprocesso furono tanti e questo resta ancora un capitolo oscuro di una storia che ha ormai i contorni di un’epopea. Portare alla sbarra, tutti insieme, centinaia di mafiosi, mentre si andavano spegnendo nel Paese i bagliori di sangue del terrorismo, era più che celebrare un processo. Era un progetto "politico", lungimirante ed ambizioso, per ribaltare le sorti della Sicilia e spezzare il giogo delle cosche nel Sud che, Falcone riteneva, avrebbero finito per minacciare la democrazia e le sue regole. Negare la natura "politica", ossia etica, della scelta di Falcone e i suoi di sconfiggere per sempre la mafia raccogliendo in un unico processo le dozzine di indagini, prima spezzettate in un nugolo di micro inchieste, equivarrebbe (forse) a negare il nucleo morale più denso del segnale che si voleva dare con quella intuizione così dirompente e innovativa. Sia chiaro nella storia del Paese non erano mancati processi a carico di decine e decine di imputati, anche in Sicilia e soprattutto negli anni 60. Non era in discussione, solo, un dato numerico. Per la prima volta si voleva processare la Mafia e, con essa, coloro che ne facevano parte. Un’operazione che definire solo giudiziaria, ripeto, sarebbe poca cosa. E poiché si doveva far comprendere alla mafia ed alla Nazione la portata di quella rivoluzione, i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi, per far comprendere i risultati delle proprie acquisizioni e per condividere le scoperte costate il sangue di tanti. Ecco la storia del maxiprocesso è, anche, la storia di una relazione nuova, sofisticata verrebbe da dire, tra giustizia ed informazione. I vecchi cronisti di "giudiziaria" vennero poco a poco soppiantati nelle redazioni da un ceto di intellettuali, spesso raffinati, che si votarono a scrivere in modo nuovo della mafia ed elaborarono linguaggi efficaci e mai sperimentati prima. La spiccata prudenza, l’agiografia poliziesca, cedettero il passo ad analisi più profonde e radicali. Le leggi dell’economia, della politica, della sociologia, della cultura vennero indirizzate per sostenere e confermare le tesi di Falcone e del pool. L’esistenza della "Cupola", della piramide mafiosa, il cosiddetto teorema Buscetta costituirono, probabilmente, il primo caso in cui verità sociologiche e comportamentali uscirono dal recinto tecnico e grigio dei processi per spandersi nella società civile come categorie di interpretazione della realtà. Leonardo Sciascia stesso, il più fine ed integro intellettuale del tempo, restò spiazzato da un’operazione che non era solo, e non era più, una buona strategia processuale, ma soprattutto il mezzo per rendere egemone nella società italiana (e non solo) l’interpretazione della mafia e dei suoi meccanismi di potere e sangue. Ci sarà la polemica strumentale, alimentata da alcuni superficiali, dei "professionisti dell’antimafia", e poi cancellata da Giovanni Falcone con la prefazione del suo libro "Cose di cosa nostra" dedicato proprio a Sciascia. Dopo tre decenni non deve essere considerato un caso che le prime due cariche della Repubblica, il presidente Mattarella e il presidente Grasso, abbiano indissolubilmente legato le proprie esistenze a quella stagione. È forse la vittoria più grande di quella strategia geniale del pool palermitano. Il consenso sociale che si è coagulato su queste vite spese dalla parte dello Stato è la dimostrazione più evidente che non si trattato solo di un maxiprocesso, ma di una fine intuizione "politica", ossia della consapevole realizzazione di un contesto entro cui costruire e sorreggere la convinzione che la mafia sarebbe stata sconfitta anche fuori dalle aule di giustizia. A dispetto di un fatalismo prossimo alla complicità. Di questa enorme eredità restano, come detto, segnali contraddittori. Lo strumento del maxiprocesso è stato man mano piegato ad esigenze particolari, se non personali, per dare lustro a qualche attività di polizia. Per carità cose importanti, ma che nulla hanno a che fare con quella stagione e con quella visione "alta" della società e della magistratura. Lo stesso giornalismo, nel progressivo esaurirsi della parabola straordinaria di un ceto colto e lungimirante, appare, troppe volte, la mera cassa di risonanza di indagini e di atti giudiziari destinati, abbastanza velocemente, ad essere dimenticati. Dopo 30 anni quella lezione "politica" ed etica ha ceduto il passo alla furbizia dei carrierismi e dei protagonismi individuali, mandando in fumo il senso profondo di quell’aula gremita di centinaia di mafiosi sperduti e vocianti. Come in un quadro di Salvador Dalì il tempo di quel processo appare consunto, misurato da orologi non più capaci di stare in piedi, ma solo adagiati, svuotati di senso, su rami spogli ed erosi. Visto dalla prospettiva di questa decadenza utilitaristica lo strumento del maxiprocesso appare desueto, se non addirittura denso di minacce. La bulimia del processo monstre fagocita fatti e persone, adoperando talvolta legami deboli, pregiudizi, feticci ideologici o sociologici (si pensi solo all’appeal mediatico della cosiddetta zona grigia, rimasta priva di apprezzabili conferme processuali). Esattamente l’opposto dell’ambizioso progetto del pool palermitano che puntava al nucleo centrale della mafia evitando di selezionare comportamenti, abitudini, relazioni che erano proprie dell’antropologia siciliana e meridionale in generale. Falcone ed i suoi non immaginavano alcuna contaminazione o contagio dei mafiosi verso un’immaginifica società civile, pura e innocente, preda degli appetiti dei picciotti, ma mostrarono piuttosto di avere sempre ben chiaro il punto di separazione tra la callida collusione e la succube connivenza delle collettività siciliane con la mafia. Ebbero l’ambizione di processare le cosche e non la società palermitana o un indistinto sistema di potere. Per questo, a distanza di 30 anni, appare ancora più opaca la posizione di chi scelse di fermarli o di schierarsi contro. Il maxiprocesso rappresentò una straordinaria manifestazione di forza e di efficienza di una parte della magistratura e delle forze di polizia e questo dovette allarmare non solo la mafia. Dopo 10 anni sotto scorta grido ai boss: io sono ancora vivo di Roberto Saviano La Repubblica, 17 ottobre 2016 Dieci anni. Eppure, è come se fosse accaduto stamane. Ci sono cose a cui non ci si abitua. Mai. Una di queste è la scorta. Dieci anni fa ricevetti una telefonata dall’allora maggiore dei carabinieri Ciro La Volla. Non dimenticherò mai le sue parole. Cercava di non spaventarmi, cercava di dare una comunicazione tecnica, ma lui stesso aveva la voce preoccupata: mi avvertiva che sarei stato messo sotto protezione. Quando vennero a prendermi, chiesi: "Ma per quanto?". E un maresciallo rispose: "Credo pochi giorni". Sono passati dieci anni. I motivi mi giunsero come una grandinata di situazioni che non conoscevo. Una detenuta che aveva svelato un piano contro di me, poi le dichiarazioni di Carmine Schiavone, poi informative su informative. Avrei voluto tornare indietro e non scrivere più "Gomorra", non scrivere più alcun articolo, rifugiarmi. Fare una sintesi di questi anni è difficilissimo, le prime parole che mi sento di spendere sono tutte di gratitudine per i carabinieri che mi hanno scortato ogni giorno, così come per gli ufficiali che li hanno coordinati. Ho visto il loro impegno, i sacrifici, le attenzioni, che in questo momento vorrei omaggiare. Sono diventati per me una famiglia, spesso le loro caserme mi hanno accolto. Il tempo dello sconforto arriva quando ti accorgi che tutto viene percepito come normale. Dopo il mio caso, in Italia è esplosa una quantità di richieste di protezione a giornalisti e attivisti, e tutto è sembrato normale, ordinario, scontato. La verità è che non avevo idea di ciò che mi aspettasse. Potevo immaginare una vendetta ma non le spire di un Paese talmente immerso in una cultura del ricatto che diventa consustanziale alla strategia dei clan. Si dà per scontata la libertà d’espressione. In realtà è costantemente minacciata, ancor prima che dalle situazioni di minaccia militare, dall’isolamento, dalla diffamazione: chi è esposto pubblicamente, chi decide di affrontare questi temi sa che non avrà affatto una vita facile. Chi descrive le organizzazioni criminali, gli appalti, il riciclaggio sa che diventerà, in qualche modo, bersaglio. Perché non si discuterà solo del merito di ciò che scrive, ma si cercherà di distruggere la sua credibilità. È come se chi scrive di mafia mettesse in difficoltà il lettore. È come se si innescasse un senso di colpa nel lettore che si chiede: e io dov’ero mentre accadeva questo? Io che faccio? Quasi un sentirsi complici. E quindi è più facile dire: l’hai scritto per interesse, è tutta una messinscena, è tutto esagerato. O l’altra accusa, la più comune di tutte: ma già si sapeva, già è stato detto, il tuo non è nient’altro che mettere insieme cose note. Ma a questo serve l’analisi: a mettere insieme le cose e dare loro un nuovo significato. È ciò che temono di più le organizzazioni. Ma questi sono gli effetti collaterali della battaglia. Negli anni non ho dovuto subire solo la difficoltà di una vita sotto scorta, ma anche l’idiozia di chi parla senza conoscere nulla. La peggiore feccia politica ha sempre criticato la mia protezione come se fosse innanzitutto scelta da me (ribadisco ancora una volta che non ne ho mai fatto richiesta) e senza aver mai letto nessuna informazione al riguardo. Sembrava che la mia vita dovesse spegnersi da un momento all’altro, nel modo più violento e bizzarro. E poi ci fu l’avvenimento più pesante di tutti: quando i boss Antonio Iovine e Francesco Bidognetti firmarono quella che l’Antimafia di Napoli ha considerato la minaccia più grave, fatta non solo a me ma ad altri che si erano esposti contro di loro. Si accordarono sull’utilizzo di un’istanza di rimessione per spostare il processo, che io avrei, secondo i boss e il loro avvocato, condizionato con i miei scritti. Era il 13 marzo 2008 e si stava celebrando a Napoli il giudizio di appello del processo Spartacus. Bidognetti e Iovine (che al tempo era latitante), tramite il loro avvocato, Michele Santonastaso, tentarono un’ultima carta: la ricusazione del Collegio giudicante per legittima suspicione, come disciplinato dalla legge Cirami. Un’iniziativa legittima, ma che per le sue modalità suscitò sin da subito scalpore e preoccupazione. Quell’istanza di diverse decine di pagine venne letta interamente in aula - un fatto senza precedenti sul piano processuale - fino a diventare un vero e proprio proclama, con il quale i capi del clan dei Casalesi, per bocca del loro avvocato di punta, "denunciavano" i condizionamenti che avrebbero influenzato la serenità di giudizio della Corte d’Assise d’Appello di Napoli e tutti i soggetti artefici degli stessi: scrittori, giornalisti e magistrati che a Napoli avrebbero lavorato in sintonia ai danni degli imputati. Mi si chiedeva di "fare bene" il mio lavoro, che dal punto di vista della criminalità significa smettere di farlo cercando di spiegare ciò che sta accadendo, raccontare con dovizia di particolari solo i fatti di cronaca evitando accuratamente analisi sistematiche di quanto succede sul territorio e la descrizione del contesto economico e politico nel quale i singoli eventi si inseriscono. Già nell’immediatezza dei fatti la condanna dell’accaduto fu unanime: dall’allora procuratore generale della Repubblica Vincenzo Galgano fino all’ex procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, chi conosceva le dinamiche del processo, e in particolare di quel tipo di processi, subito comprese le reali finalità di quella lettura. E fu unanime per un motivo preciso: non si parlava di stampa e magistratura in termini generali, no. Si facevano nomi e cognomi indicando agli affiliati possibili obiettivi. Io all’epoca vivevo già da due anni sotto scorta e in quell’aula ero presente non da uomo libero, ma da scortato, da protetto da quelli che mi stavano di nuovo minacciando. Ero un topo in gabbia nonostante non avessi commesso alcun reato e quelle parole mettevano un carico da cento. La lettura dell’istanza di rimessione diede vita a un processo che si è concluso in primo grado nel novembre 2014: i boss sono stati assolti e a essere condannato, a un anno di reclusione per minaccia grave, è stato solo l’avvocato Santonastaso. Le motivazioni della sentenza sono interessantissime. L’assoluzione dei boss è conseguenza della difficoltà processuale di dimostrare il loro diretto coinvolgimento nella redazione dell’istanza, ma si stabilisce con nettezza che tra le finalità di Santonastaso vi era principalmente quella di agevolare il sodalizio guidato proprio dai due boss. Peraltro, successivamente, lo stesso Santonastaso è stato condannato dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere a 11 anni di reclusione per il reato di associazione per delinquere di stampo camorristico, favoreggiamento e falsa testimonianza aggravati, anche in quel caso, dall’aver agito per favorire un’associazione camorristica. Ecco perché, come è scritto nella sentenza, "la prospettazione di un male concretamente realizzabile per la profonda conoscenza del modo di pensare degli affiliati al clan dei Casalesi, in caso di mancato adeguamento del giornalista a un’idea di informazione più blanda e superficiale, costituisce una vera e propria minaccia". Santonastaso si è sempre difeso sostenendo che avrebbe agito all’insaputa dei suoi assistiti, nonostante in altri processi sia stato indicato come vero e proprio rappresentante all’esterno dei boss reclusi al 41bis. Ecco di cosa stiamo parlando: avvocati, talvolta rappresentanti delle forze dell’ordine, faccendieri scaltri e arrivisti, che hanno talento e fame di potere. A loro il ruolo di difensori - fondamentali custodi del principio costituzionale di inviolabilità del diritto di difesa - sta stretto. È su queste persone che la camorra fa affidamento, sa che si possono comprare e che per questo potrà utilizzarle per qualunque scopo, anche per far sì che nei casi più delicati sia difficile ricondurre nei processi le responsabilità ai capi: se ci pensate è quello che a volte accade anche ai piani alti dell’economia capitalista. "A mia insaputa" in Italia è ormai formula di rito. Ripetuta, calcolata, abusata. "A mia insaputa", così si difendono politici, imprenditori, faccendieri, chiunque non sappia giustificare una condotta sulla quale la magistratura sta indagando. "A mia insaputa" è anche la formula con cui i boss di camorra trovano il capro espiatorio che paghi sulla propria pelle la responsabilità di scelte odiose, con un’attenzione alla "rispettabilità" che solo in apparenza è valore di poco conto anche per un pluriergastolano. "Guappi di cartone" li ho definiti più volte. Codardi. Codardi che da dieci anni mi costringono a campare così. Eppure, nonostante tutto, quello che oggi mi sentirei di gridare loro in faccia è: non ci siete riusciti! Non siete riusciti a ottenere quello che volevate. Non mi sono fermato, non mi sono piegato, anche se più volte mi sono spezzato. Ma se c’è una cosa che insegna questa lotta che ho intrapreso con l’arma più fragile e potente che esista, la parola, è che proprio quest’ultima può di volta in volta rimettere insieme ciò che è andato in frantumi. Esattamente come scrissi dieci anni fa in Gomorra: "Maledetti bastardi, sono ancora vivo!". Obiettivo: insabbiare Mafia Capitale di Enrico Fierro e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2016 Il 5 giugno 2105 la Cassazione, ha già riconosciuto l’aggravante mafiosa. E c’è anche una condanna in primo grado, quella di Emilio Gammuto, collaboratore di Buzzi. A Roma la mafia non esiste. Non "deve" esistere. Quindi se la mafia (quella con coppola in testa e lupara a tracolla) non c’è, anche un’inchiesta, che i giornali impropriamente hanno chiamato addirittura "Mafia Capitale", non ha motivo di esistere. Il procuratore Giuseppe Pignatone e i suoi pubblici ministeri hanno lavorato tanto e sono stati generosi, ma non hanno scoperto la Cupola sotto il Cupolone, al massimo una sgangherata accolita di mariuoli, cravattari, grassatori, che in combutta con qualche politicante di infimo rango ha rubacchiato un po’ di danari pubblici. E che sarà mai? Infine, a provare (ma questa volta in modo definitivo e addirittura tombale) l’inesistenza di una qualche Cosa Nostra alla carbonara, le recenti 116 richieste di archiviazione per una serie di personaggi coinvolti. 116, apparentemente un numero enorme, e tanto basta ai giornali per inanellare una serie di giudizi definitivi: inchiesta-bolla di sapone, inchiesta morta, mafia capitale non esiste e così via. Dimenticando due cose. La prima, e forse più importante, visto che dimostra, nonostante i mille problemi, il funzionamento del nostro sistema giudiziario: a chiedere le archiviazioni è stata la stessa Procura. I pubblici ministeri, vagliate una serie di testimonianze, fatti i confronti del caso, preso atto di incongruenze a volte plateali, decidono che per una serie di posizioni va chiesta l’archiviazione anche per l’accusa più grave, quella di far parte di una associazione a delinquere di stampo mafioso. La seconda, certamente più dolorosa da ammettere, è che l’inchiesta non è affatto morta, il processo è in piedi e va avanti con 70 indagati in libertà per i quali è stato chiesto il processo e 46 già a giudizio a Rebibbia. Tutti archiviati, tutti innocenti? Non è proprio così, se si ha la pazienza di chinarsi sulle "carte" e fare lo sforzo di leggerle. Prendiamo Nicola Zingaretti, Presidente della Regione Lazio. Il 23 giugno 2015 Salvatore Buzzi, principale protagonista di questa vicenda, lo accusa aver preso parte alla spartizione dei lotti di una gara d’appalto ("gara del calore") indetta dalla Regione: "Sei lotti dovevano essere assegnati a imprese vicine alla componente politica della maggioranza e uno a quelle vicine all’opposizione". Buzzi lo aveva saputo da Luca Gramazio (ex consigliere regionale del centrodestra, anche lui sotto processo in primo grado). I magistrati raccolgono la testimonianza di Buzzi, sentono Gramazio (che smentisce) e archiviano. Questa è la motivazione: "La natura de relato di parte delle dichiarazioni di Buzzi, e l’assenza di conferme da parte di Gramazio sono elementi che impongono l’archiviazione". Gianni Alemanno. L’accusa più infamante per l’ex ministro ed ex sindaco di Roma, è quella di aver fatto parte di una accolita di mafiosi. Pignatone e i suoi pm, però, verificate carte e testimonianze, chiedono che il reato di associazione mafiosa inizialmente contestato, venga archiviato. E lo mettono nero su bianco con parole che non rappresentano certo un diploma di merito. Eccole: "Pur in presenza di contatti tra l’indagato e gli apicali dell’organizzazione (Buzzi), ed essendo certa la curvatura dell’attività dell’Alemanno nella direzione degli interessi dell’associazione, si deve ritenere che non sussistono elementi idonei a delineare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato tali da superare le regole di giudizio previste per una condanna in fase dibattimentale, e che il disvalore penale del fatto sia interamente esaurito dalle contestazioni di corruzione e illecito finanziamento pendenti in fase dibattimentale". Insomma, allo stato delle cose e con un processo aperto, la Procura è convinta che Alemanno non sia un mafioso, ma un corrotto, un politico che finanziava in modo illecito il suo partito al punto di "curva - re la sua attività (di sindaco della Capitale, ndr) nella direzione degli interessi dell’associazione". Parliamo di soldi, 75mila euro per cene elettorali, 40mila per le esigenze della Fondazione Nuova Italia. Insomma, non proprio bazzecole per un ex primo cittadino. Ma c’è qualcosa alla base della richiesta di archiviazione dei pm che riguarda Salvatore Buzzi, attore principale di questo film e mente raffinatissima. Il suo passato è la storia di un uomo dai mille volti, bancario irreprensibile, rapinatore ed omicida, infine detenuto modello e protagonista della stagione delle riforme che puntavano alla umanizzazione del carcere. Incantò tutti, parlamentari, giornalisti e intellettuali di sinistra, quel carcerato che si laureò tra le sbarre e creò occasioni di lavoro per gli altri detenuti. Scontò la sua pena e gli offerta la possibilità di crearsi un futuro all’esterno. Diventò il re della cooperazione sociale e punto di riferimento della politica. Dei partiti, tutti, di destra e di centrosinistra, capì le esigenze riassumibili nella formula denari e posti di lavoro da elargire. Anche nel processo sta giocando, e con abilità, la sua partita. Se si scorrono i verbali dei suoi interrogatori ci si accorge di trovarsi di fronte a un sottile "tragediatore", nel linguaggio che usano i mafiosi, un simulatore, o un dissimulatore, uno che mette zizzania. Per capire meglio, basta leggere alcune frasi scritte dai pm nella richiesta di archiviazioni: le sue parole talvolta sono state "frutto di notizie raccolte de relato", oppure "non sono risultate corroborate o suffragabili da idonei riscontri. (...) La sua reticenza su fatti da lui commessi e su alcuni soggetti, incide negativamente sulla sua attendibilità intrinseca". L’accusa, insomma, nutre dubbi, non si fida fino in fondo di Buzzi e non lo utilizza nel processo come fonte principale, puntando tutto sulle prove raccolte durante l’inchiesta e sull’intero impianto accusatorio. "La mafia non esiste", si continua a ripetere come un mantra. Le accuse della procura sono campate in aria. Nonostante una decisione della VI sezione penale della Cassazione del 5 giugno 2015 che di fronte al ricorso di 17 imputati, confermò l’aggravante di matrice mafiosa per Buzzi e Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama anche lui a processo. E una sentenza di primo grado con rito abbreviato che riguarda Emilio Gammuto, ex collaboratore della Coop 29 giugno, accusato di corruzione e condannato a cinque anni e quattro mesi di reclusione. Mafia Capitale, spiegano i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado, non può essere ridotta ad una "semplice associazione a delinquere", farlo significa "trascurare lo scenario più ampio e inquietante svelato dalle indagini, dal quale emerge (...) un’alleanza tra un gruppo criminale radicato nel quadrante Nord della Capitale, capitanato da Carminati, e quello imprenditoriale, cresciuto nel mondo cooperativo diretto da Buzzi". Un gruppo, continuano i giudici, non la procura, "che ha saccheggiato e drenato una quantità ingente di risorse pubbliche, infiltrando la pubblica amministrazione ai massimi livelli". Per capire, scrivono ancora i giudici, "occorre sganciarsi dalla visione tradizionale della mafia storica, quella che ‘fa i morti’, spara ed insanguina le strade per incutere timore e garantirsi omertà…". Infine i demolitori professionali dell’inchiesta hanno tirato in ballo Raffaele Cantone e l’Autorità anticorruzione. Ma a modo loro e con qualche dimenticanza di troppo. Sentito nel corso del processo come testimone, Cantone dichiara di non aver "mai individuato e segnalato alle procure ipotesi di 416 bis (reato di associazione mafiosa, ndr)", e partono i titoloni. Ovviamente si dimentica che l’Anac non formula ipotesi di reato, che tocca invece alle procure individuare e contestare. Hanno creato meno entusiasmo, invece, le altre frasi di Cantone, queste sì allarmanti davvero, sul fatto che a Roma le irregolarità sugli appalti non sono certo finite con l’inchiesta Mafia Capitale. Per tanti la mafia a Roma non deve esistere, ma c’è un processo ed è bene che siano le sue conclusioni a stabilire se un’inchiesta ha fatto flop oppure ha avuto successo. Assolto dal tribunale, ma condannato sul web di Giulia Merlo Il Dubbio, 17 ottobre 2016 L’odissea di Alberto Alatri, ex direttore amministrativo della Sogin. "Mi è stato consigliato di rimanere in silenzio fino a quando non saranno scaduti i termini per l’appello, ma francamente mi sono stancato di avere paura". Alberto Alatri, ex direttore amministrativo della Sogin (Società Gestione Impianti Nucleari), è stato assolto con formula piena - "perché il fatto non sussiste" - dall’imputazione di turbativa d’asta nell’inchiesta su Expo 2015, per l’appalto di una discarica radioattiva. Gli stessi giudici, nelle motivazioni, hanno definito il capo di imputazione "evanescente, la cui rarefazione descrittiva è riflesso evidente ed ineluttabile di un patrimonio indiziario altrettanto impalpabile e fumoso". In sostanza un’accusa senza prove, che ha sottoposto Alatri ad un calvario di indagini dal dirompente eco mediatico. Il clamore suscitato dalla vicenda ha fagocitato la sua vita professionale: "Sono dovuto ripartire, a cinquant’anni, da una reputazione distrutta. I cacciatori di teste delle società me lo hanno detto chiaramente: "il tuo profilo sarebbe perfetto, ma con quello che si legge su di te nel web non possiamo assumerti"". Oltre al danno di aver subito un procedimento penale fondato sul nulla, infatti, ha dovuto fare i conti con la beffa di come i media abbiano dato enorme risalto all’indagine e quasi nessuna, invece, alla sentenza finale di assoluzione. "Mi piacerebbe che, invece di dover parlare io, fosse la verità giuridica a chiarire le cose. Lo dico per me, ma anche per le mie figlie". Il calvario è cominciato l’8 maggio 2014, giorno della perquisizione nella sua casa. "Pensi che ho aperto la porta in accappatoio, tanto non me la aspettavo. Un approccio molto naïve, perché davvero non avevo nulla da nascondere". Il giorno dopo, Alatri torna alla Sogin, come ogni mattina. Alatri è tranquillo, crede che la bolla scoppierà in un nulla. Sui giornali, però, iniziano a trapelare le prime informazioni sull’indagine, e il lunedì successivo arriva la telefonata. "Mi hanno intimato di lasciare il mio ufficio e hanno addirittura mandato la guardia giurata ad accompagnarmi alla porta, perché mi ero trattenuto qualche minuto. Un licenziamento in tronco". Da quel momento, la sua vita cambia. "Pochi giorni dopo ho i primi contraccolpi di salute, ho avuto un forte attacco epilettico a causa dello stress ed è iniziato un anno di calvario medico". Senza lavoro e impossibilitato a trovarne un altro, Alatri inizia a lavorare in un bar, "per distrarmi dal processo e allontanarmi dalla mia vita di prima, ma anche per l’esigenza per mantenere la mia famiglia", ha raccontato. Poi, lentamente, l’inchiesta si sgonfia e - tra un pellegrinaggio e l’altro tra Roma e Milano per parlare con i pm - arriva la sentenza di assoluzione. "Il ricordo peggiore è stato il colloquio con un pm, al quale il mio avvocato aveva chiesto copia di un’ordinanza. Ce la negarono perché era secretata, peccato che fosse già stata pubblicata su molti quotidiani. Mi dissero "La scarichi da internet"". Proprio tutte le informazioni trapelate sulla stampa sono state, paradossalmente, ciò che ha danneggiato di più Alatri. "Il diritto all’oblio è un’utopia, ma io speravo almeno che la mia storia venisse raccontata tutta, dall’inizio alla fine. Invece a nessuno è importato dell’assoluzione". Oggi ha lasciato il bar ed è tornato a lavorare con i numeri: "ho rispolverato il titolo di commercialista e lavoro come consulente, da zero e passo dopo passo". Legittimo l’impedimento del difensore malato anche nei giudizi camerali di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2016 Il legittimo impedimento del difensore determinato da non prevedibili ragioni di salute assume rilevanza anche nel giudizio camerale di appello, conseguente a processo di primo grado celebrato con rito abbreviato. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 41432 del 3 ottobre scorso. Una interpretazione "costituzionalmente orientata" - Le sezioni Unite fanno proprio un recente orientamento giurisprudenziale (sezione VI, 21 ottobre 2015, Caramia), che, superando un diverso, pur maggioritario orientamento giurisprudenziale (validato per vero anche dalle sezioni Unite: sentenza 8 aprile 1998, Cerroni, nonché sentenza 30 ottobre 2014, Tibo), ha patrocinato una interpretazione "costituzionalmente orientata" del combinato disposto degli articoli 127, comma 3, 443, comma 4, e 599 del Cppin forza della quale deve attribuirsi rilievo al legittimo impedimento del difensore anche nei procedimenti in camera di consiglio. Secondo la sentenza Caramia, l’interpretazione patrocinata esclude alcun dubbio di costituzionalità della disciplina normativa, se intesa in senso opposto, risultando pienamente conforme al dettato degli articoli 24e 111 della Costituzione. Ragioni di ordine logico-sistematico - Tale interpretazione, si sostiene, è imposta anche da ragioni di ordine logico-sistematico. In particolare, la formulazione dell’articolo 127, comma 3, del Cpp, secondo cui i difensori sono sentiti "se compaiono", non preclude certamente, ma anzi favorisce, l’interpretazione secondo la quale la partecipazione all’udienza del difensore è facoltativa, ma il difensore ha comunque il diritto di comparire: cosicché, ove il difensore non compaia, senza addurre alcun legittimo impedimento, il procedimento ha senz’altro corso, senza che la mancata comparizione del difensore determini l’obbligo di provvedere ex articolo 97, comma 4, del Cpp, né alcuna altra conseguenza processuale; per converso, ove invece il difensore rappresenti tempestivamente il proprio impedimento a comparire e documenti un legittimo impedimento, a sostegno della richiesta di rinvio, il giudice è tenuto, in presenza di tutte le condizioni di legge, a disporre in tal senso. La disciplina dell’udienza preliminare - Conforto ulteriore la Corte di legittimità lo trae anche dalla disciplina dell’udienza preliminare, laddove l’articolo 420, comma 1, del Cpp prevede, pur essendosi in presenza di procedimento camerale, la partecipazione necessaria del difensore dell’imputato, tanto da ammettere rilievo, ai sensi del comma 5 dell’articolo 420-ter del Cpp, al legittimo impedimento del difensore: se la partecipazione del difensore è considerata di rilievo indefettibile in relazione a una fase processuale nella quale l’oggetto della decisione consiste esclusivamente nello stabilire la fondatezza o no della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero, preordinata soltanto a un eventuale rinvio a giudizio dell’imputato e quindi a una decisione in rito, secondo il ragionamento della Cassazione non può non considerarsi un’"aporia" che, quando l’oggetto della decisione sia costituito dal merito della regiudicanda, l’udienza possa svolgersi senza la partecipazione del difensore di fiducia, quando questi rappresenti un proprio assoluto legittimo impedimento. La decisione delle sezioni Unite - Le sezioni Unite, nella sentenza qui massimata, aderiscono a tale impostazione, valorizzando il proprium della fase processuale di cui si discute: trattandosi di fase decisoria in cui si discute del merito e della fondatezza dell’imputazione, le sezioni Unite ritengono, quindi, necessaria un’interpretazione costituzionalmente orientata che estenda la disciplina del legittimo impedimento, già prevista per l’udienza preliminare, anche al procedimento camerale di appello ex articolo 599 del Cpp, a seguito di rito abbreviato svoltosi in primo grado; e ciò anche in linea con le indicazioni della Corte europea dei diritti umani, che ha evidenziato la necessità di assicurare all’imputato, nell’ottica delineata dall’articolo 6 della Cedu, un processo equo e di garantire il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, indipendentemente dal modulo procedimentale prescelto e dalla fase processuale. In questa prospettiva, concludono le sezioni Unite, il richiamo effettuato dall’articolo 599, comma 1, del Cppall’articolo 127, comma 3, del Cpp, a norma del quale i difensori sono sentiti "se compaiono", riconosce il diritto del difensore di perseguire la propria strategia difensiva, favorendo l’interpretazione secondo la quale la partecipazione all’udienza del difensore, pur facoltativa, lascia comunque la possibilità di scelta se comparire o no: con la conseguenza che si avrebbe una limitazione del diritto di difesa laddove la scelta del difensore di comparire all’udienza camerale fosse vanificata da un evento imprevisto e imprevedibile o da forza maggiore che gli impedisca concretamente di partecipare all’udienza. Il matrimonio con un’italiana non salva dall’espulsione l’immigrato che fa una rapina di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2016 Il matrimonio e l’effettiva convivenza con una cittadina italiana non evitano la revoca del permesso di soggiorno allo straniero che commette una rapina. La Corte di cassazione, con la sentenza 19337, respinge il ricorso di un cittadino tunisino che protestava contro il provvedimento del questore che aveva "annullato" il suo permesso a restare in Italia per motivi familiari, dopo la condanna definitiva. Secondo il ricorrente il sì con un’ italiana creava un suo diritto a restare nel territorio, in nome dell’unione familiare, che poteva essere sacrificato solo se era in gioco la sicurezza dello Stato. Per la Cassazione però le cose stanno in modo diverso. La titolarità del permesso di soggiorno - spiegano i giudici -consente a chi ne è in possesso di esercitare molti diritti, anche sociali, benefici che devono essere mantenuti rispettando le regole di convivenza civile, soprattutto in relazione alle violazioni delle norme penali. E la verifica sull’osservazione delle norme è stringente e basata sul caso concreto alla luce della condotta complessiva. La pericolosità sociale del cittadino straniero, può essere desunta anche da reati che mettono a rischio l’incolumità pubblica come la rapina, soprattutto se continuata come nel caso esaminato. A questo il ricorrente aggiungeva la mancanza di un lavoro fisso. Dalla sua il cittadino tunisino aveva una promessa di impiego non ancora concretizzata, un’attività di volontariato presso una Onlus e una donna italiana che lo aveva sposato e con la quale conviveva. Ma per i giudici prevale la pericolosità sociale. Reati edilizi: responsabilità del proprietario non committente dedotta da elementi oggettivi di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2016 In tema di reati edilizi, la responsabilità del proprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene né può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza, attesa l’inapplicabilità dell’articolo 40, comma 2, del Cp,ma deve essere dedotta da indizi ulteriori rispetto all’interesse insito nel diritto di proprietà, idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 38492 del 16 settembre 2016. Gli elementi oggettivi di natura indiziaria - In particolare, questa responsabilità può dedursi da elementi oggettivi di natura indiziaria (la cui valutazione si sottrae al sindacato di legittimità, se congruamente motivata) quali la piena disponibilità della superficie edificata, l’interesse alla trasformazione del territorio, i rapporti di parentela o affinità con l’esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria, la fruizione dell’immobile secondo le norme civilistiche sull’accessione nonché tutti quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione anche morale alla realizzazione del fabbricato. I due principi sulla materia - In materia, risultano pacifici due principi. In primo luogo, quello in forza del quale l’autore materiale del reato edilizio va individuato in colui che, con propria azione, esegue l’opera abusiva, ovvero la commissiona ad altri, anche se difetti della qualifica di proprietario del suolo sul quale si è edificato, mentre il semplice comportamento omissivo dà luogo a responsabilità penale solo se l’agente aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento, obbligo che certamente non sussiste in capo al nudo proprietario dell’area interessata dalla costruzione, non essendo esso sancito da alcuna norma di legge (sezione III, 21 gennaio 2014, G. e altro; nonché sezione III, 10 ottobre 2013, Menditto). In secondo luogo, l’altro principio, ribadito dalla sentenza in rassegna, secondo cui la responsabilità del proprietario dell’immobile, che non risulti formalmente committente, per la realizzazione di una costruzione abusiva non può basarsi solo sul titolo di proprietà, ma può e deve dedursi positivamente da indizi gravi, precisi e concordanti tra i quali assumono rilievo, come elementi indicativi di un contributo soggettivo all’abusiva edificazione, la presenza in loco all’atto dell’accertamento e i rapporti di parentela con il beneficiario dell’opera, l’occupazione o comunque il godimento dell’immobile abusivo, e simili (tra le tante, sezione III, 21 gennaio 2016, Caredda; sezione III, 30 maggio 2012, Zeno e altro; nonché, in precedenza, sezione feriale, 9 settembre 2008, Grimaldi; sezione III, 2 dicembre 2008, Vergati; sezione III, 8 ottobre 2004, Fucciolo). Truffa, no al sequestro su imposte e oneri delle indennità pagate da una Pa di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2016 Gip di Rieti, provvedimento del 6 settembre 2016. Per chi ha ottenuto illecitamente dalla pubblica amministrazione somme non dovute, il profitto del reato corrisponde all’importo liquidato, escluso quanto trattenuto a fini fiscali. Lo ha stabilito il Gip di Rieti in un provvedimento di parziale dissequestro emesso il 6 settembre scorso(giudice Fanelli), nel corso di un’indagine contro un professionista accusato di truffa per avere ottenuto da un ente pubblico delle indennità in assenza dei presupposti prescritti. La vicenda - Gli investigatori avevano calcolato, sulla base della documentazione dell’ente, il complessivo ammontare delle somme impegnate per retribuire il professionista. Il Gip poi, su richiesta del Pm, aveva disposto il sequestro per equivalente di tutti i beni nella disponibilità dell’indagato fino a concorrenza del valore di quell’ammontare. La difesa però aveva dedotto che la somma calcolata dagli investigatori non era stata tutta effettivamente percepita dal professionista, perché prima della liquidazione erano state effettuate le trattenute fiscali e previdenziali. Verificata questa circostanza, il giudice ha affermato che il profitto del reato di truffa, suscettibile di sequestro e poi di confisca, non può che essere costituito dall’importo materialmente corrisposto all’indagato, dunque al netto degli oneri previdenziali e fiscali. Le argomentazioni - Se così non fosse, spiega il Gip, si finirebbe con il far pagare due volte al professionista gli oneri: la prima volta in sede di trattenute alla fonte e la seconda volta in sede di confisca successiva al sequestro. L’illegittimità di un duplice prelievo sulle somme, in un primo momento perché considerate lecite e in un secondo tempo perché confiscate come reddito illecito, viene argomentato dal giudice anche in base all’articolo 14, comma 4, della legge 537/93. Questa disposizione stabilisce che nelle categorie di reddito sottoposte a tassazione in base al Testo unico delle imposte sui redditi (Dpr 917/86) si devono includere anche i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o a confisca penale. Quindi, se il reddito illecito è già stato tassato, il contribuente indagato non potrebbe essere nuovamente gravato con la confisca dell’importo già versato. Il Pm sosteneva che la richiesta della difesa non doveva essere accolta perché il profitto nella sua nozione penale non poteva essere calcolato - come avviene con riguardo al profitto nella sua nozione aziendalistica - decurtando dai ricavi i costi e gli oneri. Ma il Gip ha ritenuto che in questo caso le somme di cui si chiedeva lo scomputo per calcolare il profitto del reato di truffa aggravata ascritto all’indagato non erano riferibili a costi sostenuti per conseguire questo profitto, ma alle imposte e agli oneri previdenziali trattenuti dal datore di lavoro ingannato dall’indagato. Quindi, si trattava di somme mai materialmente versate a quest’ultimo. Vero è che di esse l’ente pubblico è stato depauperato, perché le ha versate all’Erario e agli enti previdenziali. Tuttavia, secondo il giudice, questo versamento ha costituito solo un danno per l’amministrazione ma non anche un profitto per l’indagato. E l’istituto del sequestro preventivo non si può estendere alle somme che costituiscono un danno per la persona offesa. Per recuperare queste altre somme, l’ente truffato può chiedere, se ne ricorrono i presupposti, di attivare il sequestro conservativo disciplinato dall’articolo 316 del Codice di procedura penale, previsto a garanzia delle pretese civili delle persone offese. Intanto si andrà a votare il referendum. Tra poche settimane, il 4 dicembre, siamo chiamati a dire la nostra sulla modifica di qualche articolo della Costituzione, modifica che parrebbe fatta per far funzionare meglio la macchina dello Stato. Ma nel frattempo nessuno ci chiama a dire la nostra sulla mancata osservanza della Costituzione vigente, di quegli articoli della Costituzione che i Padri Costituenti avevano ritenuto di scrivere per indicare che la vita è inviolabile. L’articolo 13 ci dice che "È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Ma è violenza decisa, chiara ed inconfutabile, quando lo Stato non riesce a salvaguardare la vita di chi da esso è detenuto. Ora non ci tocca che sederci ed aspettare il prossimo morto in carcere. Ma alla stessa violenza sono assoggettati anche i controllori, cioè gli agenti di Polizia Penitenziaria. Si uccidono anche nelle file degli agenti di Polizia e non sono tra i detenuti. E la domanda che sorge spontanea è questa: ma siamo proprio sicuri che il carcere porti tutta questa sicurezza sociale e, siamo pure sicuri che il carcere sia l’unico modo per punire una persona? In gabbia ci mettiamo animali e pure uomini e donne. Ma siamo certi che con la vendetta sociale e la sete di giustizia, questo popolo è d’accordo con il carcere ed il carcere a tutti i costi? Alla morte sociale, ci potrebbe essere la penitenza, che si potrebbe svolgere in maniera più umana e senza togliere nulla né alla pena, né alla vendetta sociale. Ma forse conviene ancora girarsi dall’altra parte, tanto le notizie non mancano per affossare questa che è pure scomoda. Nelle carceri si muore, lo Stato è ancora assente di Libero Desol risorgimentoitaliano.new, 17 ottobre 2016 Ora è toccato alla polizia penitenziaria del carcere di Alessandria, scoprire il cadavere del povero detenuto, che probabilmente non ce la faceva a pensare che avrebbe dovuto trascorrere sette anni in carcere. Il Dott. Capece, segretario del Sappe, ricorre alle frasi che già in questi casi aveva dovuto pronunciare "Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome!, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri". Che la Polizia Penitenziaria non riesca ad arginare la piaga è un fatto chiaro. Che venga lasciata alla sua sventura è anche chiaro. Lo Stato perde pezzi e cade a pezzi. I valori si sbriciolano in nome della sicurezza sociale. Ma se un detenuto è affidato allo Stato, questi deve provvedere, senza medicalizzazione, alla salute mentale del ristretto. Ma sono parole che vanno al vento e saranno i nostri figli a fare i conti con questo dramma, come noi oggi raccogliamo il disastro del debito pubblico fatto dalle scellerate passate - ma non troppo - altre generazioni. I nostri figli, dovranno affrontare un debito diverso, cioè quello della mancanza di civiltà di questa epoca, che riteniamo democratica e liberale. Così si dovranno scusare con il mondo come si è scusata la Chiesa per le Crociate. Alessandria: detenuto nordafricano si suicida nel carcere Askanews, 17 ottobre 2016 Ha deciso di togliersi la vita impiccandosi alla finestra della cella della Casa di Reclusione San Michele di Alessandria dov’era detenuto da pochi giorni per scontare una condanna definitiva a sette anni per vari reati. È accaduto ieri pomeriggio, protagonista un detenuto straniero di nazionalità marocchina. La notizia è diffusa dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. In un comunicato Vicente Santilli, segretario regionale Sappe per il Piemonte, spiega: "L’uomo, di 32 anni, era arrivato in carcere tre giorni fa per scontare una pena di sette anni ed era ristretto provvisoriamente nella sezione detentiva Polo universitario. Si è suicidato, presumibilmente verso le 16:45, impiccandosi con i lacci delle scarpe alle sbarre della finestra della propria cella. L’agente di servizio, subito dopo aver fatto l’apertura delle celle della sezione per la socialità, si è accorto immediatamente dell’accaduto e ha dato l’allarme. Purtroppo sono stati vani i tentativi di soccorso per rianimare il detenuto". Il suicidio del detenuto nel carcere di Alessandria deve far riflettere sulla situazione generale degli istituti di pena. Il Sappe evidenzia che, alla data del 30 settembre scorso, "nella Casa di Reclusione San Michele erano detenute 313 persone rispetto ai 260 posti letto regolamentari: 25 erano gli imputati, 288 i condannati". Donato Capece, segretario generale del Sappe, commenta: "Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione". Insomma "negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze", conclude il leader nazionale del primo Sindacato del Corpo. "Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata". Catanzaro: ex detenuto morto per male incurabile, indaga la Procura zoom24.it, 17 ottobre 2016 Risale allo scorso mese di febbraio il decesso per un male incurabile di M.B., 39 anni, di Reggio Calabria, che per 5 anni era stato detenuto inizialmente nella casa circondariale reggina e successivamente nel carcere del capoluogo calabrese sino alla fine della pena, cioè il mese di giugno 2015. Dopo una settimana dalla sua scarcerazione i propri familiari, intuendo che qualcosa in lui non andava, l’hanno fatto visitare dai medici dell’azienda ospedaliera reggina, nonché in quella messinese dove è stata constatata la presenza di un tumore già in metastasi. Dopo le predette visite avvenute a pochi giorni dalla sua scarcerazione, per i medici è stato possibile constatare solo lo stadio avanzato della malattia. Dopo 5 anni di galera M.B. non ce l’ha fatta e nel mese di febbraio 2016 ha lasciato la moglie e due bambini. Nel mese di maggio 2015 M.B. aveva attuato in carcere un digiuno volontario. La famiglia dell’ex detenuto ha intanto incaricato il legale di fiducia, l’avvocato Giuseppe Gentile del Foro di Reggio Calabria, depositando denuncia alla Procura a segito della quale è stata aperta un’inchiesta per stabilire se vi siano delle responsabilità. Le delicate indagini sono ora condotte dalla sezione di polizia giudiziaria - N.I.S.A - Nucleo Investigativo Sanità e Ambiente della Procura di Catanzaro. Roma: cittadino inglese chiuso in cella per 10 giorni "ci scusi, è stato un errore" di Giulio De Santis Corriere della Sera, 17 ottobre 2016 Trascorre dieci giorni a Regina Coeli, mentre il giudice aveva disposto il divieto di dimora nella Capitale. È l’amara vacanza romana vissuta da un cittadino inglese, James Peter Bonaw Law, condotto in carcere lo scorso 3 ottobre per un cortocircuito procedurale nell’applicazione del dispositivo della sentenza di patteggiamento a otto mesi, non ancora esecutiva. A rendere anomalo il trasferimento dietro le sbarre, l’esistenza della decisione del giudice Marco Genna, che aveva disposto per Law l’obbligo di non risiedere nella capitale, come misura cautelare in attesa del verdetto definitivo. L’equivoco ha finito per provocare un paradosso: Law non solo ha continuato a restare a Roma, che doveva abbandonare, ma ha risieduto nel cuore della citta, a Trastevere, dentro una cella dove nessuno aveva ordinato di trasferirlo. L’uomo, 41 anni, incensurato, finito in manette per resistenza a pubblico ufficiale, è stato scarcerato lo scorso giovedì appena è emerso che la sua presenza dietro le sbarre era dovuta a un malinteso. "Non è chiara l’origine dell’errore, ma, come ho sollevato il problema, il mio assistito è stato liberato", dice l’avvocato Antonio Filardi, difensore dell’inglese. Adesso Law è rientrato a Londra, ma certo il soggiorno capitolino lo ricorderà a lungo, anche se il primo responsabile del contrattempo è stato proprio lui. È il pomeriggio di sabato 1° ottobre quando Law sale in un treno diretto a Milano. Il suo atteggiamento è fuori luogo, si stende sul sedile, impedendo agli altri passeggeri di prendere posto. I viaggiatori chiamano i carabinieri. Appena arrivano le forze dell’ordine, il 41enne perde la testa, e scatta il fermo. La mattina del 3 ottobre Law compare in direttissima. L’inglese riconosce i suoi errori, il giudice convalida l’arresto e dispone il divieto di dimora. Subito dopo l’imputato opta per il patteggiamento e il magistrato lo condanna a otto mesi, specificando la non esecutività del verdetto. È in questo passaggio che si verifica il cortocircuito. L’uomo, infatti, non viene liberato, ma portato a Regina Coeli. Il problema emerge l’8 ottobre, quando l’inglese nomina il nuovo difensore, l’avvocato Antonio Filardi. Il mandato viene inviato dal carcere e il legale si accorge dell’incongruenza. Law non doveva stare a Regina Coeli. Sollevato il problema con la cancelleria del giudice, l’imputato viene liberato. Cuneo: i Radicali in visita "quello di Fossano è un carcere di dimensioni umane" di laura serafini La Stampa, 17 ottobre 2016 Con l’obiettivo di accendere l’attenzione sul Giubileo dei detenuti e sulla marcia "Amnistia, giustizia e libertà", entrambi in programma domenica 6 novembre, il Partito Radicale sta visitando gli istituti penitenziari. Tra questi anche la casa di reclusione a custodia attenuata di Fossano: a guidare la delegazione dei radicali Rita Bernardini, accompagnata dal Garante dei Detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano, dal garante fossanese Rosanna De Giovanni e dal comandante Eraclio Stefano Seda. "È un carcere di dimensione "umane" con 101 detenuti, a fronte dei 133 posti - commenta Rita Bernardini -. Mi farò portavoce di un possibile intervento strutturale: con pochi soldi, circa 50 mila euro, si potrebbero creare spazi di socializzazione per i detenuti, dove possono scrivere ai famigliari, fumare o leggere. Nelle nuove aule si potrebbero spostare i laboratori, come quello "Ferro e fuoco". Ma c’è un aspetto che sta particolarmente a cuore a Rita Bernardini e ai detenuti ed è la lentezza del magistrato di sorveglianza: "Risponde con troppo ritardo alle istanze dei detenuti - sottolinea la Radicale. È anche un problema di mancanza di personale a rallentare le pratiche". Il Garante dei detenuti della Regione Bruno Mellano: "A Fossano ci sono buone condizioni e ottimi progetti di reinserimento (36 persone lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e altre 22 sono "art. 21", ndr) ma bisognerebbe riuscire a coinvolgere una percentuale ancora più alta di carcerati" Al Giubileo dei detenuti, in piazza San Pietro, parteciperà anche una delegazione di 9 detenuti da Piemonte, due dei quali da Cuneo. "A San Pietro arriverà anche la marcia, intitolata a Papa Francesco e a Marco Pannella, che partirà dal Regina Caeli - spiega ancora Mellano -. Speriamo che il Santo Padre lanci un messaggio forte, ad esempio sull’importanza dei progetti di reinserimento". Roma: l’Assessora Baldassarre "priorità sostegno e accompagnamento figli dei detenuti" Agenparl, 17 ottobre 2016 "La mia presenza oggi qui intende essere un gesto di attenzione all’importante tematica dei detenuti. Per lavorare bene per i diritti umani bisogna occuparsi di prevenzione, contrasto e recupero, ed è quindi agendo così che intendiamo portare avanti il nostro impegno. Vogliamo prestare attenzione alle mamme detenute con figli, e su questo tema a breve ci saranno novità, ma vogliamo pensare anche a un aspetto poco sottolineato e per il quale non abbiamo numeri certi, ma che sappiamo essere condiviso da tantissimi bambini e adolescenti: la visita ai genitori detenuti. Lavorando con il Ministero intendiamo ripensare completamente il percorso che questi bambini e ragazzi devono compiere, a cominciare dall’orario, che non coincida con quello di scuola, passando a dei permessi premio per momenti significativi della vita dei bambini, come i compleanni, fino proprio al percorso fisico all’interno del carcere". È quanto ha dichiarato Laura Baldassarre, assessore alle Persona, Scuola e Comunità Solidale di Roma Capitale, intervenuto questa mattina presso l’Isola Solidale, in via Ardeatina, 930 a Roma, al convegno "Lo spazio ritrovato. Il reinserimento del detenuto nell’ambiente sociale". L’iniziativa, promossa dall’Isola Solidale, ha avuto come obiettivo quello di evidenziare come i detenuti e gli ex detenuti possano costituire una risorsa per la nostra Società invece che rivestire un ruolo passivo e dipendente. Per questo sono stai coinvolti tutti gli agenti sociali e istituzionali nazionali e territoriali per promuovere - soprattutto su Roma - le necessarie sinergie tra la magistratura, i servizi socio-sanitari, il volontariato, la politica e la comunità religiosa per favorire l’integrazione dei detenuti o ex detenuti. Sono intervenuti, tra gli altri, Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, Cinzia Calandrino, provveditore Amministrazione Penitenziaria delle Regioni Lazio-Abruzzo e Molise, Francesco Falleroni, segretario generale della Fondazione Ozanam, Patrizio Gonnella, presidente associazione Antigone, Rosella Santoro, direttore della Casa circondariale di Civitavecchia e Orazio La Rocca, giornalista de La Repubblica. "Il Governo e il Ministero della Giustizia - ha dichiarato Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia - sono impegnati costantemente per dare risposte concrete alla necessità, emersa da più parti, di garantire un sistema detentivo che rispetti i principi umani e costituisca una effettiva occasione di riflessione, di crescita e di acquisizione di consapevolezza sull’importanza del rispetto delle leggi. Abbiamo avviato una rivoluzione sull’idea di detenzione, non più vista come una sanzione statica e priva di finalità, ma caratterizzata dallo sviluppo di progetti, di attività lavorative, sportive, artistiche e culturali che avranno un ruolo centrale nell’abbattimento della recidiva che, ad oggi, è tra le più alte in Europa". "Molti dei progetti - ha proseguito Ferri - che sono portati avanti dentro e fuori dalle strutture detentive sono resi possibili e vengono attuati anche grazie all’opera costante e generosa della Polizia Penitenziaria, degli operatori sociali e sanitari e dei volontari che svolgono con impegno, professionalità e senso di responsabilità un lavoro di grande valore socio-culturale". "In questo senso - ha concluso Ferri - il percorso rieducativo proposto dall’Associazione "L’Isola Solidale", basato sul rispetto delle regole di convivenza, lo spirito di servizio e la progressiva assunzione di responsabilità, senza dimenticare di riservare "spazi aperti" al mondo esterno, rappresenta una risorsa preziosa per, che merita di essere valorizzata e imitata, soprattutto per una realtà complessa come quella di Roma. Infatti, la sola Capitale conta 14 detenute femmine e 38 detenuti maschi in regime di semilibertà, più 28 detenuti maschi in regime di art. 21, senza dimenticare 885 persone (780 maschi e 105 femmine) non detenute, ma che si trovano in regime di affidamento o di messa alla prova". "Organizzando questo Convegno - ha dichiarato Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale - abbiamo voluto mettere a confronto i diversi modelli di intervento per il reinserimento delle persone autrici di reato nell’ambiente sociale e evidenziare le varie norme che favoriscono tale processo. Siamo convinti che i detenuti e gli ex detenuti possano costituire una risorsa per la nostra Società invece che rivestire un ruolo passivo e dipendente, perciò intendiamo promuovere le necessari sinergie tra la magistratura, i servizi socio-sanitari, il volontariato, la politica e la comunità religiosa per favorire la loro integrazione". "Sono state esaminate - ha aggiunto Pinna - le esperienze più significative che si stanno sviluppando in particolare nella nostra Regione e più in generale in Italia per aiutare i detenuti a interagire con il tessuto sociale mediante le opportunità lavorative, formative e culturali. Riteniamo inoltre che vadano incentivati tutti quei programmi socio riabilitativi che si sono dimostrati particolarmente utili per costruire i "ponti" tra il detenuto e la realtà esterna. Significative sono le attività teatrali e le arti espressive che vengono svolte da volontari sia all’interno del carcere che nelle strutture territoriali. Una particolare attenzione è stata infine riservata al progetti per il superamento dello stigma che rappresenta uno dei principali ostacoli alle iniziative di reinserimento del detenuto". Modena: detenuto con tubercolosi, avviate procedure sanitarie a tutela di agenti e carcerati mo24.it, 17 ottobre 2016 Un detenuto del carcere Sant’Anna ha contratto la malattia tubercolare e l’azienda Usl di Modena ha tempestivamente avviato le procedure previste per l’individuazione dei contatti, la sorveglianza sanitaria e lo svolgimento degli accertamenti sanitari necessari. Sono stati sottoposti a screening antitubercolare 67 agenti di Polizia penitenziaria. Sono in corso approfondimenti diagnostici di 6 casi risultati positivi al test di Mantoux.. La positività al test non equivale a malattia, ma documenta un possibile contatto con il batterio o l’immunizzazione da pregressa vaccinazione. Queste persone - che non hanno sintomi, non sono contagiose e possono continuare la vita di tutti i giorni - saranno sottoposte a ulteriori accertamenti. Sono in corso anche i controlli sui detenuti che hanno avuto contatti stretti con il soggetto ammalato. Sono stati ad oggi eseguiti accertamenti su 36 detenuti che non hanno evidenziato altri casi di malattia tubercolare. Torino: pane, grissini e pizze prodotti dei detenuti si comprano in città torinoggi.it, 17 ottobre 2016 In via San Secondo 10/F la panetteria "Farina nel sacco". Detenuti con le mani nel sacco, della farina. E che quotidianamente sfornano centinaia di pagnotte. Dal gennaio 2015 la cooperativa Liberamensa ha aperto i battenti della panetteria "Farina nel sacco". Prima in via Massena, da giugno 2016 in via San Secondo 10/F, sul bancone è possibile trovare pane, focacce, grissini e altri prodotti realizzati nel forno della Casa Circondariale "Lorusso e Cotugno". Qui quattro detenuti, regolarmente assunti e inseriti in un percorso di formazione, lavorano affiancati da panettieri professioni. Tutti i giorni vengono sfornati centinaia di pagnotte, impastate con lievito madre, olio extravergine d’oliva italiano e farine macinate a pietra, tutte proveniente dal Mulino della Riviera di Dronero della Famiglia Cavanna. Altro tratto distintivo, oltre alla qualità, è la varietà dell’offerta. Quotidianamente è possibile trovare nove tipi di pane diverso, dal segale integrale, al + cereali, al farro integrale, al grano duro e saraceno. Accanto ai tradizionali prodotti da forno, all’interno del punto vendita di via San Secondo, è possibile trovare anche olio, vino e marmellate. Tutti prodotti realizzati in altre case circondariali in Italia, oppure da cooperative di agricoltori. "Il lavoro", spiegano da "Farina nel sacco", "nobilita veramente. I detenuti sono autonomi, possono comprarsi i beni primari, dal dentifricio, al sapone, senza dover dipendere dalle loro famiglie, e sono inseriti in un percorso di formazione". Padova: volontari in carcere, cinque incontri per la formazione Il Mattino di Padova, 17 ottobre 2016 Organizzati dall’Associazione "Operatori Carcerari Volontari". Dal "mito della pena" alla vita in carcere: inizia la settimana prossima un ciclo di cinque incontri dedicati alla formazione dei volontari in carcere, ma anche a tutti gli interessati che hanno voglia di saperne qualcosa in più sull’argomento. Gli appuntamenti sono tutti nella sala polivalente di via Diego Valeri, dalle 17 alle 19. Si inizia mercoledì 19 con "Giustizia e pena": interverrà Marcello Bortolato, Magistrato di sorveglianza al tribunale di Padova. Si continua mercoledì 26 ottobre con "l’approccio al detenuto: in esecuzione di pena", tenuto dal criminologo e medico legale Mario Tantalo. Mercoledì 9 novembre sarà il turno del noto filosofo dell’ateneo patavino Umberto Curi, relatore dell’incontro intitolato "il mito della pena". Dalla filosofia alla teologia, mercoledì 16 novembre si procede con il gesuita Guido Bretagna, che parlerà delle "vie della giustizia riparativa ed alcuni echi biblici". Conclude un altro religioso: don Mario Pozza, cappellano della casa di reclusione, che coordinerà un confronto tra operatori e detenuti. Dopo ogni relazione sarà riservato uno spazio per interventi e richieste di chiarimento. Il corso si concluderà con una visita guidata (previa prenotazione) alla casa di reclusione. L’accesso è libero e aperto a tutti, ma la partecipazione è obbligatoria per quanti intendono iniziare il percorso di volontariato: agli aspiranti volontari sarà rilasciato un certificato di frequenza, necessario per iniziare. I requisiti prevedono solo un’età superiore ai 25 anni e un colloquio attitudinale. Gli interessati sono invitati a contattare l’associazione via mail: ocv.padova@gmail.com. Migranti. Una notte alla Stazione di Milano, dove l’emergenza è continua (e prevedibile) di Thea Scognamiglio La Stampa, 17 ottobre 2016 Alla Stazione Centrale si temeva una guerra. Nella notte di venerdì 730 migranti hanno dormito in uno spazio che dovrebbe ospitarne 150, una situazione sanitaria ritenuta insostenibile dai tecnici dell’Ats. Il sovraffollamento non rendeva possibile il controllo delle malattie infettive; scabbia, varicella, scarlattina non sono problematiche gestibili in queste condizioni. Anche adesso, l’aria dentro alle gallerie coperte è irrespirabile, le brandine blu del comune coprono ogni centimetro di spazio. Stasera solo donne e bambini avranno il permesso di dormire qui. Non più di 500 persone, ordine dell’assessore alle Politiche Sociali Pierfrancesco Majorino. Dentro quello che una volta era il deposito merci della stazione centrale, belle donne africane si fanno le treccine, qualcuno dorme, mentre fuori centinaia di uomini in fila al freddo aspettano di entrare, qualcuno di loro si stringe dentro una coperta di alluminio, ricordo del recente viaggio in nave. Fuori dai quattro tunnel coperti dell’Hub, si sentono urla in arabo, in inglese, in lingue che nemmeno gli operatori di Arca possono comprendere. Sarà difficile spiegare agli uomini che non possono più dormire qui. Per questa ragione, dall’altra parte della strada, stazionano quattro macchine della polizia locale, e una camionetta della polizia di stato. In caso di disordine solo il reparto mobile è attrezzato a intervenire. Sono otto uomini, che dovrebbero affrontarne 150. "Ma sono buoni loro, non vogliono disordini, vogliono solo un posto tranquillo dove poter andare avanti con le loro vite", commenta un agente della polizia. La maggioranza dei profughi presenti in Italia adesso arriva dalla Libia, dove ha subito trattamenti indegni di un essere umano, torture, stupri. Le donne spesso, prima di partire, si fanno potenti iniezioni di ormoni, per non rimanere incinte nelle violenze che sanno già che dovranno subire nel loro lungo viaggio. Il nervosismo degli operatori di Arca qui deve sembrar loro niente. I ragazzi di Arca sono sempre presenti qui, e oggi sono tesi, stanchi. A pranzo hanno distribuito 2000 pasti, tre ore di incessante distribuzione. "Duemila pasti! Duemila!", dice Amina, operatrice sociale "e non siamo riusciti a dare da mangiare a tutti". Pulman e pulmini vanno avanti e indietro dalla via chiusa, portando i migranti in altri centri. Ad alcuni di loro toccherà il Palasharp, una tensostruttura senza riscaldamento ne docce, dove dovranno "solo dormire" spiega il presidente di Arca, Alberto Sinigallia. Questo spazio al Palasharp è normalmente utilizzato dalla comunità musulmana di Milano per pregare, il venerdì. Ogni giorno alla stazione centrale di Milano arrivano un centinaio di migranti, che prima della chiusura delle frontiere, erano solo di passaggio. Hub funzionava come una porta girevole negli aeroporti. Una porta che adesso si è inceppata. I transitanti possono anche rimanere qui in attesa per mesi, o di passare la frontiera, o di registrarsi come richiedente asilo. Come richiedenti asilo avranno diritto a un posto in un vero centro di accoglienza, e all’assistenza sanitaria. Con la richiesta di asilo, questi uomini nel deposito merci della stazione, riceveranno gli stessi diritti di un cittadino italiano. Ma le attese in prefettura sono lunghe. Per i diritti bisogna fare la fila, come per il pranzo, le docce, e tutte le risorse inadeguate ai numeri di adesso. Una pianificazione dell’accoglienza non sarebbe impossibile qui al Nord. Da una settimana si sapeva degli 11mila sbarcati in Sicilia. Quella di adesso è un’emergenza prevedibile e prevista. A mezzanotte la strada è quasi vuota, tre ragazzini giocano a calcio con una bottiglietta vuota, altri fanno la lotta: sono i minori non accompagnati, uno dei problemi più difficili da gestire qui all’Hub. Ogni minore presente sul territorio cittadino è responsabilità del Comune, e dovrebbe avere essere accolto ed accompagnato alla maggiore età in una comunità. I centri però sono saturi e più di cento ragazzi come quelli che adesso giocano in strada sono incastrati qui all’Hub. Ogni giorno vengono portati dalle associazioni alla sede del Comune di via Dogana per una assegnazione. Ogni giorno vengono rimbalzati al giorno seguente, e via Dogana adesso viene chiamata dagli operatori "via Domani". Piano piano le file fuori dall’hub si smaltiscono, e tutti hanno trovato un posto per dormire. È l’una e mezza di notte, e per strada non c’è più nessuno quasi. Solo Sinigallia si aggira in sandali e il sorriso tranquillo di chi è riuscito a non chiudere nessuno fuori, neanche stanotte. Guerra. L’illusione di salvare i confini di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 17 ottobre 2016 Non c’è nessuna speranza di pacificare la zona se non si mette da parte l’idea di ricostituire un mondo di fatto dissolto, utilizzando la vecchia carta geopolitica che definiva Stati ormai spariti. Il tempo non è ancora arrivato. Anzi, questo sembra addirittura il momento peggiore anche solo per parlarne. Però è un fatto che non si riuscirà mai a ridare un po’ di stabilità al Medio Oriente senza una conferenza di pace (o qualcosa di simile) che ridefinisca i confini fra i vari gruppi territoriali locali, che faccia nascere nuovi Stati al posto di quelli, ormai finiti, disegnati dalle potenze occidentali nel XX secolo. Mentre Assad e i suoi alleati russi distruggono Aleppo e contemporaneamente, nel nord dell’ex Iraq, è in corso una cruciale battaglia per strappare la città di Mosul allo Stato islamico, e mentre, per sovrappiù, le due grandi potenze, Stati Uniti e Russia, sono impegnate nel più pericoloso duello che si ricordi dopo la crisi missilistica del 1962, non è ancora il momento evidentemente. Ma, ciò nonostante, resta vero quanto certi esperti dell’area dicono da tempo apertamente e i diplomatici ripetono nelle conversazioni private: non c’è nessuna speranza di pacificare il Medio Oriente se non si mette da parte la pericolosa illusione di poter ricostituire un mondo ormai dissolto, di potere ancora utilizzare la vecchia carta geo- politica in cui figuravano entità statali denominate "Siria", "Iraq", "Yemen", forse anche "Libia". Prendiamo il caso dello Stato islamico. Perché è nato e perché esiste ancora? La risposta ufficiale è che ha goduto (e gode tuttora) degli appoggi di altri Stati dell’area. Ma è una verità solo parziale. La principale ragione dell’esistenza dello Stato Islamico è che i sunniti ex iracheni non vogliono essere dominati da una maggioranza sciita (come accadrebbe se il vecchio Iraq venisse ricostituito) e i sunniti ex siriani non vogliono tornare sotto il tallone della minoranza alawita (come nella vecchia Siria). Lo Stato Islamico verrà rapidamente sconfitto nel momento in cui ai sunniti di Iraq e di Siria sarà consentito di dare vita a uno Stato sunnita unificato. Ma perché si faccia strada un tale progetto occorre che la comunità internazionale accetti l’idea di una definitiva scomparsa dei vecchi Stati. Sia gli alawiti della ex Siria (al seguito di Assad) sia gli sciiti dell’ex Iraq dovranno convincersi dell’impossibilità di ritornare allo status quo ante. Ma potranno farlo, sospendendo finalmente le ostilità, solo se potranno a loro volta contare su confini sicuri garantiti dalle grandi potenze. Poi c’è la questione curda, forse la più intrattabile a causa dell’atteggiamento turco (e non soltanto turco) verso i curdi. È dai tempi della caduta dell’impero ottomano che esiste una questione nazionale curda aperta e irrisolta. Ai turchi dovranno essere date, certamente, compensazioni varie ma ciò che non trovò soluzione, uno sbocco accettabile, al termine della Prima guerra mondiale, dovrà trovarlo (a beneficio dei curdi ma anche della stabilizzazione dell’area) un secolo dopo. Poi c’è la questione dello Yemen. Anche lì non è pensabile una pace senza una spartizione territoriale e un divorzio consensuale fra le componenti sunnita e sciita (nella variante locale: gli Huthi). C’è infine il caso libico. Oggi la Libia è uno Stato fallito. Non c’è possibilità di ricomposizione che non passi per l’instaurazione di un sistema di garanzie reciproche, soddisfacenti per i principali gruppi territoriali e tribali coinvolti. Gli sforzi della diplomazia internazionale, Italia in testa, per ripristinare l’unità libica sono lodevoli, ma vale anche qui ciò che vale nel caso dello Stato Islamico: è il grosso delle persone coinvolte (le persone comuni, con i loro legami tribali e territoriali, non solo certe frazioni delle élite nazionali) che devono essere convinte della validità e della convenienza delle soluzioni proposte. Ciò serve a ricordare il fatto che le grandi potenze, e gli altri Stati al loro seguito (la cosiddetta "comunità internazionale"), possono essere i promotori di accordi di pace, possono blandire gli attori locali, possono allettarli con promesse di aiuti o minacciarli di sanzioni, possono anche proporsi come i futuri garanti esterni degli accordi stipulati, ma non possono "imporre" nessuna pace sulla testa dei locali, non hanno il potere di calpestarne la volontà. Alla fine, è sempre la convenienza di questi ultimi che decide del successo o del fallimento delle trattative. La ragione per cui il Medio Oriente è forse (quasi) pronto per soluzioni negoziate guidate da una giusta mescolanza di realismo, immaginazione e intelligenza, è che ormai da troppo i combattimenti si trascinano senza che coloro che combattono, da una parte o dall’altra, possano ancora illudersi che la vittoria sia certa e a portata di mano. Fermo restando che saranno comunque gli attori locali ad avere l’ultima parola, tocca alle grandi potenze la prima mossa, tocca a loro fare proposte e offrire garanzie. In concreto, il piano di una conferenza di pace che ridisegni i confini politici in Medio Oriente può marciare solo se è voluto e sostenuto dagli Stati Uniti, ossia dalla prossima Amministrazione americana. Se il futuro presidente fosse Trump niente da fare. Cercherebbe un accordo purchessia con Putin sulla pelle dell’Europa, e anche del Medio Oriente. I piani lungimiranti non sono alla sua portata, richiedono statisti. Non è sicuro che Hillary Clinton lo sia, però ha l’esperienza che serve. I russi (che oggi fanno apertamente campagna elettorale per Trump) sono dei realisti. Con un "falco" antirusso come Clinton alla Casa Bianca, potrebbero calmarsi, ridurre l’attuale eccesso di aggressività. Per paradosso, proprio un presidente tutt’altro che compiacente verso i russi potrebbe allettarli riconoscendo loro lo status internazionale che essi vogliono. Il che accadrebbe se alla Russia venisse offerto di impegnarsi, al fianco degli Stati Uniti, per favorire i futuri accordi di pace in Medio Oriente, per aiutare le forze locali coinvolte nei conflitti a ridisegnarne la mappa geopolitica. Non ci sarà pace in quei luoghi (né riduzione della minaccia terroristica in Europa) fin quando i vecchi confini statali, decisi e concordati fra le potenze occidentali dopo il collasso dell’impero ottomano, non verranno consensualmente abbandonati. Guerra. L’Isis perde Dabiq, il "villaggio della profezia" di Davide Frattini Corriere della Sera, 17 ottobre 2016 I ribelli con l’aiuto dei turchi conquistano la città simbolo dello "scontro finale" tra Islam e Occidente. La battaglia epica non c’è stata e la fine del mondo sembra rinviata. I miliziani dello Stato Islamico hanno applicato a Dabiq la stessa tattica usata per gli altri villaggi che hanno perduto: abbandonati quasi senza combattere. Eppure quei cubi di cemento non intonacato raggruppati a dieci chilometri dalla frontiera con la Turchia hanno svolto il ruolo di protagonisti nella telenovela apocalittica diffusa dai predicatori del Califfato. A Mosul, invece, nella notte è partito l’attacco per riconquistare la città irachena. Nella piana attorno a Dabiq - vaticinò Maometto - dovrebbe svolgersi l’ultimo scontro tra i musulmani e i cristiani, una sfida che sancirebbe la vittoria conclusiva dell’Islam sull’Occidente. Per ora le truppe irregolari di Abu Bakr Al Baghdadi sono state cacciate da duemila musulmani come loro, i ribelli siriani appoggiati dall’artiglieria e dall’aviazione turche. Che per dieci giorni hanno bombardato le postazioni degli estremisti: dopo la conquista del villaggio nell’agosto del 2014, l’Isis aveva trasferito almeno 1.200 uomini in questa zona, malgrado la limitata importanza strategica. Perché qui gli strateghi in nero volevano attrarre i crociati in quella "invasione benedetta" agognata da Abu Musab Al Zarqawi, leader di Al Qaeda in Iraq e primo ideologo dello Stato Islamico. Qui Jihadi John, il terrorista di origine britannica, ha decapitato Peter Kassig, l’ex Ranger dell’esercito americano che cercava di portare aiuti e soccorsi ai siriani: "In questa terra seppelliamo il primo crociato e aspettiamo gli altri per lo scontro finale". Per due anni la propaganda del Califfato, con gli slogan dell’orrore e i proclami di rivincita islamica, ha ingigantito lo spazio occupato da Dabiq sulla mappa: il nome del villaggio e quel che simboleggia per i cultori dell’apocalisse è diventato il titolo della rivista mensile usata come spot per reclutare i combattenti anche in Europa. Adesso gli sminatori dell’Esercito siriano libero stanno ripulendo Dabiq casa per casa, gli estremisti sono fuggiti ma si sono lasciati dietro il tritolo e la paura inculcata nei tremila abitanti. Da quest’area i generali turchi vogliono continuare ad avanzare nella fascia che corre lungo il confine con l’idea di creare una zona cuscinetto e per impedire ai curdi di rinsaldare i pezzi della Rojava, la regione autonoma che si stanno ritagliando dentro al caos siriano. Gli americani sostengono i curdi e allo stesso tempo hanno dato il via libera alle operazioni turche. Restano consapevoli che il vero obiettivo è la riconquista di Raqqa, a sud-est dentro il territorio siriano: la città è stata dichiarata da Abu Bakr Al Baghdadi la sua capitale amministrativa, ricopre altrettanta importanza strategica e simbolica di Mosul in Iraq. Barack Obama ha continuato a ripetere che spedire una nuova generazione di soldati in un’offensiva di terra significherebbe cadere nella trappola. La trappola creata con le mine delle profezie: il conto alla rovescia per l’avvento dell’apocalisse comincerebbe nel giorno in cui i "romani" mettono piede a Dabiq, i calzari aggiornati agli anfibi dei militari occidentali. Fra tre mesi, quando il successore del presidente s’insedia alla Casa Bianca, dovrà decidere se mantenere la stessa strategia che si limita al supporto con l’aviazione e al finanziamento dei gruppi ribelli considerati moderati. O - com’è convinta Hillary Clinton - ordinare che gli Stati Uniti sostengano fino in fondo la riconquista di Raqqa. Gli analisti considerano la città più strategica di Mosul, perché il deserto attorno è ricco del petrolio che finanzia le operazioni dei terroristi. Anche il regime di Bashar Assad vorrebbe riprendersi quella che era una delle province più ricche del Paese, da dove sono sempre arrivati il greggio e l’elettricità per Damasco dalle dighe sull’Eufrate. Per ora il dittatore e i suoi alleati russi concentrano i bombardamenti sulla parte orientale di Aleppo. Guerra. La sfida di Mosul fra le potenze del Medio Oriente di Maurizio Molinari La Stampa, 17 ottobre 2016 La battaglia che incombe su Mosul riassume le trasformazioni del Medio Oriente e il suo esito potrebbe avere conseguenze di lungo termine. Situata nel Nord dell’Iraq, con una popolazione di circa 700 mila anime divisa quasi a metà fra sunniti e curdi, Mosul è la più grande città dello Stato Islamico (Isis). È da qui che Abu Bakr al-Baghdadi annunciò il 29 giugno 2014 la creazione del Califfato: difenderla per i jihadisti è prioritario al punto che proprio al-Baghdadi la definisce "il cuore del Califfato" ordinando di "combattere fino alla morte" ai suoi miliziani, stimati fra 5000 e 10 mila unità. Il governo iracheno di Haydar al-Abadi la vuole riconquistare con l’intento opposto ovvero "estirpare il cancro di Isis dalla nostra nazione" e Barack Obama lo sostiene, con uomini e armi, per assestare un colpo mortale al Califfato prima di lasciare la Casa Bianca. Ma il campo di battaglia dello scontro che incombe descrive uno scenario assai più vasto che rispecchia la sovrapposizione di interessi e potenze rivali. A Sud di Mosul, nella base di Qayyarah, c’è il quartier generale delle truppe irachene affiancate da contingenti di Stati Uniti e Francia. Il Pentagono ha qualche centinaio di militari anti-terrorismo, più aerei e droni mentre Parigi schiera l’artiglieria. Ciò significa che americani e francesi vogliono dare alle truppe di Baghdad il sostegno tattico decisivo per espugnare la città, puntando a trasformare la liberazione di Mosul nel maggior successo terrestre della coalizione anti-Isis finora assai carente nei risultati. È una scelta condivisa da altri alleati, inclusa l’Italia che protegge la diga di Mosul. Ma poiché Baghdad è guidata da un governo molto sensibile agli interessi di Teheran, fra i contingenti schierati attorno alla città ci sono migliaia di volontari di milizie sciite che rispondono in ultima istanza agli ordini di Qasem Soleimani, il generale iraniano alla guida della Forza Al-Qods diretta espressione dell’ayatollah Ali Khamenei. Il Pentagono ha chiesto a Baghdad di impiegare le milizie sciite solo nelle "aree rurali" per evitare che l’entrata nei quartieri sunniti o curdi inneschi faide interetniche. I leader sunniti di Mosul, come l’ex governatore Atheel al-Nujaifi, avvertono: "L’assalto alla città può innescare la disintegrazione dell’Iraq" con la definitiva separazione fra sunniti, sciiti e curdi. Ma non è tutto perché le forze che concretamente cingono d’assedio - a Nord, Sud ed Est - Mosul sono i peshmerga curdi espressione del Governatorato del Kurdistan iracheno che vogliono da un lato sconfiggere il Califfato e dall’altro assicurarsi il controllo di quartieri e popolazione curda, ipotecando così l’estensione dei propri territori alla provincia di Ninive. In alcune aree le trincee curde e jihadiste sono separate da poche centinaia di metri, evocando la Prima Guerra Mondiale, e sul lato peshmerga i combattenti si alternano a fabbri, panettieri, autisti e impiegati pubblici dando l’immagine di un esercito di popolo. Ad osservare con timore il posizionamento di curdi e sciiti a ridosso di Mosul sono le truppe di Ankara, che alle pendici del Monte Bashiqa hanno cinquecento uomini, sostenuti da tank e blindati, e addestrano proprie milizie sunnite irachene. Per la Turchia di Recep Tayyp Erdogan la città di Mosul - che per circa 500 anni è stata dominio ottomano - deve "restare sunnita", come spiega l’analista Aykan Erdemir, per evitare lo scenario che teme di più: la nascita di un Kurdistan indipendente ai propri confini meridionali. La conseguenza è nella volontà di Erdogan di partecipare all’attacco a Mosul per ipotecarne la spartizione mentre il governo di Baghdad vi si oppone con tutte le forze, temendo la nascita di un protettorato sunnita sotto l’influenza turca. Ecco perché la sorte di Mosul è un crocevia del Medio Oriente: sono in gioco la sorte del Califfato, l’unità dell’Iraq, il sogno del Kurdistan, la creazione di sfere di influenza turca e iraniana, la credibilità della coalizione occidentale anti-Isis e una buona parte dell’eredità strategica di Obama. Senza contare il rischio, secondo stime Onu, di una marea umana di profughi. Nulla da sorprendersi se un giocatore di poker come il leader russo Vladimir Putin rimane alla finestra dalle sue basi nella confinante Siria, puntando a sfruttare qualsiasi imprevisto. Nigeria. Boko Haram libera 21 delle 276 studentesse rapite nel 2014 di Rita Plantera Il Manifesto, 17 ottobre 2016 La liberazione di 21 delle 276 studentesse rapite nel 2014 e il rilascio di alcuni miliziani frutto della mediazione di Svizzera e Croce Rossa. Ma nei territori del nord-est strappati ai jihadisti è catastrofe umanitaria. A distanza di due anni mezzo dal sequestro di massa in una scuola del nord-est della Nigeria che ha scatenato indignazione e la campagna internazionale #BringBackOurGirls, giovedì scorso il governo nigeriano ha annunciato la liberazione di 21 studentesse. Il rilascio sarebbe avvenuto a seguito di trattative e in cambio della liberazione di alcuni militanti di Boko Haram: "È il risultato dei negoziati tra l’amministrazione e Boko Haram, con la mediazione della Croce Rossa Internazionale e del governo svizzero". "I negoziati continueranno", ha annunciato in su Twitter Mallah Garba Sheh, portavoce del presidente Muhammadu Buhari. Il 14 aprile 2014, 276 studentesse furono rapite da Boko Haram dalla Government Girls Secondary School di Chibok. Di queste 57 riuscirono in seguito a fuggire, una, Amina Ali Darsha Nkeki, è stata ritrovata a maggio scorso nella foresta di Sambisa vicino al confine con il Camerun, le altre restano ancora nelle mani dei jihadisti. La scuola fu rasa al suolo durante il raid e non è stata più ricostruita. Trattative in corso erano state annunciate già a gennaio scorso, quando il governo si era detto pronto a negoziare con una "leadership credibile" di Boko Haram dopo che alcuni tentativi erano falliti per le divisioni interne al gruppo jihadista e nonostante la disponibilità del governo a uno scambio di prigionieri. Si tratterebbe dei primi negoziati resi noti pubblicamente tra il governo della Nigeria e il gruppo terroristico di Boko Haram, nei confronti del quale ad agosto scorso, in margine a una conferenza sullo sviluppo africano tenutasi a Nairobi, Buhari si era detto disposto a un’apertura significativa e determinata in merito alle ragazze rapite: "Il governo che presiedo è disposto a negoziare con i leader di Boko Haram. Se loro non vogliono negoziare con noi direttamente, li lasceremo scegliere un’organizzazione non governativa riconosciuta a livello internazionale". Non solo, Boko Haram avrebbe potuto iniziare i negoziati sullo scambio di prigionieri fornendo la prova all’ong di avere ancora le ragazze. Un’azione politica quella di Muhammadu Buhari in linea con le promesse fatte al momento del suo insediamento, e prima ancora, con quelle della campagna elettorale di sradicare i due maggiori mali che affliggono un colosso economico come la Nigeria (in recessione per la prima volta in più di 20 anni), vale a dire la corruzione endemica e Boko Haram. Una dichiarazione di guerra, a ben vedere, la sua, su due fronti paralleli e altrettanto interconnessi - corruzione (di stato) e terrorismo - e dunque per certi versi controversa: perché se da un lato Boko Haram sfrutta il malcontento della popolazione facendo proseliti tra la popolazione insofferente alla corruzione dilagante tra gli apparati statali e militari e a tutto ciò che ne consegue, d’altro canto la connivenza di parte degli stessi apparati con i jihadisti ne alimenta infiltrazioni e potere. La Nigeria è impegnata in un’offensiva militare contro Boko Haram sia con forze di terra che con attacchi aerei, affiancata in questo da una task force congiunta multinazionale che comprende truppe dai paesi limitrofi, Niger, Camerun, Ciad e Benin, vittime delle incursioni transfrontaliere del gruppo armato. L’offensiva governativa ha ricacciato Boko Haram nella sua roccaforte della vasta foresta Sambisa, consentendo negli ultimi mesi alle agenzie umanitarie di avere accesso alle aree prima irraggiungibili e di valutare per la prima volta la portata del disastro umanitario. Dal 2009 si contano circa 15 mila vittime e più di 2 milioni di sfollati. Costretto alla ritirata, Boko Haram ha fatto terra bruciata: edifici bombardati, scuole distrutte, terreni incolti, morti, devastazione. Secondo l’Unicef 75 mila bambini potrebbero morire nel prossimo anno nelle zone in precedenza controllate dai jihadisti. Secondo l’Onu decine di migliaia di persone stanno morendo di fame nella zona dell’Africa occidentale dove i militanti di Boko Haram sono attivi. Circa 65 mila persone si trovano in una situazione di "catastrofe" o "fase 5" dell’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), vale a dire che anche in presenza di assistenza umanitaria, "la fame, la morte e la miseria" restano evidenti. In tutta la regione del lago Ciad, più di 6 milioni di persone sono colpite da grave insicurezza alimentare, tra cui 4,5 milioni in Nigeria. Stati Uniti. Carceri in esaurimento di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 17 ottobre 2016 C’è una percentuale di detenuti 10 volte superiore a quella di alcuni Paesi europei. Da alcuni anni Barack Obama a livello federale, ma anche molti Stati a livello locale, si sforzano di ridurre l’enorme popolazione carceraria americana: gli Stati Uniti hanno un numero di detenuti molto superiore a quello di tutti gli altri Paesi avanzati. Addirittura di dieci volte superiore, nel confronto con alcune nazioni europee. Con le carceri super affollate e un conto a carico del contribuente sempre più salato, a cercare di ridurre le pene per i reati meno gravi come quelli per possesso e vendita di piccoli quantitativi di droga sono stati, oltre al presidente democratico, anche parlamenti e governatori di Stati conservatori. Ma il cambiamento non è stato lineare: nuovi dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia e rielaborati dal New York Times mostrano che, mentre nelle grandi città, da Chicago a Minneapolis, le condanne a pene detentive e la loro lunghezza sono calate, in media del 25-30 per cento, nei piccoli centri e nell’America rurale i giudici continuano ad essere severissimi. La geografia delle incarcerazioni è, così, radicalmente cambiata: mentre, fino a 10 anni fa, abitanti delle metropoli e delle campagne avevano le stesse probabilità di finire dietro le sbarre, oggi per la popolazione delle zone rurali questa possibilità è doppia rispetto a chi vive in città. Sono i giudici, eletti dal popolo ad applicare, a modo loro, una forma di democrazia diretta: ignorano le pressioni del governo federale e quelle dei parlamenti locali per una riduzione delle pene perché per loro contano solo gli elettori che nell’America dei piccoli centri chiedono soprattutto "law and order": così i magistrati usano tutti i loro margini discrezionali per mandare un piccolo spacciatore in galera anche per 15 anni. Con un effetto curioso: mentre nel Paese si discute dell’eccessiva severità del sistema giudiziario nei confronti della minoranza nera, le nuove politiche detentive fanno diminuire soprattutto la popolazione carceraria delle città, composta in prevalenza da afroamericani e ispanici, mentre cresce quella dell’America rurale, dove la popolazione con poche eccezioni (Sud e California) è quasi totalmente bianca. Brasile. Guerra tra gang in carcere, detenuti decapitati e arsi vivi La Stampa, 17 ottobre 2016 Almeno 25 morti durante una rivolta nella prigione di Boa Vista. Una sanguinosa rivolta è scoppiata in un carcere del Brasile, dove almeno 25 detenuti sono rimasti uccisi nello scontro tra due bande rivali all’interno del penitenziario. Secondo quanto ha reso noto un portavoce della polizia brasiliana al quotidiano O Globo, sette detenuti sono stati decapitati mentre altri sei sono morti negli incendi scoppiati durante la rivolta nella prigione di Boa Vista, nel nord del Brasile. Durante la rivolta un centinaio di persone, in prevalenza donne, che si trovavano nel carcere per la visita ai detenuti sono stati presi in ostaggio dai rivoltosi che chiedevano un incontro con le autorità giudiziarie. Gli ostaggi sono stati poi liberati dall’intervento di una task force della polizia. La rivolta è infatti scoppiata durante le visite dei familiari della domenica, quando un gruppo di detenuti, armati di coltelli e bastoni, è riuscito a penetrare in un’altra ala del penitenziario, dove sono rinchiusi esponenti di una banda criminale rivale. Nella prigione di Boa Vista, che ha una capienza di 740 detenuti, sono rinchiuse al momento 1.400 persone.