Permessi di colpa di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 16 ottobre 2016 "Trattando una persona da mostro, essa diventerà un mostro". (Diario di un ergastolano: carmelomusumeci.com). Con il passare degli anni la speranza ti si assottiglia e impari a fare il morto perché non ti aspetti più nulla dagli umani. E quando un detenuto che ha una pena lunga o un ergastolano ottiene un permesso premio è un po’ la fine di una guerra e prendi un po’ di fiducia nella giustizia e nelle persone che la rappresentano. Una volta fuori ti senti come un soldato felice perché è finita la guerra, ma nello stesso tempo ti senti disorientato perché non conosci più la pace e ti sei tanto abituato all’infelicità che non riesci più a controllare la felicità. Forse perché l’essere umano ha difficoltà per sua natura ad adattarsi ai cambiamenti. Ed una volta che il cuore e la testa si sono assuefatti al dolore riesce difficile e faticoso cambiare modo di essere e di pensare. Per questo penso che la riabilitazione dovrebbe essere sempre e per tutti, perché è sbagliato ripagare il male con altro male. Credo di aver capito che solo la speranza ci può permettere di diventare persone migliori. Anche per questo sono convinto che se si fosse privilegiato l’aspetto rieducativo su quello punitivo, forse oggi molti detenuti condannati per mafia sarebbero culturalmente già stati recuperati. L’articolo 30 ter dell’Ordinamento penitenziario dal titolo "Permessi premio" prevede: "Ai condannati che hanno tenuto regolare condotta … e che non risultano socialmente pericolosi, il magistrato di sorveglianza … può concedere permessi premio di durata non superiore ogni volta a quindici giorni per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro." A parte che io li concederei più spesso proprio a quelli che non hanno tenuto regolare condotta e a quelli socialmente pericolosi per farli diventare più buoni o se preferite come pena aggiuntiva, un po’ come faceva il magistrato di Sorveglianza Alessandro Margara. Li chiamano permessi premio, ma a mio parere li dovrebbero chiamare permessi "di colpa" perché solo questi ti fanno uscire il rimpianto del male che hai commesso. È molto difficile, se non impossibile, che ti esca il senso di colpa quando sei chiuso in una cella in un carcere lontano da casa senza la possibilità di dare o ricevere amore. In queste condizioni è molto difficile pensare alle tue vittime perché tu stesso ti senti una vittima e cerchi solo di sopravvivere. Quando invece esci in permesso ti accorgi del male che hai fatto. Non solo alle tue vittime, ma anche alle persone che ti vogliono bene. Un conto è ragionare sul male fatto, anche con tutta la più buona volontà, stando al "sicuro" dentro le mura del carcere, un conto è passeggiare tra le macerie della propria vita accompagnato da chi ti vuole bene e hai drammaticamente ferito. Penso che i permessi premio, o di "colpa", chiamateli come volete, dovrebbero essere concessi automaticamente e con più frequenza per aiutarci a riflettere e a ricordare il dolore che abbiamo recato. Sì, è vero qualcuno potrebbe approfittare di questi permessi per commettere altro male, ma molti altri ne approfitteranno per diventare persone migliori. E chissà quanti reati si potranno evitare. Dopo tutti questi anni spesi a ragionare sui reati e sulla giustizia, mi sono convinto che la sicurezza sociale bisogna cercarla anche a rischio di perderla e i permessi premio, o di colpa, danno la possibilità di ritrovarla. Agromafie, business da 16 miliardi. Ma la legge è ferma da un anno di Maurizio Tropeano La Stampa, 16 ottobre 2016 L’ex pm Caselli: "Forse ci sono soggetti contrari alla sua approvazione". È passato un anno esatto: il 14 ottobre del 2015 la commissione di studio per la riforma dei reati in materia agroalimentare presenta la sua proposta "recepita - ricorda Giancarlo Caselli, presidente del gruppo di lavoro ed ex procuratore di Torino - dal ministero al 95%". Da allora, però, quei 49 articoli e le 50 pagine di linee guida sono rimaste in archivio e "non è normale che il testo sia ancora fermo". Caselli, così, sceglie il forum dell’agricoltura di Cernobbio, organizzato da Coldiretti, per lanciare il suo allarme: "Forse ci sono soggetti forti che sono contrari alla sua approvazione. Per questo faccio appello a tutti coloro che hanno a cuore l’agroalimentare perché sostengano questo progetto affinché venga approvato, non venga annacquato e mantenga le sue norme a maglie strette". La bozza di riforma supera la normativa esistente, che risale ai primi del Novecento, introduce regole più stringenti che dovrebbero tutelare il consumatore dal campo al tavolo. Secondo l’ex procuratore di Torino, infatti, "ogni recupero di legalità è un recupero di risorse e di ricchezza e quindi un passo avanti anche per uscire dalla crisi". L’Osservatorio sulle agromafie ha calcolato che il giro d’affari si aggira sui 16 miliardi. L’anno scorso solo i Nas hanno effettuato oltre 33 mila controlli sequestrando prodotti contraffatti per 436 milioni. I settori più colpiti dalle frodi sono la ristorazione, carne e farine, pane e pasta. Secondo Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti, è "importante la volontà di procedere ad un rapido aggiornamento delle norme attuali per contrastare forme diffuse di criminalità organizzata che alterano la leale concorrenza tra le imprese ed espongono a continui pericoli la salute delle persone". L’innovazione tecnologica e i nuovi sistemi di produzione e distribuzione globali rendono ancora "più pericolose le frodi agroalimentari che vanno perseguite con un sistema punitivo che arrivi a fermare non solo gli amministratori ma anche le attività delle aziende coinvolte". Il caporalato - Adesso resta da capire se l’allarme lanciato da Caselli - convinto che la validità del lavoro della Commissione sia confermato dal fatto che "alcune delle norme sono state accolte anche dall’assemblea internazionale dei giuristi che si è riunita recentemente a Pechino" - e ripreso da Coldiretti permetterà di far uscire il progetto di riforma dal limbo. Domani, intanto arriva alla Camera il disegno di legge di contrasto al caporalato e Libera, l’associazione che si batte contro le mafie, si augura che "l’iter parlamentare proceda velocemente e senza modifiche affinché diventi legge a tutti gli effetti". Certificati bianchi - Il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, nel suo intervento al Forum di Cernobbio, ha annunciato la possibile introduzione "dei certificati bianchi per premiare l’agricoltura italiana grazie alla quale abbiamo performance ambientali migliori". L’obiettivo è "salvaguardare l’agricoltura di qualità che difende l’ambiente e rispetta il territorio e che non usa determinati pesticidi o fertilizzanti, cosa che l’Italia ha fatto prima di altri Paesi europei e del mondo". E spiega: "Noi non chiediamo di più, chiediamo solo che venga rispettata la peculiarità e la qualità dei prodotti italiani". Dal caso Corona colpo alle misure alternative di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 ottobre 2016 Al fotografo dei vip il presidente dell’ufficio di Sorveglianza di Milano aveva riconosciuto tutte le aperture previste dalla legge per tenere fuori dal carcere i tossicodipendenti. L’arresto di Fabrizio Corona rischia di compromettere il nuovo corso della magistratura di sorveglianza di Milano. Con probabili ripercussioni a livello nazionale. Le manette ai polsi del fotografo, scattate l’altro giorno su richiesta del pm Ilda Boccassini, mettono seriamente in discussione la "scommessa" fatta personalmente da Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano. Era il 2015 e Corona aveva già scontato un paio di anni in carcere. Per mezzo dei suoi avvocati aveva chiesto allo Stato l’ultima chance. "Sono un uomo cambiato, voglio uscire di prigione", aveva detto. E Di Rosa, magistrato esperto, già consigliere al Csm, assumendosi una grande responsabilità, lo ammetteva all’affidamento terapeutico. Ci è voluto coraggio e determinazione nel concedere tale misura alternativa alla detenzione in carcere ad un "intemperante" quale Corona, ben sapendo che ciò avrebbe acceso i riflettori sull’istituto dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Nonostante le violazioni degli obblighi, Di Rosa ha voluto dare in questi mesi ancora fiducia a Corona, consentendogli di continuare a fare l’unico mestiere di cui è capace, il testimonial nei locali e nelle discoteche. Con tutte le polemiche del caso, fra l’indignazione generale. Proprio poche settimane fa Corona aveva anche rischiato di tornare in carcere dovendo aggiungere 8 mesi rispetto al precedente cumulo di pene: ma il residuo da scontare era rimasto sotto i 6 anni, limite questo per rimanere in affidamento terapeutico. Così, Corona stava proseguendo nel suo percorso alternativo di espiazione, quello previsto dall’articolo 94 della legge sugli stupefacenti per promuovere il recupero dalla tossicodipendenza. La misura dell’affidamento è possibile se la pena da scontare non supera i 6 anni, se il condannato è tossicodipendente o alcoldipendente, se c’è un idoneo programma di recupero cui il soggetto aderisce presso una comunità terapeutica o presso la propria abitazione con frequenza del Sert. Per Corona si era spesa la Comunità di Don Mazzi. Il periodo trascorso in affidamento non equivale a detenzione. La pena è scontata in affido ma si estingue solo se si supera positivamente il periodo di prova che equivale alla durata della pena. Se sono state rispettate le prescrizioni, per il Tribunale di Sorveglianza i conti con la giustizia sono chiusi. Se non sono state rispettate le prescrizioni non si riterrà la pena scontata e si ricomincia col carcere. Corona era in affidamento terapeutico a casa dopo un periodo in comunità; la misura cautelare che lo ha colpito, ha fatto sì che Di Rosa revocasse provvisoriamente l’affidamento. Corona è tornato in carcere non solo per l’ordinanza del Gip di Milano ma anche per la revoca dell’affidamento. Entro 30 giorni il Tribunale di sorveglianza dovrà riunirsi e decidere se revocare definitivamente l’affidamento a Corona o no. Nel caso decida di revocarlo, il Tribunale dovrà anche stabilire se la misura va ritenuta "nulla" fin dall’inizio (e così Corona dovrà ancora scontare tutta la pena dal giorno dell’ammissione all’affidamento in poi) o se revocare solo dall’altro ieri. La fiducia accordata a Corona è stata, dunque, spazzata via. Era una speranza per chi, dentro, in carcere, attendeva l’udienza per andare in affidamento: "Se lo avevano dato a Corona?", ripetevano spesso i detenuti. Oggi, la situazione si è rovesciata e si teme un forte giro di vite, per evitare il ripetersi di situazioni del genere. Raffaele Sollecito chiede mezzo milione di euro per ingiusta detenzione di Grazia Longo La Stampa, 16 ottobre 2016 Presenta il libro suo libro e dice: "Parlo spesso al telefono con Amanda Knox, se verrà in Italia le farò da guida". Per l’omicidio di Meredith Kercher è stato condannato solo Rudy Guede. Raffaele Sollecito sarà mai risarcito per i quattro anni di ingiusta detenzione? Il 20 ottobre, alla Corte d’Appello di Firenze, si svolgerà l’udienza per stabilire se lo Stato salderà il suo debito di 516 mila euro. Il danno è stato quantificato dai legali di Sollecito - definitivamente assolto dalla Cassazione, insieme ad Amanda Knox, per l’omicidio di Meredith Kercher, a Perugia il 2 novembre 2007 - in merito alla sua reclusione dal 6 novembre del 2007 al 4 ottobre del 2011, durante le indagini sul delitto. "Hanno già rubato e violato una parte della mia giovinezza" osserva Raffaele, 32 anni, laureato in ingegneria informatica, a margine della presentazione nella capitale del suo libro "Fuori dalla notte". E prosegue: "Spero almeno di ottenere il denaro che mi serve per le spese che la mia famiglia ha dovuto sostenere durante il processo. Tra consulenze varie, mio padre ha dovuto sborsare 1 milione e 300 mila euro e abbiamo ancora debiti per circa mezzo milione". I difensori del giovane, Giulia Bongiorno e Luca Maori si sono rivolti all’ultimo giudice di merito che si è occupato del processo. Nell’attesa di risolvere anche "quest’altro terribile capitolo giudiziario", Sollecito racconta le sofferenze patite in carcere nel suo libro, edito da Longanesi. L’incontro a Roma è stato organizzato dall’associazione Crime Box - grazie all’impegno delle due criminologhe Marica Palmisano e Maria Elena Caporale - specializzata nel reinserimento sociale degli ex-detenuti. Crime Box punta a un innovativo progetto sulla detenzione penitenziaria mirato al rispetto dei diritti e della dignità delle persone, oltre che alle finalità rieducative. "La riabilitazione sociale non è un processo semplice né tanto meno scontato" ribadisce Raffaele Sollecito, che ha utilizzato la laurea per ingegnarsi e inventarsi due software. Uno è una sorta di Interflora per i cimiteri: "Organizzo consegne online di corone e fiori direttamente sulle lapidi". L’altro consente di "scegliere e prenotare in spiaggia lettini e ombrelloni comodamente dal proprio smartphone". Quanto al suo libro, Raffaele rievoca "l’incubo dalla sera in cui venne uccisa Meredith, i momenti vissuti con Amanda Knox nei giorni successivi alla tragedia". E ricostruisce i lunghi mesi in carcere di massima sicurezza, la follia sfiorata in cella di isolamento e gli otto anni di battaglie, cinque processi con l’assoluzione finale in Corte di Cassazione il 27 marzo 2015. "Di Amanda non mi va tanto di parlare - conclude -. Ogni tanto ci sentiamo al telefono: mi ha detto che se mai tornasse in Italia, le piacerebbe che io l’accompagnassi in giro per le città più belle. Niente di più". Unico colpevole del brutale omicidio di Meredith Kercher è l’ivoriano Rudy Guede, che sta scontando una pena a 16 anni di reclusione, diventati definitivi, con il rito abbreviato. "Annunciò il delitto in un romanzo". La Cassazione annulla la condanna di Giusi Fasano Corriere della Sera, 16 ottobre 2016 Disposto un nuovo processo d’appello per lo scrittore Daniele Ughetto Piampaschet accusato dell’omicidio della ex fidanzata nigeriana Anthonia Egbuna. Secondo l’accusa, Piampaschet avrebbe descritto il delitto dettagliatamente in uno dei suoi romanzi. Se non fosse partito tutto da un romanzo bisognerebbe scriverlo, un romanzo. Per raccontare la storia di Daniele, il filosofo con quel cognome strano (Ughetto Piampaschet) e la vita divisa fra Dio e le prostitute. Per parlare della sua amica nigeriana Anthonia Egbuna, ripescata cadavere dalle acque del Po a febbraio del 2012. E per scrivere della Giustizia italiana che ha assolto lui in primo grado dall’accusa di averla uccisa a coltellate, che poi lo ha condannato a 25 anni e mezzo in appello e che adesso ha annullato la condanna ordinando un nuovo processo. "Dio ti ringrazio" - Ecco. Cominciamo dall’ultimo passaggio: la Cassazione ieri ha cancellato quei 25 anni e mezzo (per motivi che sapremo fra settimane) e ha rimandato tutto ai colleghi della Corte d’Assise d’Appello di Torino perché rifacciano daccapo il secondo grado. Una bella differenza rispetto all’ipotesi b, cioè la conferma della condanna dell’imputato e quindi il carcere immediato da qui e per tanti, tanti anni. "Dio ti ringrazio per aver ascoltato le mie preghiere" è stato il primo pensiero di Daniele, rimasto in attesa del verdetto a casa dei suoi genitori, nel Torinese. È lì che vive quest’uomo di 38 anni, aspirante romanziere laureato in filosofia, "tenuto in piedi da una fede immensa" (come dice suo padre Luigi Mario) e un tempo sposato con una nigeriana che aveva aiutato a uscire dal mondo della prostituzione e dalla quale si era poi separato. Gli indizi - Anthonia la conosceva e la frequentava, con lei aveva avuto una relazione, "ma non l’ho uccisa" giura dal primo giorno in cui finì sotto accusa. Diversi gli indizi che portarono a lui. Tra i più importanti le moltissime chiamate (1.900) emerse fra i due durante i dieci mesi in cui si frequentarono, nel 2011: da febbraio al 28 novembre (data presunta della morte), poi più nulla. Ma fra le fonti di prova che hanno pesato di più nelle indagini finirono anche due libri, chiamiamoli così, scritti da lui e trovati nell’appartamento di lei. "Più che libri veri e propri erano uno scritto e la bozza di un romanzo e in tutti e due si raccontava della morte violenta di una prostituta" spiega il suo avvocato Stefano Tizzani. Nello scritto ("La rosa e il leone") la donna viene strangolata, quindi l’assassino si toglie la vita con un colpo di pistola. Nella bozza del romanzo ("Il bracciale di corallo"), invece, l’episodio della prostituta uccisa si modifica: lei viene accoltellata e buttata nel fiume dopodiché l’omicida spara al fidanzato. "L’amavo pur avendola uccisa" - "È una confessione extra-giudiziale" fu la tesi degli accusatori. E il pm lesse in aula alcuni dei passaggi più inquietanti del racconto. Tipo: "Era stata una morte atroce, accoltellata, eppure io a distanza di giorni non riuscivo a provare rimorso". Oppure: "L’amavo pur avendola uccisa (...) l’omicidio era la logica conseguenza". Daniele aveva spedito i suoi scritti a un po’ di amici. "Qualcuno ha stampato quella roba e l’ha messa a casa sua per incastrarmi", si difese. La sua versione ha retto in primo grado: assolto per non aver commesso il fatto e quindi scarcerato dopo venti mesi di detenzione preventiva. L’appello ha ribaltato tutto ma a quel punto, nonostante la condanna, gli è stata concessa la libertà in attesa della Cassazione. E arriviamo a ieri, all’avvocato che lo chiama per dirgli "Torniamo in appello, non è ancora finita ma almeno ripartiamo dalla sentenza di assoluzione...". Una specie di missione - "Mi sembra di tornare a vivere" ha risposto lui ricordando Anthonia e il tempo passato con lei. Una specie di "missione", la sua, con le prostitute nigeriane "da salvare", magari pagando il riscatto (come fece con la sua ex moglie) ma anche pregando, "perché la fede è la cosa che più lo sorregge" per dirla con le parole di suo padre. "Ho passato giorni lunghi e difficili che non auguro a nessuno, notti angoscianti" ha fatto sapere Daniele in serata con una nota scritta affidata al suo legale. Racconta che in questi anni ha passato il tempo "lavorando nella campagna dei nonni, facendo un po’ di volontariato e tornando a scrivere". E a scanso di equivoci: "In ciò che ho scritto ho sempre preso spunto da quel che mi stava attorno per raccontare storie che poi venivano romanzate e arricchite con mie fantasie". Cagliari: detenuto minorenne tenta di togliersi la vita in cella sardegnalive.net, 16 ottobre 2016 Tempestivo l’intervento del compagno di detenzione e degli agenti penitenziari. Nella tarda serata di ieri, all’interno di una cella dell’Istituto Penitenziario per Minori di Quartucciu, un detenuto algerino ha tentato di togliersi la vita impiccandosi. Il giovane è stato prima soccorso dal compagno di detenzione, che è riuscito a tenerlo sospeso, e poi dagli agenti penitenziari, intervenuti tempestivamente. Il detenuto è stato trasportato all’ospedale cittadino per tutti gli accertamenti del caso e poi riaccompagnato in carcere e sottoposto a grande sorveglianza. "Ieri è stata salvata una vita umana. Gli interventi sono stati tempestivi, sia quello del compagno di cella che quello della polizia penitenziaria - ha detto il segretario generale aggiunto della Fns-Cisl Giovanni Villa -. Il detenuto che ha provato a togliersi la vita pare abbia ricevuto in questi giorni delle notizie riguardanti la perdita di un familiare, forse è questo motivo che lo ha portato a compiere il gesto estremo. Il personale di polizia penitenziaria operante sta garantendo il servizio in modo professionale. Certo è che - spiega Villa - con detenuti a grande sorveglianza bisogna aumentare i poliziotti in servizio e quindi rinforzare l’organico. L’amministrazione ora, giustamente, provveda a premiare chi è intervenuto". Roma: Festa del Cinema a Rebibbia, diritto alla cultura e alla conoscenza di Marta Rizzo La Repubblica, 16 ottobre 2016 Per 4 giorni, si intende dare ai detenuti del carcere il diritto a momenti di cultura e di conoscenza della realtà, attraverso il Cinema. I film di Daniele Vicari ("Sole amore cuore") e di Ron Howard, ("Inferno"). Dal 16 al 20 ottobre, per la prima volta, un Festival internazionale del Cinema entra in un penitenziario. Il programma prevede la presentazione dei film di Daniele Vicari, Sole amore cuore (lunedì 17 alle 16.30) e di quello di Ron Howard, Inferno, alle 20.30 di martedì 18, dal carcere. Ù Infine, lo spettacolo recitato dai detenuti, Dalla città dolente (in scena giovedì 20 ottobre alle 17, sempre dal teatro di Rebibbia) che darà l’occasione per condividere un percorso che "una tendenza del cinema italiano" porta avanti: il diritto al Cinema, insomma, come strumento di conoscenza. Nel pomeriggio di lunedì 17, assieme a Daniele Vicari ci sarà anche Isabella Ragonese a presentare Sole cuore amore. Con loro, Luciana Castellina, Silvia Scola, Wilma Labate e altri personaggi del cinema. Il mondo entra in carcere. Dal 16 al 20 ottobre, dunque, la Festa del Cinema di Roma apre le porte del carcere di Rebibbia e ci fa entrare il mondo. Se si è tutti d’accordo (o quasi, almeno) nell’ammettere che il Cinema sia la forma più immediata di rappresentazione della realtà (perché è la realtà), non si può non ammettere l’unicità di questo avvenimento. Il voyerismo dello spettatore che entra, da oltre 15 anni, nel Teatro Libero di Rebibbia per vedere i detenuti recitare Shakespeare, Brecht, Tolstoj (soltanto per citare alcuni autori qui rappresentati), si capovolgerà, nei giorni prossimi. Il detenuto potrà guardare se stesso, il proprio doppio, il mondo nel quale ha infranto le regole, tutto lì: dove sconta la sua pena. In più, con l’arma della conoscenza. "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario" (Primo Levi). Il Teatro Libero di Rebibbia che entra nella Festa del Cinema di Roma, porta il detenuto a denudarsi, ad assumere, per la prima volta in vita sua, un’identità veramente sociale. No all’intellighenzia. "L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari dice che il tasso di recidiva fra i detenuti in Italia (circa 55.000) arriva al 70% - spiega Fabio Cavalli, responsabile dell’archivio storico del Centro Studi Enrico Maria Salerno, diretto da Laura Andreini Salerno - per chi svolge un lavoro in carcere il tasso scende al 19% e su un centinaio di Laboratori teatrali in carcere, la recidiva per chi li frequenta si abbassa al 6%. Ma uno studio scientifico ancora manca. Dieci anni fa - dice ancora Cavalli - nessuno conosceva questi dati: mancava un protocollo di indagine e il teatro in carcere era poco più di un esperimento per intellettuali molto chic". A noi, non piace l’intellettuale chic. Noi, piuttosto, vogliamo portare in carcere il pensiero di Mario Monicelli: "All’intelligHenzia preferisco la stupidaggHine". Benevento: vetrate artistiche realizzate dai detenuti, oggi la consegna a San Modesto ilquaderno.it, 16 ottobre 2016 Oggi, domenica 16 ottobre, durante la Messa delle ore 11.30 nella Chiesa di San Modesto, i detenuti del carcere di Benevento consegneranno le vetrate artistiche da loro realizzate. Si terrà oggi, domenica 16 ottobre nella Chiesa di San Modesto, la cerimonia di consegna delle vetrate artistiche realizzate dai detenuti del carcere di Benevento che lavorano all’interno del Laboratorio di arte sacra. Un progetto questo intitolato "Liberare la Pena" gestito dalla Cooperativa Sociale "Il Melograno", partner della Caritas Diocesana di Benevento e finanziato da Fondazione con il Sud. Alla Santa Messa parteciperanno 4 detenuti che hanno realizzato le vetrate, la maestra d’arte Valentina De Caro e la direttrice del carcere, Palma. I Ragazzi del Laboratorio di Arte Sacra, insieme ad alcuni colleghi che hanno già scontato la pena e si trovano adesso in libertà, saranno a San Modesto a partire dalle 9.30-10.00 di domattina. Nuoro: i detenuti di Badu e Carros disegnatori di francobolli di Francesco Cabras La Nuova Sardegna, 16 ottobre 2016 Il penitenziario apre le porte al progetto di Poste italiane "Filatelia nelle carceri" L’iniziativa chiuderà con la presentazione delle cartoline e un annullo speciale. Per circa un secolo e mezzo il francobollo è stato un fondamentale strumento di comunicazione globale. Pressoché soppiantato dalle nuove tecnologie, oggi rappresenta un oggetto di culto per collezionisti, ma anche un valido strumento formativo-culturale. E in questa direzione si muove il progetto "Filatelia nelle carceri", a cui quest’anno, per la prima volta e unico in Sardegna, partecipa anche il penitenziario di Badu e Carros. Promossa e sviluppata da Poste italiane in collaborazione con i ministeri della Giustizia e dello Sviluppo economico e la federazione fra le Società filateliche italiane e l’Unione stampa filatelica italiana, all’iniziativa hanno aderito 19 detenuti, alcuni dei quali già appassionati di francobolli. Sotto la guida della referente filatelica delle Poste di Nuoro e Cagliari, Giovanna Strabone, e l’ausilio delle educatrici del carcere, da qualche settimana partecipano a una serie di incontri programmati nel corso dei quali viene illustrata la storia del servizio postale e i primi rudimenti del collezionismo filatelico. "A ogni studente - spiega Marisa Orrù, responsabile della comunicazione di Poste italiane - sono state consegnate delle guide al collezionismo realizzate dall’istituto e del materiale filatelico". I detenuti, tutti over 35, hanno sviluppato un tema scritto sull’argomento e stanno già iniziando a realizzare degli elaborati grafici. Al termine del progetto saranno presentate delle cartoline ed un annullo speciale. Entrambi i prodotti filatelici saranno realizzati utilizzando i lavori ritenuti più significativi prodotti dagli studenti. Come spiegano i responsabili, "Filatelia nelle carceri" si propone come progetto formativo di ampio respiro che, avvalendosi delle sostanziali caratteristiche di multidisciplinarità e interdipendenza tipiche della filatelia, consente agli studenti di sondare una varietà di aree di interesse collegate al francobollo come la storia, la geografia, l’arte, le istituzioni, le diversità culturali, le tradizioni, i popoli, gli eventi celebrativi legati a personalità o avvenimenti storici che hanno segnato in modo rilevante la storia nazionale e internazionale". Ma quello formativo non è l’unico aspetto rilevante dell’iniziativa, che si prefigge l’importante obiettivo di "stimolare la curiosità e il desiderio di sottrarsi alla monotonia della vita carceraria e soprattutto contribuire al processo di riabilitazione e reinserimento nella società dei detenuti, elementi fondanti e obiettivi dello stesso sistema carcerario italiano". Il tutto grazie a un piccolo pezzo di carta, che se per i più è solo un oggetto da collezione, per tanti detenuti costituisce ancora l’unico mezzo attraverso cui conservare i contatti con i propri affetti al di là del muro. Povertà, l’Italia ha rinunciato a combatterla di Giuseppe De Marzo Il Manifesto, 16 ottobre 2016 Nella giornata mondiale per l’eliminazione della miseria, gli ultimi dati registrano nel Paese una situazione in netto peggioramento. Dopo 8 anni di tagli al welfare, un ddl che stanzia poco più di 1 mld invece dei 18 necessari. Domani, 17 ottobre, è la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà, istituita nel 1993 dalle Nazioni Unite. Povertà e disuguaglianze sono oggi i principali problemi del nostro Paese e del nostro continente. Ma quel che è ancor più grave, è che ogni anno per noi italiani è sempre peggio. Gli ultimi dati Istat, Eurostat, Svimez, Censis denunciano una vera e propria emergenza sociale e democratica. "Un sistema di protezione sociale tra quelli europei meno efficace ed incapace di far fronte all’aumento di diseguaglianze e povertà", queste le parole pronunciate lo scorso 20 maggio alla Camera dal presidente dell’Istat, Giovanni Alleva, durante la presentazione dell’ultimo rapporto 2016 sulla situazione del Paese. Disuguaglianze e povertà aumentano, nonostante la crescita economica. I dati sono drammatici ed al tempo stesso inequivocabili: l’indice Gini sulle diseguaglianze di reddito è aumentato da 0,40 a 0,51, dal 1990 al 2011, portando il nostro Paese ad essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna, in cui si registra un indice dello 0,52; il 28,3% della popolazione è a rischio povertà, in particolar modo al sud; altissimo il numero della povertà assoluta, che colpisce quasi 5 milioni di italiani, triplicati negli ultimi 8 anni, così come il numero dei miliardari, arrivati a 342, a dimostrazione che la ricchezza c’è ma il sistema la ridistribuisce verso l’alto. Resta immutato all’11,5% l’indice di grave deprivazione materiale che colpisce le famiglie. L’Istat denuncia come il sistema di trasferimenti italiano (escludendo le pensioni) non sia in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento, che colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, migranti già residenti. Il progressivo deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro ha contribuito in maniera determinante all’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, colpendo soprattutto giovani e donne. Instabilità lavorativa e precarietà sono tra i principali fattori che generano i maggiori svantaggi distributivi. Questo spiega la crescita dei Neet, gli under 30 che non sono occupati, non studiano ed hanno smesso di cercare lavoro. Nel 2015 erano oltre 2,3 milioni, in grande aumento rispetto al 2008 ma in leggero calo rispetto al 2014 (-2,7%). A conferma di una situazione che vede i giovani del nostro Paese tra i più discriminati del continente, i dati del rapporto Istat sulla mobilità sociale e sugli effetti occupazionali del percorso di studi testimoniano un sistema sociale bloccato e/o altamente selettivo, nel quale l’accesso ad un buon lavoro è possibile solo per chi ha condizioni di partenza migliori. Il nostro sistema di protezione sociale è sotto-finanziato ed inadeguato. L’Istat fa l’esempio di altri Paesi europei che nonostante le politiche di austerità imposte dalla governance hanno garantito e finanziato sistemi di welfare in grado di evitare o contenere l’aumento della povertà. Il rapporto dimostra che si poteva e doveva fare decisamente molto di più per evitare il disastro sociale. Il problema non è certo di assenza di risorse, ma di priorità scelte dalla politica. Dal rapporto emerge infatti come nel 2014 il tasso delle persone a rischio di povertà si riduceva, dopo i trasferimenti, di 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue a 27 Paesi di 8,9 punti. Le disparità all’interno dell’Unione sono notevoli. L’Irlanda è il Paese europeo con il sistema di trasferimenti sociali più efficace, in grado di ridurre l’indicatore di rischio di povertà di 21,6 punti; segue la Danimarca (14,8 punti di riduzione). Soltanto in Grecia (dove il valore dell’indicatore si riduce di 3,9 punti) il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace di quello italiano. Questo stato di cose spiega perché anche in presenza di una crescita del Pil non vi sia un miglioramento delle condizioni di vita per chi è in difficoltà, anzi il divario come abbiamo visto aumenta. Così come è stato ampiamente dimostrato che non vi è nessuna relazione tra aumento del debito pubblico e spesa pubblica. La nostra spesa sociale è tra le più basse d’Europa e, nonostante i tagli, il debito continua a crescere. La fotografia scattata dall’Istat è la conseguenza di una politica assente da anni nella lotta alle diseguaglianze, rassegnata all’idea che non sia obbligo della Repubblica combatterle e rimuoverne le cause, sempre più preoccupata a convincerci che il welfare rappresenti ormai un lusso che non possiamo più permetterci. Universalismo selettivo, darwinismo sociale e istituzionalizzazione della povertà sono conseguenze di una cultura politica che rinnega universalismo, solidarietà e cooperazione sociale come strumenti fondanti della democrazia a garanzia della Dignità. L’impianto normativo adottato e le scelte fatte nel corso di questi ultimi otto anni di crisi lo confermano: taglio del 66% del Fondo Nazionale per le politiche sociali, mancati trasferimenti ai Comuni per 19 miliardi a causa del patto di stabilità (dati Ifel), assenza di una misura di sostegno al reddito, già attiva in tutta Europa con la sola esclusione di Grecia e Italia, invocata da numerose risoluzioni europee a partire dal 1992 e dalle mobilitazioni e proposte di centinaia di migliaia di cittadini impegnati per introdurre un reddito di Dignità. Per ultimo il Ddl povertà, che stanzia la miseria di poco più di un miliardo di euro per affrontare un’emergenza che ne richiederebbe 18 per garantire almeno la dignità. La cyber-guerra tra Obama e Putin Washington ordina: preparare l’attacco di Federico Rampini la Repubblica, 16 ottobre 2016 Il Cremlino avverte: "Scherzate con il fuoco" Timori per un blitz degli hacker sul voto Usa. Barack Obama ha dato ordine alla Cia di preparare un cyber-attacco contro la Russia. È la risposta americana al furto di dati dagli archivi del partito democratico e di Hillary Clinton. Lo ha rivelato il vicepresidente Joe Biden parlando alla rete televisiva. Nbc: l’Amministrazione Usa vuole "mandare un messaggio a Vladimir Putin". La rappresaglia informatica sarà sferrata "nel momento in cui lo decideremo noi, e nelle circostanze che ne amplificheranno l’impatto". La stessa Nbc cita poi delle fonti legate alla Cia, secondo cui le opzioni per una controffensiva di hacker americani esistono da tempo, mancava solo il via libera dall’esecutivo. "Se ci autorizzano, possiamo fare molto", dicono le fonti Cia al network tv. L’annuncio di Biden arriva a pochi giorni dall’accusa formale dell’Amministrazione Obama: due rami dell’esecutivo e cioè la Homeland Security (ministero degli Interni) e l’Office of the Director of National Intelligence, hanno ufficialmente legato agli hacker russi i tre siti DCLeaks, WikiLeaks e Guccifer 2.0 che prendono di mira il partito democratico e la campagna Clinton. Secondo le stesse fonti governative americane "solo i massimi vertici politici di Mosca possono avere autorizzato quegli attacchi". La prima risposta di Putin a quelle accuse era arrivata nei giorni scorsi. Il leader russo aveva parlato di "isteria". L’ulteriore deterioramento nelle relazioni bilaterali Usa-Russia giunge in coincidenza con il fallimento del cessate il fuoco in Siria, un altro casus belli che ha peggiorato il contenzioso fra le due superpotenze. Alle rivelazioni di Biden ha risposto ieri il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, affermando che Mosca ha preso le precauzioni necessarie per salvaguardare i propri interessi a fronte della crescente "imprevedibilità e aggressività degli Stati Uniti". "Le minacce dirette contro Mosca e la leadership del nostro Stato sono senza precedenti, perché sono espresse a livello del vice presidente degli Stati Uniti", ha detto il portavoce del Cremlino. Minaccia inedita - Colpo su colpo, gli hacker americani risponderanno ai russi, per "creare il massimo imbarazzo a Putin". È un annuncio senza precedenti, giustificato da una campagna elettorale anomala, con interferenze mai viste prima, da parte della Russia in aiuto a Donald Trump. Ma la guerra è asimmetrica: non esiste un Trump russo a fare da megafono, per quanto gli hacker americani possano lanciare rivelazioni scomode per Putin, il controllo del leader russo sui mezzi d’informazione (anche digitali) e la repressione degli oppositori lo rendono meno vulnerabile. I mezzi americani - Secondo le rivelazioni di Edward Snowden, l’ex collaboratore della National Security Agency (Nsa), nel 2013 la Cia ricevette 685 milioni di dollari per finanziare la guerra informatica. Ancora più alta la dotazione della Nsa per i cyber-attacchi: un miliardo. Sono centinaia i tecnici americani al lavoro su questo fronte. I primi test delle loro capacità offensive avvennero ai danni di Milosevic in Serbia e Saddam Hussein in Iraq. Più di recente, il loro massimo trofeo (tra i successi noti) è l’operazione congiunta Usa-Israele che infiltrando virus informatici nelle centrali atomiche iraniane riuscì a infliggere danni al programma nucleare di Teheran. Come colpire Putin - Le fonti della Cia puntano soprattutto verso gli affari: sarebbero in grado di diffondere rivelazioni sulla ricchezza privata di Putin, le sue proprietà in Russia e all’estero. Nel mondo della finanza l’America ha notevoli capacità di raccolta dati. Più problematica è la diffusione di queste notizie per orchestrare "una campagna d’opinione pubblica", come vuol fare la Cia: Putin ha strumenti di censura che si estendono alla Rete. Un parallelo: le rivelazioni della stampa americana sull’enorme ricchezza privata del presidente cinese Xi Jinping, sono state oscurate a Pechino e non lo hanno indebolito. I precedenti in Russia - Il vero inizio di questa vicenda risale al dicembre 2011, quando si tengono le elezioni legislative russe segnate da frodi, e culminate con la terza rielezione di Putin. Dietro le proteste di massa, Putin è convinto che ci sia una regìa di Barack Obama con l’ausilio del magnate progressista George Soros che finanzia ong impegnate per i diritti umani. Putin è ossessionato dall’incubo di una "rivoluzione arancione" in casa sua, sulla scorta delle vicende ucraine e delle "primavere arabe". Parte da lì la sterzata anti-americana e anti-Nato di Mosca. Assange e Snowden - Putin usa sistematicamente i canali come WikiLeaks per fare da canale di trasmissione delle notizie carpite dagli hacker russi. In un’intervista al New York Times, Assange non ha negato di poter attingere alle informazioni degli hacker russi. All’accusa di attaccare sempre l’America, mai la Russia, Assange ha risposto con candore: "Criticare la Russia è noioso, lo fanno tutti". Snowden da parte sua continua a vivere in Russia sotto la protezione di Putin. Hillary nel mirino - Dall’inizio della campagna elettorale il bersaglio prediletto degli hacker russi è stato il partito democratico, nonché lo staff della Clinton. Uno scoop portò alle dimissioni della presidente del partito Debbie Wassermann, di cui emersero email ostili a Bernie Sanders. L’ultima ondata di rivelazioni riguarda le email di John Podesta, capo dello staff di Hillary. I dettagli imbarazzanti su Bill e Chelsea sono stati però coperti dal frastuono sugli scandali sessuali di Trump. La Siria chiama l’Ucraina e viceversa di Gian Paolo Calchi Novati Il Manifesto, 16 ottobre 2016 Le guerre sono "locali", la posta in gioco è globale. Sulla durezza delle politiche di Washington e Mosca si può discutere, ma è l’America che manifesta le maggiori contraddizioni. Dopo le manovre e le provocazioni è venuto il momento degli hackers, dei moniti formali e della dislocazione di missili e truppe. Sulla durezza delle rispettive politiche fra Usa e Russia si può discutere. Ma la parte che manifesta le maggiori contraddizioni è sicuramente l’America. Le posizioni delle due potenze nel teatro siriano - giunte vicinissime allo scontro nella battaglia di Aleppo (9 mila miliziani, quasi tutti jihadisti, e 275 mila civili sotto assedio) - possono essere sintetizzate così. La Russia è pronta a combattere fino all’ultimo uomo (intanto siriano) pur di prorogare la tenuta al governo di Bashar al-Assad e garantire le proprie residue posizioni strategiche nell’area: il filo diretto con Damasco e la base navale di Tartus. Gli Stati Uniti sono a loro volta decisi a "farla finita" con Assad, sotto tiro anche da prima, e a ridimensionare l’influenza di Russia e Iran nell’area. Combattere un regime e sostenere i ribelli sarebbe un comportamento coerente, ma combattere un regime e nello stesso tempo pretendere di debellare solo una parte dei ribelli diventa fin troppo complicato o machiavellico, così come, guardando gli eventi dall’altra prospettiva, non ha senso logico dire di avere come "nemico assoluto" il Califfato islamico, che rappresenta pur sempre la principale minaccia per Assad, e isolare e in ultima analisi avversare anche con le armi il governo in carica. Il tutto conducendo una guerra per cielo e in parte sul terreno, direttamente con le proprie forze speciali e indirettamente mediante le truppe curde, nel territorio teoricamente nazionale di quel paese, senza consultazioni con le autorità (almeno a quanto si sa) e senza riuscire a coordinarsi con la stessa Russia. Una prova del totale scollamento la fornisce la fine ingloriosa dell’ultima tregua umanitaria, raggiunta il 10 settembre dopo una trattativa durata 10 mesi: causa un’azione di guerra che Mosca addebita a bombardamenti americani contro caserme dell’esercito ufficiale siriano ("per accidente", naturalmente) e di cui Washington accusa invece gli apparecchi russi e governativi che avrebbero colpito una colonna di soccorsi. La Russia ha un obiettivo chiaro e conclamato, gestito d’accordo con il presidente Assad. È lecito solo fare la tara sull’accuratezza della selezione dei bersagli fra ribelli "estremisti" e ribelli "moderati" (sostenuti dall’Occidente e i soli candidati virtuali a partecipare a eventuali negoziati per quanto siano i gruppi jihadisti a dominare la lotta militare). Le varie formazioni sul terreno cambiano di nome e di posizione continuamente e c’è lo spazio per giustificare qualche errore. Del resto, per chi mira a mantenere al suo posto Assad, che "vede" una mezza vittoria militare, tutte le milizie avverse sono bigie, di giorno come di notte. Il governo turco si è un po’ raffreddato sulla rivolta anti-Assad dando la precedenza alla questione curda. Principi e militari del Golfo corteggiano Putin (l’emiro del Qatar ha elogiato al Cremlino la politica di "stabilità mondiale" della Russia). In giugno il presidente russo è stato a Pechino consolidando la convergenza strategica russo-cinese. Putin si fida di Lavrov e non deve consultare nessun altro organo istituzionale dotato di un qualche potere. Deve se mai appagare un’opinione pubblica che si sta ritrovando sotto la sua leadership. Il quale Putin potrebbe essersi convinto, e aver convinto i suoi concittadini, che una Russia senza una missione "imperiale" è destinata a sparire. Negli Stati Uniti - a confronto della politica russa - c’è il clima politico di una democrazia, sia pure belligerante e alla vigilia di elezioni presidenziali particolarmente tormentate. Ma, a ben vedere, non mancano gli inconvenienti anche per la "pluralità" che è un vanto degli Stati Uniti. L’esercito spinge per un’operazione più risoluta. Gli sforzi mediatori della diplomazia di Kerry sarebbero continuamente frenati o sconfessati dal Pentagono, che non vuole accordi di tipo militare con Mosca. Recentemente, un forum composto da veterani dell’intelligence ha ammonito Obama a non ripetere il passo fatale commesso da Bush nel 2003. In passato il presidente si palleggiava la responsabilità con la Clinton segretario di stato, adesso deve fare i conti con le promesse del 2008 e le frustrazioni del secondo mandato. Potrebbe essere tardi - da qui all’8 novembre - sia per la pace che per la guerra (non dimenticando però che nel 1992 il vecchio Bush, già sconfitto da Bill Clinton nelle elezioni per la Casa Bianca, allestì nelle ultime settimane di mandato la sciagurata impresa in Somalia denominata Restore Hope). La Siria chiama l’Ucraina e viceversa. Nel 2013 l’alt imposto da Putin a un intervento militare degli Stati Uniti in grande stile contro Damasco per avere Assad oltrepassato la famosa "linea rossa" della guerra chimica segnò lo zenit del prestigio a livello mondiale del nuovo zar. Di solito è il presidente degli Stati Uniti che parla al mondo. Allora fu il presidente russo. Putin trovò una sponda meravigliosa in papa Francesco, che proclamò una giornata di preghiera universale e multi-religiosa. Una mezza gaffe di Kerry fece il resto. Assad si impegnò a distruggere le armi chimiche del suo arsenale sotto controllo internazionale. Per Obama fu una umiliazione senza precedenti. Forse, fu per risalire la china dell’autostima se pochi mesi dopo si prestò all’opera di destabilizzazione in Ucraina che spingerà il governo di Mosca al vulnus non ancora condonato della Crimea. Anche oggi i due fronti si rincorrono pericolosamente. La guerra "locale" in atto ha come teatro la Siria e il Medio Oriente. Qualcuno ha scambiato la Siria di Assad con la Libia di Gheddafi. Dopo cinque anni, è probabile che in maggioranza i siriani superstiti aspirino alla pace anche con Assad (e potrebbe essere un punto di forza per Putin). Sono soprattutto le potenze esterne a voler continuare la guerra? Le ombre della guerra "totale" si stanno addensando nell’Europa orientale. Nei paesi baltici si attesteranno truppe della Nato, anche dell’Italia (140 soldati, ma più del numero è l’immagine che conta). Stati Uniti. Pena di morte, bocciata la nuova legge della Florida di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 ottobre 2016 Venerdì la Corte suprema della Florida ha rimandato al mittente la nuova legge sulla pena di morte introdotta dallo stato dopo che anche la precedente, all’inizio dell’anno, era stata giudicata incostituzionale. La ragione della prima pronuncia negativa era stata la previsione che fosse il giudice del caso, più che la giuria, ad avere l’ultima parola; nel secondo caso, è stata la norma che consentiva alla giuria di chiedere la pena di morte anche senza aver raggiunto l’unanimità. La sentenza dell’altro ieri è stata presa nel caso Hurst vs Florida. Altrove negli Usa, dove le corti hanno a che fare con una serie di ricorsi legati al metodo d’esecuzione - problema sorto, come già scritto in questo blog, a seguito dell’esaurimento delle scorte di un farmaco usato per l’iniezione letale e dell’indisponibilità delle aziende farmaceutiche europee di ripristinarle - le sentenze hanno esito alterno. In Missouri, giovedì scorso, una corte d’appello ha dato ragione a un soggetto di questo stato (non sappiamo se sia un’azienda o un singolo farmacista, dato che in tutto il procedimento è chiamato "M7") che si era detto disponibile a rifornire lo stato del Mississippi, a condizione di rimanere anonimo, dell’anestetico essenziale per portare a termine un’esecuzione. Se la sua identità fosse stata rivelata, avrebbe ritirato la disponibilità. Così i giudici della corte d’appello hanno stabilito che al condannato a morte che aveva fatto ricorso non deve interessare chi fornirà uno dei tre farmaci che porranno termine alla sua vita. Siria. Nella notte di Aleppo, così muoiono i bambini di Alberto Stabile la Repubblica, 16 ottobre 2016 Reportage dalla città martire della Siria: "un massacro sotto le bombe". Sulla città oscurata dalla penuria di petrolio e dalle esigenze della battaglia, le esplosioni risuonano ad intervalli irregolari. È un bombardamento continuo ma non intenso quello che le forze siriane, assieme agli Hezbollah libanesi, appoggiate dall’aviazione russa, conducono sui quartieri orientali. Pare che la scorsa settimana sia stato molto peggio. Stanotte, invece, tra un boato e l’altro poteva passare un minuto, o anche mezz’ora. Una lunga parentesi che il rombare degli aerei ad alta quota colmava d’ansia. È dunque probabile che il riaprirsi di uno stretto spiraglio negoziale, come i colloqui di Losanna, più che il coro di proteste suscitato nelle cancellerie occidentali dal disastro umanitario di Aleppo Est, abbia consigliato le forze che sostengono il regime a rallentare il ritmo delle operazioni militari. Ma Aleppo, oltre a essere una città divisa tra due metà che non combaciano, è una città ferita, amputata della sua storia e delle sue bellezze, più di quanto fosse solo sei mesi fa, e dove la vita quotidiana scorre in mezzo a paure, eccessi e sofferenze, come in certe retrovie di guerra. E chi se non i bambini, anche qui a Ovest, come a Est, viene chiamato a pagare il prezzo più alto? "Giovedì - mi dice Mohammed Khalil, il giovane direttore del pronto soccorso del "Razi Hospital", uno dei due ospedali pubblici destinato ai feriti civili, l’altro è il policlinico universitario, cui si aggiunge l’ospedale per i militari - è stata la giornata più nera da molte settimane a questa parte". Quattro bambini, due coppie di fratelli, un maschio e una femmina, vengono investiti dall’esplosione di un colpo di mortaio mentre stanno andando a scuola nel quartiere di Suleimanyeh. Morti. Una quinta bambina, Mouna Abdu di 12 anni, viene ferita alla testa nel quartiere abitato prevalentemente da armeni di Midan. Uno dei più bersagliati nell’intero corso della guerra, da 4 anni a questa parte. Mouna ora è nella sala accanto, nel reparto di rianimazione, legata alla macchina che l’aiuta a respirare. Ha un buco in testa da cui è un miracolo se non è fuoriuscita materia cerebrale. Tra garze e sonde si intravedono i bei lineamenti di una bellezza pronta a fiorire. Ogni tanto apre gli occhi per un riflesso automatico del respiratore. La scena è straziante, ma i medici confidano che possa riprendersi. Dietro la porta dell’Emergency, il nonno di Mouna, Mahmud Abdu, 52 anni, tassista come il figlio maggiore e padre di Mouna, Shady, freme e si stringe attorno i parenti, 5 persone tutte ferite, più o meno gravemente, dal piccolissimo Amr di pochi mesi, sfiorato da una scheggia al collo, alla madre di Mouna, Fatima, anch’essa colpita alla testa ma ripresasi subito, alla sorellina minore Maram, fratture alle braccia. "Mirano sui civili - dice Mahmud, commuovendosi - Vorrei sapere a che scopo? Che cosa abbiamo fatto?". E racconta che quattro anni fa, quando era cominciata la cosiddetta "liberazione" di Aleppo, da parte dei gruppi jihadisti (luglio 2012), penetrati dalla Turchia, lui aveva preso armi e bagagli ed era fuggito con la famiglia ad Ovest, senza più ritornare nel quartiere di Shahar, dove era nato. "Mi hanno detto che se me ne fossi andato non mi avrebbero più fatto rientrare e per chiarire definitivamente i loro propositi si sono presi la mia casa". Profugo nella sua stessa città, come centinaia di migliaia di aleppini, Mahmud ha trovato un appartamento da affittare a Midan. Tre stanze, 750 dollari al mese. Una buon prezzo, rispetto alla media dei quartieri di Aleppo, dove gli affitti, dopo il grande afflusso dalla parte orientale sono saliti alle stelle. Mahmud, rispetto ad altri, è stato fortunato per un motivo semplicissimo: perché Midan è il quartiere occidentale più bersagliato dai cecchini annidati dall’altro lato e soprattutto a Bustan al Pasha (Il giardino del Pashà), separato da Midan da un reticolo di strade interrotte soltanto da qualche barricata fatta di macerie, copertoni e auto arrugginite su cui pende, a mo di sipario per confondere la mira dei cecchini, una serie di lenzuola. Ma i razzi Katyusha e i corpi di mortaio sono fatti proprio per sorvolare gli ostacoli. Lanciarli contro uno spazio super affollato come Aleppo Ovest, vuol dire sparare nel mucchio con la certezza di colpire qualcuno e in una società dove la stragrande maggioranza ha meno di 30 anni, non c’è niente di più facile che colpire dei bambini. Così, giovedì, un ordigno s’è andato a schiantare sulla facciata di una chiesa, demolendo un pezzo del prospetto e facendo precipitare di sotto un balcone che ha colpito Mouna e i suoi familiari. "Il mese di settembre - mi dice il direttore dell’Istituto di Medicina Legale, responsabile di tenere aggiornato le statistiche delle vittime civili ad Aleppo Ovest, Zaher Hayyo - è stata una carneficina". Mentre l’aviazione russa e l’artiglieria siriana facevano terra bruciata intorno ai ribelli armati, trincerati nei quartieri orientali, ad Aleppo Ovest venivano uccisi 32 adulti maschi, 15 donne 73 bambini (inferiori a 16 anni di età). Ottobre si presenta per così dire migliore: fino al 15 sono stati uccisi 39 maschi, 11 donne e 16 bambini. Gli strateghi russi, diranno che il presumibile calo nel numero delle vittime nella parte Ovest sarà dovuto all’efficacia dei bombardamenti sulle zone orientali. Nessuno sa esattamente quanta gente viva al di là del confine ideale ma apparentemente inconciliabile che separa le due città: le stime delle Nazioni Unite parlano di 275 mila civili e tra 8 e 9 mila ribelli. Ma le stime variano a seconda dell’ente umanitario che effettua le valutazioni. La verità è che nessuno si muove da quella trincea sperduta a Oriente della Cittadella. Fino a due mesi fa c’era persino un autobus che portava funzionari civili e gente norma- le dall’altra parte. Ma, dice il generale Ghassan, l’alto ufficiale che dirige il traffico dei mezzi pubblici tra Aleppo e le zone ribelli, "due mesi fa il governo ha deciso di sospendere la linea con i quartieri orientali, mentre restano in funzione tutte le altre, da Aleppo per Rakka, Idlib, Mambji, al Bab e qualsiasi altra località perché il nostro intento è permettere ai cittadini siriani di mantenere il contatto con i paesi d’origine e con le famiglie". In realtà, oltre che formalmente interrotte, le comunicazioni e i passaggi tra le due metà di Aleppo sono inevitabilmente diventate oggetto della trattativa che a fasi alterne si apre e si chiude sull’assedio. Ieri la città occidentale ha conosciuto una mattinata di ordinaria follia, con il traffico paralizzato a causa della chiusura di intere strade del centro. Poliziotti baffuti e armati di kalashnikov bloccavano le macchine con gesti rudi e senza dare spiegazioni: "Lo saprete fra due ore", così alimentando la ridda di voci. Chi parlava di un’esercitazione militare in pieno centro, chi di un accordo raggiunto tra il governo di Damasco e gli jihadisti, grazie ai buoni uffici dell’inviato Onu, l’ambasciatore Staffan De Mistura, per fare uscire dai quartieri circondati un certo numero di miliziani armati, probabilmente appartenenti all’organizzazione che un tempo si chiamava Jiabhat al Nusra ed oggi, dopo un maquillage semantico, si è trasformata in Jiabhat Fateh al Shiam, "ll fronte della conquista del Levante", ma che resta un gruppo legato ad Al Qaeda. Non è una novità che in seguito ad accordi parziali, o per meglio dire, locali, tra governo e gruppi armati, si raggiunga una tregua che vede da un lato la cessazione dei bombardamenti e, dall’altro, la ritirata dei ribelli, armi in pugno e con la possibilità di portare con sé le famiglie in zone considerate sicure come la capitale dell’"Emirato" di Al Nusra, Idlib, nel Nord Ovest del Paese. Un accordo del genere c’è già stato ad Homs, Daraya e due piccoli villaggi, Al Kala e al Karlil. Perché non dovrebbe poter succedere anche ad Aleppo? La zona dove potrebbe concretizzarsi un eventuale accordo, c’è. Questa zona si chiama "Bustan al Kasr (Il giardino del Palazzo) Passage". Ed era la zona che la polizia siriana, ieri mattina, aveva escluso dal traffico. Perché? A sera s’è saputo che probabilmente era stato raggiunto un accordo per garantire l’uscita dalla zona assediata a circa 150 jihadisti, in possesso delle loro armi e con le loro famiglie. Ma all’ultimo momento qualcosa non ha funzionato e dalle posizioni dei ribelli a Sultan el Kasser sono partiti due missili: uno è esploso nel quartiere di Al Masharika, uccidendo una bambina e ferendo gravemente la madre. L’altro ordigno s’è schiantato a Soulemanyaeh uccidendo due persone e ferendone almeno 5. Così, quella che poteva essere la prova generale di una possibile ritirata concordata è miseramente fallita. Libia. Fallito il golpe a Tripoli, ma al Sarraj è sempre più debole di Michele Giorgio Il Manifesto, 16 ottobre 2016 Miliziani agli ordini dell’ex premier Khalifa al Ghwell hanno occupato qualche edificio e una stazione tv ma in poche ore le forze governative hanno ripreso il controllo. L’accaduto comunque conferma la fragilità del primo ministro appoggiato dall’Onu, Fayez al Sarraj. Ha avuto vita breve, meno di 24 ore, il tentato colpo di stato delle milizie islamiste agli ordini di Khalifa al Ghwell contro il governo di Tripoli sostenuto dall’Onu. Un flop di cui gli abitanti della capitale non si sono neppure resi conto, tanto è stato inconsistente il "golpe". Al Ghwell, ex premier del governo di salvezza nazionale che ad aprile aveva passato i poteri a Fayez al Sarraj, venerdì notte assieme ad Awad Abdul Saddeq, vice primo ministro del vecchio Congresso nazionale generale (Gnc), Ali Ramali, ex capo della sua guardia presidenziale, e un numero ignoto di miliziani armati, hanno occupato l’hotel Rixos, alcuni edifici governativi e una stazione tv da dove hanno annunciato una "iniziativa storica per salvare la Libia". Hanno detto di essere pronti a rovesciare al Sarraj, accusato di minare l’unità nazionale e di essere una pedina delle potenze straniere. Al Ghwell ha quindi invitato, invano, Abdullah al Thinni, capo del governo di Tobruk, a unirsi a lui per formare un esecutivo di unità nazionale. Il tentativo però è fallito nel giro di poche ore. Non ci sono state le sollevazioni degli apparati militari e delle milizie che i golpisti si attendevano e il controllo è stata ripresa senza grandi pronlemi dalle forze di Sarraj che ha ordinato l’arresto di al Ghwell e degli altri protagonisti del fallito colpo di stato. "Il golpe, o meglio il bluff degli islamisti è fallito - ha commentato ieri con ironia Ahmed Wali, consigliere della municipalità di Tripoli - La situazione nella capitale è calma, non sappiamo dove si trovi Khalifa al Ghwell, forse è fuggito da Tripoli". Pare che alla base del tentato "colpo di stato" ci sia il mancato pagamento della milizia a cui si è appoggiato al Ghwell che non veniva più retribuita dal governo intenzionato a sostituirla. L’accaduto in ogni caso ha generato allarme nelle capitali occidentali che con più decisione sostengono al Sarraj. L’inviato Onu per la Libia, Martin Kobler, ha duramente condannato il golpe. La "ministra degli esteri" dell’Ue, Federica Mogherini ha spiegato che "È cruciale che tutte le parti coinvolte lavorino insieme per sostenere l’applicazione dell’accordo politico raggiunto e per sviluppare un processo democratico in cui tutte le parti possano essere rappresentate". Meno interesse ha suscitato il mancato golpe nel mondo arabo dove i media locali hanno dedicato uno spazio minimo alle notizie dalla Libia. Il mancato putsch ha evidenziato la debolezza di al Sarraj, già boicottato dal governo parallelo di Tobruk e dal potente generale a capo delle forze armate, Khalifa Haftar, che il mese scorso, con la benedizione degli alleati egiziani, ha occupato la zona della Mezzaluna petrolifera sottraendola al controllo di una milizia fedele a Tripoli. Aguila Saleh, falco della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, ripete che l’opposizione al Governo di Accordo Nazionale (Gna) di Tripoli è motivata dalla sfiducia in al Sarraj che non ha la legittimità per guidare il Paese perché non è stato eletto dal popolo. La distanza tra i due governi, che danneggia di più quello sostenuto dall’Onu, si è ulteriomente allargata dopo la conquista dei giacimenti dalle truppe agli ordini di Haftar. E per al Sarraj non è stato un buon segnale la conferenza internazionale che si è tenuta ad inizio del mese a Parigi, alla quale non è stato invitato nessun esponente del governo di Tripoli avvalorando l’impressione di una apertura indiretta al dialogo con Haftar e l’esecutivo di Tobruk. Anche la mancata vittoria definitiva dell’esercito agli ordini di Sarraj sulle milizie dell’Isis a Sirte, dove si continua a combattere e a morire, ha contribuito ad accrescere lo scetticismo occidentale verso le capacità del primo ministro sponsorizzato dall’Onu e la reale autorità del governo di Tripoli. Si sta facendo strada l’idea di una integrazione di Haftar nel sistema di potere libico, indispensabile per realizzare una vera unità nazionale e riparare al dissesto dell’economia. Il Pil libico è in picchiata ed è opinione diffusa, a cominciare da quella della Banca Mondiale, che l’economia non tornerà a crescere senza l’attuazione di una politica seria e incisiva sull’intero territorio nazionale. Cina. Piazza Tienanmen, libero dopo 27 anni l’ultimo detenuto rainews.it, 16 ottobre 2016 In Cina l’ultimo detenuto fra i manifestanti di Piazza Tienanmen del 1989, sarà liberato il 15 ottobre. L’uomo ha oggi 55 anni e sarebbe fisicamente molto debole e malato. Tweet 15 ottobre 2016 Dopo 27 anni trascorsi in carcere, Miao Deshun tornerà ad essere un uomo libero. È l’ultimo detenuto di Tienanmen a uscire di prigione. Almeno secondo quanto hanno rivelato un suo ex compagno di prigionia e la Dui Hua Foundation, un’organizzazione che lotta per i diritti umani in Cina con base a San Francisco. Miao Deshun è stato una delle migliaia di vittime della repressione che si abbatté sugli studenti e i cittadini che per settimane avevano occupato in sit-in permanente la grande piazza davanti alla Città proibita, chiedendo democrazia e libertà di parola. Tra il 3 e il 4 giugno 1989 i carri armati e l’esercito arrivati dalle periferie aprirono il fuoco sulla gente. Fu un bagno di sangue. La foto simbolo di quei giorni è l’immagine dello studente armato solo di una busta di plastica che sta in piedi di fronte a un carro armato cercando di fermarlo. Il numero dei morti è stimato da alcuni in centinaia, da altri in migliaia. Oltre 1.600 persone furono poi arrestate a Pechino e in tutta la Cina e da allora è calato il sipario del regime su quegli eventi, dei quali è vietato scrivere e persino discutere. Tra gli studenti che manifestavano c’era Miao Deshun, un operaio, che, dopo l’arresto, fu inizialmente condannato a morte per aver lanciato un cesto contro un carro armato in fiamme: un gesto che per il tribunale equivaleva a "incendio doloso". La pena fu poi commutata in ergastolo. Adesso ha 51 anni, è fisicamente molto debole, malato di epatite B e soffre di schizofrenia. Sembra che non si sia mai "pentito" di aver preso parte alla protesta e che non abbia mai firmato dichiarazioni che potevano abbreviargli la pena, come fecero altri. Nel 1997 gli fu accordata una riduzione di pena a vent’anni, seguita da un’altra di 11 mesi, dopo aver trascorso più della metà della sua vita dietro alle sbarre. Secondo la Dui Hua Foundation, si trova nel penitenziario di Yanqing, alla periferia di Pechino, che ospita i detenuti ammalati. "Nessuno al di fuori delle guardie carcerarie e di alcuni detenuti del suo stesso braccio della prigione per disabili, anziani e malati lo ha mai visto da anni", ha spiegato John Kamm, direttore esecutivo della Dui Hua. Dopo l’arresto del 1989, Miao trascorse diversi anni nel Carcere numero 1 di Pechino, lì fece la sua conoscenza Wu Wenjian, operaio di fabbrica che trascorse quattro anni con lui in cella. Col passare degli anni, ha riferito Wu, "Miao divenne molto testardo, rifiutava di fare lavori usuranti, di scrivere "lettere di pentimento", si opponeva alla "rieducazione". Per questo fu trasferito in un carcere per "irriducibili". Secondo Wu, Miao fu trattato con particolare ferocia dalle guardie carcerarie, che spesso lo picchiavano con i manganelli o lo colpivano con gli sfollagente elettrici. "È un miracolo che sia ancora vivo. Noi tutti pensavamo che non ce l’avrebbe fatta", ha raccontato. Adesso dovrebbe lasciare finalmente il carcere, ma conferme ufficiali non ce ne sono ancora.