La condanna deve comparire nel curriculum? Pagano (Dap): "uno stigma da cancellare" Il Giorno, 15 ottobre 2016 Parla alla Bocconi il vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: "Non è detto che chi ha un passato criminale sia peggio di chi non ne ha". "Nel momento in cui tu hai pagato il tuo debito con la società, fatto salvo poi il tema della riabilitazione, nel momento in cui sei uscito dal carcere devi poter ricominciare a vivere". Parola di Luigi Pagano, già direttore del carcere di San Vittore e vicecapo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e sovrintendente Lombardia, Piemonte, Liguria. Secondo lui, una condanna scontata alle spalle non deve macchiare il curriculum dell’ex detenuto. "Secondo me - spiega Pagano - rischia di essere una palla al piede metaforica, ma molto pesante. Forse quello stigma, che il carcere dà, non dovrebbe più esistere". Uno stigma che non dovrebbe esistere, ma che nella realtà pesa. La sollecitazione sollevata - nell’ambito del Salone "Vivere con Lentezza" alla Bocconi, è tutt’altro che astratta. Emerge così la vicenda capitata ad un ex detenuto della Casa Circondariale Torre del Gallo di Pavia. "Il caso concreto è dato da un detenuto che ha lavorato per un anno per una grande azienda di logistica, attraverso una agenzia interinale e con contratti rinnovati di volta in volta - rivela Bruno Contigiani - Al momento dell’assunzione a tempo indeterminato, quando gli han chiesto la cosiddetta fedina penale, non è più stato assunto, anzi è stato licenziato per così dire". E allora come può, il candidato ex detenuto, difendere il proprio diritto ad essere valutato per quello che è; e non per quello che non è più? Se l’azienda chiede del suo passato, deve dire la verità o mentire? "Eh, questa è una bella domanda! - risponde Pagano. Diventa un corto circuito. Dovrebbe dirlo, perché poi il rischio è di incrinare il rapporto con l’azienda. Poi vorrei dire un’altra cosa: prima di commettere un reato, la persona non aveva commesso alcun reato. Voglio dire: siamo tutti esposti. Quindi nessuno in coscienza può criticare gli altri, e se una impresa lo vuole chiedere lo chiede però non è affatto detto che chi abbia un passato criminale sia peggio di chi non lo ha". È giusto quindi che l’azienda chieda al lavoratore del suo passato? "Secondo me eticamente non è giusto - ribatte Luigi Pagano. Può essere giusto da un punto di vista giuridico, potrebbe essere un obbligo da parte dell’ex detenuto: possiamo dire tutto. Ma di sicuro eticamente non lo è. Basta vedere dell’esperienza del nostro passato; Mani pulite avrà pure insegnato qualcosa: chi era al vertice non era esente dalla responsabilità di reati che invece chi, dovendo lottare tutti i giorni, qualche reato aveva commesso". Curriculum galeotto, cercare lavoro da ex detenuto di Luca Ferraiuolo Askanews, 15 ottobre 2016 Al Salone della Csr il dibattito sollevato da "Vivere con lentezza". Una condanna, scontata, alle spalle e un curriculum in mano: un candidato in cerca di lavoro deve menzionare al colloquio il suo percorso di riabilitazione in carcere? E l’impresa come reagisce? Bruno Contigiani di "Vivere con Lentezza" ha sollevato il tema nel corso di un confronto al Salone della Csr e della Innovazione Sociale. Luigi Pagano - già direttore del carcere di San Vittore e vice capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e sovrintendente nel Nord-Ovest - durante una pausa dei lavori al Salone ha dato a queste domande risposte non scontate. "Secondo me rischia di essere una palla al piede metaforica, ma molto pesante. Nel momento in cui tu hai pagato il tuo debito con la società, fatto salvo poi il tema della riabilitazione, nel momento in cui sei uscito dal carcere devi poter ricominciare a vivere. Forse quello stigma, che il carcere dà, non dovrebbe più esistere". Uno stigma che non dovrebbe esistere, ma che nella realtà pesa. La sollecitazione sollevata da Vivere con Lentezza è infatti tutt’altro che astratta, soprattutto in un contesto, come quello del Salone, dove le imprese mostrano il meglio delle proprie iniziative etiche e di responsabilità sociale. Ecco la vicenda capitata ad un ex detenuto della Casa Circondariale Torre del Gallo di Pavia. Bruno Contigiani: "Il caso concreto è dato da un detenuto che ha lavorato per un anno per una grande azienda di logistica, attraverso una agenzia interinale e con contratti rinnovati di volta in volta - dice Bruno Contigiani. Al momento dell’assunzione a tempo indeterminato, quando gli han chiesto la cosiddetta fedina penale, non è più stato assunto, anzi è stato licenziato per così dire". E allora come può, il candidato ex detenuto, difendere il proprio diritto ad essere valutato per quello che è; e non per quello che non è più? Se l’azienda chiede del suo passato, deve dire la verità o mentire? "Eh, questa è una bella domanda! Diventa un corto circuito. Dovrebbe dirlo, perché poi il rischio è di incrinare il rapporto con l’azienda. Poi vorrei dire un’altra cosa: prima di commettere un reato, la persona non aveva commesso alcun reato. Voglio dire: siamo tutti esposti. Quindi nessuno in coscienza può criticare gli altri, e se una impresa lo vuole chiedere lo chiede però non è affatto detto che chi abbia un passato criminale sia peggio di chi non lo ha". In alcune attività lavorative la fedina penale può essere una discriminante nella scelta dei lavoratori. Ma in tutti gli altri casi, ovvero nella maggior parte dei casi, è giusto quindi che l’azienda chieda al lavoratore del suo passato? "Secondo me eticamente non è giusto. Può essere giusto da un punto di vista giuridico, potrebbe essere un obbligo da parte dell’ex detenuto: possiamo dire tutto. Ma di sicuro eticamente non lo è. Basta vedere dell’esperienza del nostro passato; Mani pulite avrà pure insegnato qualcosa: chi era al vertice non era esente dalla responsabilità di reati che invece chi, dovendo lottare tutti i giorni, qualche reato aveva commesso". Sorprende, in queste vicende, l’atteggiamento dei detenuti: i più fiduciosi di tutti nella funzione di riabilitazione e riscatto che il carcere, che loro hanno conosciuto, dovrebbe avere. "Abbiamo chiesto ai detenuti, sul numero zero del notiziario del carcere di Pavia, di dire cosa pensavano. La risposta mi ha stupito: la metà ha risposto che è il caso di indicare. L’altra metà ha detto di no, ma la maggior parte crede nella fiducia. Resto dell’opinione che è un argomento ancora molto spinoso e critico. Dal mio punto di vista la sincerità è molto utile, ma è chiaro che bisogna trovare degli imprenditori molto illuminati". Carcere duro, per i penalisti è "strumento di tortura" di Silvia Buffa meridionews.it, 15 ottobre 2016 I magistrati di Palermo: "Importante per lotta a mafia". Beniamino Migliucci, al vertice dell’Unione delle Camere penali italiane, punta il dito contro "l’ingiustificata durezza" del regime speciale e auspica una lotta per eliminarlo. Di diverso avviso è invece il magistrato palermitano Leonardo Agueci, che ne sottolinea l’utilità. D’accordo con il collega il procuratore aggiunto Maurizio Scalia. "Può diventare un sofisticato strumento di tortura". Questa la definizione che ha usato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, per descrivere il 41 bis, cioè il regime di cosiddetto carcere duro che si applica ai detenuti condannati per la loro appartenenza a un’organizzazione criminale, che sia mafiosa o terroristica. Soggetti verso i quali sussiste la necessità di impedire eventuali contatti o passaggi di ordini con i membri rimasti fuori. Una posizione che non è stata affatto condivisa da alcuni magistrati palermitani, che hanno sottolineato, invece, l’utilità della misura. L’occasione dell’intervento di Migliucci è stata quella del XVI Congresso dell’associazione tenutosi a Bologna a inizio mese, durante il quale il presidente dell’associazione degli avvocati dei penalisti ha sottolineato la necessità di avviare una battaglia contro "l’ingiustificata durezza" della misura e contro lo strumento in sé. Dichiarazioni pronunciate in un contesto ufficiale che non possono non riaprire le discussioni sul regime di carcere duro. Secondo uno studio dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, infatti, il tasso di suicidi fra i detenuti in regime di 41 bis è superiore del 3,5 per cento rispetto alla frequenza con cui avviene fra gli altri carcerati. Le restrizioni previste da questo strumento consistono soprattutto nel divieto di entrare in contatto con altri reclusi e di ricevere libri o giornali dall’esterno, con la possibilità di vedere un solo familiare attraverso un vetro divisore una volta al mese. Per il resto, le giornate trascorrono in isolamento per 22 ore. Un provvedimento, questo, che si deve all’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, che escogita il regime del carcere duro all’indomani dell’attentato di via D’Amelio: una risposta forte alla stagione stragista della mafia, che sarebbe stato anche al centro della presunta trattativa Stato-mafia. "È un discorso che non si esaurisce solo in alcune battute". Questo il commento di Leonardo Agueci, procuratore aggiunto al Tribunale di Palermo, che non condivide le riflessioni del presidente Migliucci. "La Corte Costituzionale ha ritenuto il 41 bis conforme a legge - continua il magistrato - Oltre a essere uno strumento che ha dato un enorme contributo nella lotta contro la mafia". "Non mi sentirei di parlare di eccessiva durezza del regime speciale - prosegue - Viene applicato in modo oculato e proporzionato alle esigenze di giustizia ed è una situazione che il legislatore, anche costituzionale, ha affrontato da tempo e non ci sono affatto le condizioni per una modifica". In difesa del carcere duro interviene anche il procuratore aggiunto Maurizio Scalia, impegnato, al pari di Agueci, in diversi processi a carico di mafiosi. "C’è una norma che regola il regime di 41 bis. Stiamo parlando di una misura che viene applicata nel rispetto delle norme". Migliucci affida la sua controreplica a Meridionews: "Il carcere duro", approfondisce, "ha dei profili di incostituzionalità e di durezza eccessiva perché si pone in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Tutto quello che non rientra nello scopo esclusivo di interrompere le relazioni fra il detenuto e la criminalità esterna si traduce in un’attività ultronea agli scopi della norma e perciò illegittima". Secondo il presidente dell’Unione delle Camere penali non sono mancate le personalità che si sono pronunciate sull’argomento, da Papa Francesco al senatore Luigi Manconi. Anche il comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha invitato ad adottare misure meno afflittive per il regime del 41 bis. "Occorre chiedersi se questo regime speciale si allinei o meno all’idea secondo cui una pena debba essere dignitosa e rieducativa, come prevede la Costituzione", conclude il presidente. Trent’anni dopo Palermo Pignatone non ha dubbi: "nessuna modifica al 416 bis" di Rocco Vazzana Il Dubbio, 15 ottobre 2016 Convegno in Cassazione sulla lotta alla criminalità organizzata. Come è cambiata la lotta alla mafia a trent’anni dal maxiprocesso di Palermo? Se ne discute nell’Aula Magna della Corte di Cassazione nel corso di una due giorni organizzata dall’associazione Antonino Caponnetto, Anm e Consiglio nazionale forense. I lavori - aperti ieri dal Primo Presidente della Cassazione, Giovanni Canzio - proseguiranno per tutta la mattinata di oggi. A intervenire sui "tavoli tematici" si alternato magistrati, avvocati ed esponenti delle istituzioni. E se per il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, il reato d’associazione mafiosa va bene così com’è, per il presidente del Senato, Piero Grasso, "oggi vi sono nuove realtà criminali, forse è venuto il momento di adeguare il 416 bis, o di creare un altro reato, perché le manifestazioni della realtà criminale sono diverse dal passato e adeguate ai contesti in cui le organizzazioni criminali operano, non solo al Sud, ma anche al Centro, al Nord e all’estero", dice l’ex giudice a latere del primo maxiprocesso a Cosa Nostra introducendo subito uno degli argomenti più discussi nel dibattito sul futuro della lotta alla criminalità organizzata. "Non dobbiamo aspettare un’altra strage o qualcosa del genere per poter di nuovo attivare la reazione dello Stato", aggiunge. La presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, invece, si dice preoccupata per alcune sentenze "come quella sulle vicende di Ostia, dove si fatica ancora a chiamare mafia quello che mafia invece è, perché resta difficile negare che in quel contesto si è esercitato un controllo di tipo mafioso sul territorio". E che una parte della magistratura avverta la necessità di modificare la normativa antimafia per fotografare meglio l’evoluzione del fenomeno associativo è confermato dall’intervento di Franco Roberti, il procuratore nazionale Antimafia: "I meccanismi corruttivi sono la nuova frontiera, la vera trasformazione del metodo mafioso", esordisce. "Sul piano normativo serve un riconoscimento espresso di un nuovo e ulteriore metodo, quello corruttivo-collusivo, per riconoscerne il particolare disvalore che rende più pervasive le associazioni mafiose", continua il capo della Dna. Che poi auspica "ulteriori modifiche con la riforma del processo penale, con il nuovo codice antimafia e, per quanto riguarda la corruzione, prevedere agenti sotto copertura e la non punibilità di chi denuncia i fatti". Non la pensa allo stesso modo però il Consiglio nazionale forense. Il presidente, Andrea Mascherin, interverrà oggi per esporre il punto di vista dell’avvocatura sull’argomento. A parlare per conto dei difensori, ieri, ci ha pensato il consigliere Antonino Gaziano: "L’impianto va bene. Modificarlo con altre norme non serve per la comprensione della complessità del fenomeno corruttivo e collusivo. In ogni caso, i processi devono essere fatti con delle regole e delle garanzie che vanno rispettate. A prescindere dalla gravità dei reati". Sull’inopportunità di mettere mano al reato di associazione mafiosa, dunque, Gaziano trova un alleato inatteso: il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. "Mafia e corruzione sono due cose differenti", dice l’inquirente palermitano dichiarandosi contrario a qualunque modifica al 416 bis. "Nella sua storia, la criminalità organizzata ha sempre fatto ricorso alla corruzione, fermo restando che mafia e corruzione sono due realtà diverse e non sempre dove c’è l’una c’è anche l’altra", dice Pignatone. "L’elemento di novità è che la corruzione è diventata strumento e manifestazione dell’intimidazione mafiosa". Riforma del processo penale sul binario morto, rinvio a dopo il voto di Liana Milella La Repubblica, 15 ottobre 2016 S’inabissa la riforma del processo penale. Quella che contiene la famosa riforma della prescrizione. Al Senato scompare dal calendario. Rinviata a un imprecisato futuro per via dell’incontro Renzi-Orlando-Davigo del 24 ottobre. L’eco di una sorte incerta della legge arriva perfino a Parigi e all’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che in una lettera al presidente del Senato Piero Grasso e al Guardasigilli Andrea Orlando sollecita, all’opposto, un’approvazione rapida per evitare la pesante moria di processi - un milione e mezzo negli ultimi dieci anni - e l’inevitabile danno alle inchieste sulla corruzione, che da sempre preoccupa l’Ocse. Si arena definitivamente la riforma del processo penale, ddl monstre in ballo ormai dal 30 agosto 2014, quando fu approvato dal consiglio dei ministri. Un pacchetto molto ampio, e anche molto controverso: prescrizione sospesa dopo il primo grado con un bonus di 36 mesi tra appello e Cassazione, stretta sull’uso delle intercettazioni nei documenti delle toghe, pene più dure per furti e scippi, obbligo draconiano per i pm nella chiusura delle indagini pena l’avocazione, modifiche all’ordinamento penitenziario con più possibilità, anche per i mafiosi, di ottenere benefici. La stessa sorte - un rinvio a un futuro parlamentare altrettanto incerto - potrebbero subire, questa settimana, anche le nuove norme sul caporalato, appena licenziate a Montecitorio dalle commissioni Giustizia e Lavoro. La ragione dello stop è semplice: il premier Renzi teme improvvise frenate e brutte figure in Parlamento che avrebbero come conseguenza un grave danno d’immagine per il governo in vista del referendum del 4 dicembre. Per questa ragione il premier è stato freddissimo con la richiesta di autorizzare, in consiglio dei ministri, la fiducia al Senato per il ddl penale, concedendola alla fine, ma solo quando l’incastro parlamentare consentiva di fatto di rinviare sine die il provvedimento. Non solo: Renzi ha fissato solo al 24 ottobre l’incontro con i magistrati dell’Anm, che criticano fortemente ampie parti della riforma, nonostante l’appuntamento fosse stato richiesto da due settimane. Sul destino del ddl penale l’imbarazzo è palpabile sia in via Arenula che al Senato. Il ministro Orlando ha mediato con il collega Angelino Alfano e il suo partito per raggiungere un compromesso che lascia del tutto insoddisfatti i magistrati. Il presidente dell’Anm Pier Camillo Davigo spende ampie critiche su misure "inutili e dannose", come la prescrizione solo sospesa e non bloccata in primo grado, e soprattutto sulla norma che costringe i pm a accelerare le richieste per gli indagati dopo la scadenza delle indagini preliminari. In realtà il compromesso di Orlando non rende sicuro il testo da imboscate in aula sui quasi 200 voti segreti. Lo stesso relatore - il dem Felice Casson - spinge per il suo emendamento che blocca la prescrizione e che, se passasse, metterebbe in crisi il governo. Al contrario della legge che aumentava la pene per la corruzione, Orlando non può nemmeno contare su una spinta del presidente del Senato Piero Grasso che criticando i tempi troppo lunghi di quel provvedimento - ironizzò più volte con un "Aspettando Godot" - aveva di fatto accelerato il voto. Ma Grasso stavolta è perplesso sulla via scelta per la prescrizione (ben diversa da quella che lui aveva presentato nel primo e unico ddl della sua vita da senatore, con lo stop in primo grado), che si risolve in una sorta di "vorrei ma non posso". Quindi è uno spettatore muto. Se ne riparlerà dopo il 4 dicembre, con tutti gli interrogativi che questo comporta. Prescrizione, l’Ocse "spinge" la riforma di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2016 L’Ocse va in soccorso al ministro della Giustizia Andrea Orlando sollecitando l’approvazione "urgente" della riforma della prescrizione contenuta nel Ddl sul processo penale, da settimane bloccato al Senato per una scelta politica del premier Renzi, preoccupato della tenuta del governo alla prova del voto, anche con il ricorso alla fiducia. La sollecitazione è contenuta in una lettera non ancora ufficiale - partirà solo dopo il 19 ottobre - ma della cui esistenza è venuta a conoscenza ieri l’agenzia Ansa. I destinatari sono il ministro Orlando e il presidente del Senato Pietro Grasso. L’Organizzazione con sede a Parigi - che da anni monitora l’Italia sul fronte della corruzione internazionale - è convinta che la mancata approvazione in tempi rapidi della riforma "strutturale" della prescrizione pregiudichi i progressi fatti dall’Italia con le misure varate l’anno scorso, in particolare con la legge anticorruzione, che ha aumentato le pene per alcuni reati (allungando così anche i relativi termini di prescrizione). Una riforma, quest’ultima, che secondo i dati raccolti dall’Ocse non è sufficiente poiché i procedimenti per corruzione internazionale continuano a prescriversi. La sollecitazione porta acqua al mulino di Orlando nel braccio di ferro con Renzi in atto ormai da un mese: il primo spinge per votare, ricorrendo alla fiducia (già autorizzata) qualora dovessero esserci incidenti sui voti segreti (sono ben 170); il secondo considera la riforma una mina vagante che, alla vigilia del referendum del 4 dicembre, rischia di far saltare il governo, che al Senato non ha la stampella dei verdiniani (assolutamente contrari al Ddl) e non può neanche fare affidamento sulla compattezza della maggioranza; senza dire che l’Anm è sul piede di guerra per almeno due punti del provvedimento, considerati "punitivi" nei confronti dei Pm e comunque destinati, se approvati, ad aumentare il numero dei processi prescritti. Per affrontare questo nodo, Renzi ha dato la sua disponibilità a incontrare l’Anm il 24 ottobre insieme a Orlando e, in vista di quell’appuntamento, ieri i magistrati hanno soprasseduto sulle azioni di protesta (compreso lo sciopero) contro la riforma, la carenza di risorse (finanziarie e di personale), e il decreto che proroga di un anno i vertici della Cassazione in età pensionabile. In questo quadro si inserisce la lettera dell’Ocse. Un atto interno non ancora "perfezionato", di cui era - ed è - previsto l’invio dopo il 19, per consentire entro quella data eventuali integrazioni o correzioni. L’anticipazione aiuta Orlando nella battaglia quasi solitaria, ormai, per non rinviare il voto a dopo il 4 dicembre. Nell’ultimo rapporto seme- strale sull’Italia (di ottobre), l’Ocse segnala, come nel precedente, l’immobilismo sul fronte prescrizione. È infatti da un anno che Parigi non riceve (buone) notizie al riguardo. A metà marzo, nella Conferenza organizzata nella capitale francese, presieduta da Orlando, il segretario dell’Ocse Án- gel Gurria aveva pubblicamente apprezzato le misure approvate dall’Italia nel contrasto alla corruzione e quelle in cantiere. Rimaste, però... in cantiere. L’aumento delle pene dei reati di corruzione non è infatti un intervento "strutturale" sulla prescrizione e infatti non ha impedito - sostiene l’Ocse, dati alla mano - che i processi continuino a prescriversi. Già nel 2014 l’Italia aveva ricevuto una lettera per approvare con urgenza una riforma strutturale. Questa è la seconda. Il passo successivo - qualora non ci fossero segnali entro marzo - sarebbe un public statement, ovvero una dichiarazione pubblica dell’Ocse nei confronti dell’Italia. Vista da Parigi, l’incertezza dello scenario politico dopo il 4 dicembre dovrebbe indurre il governo a votare al più presto la riforma. Un "rischio" che finora Renzi non ha voluto correre, al punto da usare l’Anm, e le sue critiche, per frenare. Peraltro, se i due punti critici segnalati dalle toghe fossero accolti (portare da 3 a 6 mesi il termine entro cui il Pm deve chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio pena l’avocazione del Procuratore generale; cancellare la norma che impone al Pm di iscrivere "immediatamente" la notizia di reato, pena conseguenze disciplinari), la maggioranza potrebbe essere persino più a rischio di quanto lo sia ora. È alta tensione referendum: 21 leggi rinviate al dopo voto di Claudio Marincola Il Messaggero, 15 ottobre 2016 Un Parlamento bloccato. Ibernato per i prossimi 50 giorni, depistato dal referendum, costretto a rinviare a data da destinarsi disegni di legge e altri provvedimenti cruciali: 14 alla Camera e 7 al Senato. È il quadro affatto rassicurante che ha spinto l’Ocse, l’Organizzazione per lo sviluppo economico a bacchettare l’Italia e a inviare una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando e al presidente del Senato Pietro Grasso. Si chiede di approvare con urgenza la riforma della prescrizione, parte integrante del ddl sul processo penale fermo da qualche settimana a Palazzo Madama. Dire che il programma dei lavori subirà un rallentamento è infatti poco meno di un eufemismo. Rischia di finire in naftalina, ad esempio, il disegno di legge sul lavoro nero e lo sfruttamento del lavoro nero in agricoltura. In una parola la lotta al caporalato, una piaga aperta. Ma anche temi apparentemente meno urgenti come le nuove norme sul codice della strada, ferme in commissione al Senato, o il disegno di legge sullo sviluppo della mobilità in bicicletta e la rete nazionale di percorribilità ciclistica. All’effetto referendum si aggiungerà lo stop imposto dalle controversie politiche. Una paralisi totale. Un esempio su tutti: la legge sulla liberalizzazione della cannabis tornata in commissione per l’ostilità dei centristi. È da escludersi che Renzi e il Pd vogliano sostenere un battaglia sullo spinello free alla vigilia del voto. Nell’ingorgo referendario finirà inevitabilmente anche la legge sulla concorrenza, approvata dalla Camera nell’agosto scorso: riguarda importanti ordini professionali, medici, farmacisti, notai. Per non dire della legge sulle adozioni e conflitto di interessi in uscita da Palazzo Madama. Le norme sulla sicurezza degli asili nido e delle scuole per l’infanzia già all’ordine del giorno della Camera. La protezione dei minori non accompagnati, la certificazione ecologica dei prodotti cosmetici. Da qui al 4 dicembre il Senato ha in calendario provvedimenti di primo piano che ora rischiano di finire in una zona d’ombra: le nuove norme sull’introduzione del reato di tortura; la definizione del reato di diffamazione o anche le regole per la lotta al cyberbullismo. "Non sarà uno stop de iure, sarà uno stop de facto - ammette senza indugi Pino Pisicchio, presidente del Gruppo Misto -. L’elenco dei provvedimenti all’ordine del giorno formalmente resta lo stesso, è il calendario fissato trimestralmente dalla capigruppo. Ma inevitabilmente la campagna elettorale imporrà un rallentamento, uno stop dei provvedimenti più "caldi". È facile prevedere che specie nella seconda parte della settimana i deputati saranno impegnati in campagna elettorale". Conti alla mano fino al 4 dicembre resteranno una ventina di sedute utili. "Non facciamoci illusioni - riprende Pisicchio - tutte le questioni che rischiano di mettere a repentaglio l’unità del Fronte del No e del Fronte del Sì verranno messe da parte". C’è poi la dead-line, il triplice fischio che sospenderà le attività: la sessione bilancio, una sorta di "rien ne va plus" che scatterà verso l’ultima settimana di novembre. In questa fase a prescindere dal referendum, non potranno essere esaminati dall’Assemblea provvedimenti che comportino nuove o maggiori spese o diminuzioni di entrate. Il rischio di congelare l’attività, dunque, è reale. Com’è reale il velo già sceso sul lavoro delle commissioni cristallizzate dal clima di scontro. L’iter del disegno di legge di riforma della giustizia penale si concluse alla Camera nel settembre del 2015 per passare al vaglio del Senato. Il Guardasigilli Orlando ha ottenuto dal governo il ricorso alla fiducia e ha chiesto una corsia preferenziale (nell’ordine del giorno dell’Aula ci sono prima il ddl sul cinema e il Def). La mancata approvazione del ddl potrebbe, secondo l’Ocse, compromettere i progressi ottenuti con le riforme già varate. Uno su tutti: l’allungamento della prescrizione per contrastare i reati di corruzione, da tempo un nervo scoperto per il nostro Paese. Il testo è fermo in Aula. Su molte misure previste dal provvedimento si sono alzate le critiche dell’Anm, l’Associazione nazionale magistrati. Si rischia un pericoloso stop sulla durata ragionevole dei processi, sul rafforzamento delle garanzie difensive, le disposizioni in materia di protezione dei testimoni di giustizia. La preoccupazione dell’Ocse, insomma, è più che fondata. Giustizia povera? Un report sfata la leggenda di Errico Novi Il Dubbio, 15 ottobre 2016 I dati sulla giustizia italiana non finiscono mai e la loro parabola è sempre in discesa. Gli ultimi provengono da Confimprenditori: il centro studi dell’organizzazione presieduta da Stefano Ruvolo e composta da aziende e liberi professionisti ha appena diffuso un report sulle conseguenze negative sofferte dalle imprese medie e piccole per l’inefficienza della macchina giudiziaria. Anche stavolta l’Italia scivola in fondo alle classifiche: secondo le statistiche prese come riferimento, quelle del World Justice Program, l’Italia è agli ultimi posti nel quadrante dei "Paesi ricchi": 28esima su 31. Sul piano complessivo scivola al 30esimo posto ed è superata da "sistemi meno economicamente maturi" come quelli di "Repubblica Ceca, Polonia, Uruguay, Costa Rica, Slovenia e Georgia". Se l’analisi si concentra sul solo settore civile della giustizia il quadro peggiora e il Belpaese diventa 36esimo. Il tutto aggravato dal consueto dato sulla durata media delle cause civili, che secondo la proiezione di Confimprenditori è di 1120 giorni, "più del doppio della media dei Paesi sviluppati, misurata dall’Ocse in 583 giorni". Ma il punto di caduta decisivo del report arriva quando si parla di soldi: lo Stivale, per la giustizia, spende parecchio. Quanto meno più di Francia e Spagna, solo per tenere la comparazione nel perimetro dell’Ue: nei due Paesi citati l’attività dei Tribunali costa rispettivamente lo 0,18% e lo 0,12% del Pil, mentre l’Italia è allo 0,19%. E qui si arriva al bivio, che Confimprenditori non prefigura esplicitamente ma lascia intuire: visto che non ha senso parlare di scarsità di risorse si deve scegliere se innalzare ancora di più i costi per il cittadino o ridurgli le garanzie. Tentazione quest’ultima che ancora si aggira nelle anticamere della riforma civile insabbiata a Palazzo Madama. "Ma non ha senso percorrere né l’una né l’altra strada", nota il professor Bruno Sassani, docente di Diritto processuale civile all’università di Roma Tor Vergata. "Forse qualche decennio fa si poteva considerare troppo basso lo stanziamento per la Giustizia nel nostro Paese. Adesso i contributi unificati, ovvero le tasse pagate dal cittadino sul processo, sono stati innalzati in modo esponenziale. Il sistema della condanna al pagamento delle spese è stato adeguato, idem per la norma sugli interessi all’articolo 1284, modificata in modo da rendere meno conveniente resistere nel processo". Dovremmo forse capovolgere l’ottica e vedere nei tempi lunghi del sistema giudiziario un riflesso del suo alto grado di civiltà, di una tutela delle garanzie senza eguali nel resto dell’Occidente progredito? "Che il grado di civiltà sia elevato non c’è dubbio, ma ciò non toglie che i tempi di risposta del sistema siano irragionevolmente lunghi". E allora bisogna abbattere le garanzie? "Forse si può affermare che nel nostro processo ci sono troppi gradi di giudizio, a volte sono di fatto più di tre: ma la spiegazione non sta in questo. Perché poi resta comunque da svelare il mistero di un primo grado dalla durata incomparabilmente maggiore rispetto a quanto avviene in Germania". Oltretutto, fa osservare Sassani, "le impugnazioni sono state già pesantemente toccate: l’Appello è stato infilato in una sorta di collo di bottiglia, in Cassazione è stato eliminato di fatto il controllo di motivazione della sentenza. Non è servito a nulla. Ciononostante vedo che le spinte a un ulteriore intervento sulle garanzie sono ancora forti". Se la via d’uscita non è nella riduzione delle tutele, va indicata un’alternativa. Il professore di Roma Tor Vergata avverte di considerarsi un pessimista e di riconoscere "un fattore antropologico difficile da rimuovere, che si manifesta nella notevole sfiducia dei cittadini rispetto agli esiti del processo. È questo atteggiamento a tenere alto il numero delle impugnazioni nonostante i costi elevati e i percorsi impervi. L’unica possibilità è in uno sforzo per migliorare l’organizzazione: siamo afflitti da un disordine strutturale anche nelle piccole Corti d’Appello. Il modello manageriale che Mario Barbuto ha provato a trasferire da Torino all’intero sistema offre qualche spiraglio: quello che è entrato prima deve uscire prima. Ci si può provare. Quello che sicuramente non ha senso", per Sassani, "è provare a togliere altre garanzie e soldi ai cittadini". Quasi un 41bis per i sette anarchici in cella dal 6 settembre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 ottobre 2016 Isolamento completo per gli arrestati nell’operazione "Scripta Manent". Appena 20 minuti di aria al giorno in uno spazio poco più grande della cella e sormontato da una rete metallica, il resto del giorno in una cella con il blindato chiuso. Parliamo di un isolamento completo che si protrae da più di un mese nei confronti degli arrestati nell’ambito dell’operazione "Scripta Manent". Secondo gli avvocati difensori, il nostro ordinamento penitenziario non prevede - nemmeno per ipotesi di gravi infrazioni disciplinari - una sospensione totale delle regole di trattamento penitenziario per un tempo così prolungato. Alcuni degli arrestati hanno intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro l’isolamento definito dagli avvocati difensori "totale e arbitrario, tanto che il trattamento riservato ai ristretti può essere definito inumano e degradante". Nei giorni scorsi gli avvocati avevano denunciato la situazione sia al pm di Torino, Roberto Sparagna, titolare delle indagini e sia al Dap, ma la situazione è rimasta invariata. Eppure c’è un particolare non indifferente. I detenuti coinvolti nell’operazione giudiziaria come Marco Bisesti e Beniamino Anna (da alcuni giorni in sciopero della fame) erano stati trasferiti da poco nella sezione per detenuti classificata come As2, una sezione dedicata quasi interamente agli anarchici secondo lo schema della differenziazione. Nonostante ciò sono ugualmente sottoposti al regime di isolamento totale. Hanno il blindato sempre chiuso, accedono all’ora d’aria per pochi minuti in solitudine e non possono comunicare con gli altri detenuti della sezione: una carcerazione dura che ricorda molto da vicino il 41 bis. Gli avvocati difensori spiegano che l’art. 33 dell’ordinamento penitenziario prevede l’isolamento solo in tre casi: per ragioni sanitarie, disciplinari e di giustizia. Eppure nei casi denunciati, i difensori precisano che "nessun provvedimento di isolamento giudiziario risulta essere stato emesso dall’autorità giudiziaria che ha disposto esclusivamente il divieto di incontro tra i coimputati". In particolare, per quanto riguarda Bisesti, gli avvocati hanno fatto notare che "nessun coindagato si trova ristretto nel carcere di Alessandria, quindi l’esclusione dalle attività comuni e dalla socialità risulta del tutto incomprensibile ed assume natura esclusivamente afflittiva". Osservano peraltro che qualora vi fosse un provvedimento giudiziario che dispone l’isolamento - circostanza più volte negata dal Pubblico Ministero - lo stesso deve precisare modalità, limiti e durata dell’isolamento medesimo. Infine il regolamento di esecuzione stabilisce che la direzione penitenziaria, qualora manchino tali elementi, debba richiedere all’autorità giudiziaria le integrazioni necessarie. Ma finora l’isolamento permane nei confronti di tutti e sette gli arrestati distribuiti nel carcere di Alessandria, Latina, Terni e Ferrara. L’operazione giudiziaria condotta dalla Procura di Torino che ha coinvolto i detenuti è scattata il 6 settembre scorso. Secondo il pm Sparagna, gli arrestati risulterebbero affiliati all’organizzazione Federazione Anarchica Informale (Fai). Ai fermati viene contestato il reato di associazione con finalità di terrorismo. L’indagine, attraverso l’analisi di un’enorme quantità di documentazione ideologica (opuscoli anarchici), avrebbe permesso di ricostruire la struttura associativa e l’evoluzione internazionale della Fai. L’obiettivo prefissato e quindi ritenuto pericoloso è la "distruzione dello Stato e del Capitale", insomma il pensiero anarchico. Gli investigatori hanno ricostruito anche la storia del gruppo, partendo non solo dal documento costituivo nel 2003, in cui oltre a rivendicare l’esplosione di due cassonetti dei rifiuti nei pressi dell’abitazione di Romano Prodi, formalizzavano la costituzione del Fai, attraverso una "struttura unitaria operante sulla base di mutuo appoggio e attraverso una pluralità di sigle". L’accusa è una di quelle più gravi, l’articolo 270 bis, ovvero "Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico". Durante l’operazione non hanno solamente arrestato coloro che erano sotto indagine, ma a seguito delle perquisizioni sono state tratte in arresto altre due persone trovate in possesso di opuscoli anarchici e materiali ritenuti esplosivi. Come nel caso del ragazzo romano Alessandro Mercogliano in possesso del quale, durante la perquisizione, la polizia ha trovato delle lampadine, delle batterie e dei miniciccioli. Tra i vari reati, gli è stato contestata l’aggravante di terrorismo, poi decaduta a seguito di riesame dell’ordinanza di custodia cautelare. Anche lui, fino a un giorno fa, era in isolamento completo. Non è la prima operazione giudiziaria nei confronti degli anarchici. Una delle prime - quelle che seguono sono tutte operazioni giudiziarie eseguite tra il 2011 e il 2012 - è stata l’operazione "Ardire" condotta dalla pm di Perugia Manuela Comodi con l’allora generale dei Ros, Ganzer, poi la "Mangiafuoco", la "Ixodidae" (ovvero zecca in latino) e l’operazione "Thor". Il materiale pericoloso repertato per quest’ultima operazione consisteva in una busta di chiodi, libri anarchici, giornali autogestiti e scambi di lettere con i detenuti anarchici stranieri. Nell’operazione Ardire è crollata l’accusa di associazione terroristica (270 Bis) che aveva giustificato gli arresti preventivi; nella "Ixodidae", per gli anarchici accusati di associazione sovversiva con finalità di eversione dell’ordine democratico, tutto è finito in un’assoluzione. Per quest’ultima operazione ? in seguito risultata fallimentare - sono stati effettuati oltre 10mila intercettazioni ambientali, 92mila ore di riprese video analizzate, 148.990 contatti telefonici, 18.000 comunicazioni telematiche intercettate, 80 eventi giudiziari presi in considerazione di cui 28 sono stati considerati nell’ambito di quel procedimento. Nel 2014 alcuni ragazzi, per aver fatto una manifestazione di solidarietà per gli arrestati nell’ambito di un’altra operazione giudiziaria denominata "Brushwood" - finita con il cadere di alcune accuse come associazione sovversiva con finalità di terrorismo e senza alcuna prova come armi, luoghi, ma solo interpretazioni di intercettazioni - hanno preso una condanna di dieci giorni tramutata poi in un’ammenda di 2600 euro. Sardegna: ergastolano chiede di tornare in carcere nell’Isola, nessuna risposta da 15 mesi castedduonline.it, 15 ottobre 2016 Sta scontando la pena in un carcere toscano da ormai 12 anni, chiede di essere trasferito nell’Isola: ma dopo 15 mesi di istanze ancora non ha ricevuto risposte. "Sono ormai trascorsi 15 mesi dall’ultima istanza di avvicinamento colloqui presentata da un ergastolano sardo, ma l’Ufficio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non ha ancora dato alcuna risposta, nonostante due ulteriori solleciti. Un silenzio assordante per chi chiede, dopo dodici anni di lontananza, di poter almeno tornare nell’isola. Una situazione inaccettabile considerando le norme dell’ordinamento penitenziario e le circolari emanate dal Capo del Dipartimento in materia di territorialità della pena". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento al caso di Sebastiano Demontis, 61 anni, di Buddusò, da 3 anni nel carcere di Prato, che chiede un trasferimento in Sardegna. "I detenuti sardi che si trovano in strutture della Penisola - ricorda Caligaris - vivono una doppia pena perché privati della possibilità di effettuare costanti colloqui con i familiari. Una condizione che peraltro si ripercuote sui parenti che per problemi economici o di salute non sempre hanno l’opportunità di recarsi in visita nei Penitenziari spesso così distanti da richiedere un allontanamento dall’isola di almeno due giorni. I diritti sanciti da leggi e dalle stesse circolari del Dap raccomandano un avvicinamento del detenuto ai familiari anche per rispettare il dettato costituzionale. Non sempre però e non per tutti ciò si verifica". "La vicenda di Sebastiano Demontis, aldilà della gravità del reato commesso 21 anni orsono, si configura - sottolinea ancora la presidente di Sdr - come una discriminazione. Ha trascorso 12 anni in vari Istituti della Toscana e ha ottenuto un avvicinamento in Sardegna per colloqui nel 2004. Da allora, non sono state accolte le insistenti richieste per poter ritornare nell’isola. L’uomo, che non risulta abbia mancato di rispettare le norme penitenziarie, partecipa ai programmi riabilitativi e l’anno scorso ha conseguito il diploma di Ragioneria". "Condannato all’ergastolo per tentata rapina e concorso in triplice omicidio avvenuto in Sardegna, Demontis non chiede sconti di pena o particolari benefici, spera soltanto che il positivo comportamento in carcere, l’avere conseguito il diploma secondo quanto previsto nel suo percorso rieducativo e l’autocritica maturata per i suoi gravi errori possano consentirgli di fruire, come correttamente avvenuto per gli altri suoi coimputati, dei diritti sanciti dalla legge. Negarglieli sembra potersi configurare come una forma di vendetta - conclude Caligaris - non degna di uno stato civile". Mantova: l’ex Opg di Castiglione sarà allargato, sei nuove Rems costruite nel parco di Francesco Romani Gazzetta di Mantova, 15 ottobre 2016 Da Infrastrutture Lombarde incarico al progettista entro l’anno. Per gli edifici un investimento di quasi 17 milioni e lavori dalla fine del 2017. La società regionale Infrastrutture Lombarde ha già chiuso la gara per individuare il progettista delle future sei Rems da costruire a Castiglione. Ma dal bando emerge che i nuovi edifici (6 padiglioni da 20 posti ciascuno) dovranno essere costruiti nell’area oggi adibita a parco e non più al posto dell’attuale ospedale, le cui strutture, inizialmente destinate all’abbattimento saranno invece salvaguardate. Invece di trasformarsi, in definitiva, l’ex Opg si amplia con un investimento che sfiora i 17 milioni di euro. L’avvio dei cantieri è previsto fra la fine del prossimo anno ed il 2018. L’intervento della società regionale costituisce anche una replica alle critiche di immobilismo che erano state espresse dopo la visita dei consiglieri regionali all’ex Opg. In particolare l’ex assessore lombardo alla sanità, Mario Mantovani, aveva parlato di "ritardi non più procrastinabili", visto che l’individuazione della società che deve gestire il maxi appalto da quasi 17 milioni di euro (16.766.909, 38 euro per la precisione) risale a tre anni fa. "In realtà - spiega il direttore generale vicario di Infrastrutture, Guido Bonomelli - l’affidamento a noi dell’incarico di "stazione appaltante", cioè quella che predispone e gestisce le gare è venuta da regione Lombardia solo in seguito alla delibera del 29 dicembre scorso. Inoltre, la relazione sanitaria presentata da Azienda Carlo Poma nel febbraio del 2015 indirizzava l’intervento al potenziamento delle aree riabilitative esistenti, mentre, successivamente, alla luce di ulteriori valutazioni, si è ritenuta prioritaria la realizzazione ex novo delle sei strutture Rems". In sostanza, un ribaltamento completo del progetto che ha fatto slittare l’affidamento. La convenzione fra Asst di Mantova, regione ed Infrastrutture Lombarde è appena dell’aprile scorso. "In pochi mesi, con le indicazioni del nuovo codice degli appalti - prosegue Bonomelli - abbiamo provveduto a pianificare l’iter, prevedendo una gara per la progettazione ed una per l’esecuzione dei lavori". La prima è stata preceduta dalla scelta della commissione di esperti che verificherà, passo passo, la progettazione. Al bando per il lavoro ingegneristico ed architetturale di progettazione delle sei Rems hanno partecipato 16 soggetti privati e l’affidamento avverrà entro l’anno. Sarà il professionista o lo studio che si aggiudicherà la gara a redigere il progetto preliminare e poi quello definitivo (entro un anno). Un lavoro fatto in stretta unità con l’Asst mantovana e che consentirà, a fine 2017, di convocare le conferenze servizi e poi bandire la gara per la costruzione vera e propria. Firenze: il garante regionale Corleone "a Natale la chiusura dell’Opg di Montelupo" Il Tirreno, 15 ottobre 2016 "Festeggeremo, mi auguro entro Natale, la chiusura dell’Opg di Montelupo, ed una rivoluzione perché si chiude un’istituzione totale che riunisce insieme il manicomio e il carcere". Lo ha detto il garante toscano dei detenuti Franco Corleone, intervenendo in consiglio regionale a Firenze al convegno su "Lo stato del carcere dopo gli Stati generali", organizzato in onore del magistrato Alessandro Margara, scomparso lo scorso luglio, che fu sempre attento ai diritti dei detenuti. "Dobbiamo rivendicare l’Italia all’avanguardia e dobbiamo tradurre questa capacità nel coraggio di riformare il carcere - ha aggiunto. Bisogna passare dalla parola al cambiamento per non giocarsi la credibilità". Secondo Corleone "la Toscana deve essere il terreno della sperimentazione sociale del cambiamento e già con le leggi attuali si possono fare molte cose per garantire dignità alla popolazione carceraria: come l’eliminazione degli sgabelli dalle celle da sostituire con le sedie; l’apertura di biblioteche fruibili che non siano solo depositi di libri, e di ampi refettori per favorire la socialità dei detenuti". E ancora, ha detto, è possibile già finanziare "dei progetti per la realizzazione dei luoghi per l’affettività in carcere nei 18 istituti penitenziari toscani. Tra pochi mesi arriverà la legge per l’affettività in carcere, che render l’Italia uguale agli altri paesi europei". Forlì: il nuovo carcere finito entro il 2019, intanto si pensa a migliorare quello vecchio forlìtoday.it, 15 ottobre 2016 A darne annuncio venerdì alla Camera è stato il sottosegretario di Stato alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, in risposta all’interpellanza urgente presentata dall’onorevole Bruno Molea, deputato di Civici e Innovatori. I lavori al nuovo carcere di Forlì saranno completati entro il 2019, ma per consentire condizioni di vita migliori a detenuti e personale saranno avviati lavori di manutenzione straordinari alla vecchia casa circondariale di via della Rocca così da "garantirne la funzionalità fino al trasferimento nella nuova struttura". A darne annuncio venerdì alla Camera è stato il sottosegretario di Stato alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, in risposta all’interpellanza urgente presentata dall’onorevole Bruno Molea, deputato di Civici e Innovatori. La costruzione della nuova casa circondariale è stata articolata, come ricordato dal sottosegretario Ferri, in tre distinti interventi: prima fase, primo stralcio e secondo stralcio. Le opere che rientrano nella prima fase (la recinzione perimetrale, parte degli alloggi di servizio, l’edificio centrale tecnologica e la "block house", ossia l’ingresso principale) sono state ultimate e collaudate. Per quelle del primo stralcio, è intervenuta invece la risoluzione del contratto con l’impresa appaltatrice a causa del sopravvenuto stato di insolvenza della stessa e la conseguente ammissione alle procedure concorsuali. Si è quindi resa necessaria la revisione del progetto esecutivo. "Si prevede che il progetto, per il quale si renderà necessario il ricorso a professionalità esterne previa gara di appalto - ha spiegato il sottosegretario Ferri - possa essere completato entro il primo semestre del prossimo anno e che i lavori possano essere appaltati entro i successivi 6 mesi. A fronte di una consegna dei lavori disposta nell’anno 2018, se ne ipotizza l’ultimazione entro la fine del 2019". L’ultimazione dei lavori del secondo stralcio, bloccati invece per il ritrovamento di un ordigno bellico, è contrattualmente prevista nel novembre del 2017. Altri anni di attesa, quindi, che rendono non più procrastinabile interventi di manutenzione al vecchio carcere. "Quanto alle condizioni dell’istituto penitenziario "Rocca" attualmente in uso e dove la popolazione detenuta al 28 settembre scorso risulta essere di 120 unità - ha quindi annunciato il sottosegretario di Stato alla giustizia - riferisco che si sta procedendo ad effettuare gli interventi di manutenzione necessari a garantirne la funzionalità fino al trasferimento nella nuova struttura in corso di realizzazione". "Prendo atto con soddisfazione che con la visita del sottosegretario Migliore del 7 ottobre scorso si sia riusciti a riprendere una serie di interventi funzionali a migliorare la struttura attuale - ha commentato Molea. Questo è già elemento di grande positività perché l’inverno si avvicina e l’impianto di riscaldamento ha bisogno di essere manutenuto. Possiamo procedere in modo più snello alle procedure d’appalto: se la riforma degli appalti fosse intervenuta prima forse oggi non ci troveremmo in questa condizione. Spero questa sia la fine di una fin troppo lunga vicenda che, tra ordigni bellici, reperti archeologici e il fallimento di una ditta, ha creato disagi non solo a detenuti, personale e operatori di vigilanza ma anche alle imprese edili locali". Alba (Cn): "Valelapena", in un calice il legame tra carcere e territorio Adnkronos, 15 ottobre 2016 "Con l’approvazione della legge sull’agricoltura sociale, che ho sostenuto con forza, intendiamo promuovere iniziative di welfare come Valelapena perché siamo certi che dall’integrazione tra agricoltura, etica e legalità possa nascere una nuova stagione dei diritti e di coscienza civica". Così Andrea Olivero, vice ministro delle Politiche Agricole, in occasione della presentazione dell’annata 2016 di Valelapena, il vino prodotto con le uve coltivate dai detenuti all’interno della casa di reclusione "Giuseppe Montaldo", presso la cantina dell’Istituto Enologico Umberto I di Alba. Ogni anno il progetto coinvolge 15 detenuti che, all’interno dell’istituto penitenziario, seguono un corso per ottenere la qualifica di operatore agricolo e coltivano vitigni di nebbiolo, barbera, dolcetto e cortese. Alla vinificazione, imbottigliamento ed etichettatura provvede l’Istituto Enologico Umberto I di Alba per una produzione annua di 1.400 bottiglie. Attraverso la qualifica professionale e l’attività svolta nel vigneto, gli ospiti della casa di reclusione hanno la possibilità di maturare le competenze e l’esperienza necessarie per trovare impiego presso le aziende vitivinicole della zona una volta scontata la pena. Per sostenere il progetto, la produzione 2015 di Valelapena si arricchisce di una nuova versione affinata in barrique che, in edizione limitata, sarà disponibile in formato magnum con l’etichetta realizzata in esclusiva dal fumettista Giampiero Casertano, autore delle tavole per serie quali Martin Mystère e Dylan Dog. Tutte le bottiglie, acquistabili sia presso l’Istituto Enologico Umberto I sia presso la Casa di Reclusione di Alba, saranno pezzi unici e numerati. I proventi delle vendite saranno interamente destinati a finanziare la prosecuzione del progetto "Vale la pena", avviato nel 2006 per dare ai reclusi una concreta opportunità di reinserimento sociale. "La validità di questo progetto di agricoltura sociale sta nell’offrire una professionalità spendibile anche al termine della reclusione, assolvendo in questo modo la funzione più delicata affidata agli istituti di pena, ossia favorire il processo di reinserimento sociale del detenuto non in senso astratto e generico, ma rapportandosi concretamente al contesto della comunità locale e alle opportunità offerte dal tessuto produttivo del territorio", sottolinea Giuseppina Piscioneri, direttrice della casa di reclusione di Alba. "Il coinvolgimento dell’Istituto, uno dei dieci in Italia in cui si studia enologia, rappresenta un’estensione della nostra missione didattica e di formazione professionale radicata nella vita e nella vocazione delle nostre terre. Siamo venuti incontro all’esigenza della Casa di Reclusione di sviluppare risorse e reti sul territorio per creare concrete possibilità di lavoro perché abbiamo riconosciuto l’opportunità di mettere le nostre competenze e risorse tecniche al servizio di un progetto animato da una forte valenza sociale", spiega Antonella Germini, dirigente scolastico dell’Istituto Enologico Umberto I. All’inizio del 2011 Syngenta ha aderito al progetto, mettendo a disposizione i prodotti, le competenze e le risorse necessarie per una corretta e completa protezione del vigneto. Gli altri enti coinvolti nel progetto sono la fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus, che assicura la formazione professionale regionale per operatori agricoli, e il gruppo operativo locale, composto da amministrazione penitenziaria, enti locali e servizi sociali e sanitari, coordinato dai Comuni di Alba e Bra. "Crediamo nel ruolo fondamentale dell’agricoltura per la nostra economia e per il nostro tessuto sociale, e l’educazione è uno dei pilasti del nostro piano - dichiara Cristina Marchetti, responsabile Regulatory e Corporate Affairs Syngenta Italia. Auspicavamo da tempo un intervento del legislatore e oggi ritroviamo nelle linee guida della normativa, fortemente sostenuta dal ministero delle Politiche Agricole, una piena coincidenza con quel modello di agricoltura responsabile, che integra agricoltura produttiva, rispetto dell’ambiente e attenzione alle esigenze delle persone e delle comunità a cui, come Syngenta, lavoriamo da sempre". Oltre a essere acquistabili direttamente presso l’Istituto Enologico Umberto I e la Casa di Reclusione di Alba, le bottiglie di Valelapena saranno in vendita in occasione delle varie manifestazioni fieristiche che il Comune di Alba organizza nel mese di ottobre. Roma: "no al barelliere-cancelliere", gli operatori giudiziari protestano davanti al tribunale Agi, 15 ottobre 2016 Hanno manifestato in trecento a piazzale Clodio, per denunciare "la paradossale situazione" che si è venuta a creare negli uffici giudiziari dopo l’ingresso di unità di personale amministrativo proveniente da altre realtà e, quindi, privo di titoli e di competenze specifiche. I lavoratori che appartengono al Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria (in servizio presso le cancellerie e le segreterie di giudici e pubblici ministeri), hanno dato vita ieri mattina a un’assemblea cui ha assistito, per manifestare solidarietà, il pm Francesco Minisci, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. "Per far fronte alla grave carenza di organico - si legge nel documento diffuso dai lavoratori in "stato di agitazione" - il ministero della Giustizia ha "reclutato", grazie ad una procedura di mobilità, ma senza richiedere alcun requisito specifico, personale proveniente da altre amministrazioni (Croce Rossa, Provincia, e altro) collocandolo presso i nostri uffici in posizioni apicali in virtù di una mera comparazione stipendiale (esempio: barelliere della Croce Rossa = cancelliere). Ciò sta ostacolando in modo sostanziale non solo l’avanzamento in carriera del personale giudiziario, con inevitabili ricadute sul trattamento giuridico ed economico dei lavoratori del Dipartimento che da anni attendono una progressione in carriera per tutti, ma soprattutto il servizio giustizia". Secondo i lavoratori del palazzo di giustizia "a far data dall’entrata in vigore della legge 312/80, il personale del Dipartimento non ha più beneficiato di progressioni in carriera diversamente da quanto accaduto per tutti gli altri dipendenti pubblici e, per assurdo, anche per gli appartenenti dello stesso ministero della Giustizia (amministrazione penitenziaria e giustizia minorile) i quali invece hanno beneficiato di riqualificazione non solo senza corsi-concorsi ma addirittura senza titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno". Da qui la rivendicazione della "giusta considerazione da parte del ministero della specifica professionalità acquisita in anni di autoformazione" e la richiesta di "una progressione in carriera per tutti come sancito dagli art. 3, 35 e 97 della Costituzione". Venezia: giustizia e misericordia, inedito confronto di Roberta De Rossi La Nuova Venezia, 15 ottobre 2016 Il Patriarca e il procuratore aggiunto D’Ippolito protagonisti il 28 ottobre di un dialogo alla Scuola grande di San Rocco. Giustizia e misericordia: due termini apparentemente lontani nell’immediato, comune sentire. La giustizia può essere misericordiosa o dev’essere rigorosamente "altra" dalle umane categorie del sentire? Il codice, la norma sono la sola guida di un magistrato o l’empatia può avere uno spazio nelle decisioni di legge? L’invito di papa Francesco a essere più clementi verso i detenuti come s’incontra con i diritti delle vittime e della società ad essere tutelati? "Misericordia e giustizia" è il titolo dell’inedito confronto pubblico che il 28 ottobre, nella scuola grande San Rocco, vedrà dialogare tra loro il patriarca Francesco Moraglia e il procuratore aggiunto Adelchi d’Ippolito. Temi alti, che investono il vivere quotidiano e che invitano a non fermarsi all’apparenza. "Il percorso che abbiamo compiuto, come chiesa in Venezia, in quest’anno giubilare della Misericordia ci ha portato spesso a toccare con mano l’intreccio fra misericordia e giustizia", osserva il patriarca Moraglia, "in un cammino per andare oltre le strette misure degli uomini e comprendere che la misericordia è il nome ultimo della giustizia e che la giustizia - nella Chiesa e nel mondo - è veramente tale solo se non smarrisce se stessa e fa entrare nel suo cammino la realtà umanizzante della misericordia. Nel dialogo del 28 ottobre tenteremo di mettere a fuoco le varie sfumature di questo intreccio, partendo dalle nostre esperienze". Prospettive di partenza diverse per il vescovo e il magistrato: la fede non dovrebbe essere questione avulsa dall’amministrazione della legge? "La misericordia in sé e per sé non appartiene al sistema giustizia, che è amministrato in nome del popolo italiano", osserva il procuratore aggiunto D’Ippolito, "la giustizia ha una soggezione assoluta nei confronti della legge e non posso in alcun modo eludere la legge, ma è sicuro anche che l’azione del magistrato implica una costante e faticosa riflessione che non deve mai trascendere le persone che si trova di fronte: il magistrato deve saper ripercorrere il percorso che ha compiuto un individuo per arrivare a commettere un reato, comprendere le ragioni che lo hanno portato a delinquere". Sono tempi di incertezza, di tensione, paura, in cui spesso la società chiede più carcere: che margine c’è, oggi, per la misericordia? "Una giustizia equilibrata è al servizio della comunità", conclude il magistrato, "non è giustizia se si piega a favore di una istanza particolare: il magistrato deve operare con una grande libertà interiore e capacità di conservare la sua unica soggezione alla legge". Su questo tema carico di suggestioni, implicazioni intime e al contempo pubbliche, interviene anche il procuratore aggiunto Carlo Nordio: "Per un giurista il problema è semplice: la giustizia intesa come affermazione della legalità è prioritaria nell’ordine logico; la misericordia intesa come perdono e riduzione o estinzione della pena è una scelta politica, per il reinserimento sociale del condannato. Ma per un cristiano la misericordia è indissolubilmente coniugata alla giustizia: tuttavia anche per la chiesa il perdono non può prescindere dai tradizionali requisiti dell’ammissione di colpa, del pentimento, della penitenza e del fermo proposito di non peccare più. Il giudice vive la perenne tensione tra l’imperativo della legge morale e il vincolo delle norme positive". Messina: alla Casa circondariale di Gazzi il progetto teatrale "Ali per un Racconto" Strill.it, 15 ottobre 2016 Nel corso di una conferenza stampa a palazzo Zanca l’assessore alla Cultura, Daniela Ursino, ha illustrato i contenuti del progetto teatrale "Ali per un Racconto", che si terrà nella Casa circondariale di Gazzi, venerdì 14, a giovedì 20. L’iniziativa è promossa ed organizzata dall’assessorato comunale alla Cultura con la collaborazione ed il sostegno della Caritas diocesana di Messina. All’incontro con la stampa hanno partecipato, tra gli altri, padre Giuseppe Brancato, direttore della Caritas diocesana di Messina Lipari e S. Lucia del Mela; Nicola Mazzamuto, presidente del Tribunale di Sorveglianza; Romina Taiani, vice direttore della Casa circondariale di Gazzi; Ivonne Cannata, referente per la scuola all’interno della struttura carceraria; ed una rappresentanza di studenti delle classi quinte A e B dell’Istituto Minutoli. "È un progetto lodevole che avvia un percorso culturale all’interno della Casa circondariale di Gazzi - ha dichiarato l’assessore Ursino - in quanto l’obiettivo è dare la possibilità ai detenuti attraverso questi percorsi culturali di vivere anche momenti di aggregazione, inclusione, riflessione, approfondimento, riscatto ed inserimento nella società civile, valorizzando al tempo stesso nuovi talenti artistici". Il laboratorio è realizzato dalla Compagnia del Sole con la partecipazione dell’attore e regista Flavio Albanese, che svilupperà con quindici detenuti un percorso teatrale basato sulla consapevolezza del corpo e della respirazione fondamentali per un attore e sulla scrittura. I testi di riferimento sono da Pinocchio a Platone, Sartre e Dostoevskj, Shakespeare e Pirandello, sulle tematiche della finzione e realtà, della libertà e felicità, con la finalità attraverso lo strumento della scrittura di creare un racconto, con pensieri, riflessioni, sensazioni che possano fare volare tutti in uno spazio senza confini dove le esperienze ed il bagaglio di vita di ognuno dei detenuti potrà essere espressione, rappresentazione e voce dell’anima. L’esito del laboratorio sarà presentato venerdì 21, alle 11, sempre al teatro del carcere, e parteciperanno due classi, le quinte A e B, dell’istituto Minutoli, indirizzo costituzione ambiente e territorio Cat, con la finalità di offrire un momento di confronto e di scambio tra teatro e scuola. Palermo: ritmi cosmici al carcere Pagliarelli con l’acroyoga e l’acrobalance di Claudia Argento meridionews.it, 15 ottobre 2016 "Il nostro scopo è tirare su l’umore dei detenuti trasmettendo positività e armonia grazie alla sinergia fra parte strumentale e acrobatica" dice Luigi Mercurio, insegnante di acroyoga che aggiunge: "Sarà uno spettacolo in continua evoluzione in cui la musica dovrà seguire il movimento". L’arte è terapia dell’anima e lo impariamo sin da quando iniziamo a muovere i primi passi. Ed è proprio attraverso il movimento, infatti, che cominciamo a comunicare ancor prima che con le parole. Questo uno degli obiettivi di Ritmi Cosmici, spettacolo - il direttore artistico è Stefano Della Spora - che si terrà sabato 15 ottobre alle 10 al carcere Pagliarelli e che avrà come spettatori speciali i detenuti stessi più un centinaio di esterni che potranno assistere previa prassi di sicurezza. L’iniziativa si propone lo scopo di donare un assaggio di armonia e bellezza a chi vive l’esperienza della reclusione mediante una serie di performance racchiuse in un unico spettacolo. Si passerà dall’acroyoga all’acrobalance, dalla danza contemporanea a quella afro, dal tango al tai chi fino alla pittura estemporanea che darà forma ai sentimenti del pubblico e degli artisti stessi. Il tutto sarà accompagnato dalle note di un gruppo di musicisti che eseguiranno ritmi e melodie africane per mezzo di strumenti etnici quali l’adungu e la kora. "Il nostro scopo è tirare su l’umore dei detenuti trasmettendo positività e armonia grazie alla sinergia fra parte strumentale e acrobatica" dice Luigi Mercurio, insegnante di acroyoga Ritmi Cosmici, che aggiunge "sarà uno spettacolo in continua evoluzione in cui la musica dovrà seguire il movimento". Proprio l’acroyoga, nato una decina d’anni fa dalla fusione fra lo yoga, il massaggio thailandese e l’acrobatica soft, sarà una delle discipline corporee protagoniste dell’esibizione. "L’acroyoga è armonia, benessere, respiro - continua il maestro - Si tratta di un’arte molto relazionale che prevede l’ascolto di se stessi e dell’altro, un’introspezione sostenuta dal gioco, non solo di coppia ma anche di gruppo. È una disciplina aperta a tutti, grazie alla quale è possibile sperimentare alcuni allineamenti acrobatici senza particolari prestazioni fisiche". Lo spirito è quello di dar vita ad un momento ludico e di scambio in un’atmosfera di totale serenità e benessere. "Grazie ai movimenti dell’acroyoga - conclude Mercurio - è possibile accrescere la propria autostima, la fiducia in se stessi e nel prossimo. Si tratta di una disciplina sociale che ha spesso portato alla nascita di nuove amicizie e relazioni durature. Io ho iniziato per caso grazie ad un’amica, poi ho continuato con Francesca (Famà ndr), mia partner acrobatica e nella vita". Proprio questa sua caratteristica, dunque, rende l’acroyoga canale di comunicazione privilegiato e possibile mezzo di espressione anche all’interno delle prigioni: i detenuti possono tornare ad avere piena consapevolezza di sé e riappropriarsi, così, di quell’identità spesso perduta. Tra gli artisti che parteciperanno a Ritmi Cosmici anche la nota fisarmonicista Mari Salvato. Cinema. "Snowden", un uomo solo contro il sistema kafkiano e la sorveglianza di massa di Giovanna Branca Il Manifesto, 15 ottobre 2016 "Non è un tradizionale film di spionaggio Snowden: non ci sono omicidi, inseguimenti… Ma non volevamo oltrepassare il confine di ciò che sapevamo essere la verità". Quella verità raccontata a Oliver Stone da Edward Snowden, l’ex contractor delle agenzie di intelligence statunitensi - Cia, Nsa - protagonista (con il volto di Joseph Gordon-Levitt) del biopic che il regista ha presentato ieri alla Festa del cinema di Roma, e che uscirà in sala il primo dicembre distribuito da Bim. "La sceneggiatura è stata scritta nel corso di due anni e mezzo, e grazie a ripetuti incontri con Snowden che ha attivamente partecipato alla scrittura con suggerimenti e correzioni", racconta Stone che per incontrare il "whistleblower" si è recato più volte in Russia, a Mosca, dove il trentatreenne vive in esilio dal 2013 delle sue rivelazioni al Guardian e alla regista Laura Poitras sull’anticostituzionale sorveglianza di massa praticata proprio dalle agenzie di spionaggio per cui lavorava. "Snowden è un film kafkiano, su un potere così pervasivo e opprimente da costringere le persone a compiere azioni crudeli e illegali senza neanche accorgersene". "Le informazioni che Snowden ha fornito al mondo sono sconvolgenti - osserva Stone - ma la maggior parte degli americani, compresi i giornalisti, secondo me non ne ha compreso la reale portata". Principalmente per la difficoltà di leggere a chiare lettere, attraverso complessissimi codici, virus e legislazioni informatiche, la violazione dei diritti umani da parte del governo statunitense. La sfida più difficile, spiega infatti Stone, è stata proprio rendere comprensibile la grande bugia che secondo lui il governo statunitense ha propinato ai suoi cittadini e al mondo intero: "Ci è stato detto che la sorveglianza di massa è fondamentale per combattere il terrorismo. Ma la storia recente, dall’11 settembre fino ai massacri di Parigi o di Orlando, ci dimostra che era una menzogna: la sorveglianza mirata in questi casi era più che sufficiente per individuare le minacce concrete, contro le quali non è stato fatto nulla". Il punto, per Snowden e Stone, è che il controllo orwelliano messo in atto dall’intelligence Usa non serve a difendersi dai terroristi ma proprio per "controllare tutto e tutti", anche i paesi amici come il Giappone - che come rivela il protagonista del film è stato "infiltrato" da virus, attivabili nel giorno in cui l’amicizia con l’America si dovesse interrompere. Il futuro della guerra, continua il regista, "non è nelle armi tradizionali, ma nei conflitti informatici e nei cambi di regime pilotati proprio attraverso il controllo e la manipolazione della popolazione". Una pratica della quale, secondo il regista di Platoon, è grande sostenitrice la candidata democratica Hillary Clinton: "Capisco che voi europei siate scandalizzati da Trump, che secondo me non ha mai avuto nessuna possibilità di vincere. Ma il problema è che Clinton rappresenta il sistema americano, la filosofia di pensiero per cui o siete con noi o siete contro di noi". Guerra. Soldati italiani schierati sul Baltico. L’ira della Russia: politica distruttiva di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 15 ottobre 2016 Le decisioni prese a luglio scorso dal vertice Nato di Varsavia ("il momento più importante dalla fine della Guerra Fredda", lo definì Barack Obama) ora passano alla fase operativa. Da maggio del 2017 inizierà il dispiegamento nell’area del Mar Baltico, al confine orientale dell’Europa con la Russia di Putin, di una forza di deterrenza composta da 4 "battle groups", per un totale di 4 mila militari. Gli Stati Uniti schiereranno le loro truppe (circa mille uomini) in Polonia, il Regno Unito in Estonia, la Germania in Lituania, il Canada in Lettonia. E qui anche l’Italia farà la sua parte. Già a luglio - lo scrisse il Corriere - fu il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ad annunciare che il nostro Paese avrebbe messo a disposizione "fino a 150 uomini". La conferma è arrivata ieri in un’intervista a La Stampa dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg e poi, al Nato Defense College di Roma, dal nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni: "L’Italia invierà nei prossimi mesi 140 soldati in Lettonia per partecipare alla forza Nato a guida canadese". Più tardi, nel consueto incontro di aggiornamento con Sergio Mattarella al Quirinale, pare che lo stesso Renzi, ricordando il vertice di luglio, abbia scherzato col Capo dello Stato: "Si stava progettando il piano di invasione della Russia...". In realtà, i rapporti Nato-Russia sono sempre più tesi: "Durante le ultime settimane - ha detto ieri Stoltenberg - la Russia ha dispiegato sistemi di missili vicino alle frontiere dell’Alleanza" e Mosca appare "sempre più impositiva a imprevedibile". "Ma queste decisioni non influiscono sulla linea del dialogo", assicura il ministro Gentiloni. "Noi pensiamo che con la Russia si debba dialogare", sottolinea pure il ministro della Difesa, Roberta Pinotti. La Farnesina Il ministro Gentiloni: "Queste decisioni non influiscono sulla linea del dialogo con Mosca". La prima reazione che arriva dal Cremlino, attraverso le parole della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, interpellata dall’agenzia Ansa, suona però come un duro contrattacco alla Nato: "La sua politica è distruttiva. L’Alleanza atlantica è impegnata nella costruzione di nuove linee di divisione in Europa invece che di profonde e solide relazioni di buon vicinato". Anche in Italia, la notizia viene accolta da molti malumori, non solo in seno alle opposizioni: "Francamente, più di un dubbio sul senso dell’improvvisa scelta di schierare truppe Nato in Lettonia al confine con la Russia", interviene su Twitter l’ex presidente del Consiglio, Enrico Letta. Twitta pure Beppe Grillo: "Con M5S al governo No soldati italiani al confine con la Russia". Poi lancia l’hashtag #iovogliolapace con un post al vetriolo: "Renzi e Napolitano chinano la testa ma questa azione è sconsiderata, espone gli italiani a un pericolo mortale ed è stata intrapresa senza consultare i cittadini. Ci riporta indietro di 30 anni". "Il governo riferisca subito alla Camera", è l’appello della presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Caustico, il leader della Lega, Matteo Salvini: "Chi fa prove di guerra con la Russia è matto o è in malafede. Armi e soldati usiamoli contro l’Isis, non contro chi lo combatte". Guerra. Un contingente italiano ai confini russi? Bufera baltica sul governo di Gina Musso Il Manifesto, 15 ottobre 2016 Guerra Fredda 2.0. L’Italia farà parte di uno dei quattro battaglioni dell’Alleanza schierati nei Paesi ex sovietici. Dopo le rivelazioni del segretario Nato, Gentiloni conferma, Pinotti minimizza e Renzi ci scherza su. Furiose le opposizioni. "Presidente, si stava progettando un piano di invasione della Russia…". Matteo Renzi ha provato a sdrammatizzare così, ieri, a margine della colazione di lavoro con Mattarella in vista del Consiglio europeo, la situazione scivolosa venutasi a creare dopo le dichiarazioni del segretario della Nato Jens Stoltenberg, riportate in prima pagina dalla Stampa il giorno precedente. Un contingente di soldati italiani "farà parte - aveva detto Stoltenberg - di uno dei quattro battaglioni dell’Alleanza schierati nei Paesi baltici". Autentico "fuoco amico" sull’atteggiamento di estrema riservatezza, per non dire omertoso, mantenuto dal governo su una questione così delicata. Rivelazioni che ieri hanno dato la stura alle proteste dell’opposizione, da Grillo a Salvini, che bocciano con toni durissimi la prospettiva di di alimentare il clima da nuova Guerra fredda e lanciarsi in un’avventura dalle conseguenze imprevedibili, invocando il "parlamento sovrano". "140 soldati - ha confermato qualche ora dopo il ministro degli Esteri Gentiloni - che verranno inviati in Lettonia (non è ancora chiaro se nel 2018 o già nella prossima primavera, ndr) per partecipare alla forza Nato a guida canadese dispiegata nel Paese". Ma guai a parlare di strategia aggressiva: secondo Gentiloni trattasi bensì di una politica "di rassicurazione e difesa dei nostri confini come Alleanza". Del resto Putin, come sostiene l’ex premier norvegese che oggi guida l’Alleanza atlantica, "ha dimostrato la volontà di usare la forza militare contro i vicini". Secondo Stoltenberg però "il messaggio è "difesa e dialogo", non "difesa o dialogo"". A Mosca tutta questa energia dialogante non l’hanno percepita: "La politica della Nato è distruttiva", ha tagliato corto ieri la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova. Che all’Ansa ha aggiunto: "Così si tracciano nuove linee di divisione in Europa invece che di profonde e solide relazioni di buon vicinato". L’impegno di inviare soldati italiani ai confini russi risale al vertice Nato di Varsavia dello scorso luglio, fa sapere il governo, che nega ogni collegamento tra la vicenda e le crescenti tensioni con Mosca sulla crisi siriana. Ma all’epoca trapelò solo la decisione di restare in Afghanistan, come richiesto da Washington. Tra le righe però Renzi aveva parlato del comprensibile bisogno delle repubbliche baltiche "di una risposta più forte in termini di deterrenza nei confronti di Mosca". Il ministro della Difesa Pinotti ieri ha ribadito che no, ma che dite, "sapete bene che la politica dell’Italia è che ci vuole il dialogo, ma noi non sottovalutiamo il fatto che ci siano state anche rotture di legittimità internazionale in Ucraina. (…) l’Italia fa parte di un’alleanza e in caso di decisioni comuni dà il suo piccolo contributo". Sul fronte interno le opposizioni alzano la voce, a cominciare dal Movimento 5 stelle (decisione "inaccettabile" per Di Battista), mentre la destra chiede alla ministra di riferire subito in parlamento. L’impressione è che per disinnescare il missile lanciato da Stoltenberg ci vorrà ben altro che una battuta. Guerra. Italiani nel Baltico: scelta comunicata a luglio, polizia aerea già in azione di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 15 ottobre 2016 Nessun voto in Parlamento, dopo la comunicazione del ministro della Difesa Pinotti. Il governo insiste sulla "volontà di dialogare" con la Russia, "partner fondamentale". Il Parlamento è stato informato della missione italiana in Lettonia il 26 luglio scorso. È stato il ministro della Difesa Roberta Pinotti - due settimane dopo il vertice di Varsavia convocato il 9 luglio proprio per riesaminare l’impegno della Nato nelle aree di crisi - a confermare l’invio di una compagnia composta da 140 soldati al confine con la Russia nel 2017. Componenti di un contingente più ampio, da 4 a 6 mila militari, in cui l’apporto più consistente proverrà da Stati Uniti e Gran Bretagna che invieranno almeno mille uomini ciascuno. Inizialmente sarà a guida canadese, secondo quanto concordato nella riunione tra capi di governo alla quale aveva partecipato il presidente Matteo Renzi concedendo il proprio assenso. In quell’occasione fu proprio il premier a sottolineare "il bisogno della Nato di unità e coesione per affrontare le nuove sfide sul terreno della sicurezza, dalla lotta al terrorismo al cybercrime". Il battaglione multinazionale avrà un comando a rotazione che, dopo il Canada, coinvolge Stati Uniti, Regno Unito e Germania. Sarà di stanza ad Adazi Camp e avrà il compito di presidiare i confini, così come era stato chiesto dai Paesi del blocco dell’Est nel timore di avanzamenti della Russia. I 140 soldati italiani dovrebbero provenire dall’Esercito. I dettagli si stanno mettendo a punto e non è escluso che si possano impiegare anche altri reparti. Bisognerà attendere l’approvazione dei piani di intervento per stabilire quali siano le necessità indicate dalla Nato e scegliere di conseguenza i reparti da inviare. In Lettonia insieme agli italiani ci saranno canadesi e portoghesi. In Estonia andranno i soldati britannici, mentre in Lituania si è deciso di schierare le forze tedesche. Fino a qualche mese fa sono stati impegnati per la sorveglianza delle frontiere nei Paesi baltici quattro velivoli dell’Aeronautica che hanno partecipato a una missione di "polizia aerea" durata circa un anno. Su questa volontà di essere parte attiva nell’Alleanza, Pinotti è stata esplicita nel suo intervento di fine luglio di fronte alle commissioni Esteri e Difesa del Senato in seduta congiunta e ha dichiarato: "L’Italia non si è mai tirata indietro; ha sempre partecipato, attivamente e convintamente, alle scelte che riguardano l’Alleanza Atlantica, e ha sempre onorato gli impegni che da esse discendono. Naturalmente, il Parlamento sarà pienamente coinvolto quando si tratterà di definire la consistenza, la durata e gli oneri della nostra partecipazione".Dunque quando i dettagli saranno decisi, ci sarà una nuova informativa che servirà a rendere edotto il Parlamento sugli aspetti tecnici, mentre sono già stati illustrati quelli politici ma nessun voto perché - come viene sottolineato in ambienti della Difesa - "la scelta è già stata comunicata e rientra nella natura della partecipazione alla Nato". Nella relazione di tre mesi fa della stessa Pinotti viene sottolineata "l’attenzione della Nato verso gli sviluppi ad est, adottando misure definite "di rassicurazione" per gli alleati orientali". E dopo aver evidenziato "le difficoltà nel dialogo con Mosca evidenti da alcuni anni, in particolare dopo il conflitto in Georgia, nel 2008, e più ancora con l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbas" insiste sulla "volontà dell’Italia e non solo, di mantenere ben aperto il dialogo con la Russia che rappresenta un partner fondamentale per la sicurezza in Europa e per la lotta al terrorismo. Non possiamo permetterci di alzare nuovi muri, né proporre nuove contrapposizioni anti storiche e dannose per tutti". Guerra. L’invio di armi nei paesi in conflitto: una bomba a orologeria di Francesco Martone Il Manifesto, 15 ottobre 2016 La vicenda delle bombe italiane e dei crimini di guerra in Yemen solleva alcuni pesanti interrogativi. Il primo: inviare bombe all’Arabia Saudita equivale a fare la guerra per interposta persona contro il Daesh in Yemen? Che l’invio di armi a paesi in conflitto fosse considerato una "soluzione win-win" per la quale da una parte si partecipa alla guerra senza inviare "scarponi sul terreno" e dall’altra si privilegia la crescita del settore industriale degli armamenti, è chiaro. Un articolo uscito nel luglio scorso sul New Inquirer e intitolato "Recoil operation" approfondisce la questione del commercio legale e illegale di armi leggere negli States. "La reticenza a livello nazionale a inviare "scarponi sul terreno" fa il pari con gli impegni a livello nazionale per la crescita del settore occupazionale legato all’industria delle armi, e rende ancor più appetibile l’opzione di armare alleati stranieri invece di andare noi di persona a combattere" si legge. Nel nostro caso invece di mandare aerei o soldati sul terreno, si mandano bombe, ma non è come se a combattere partecipasse anche il nostro paese? E chi partecipa potrebbe essere ritenuto corresponsabile di eventuali crimini di guerra commessi da chi viene sostenuto? Interessanti al riguardo alcune importanti notizie dagli Stati Uniti riportate nei giorni scorsi dalla Reuters e dalla Bbc. Non che il tema dell’eventuale chiamata a correo dell’amministrazione Usa per il sostegno dato all’Arabia Saudita per complicità in crimini di guerra fosse una novità. Da tempo ormai le organizzazioni per i diritti umani statunitensi sollevano questo pesante interrogativo. Le ultime notizie però sono confortate da una serie di documenti ottenuti grazie al Freedom of Information Act (Foia) e raccontano un’altra storia, i cui dettagli meritano di essere approfonditi anche in riferimento al protratto invio di bombe italiane a Riad. Va detto che, a differenza del nostro paese, gli Usa collaborano in tre modalità a sostegno dell’Arabia Saudita, ovvero attraverso operazioni di rifornimento in volo, acquisizione di bersagli con drone e fornitura di bombe. Per questo da tempo l’amministrazione di Washington si era impegnata a a fornire ai sauditi una lista di obiettivi "santuarizzati" al fine di evitare vittime civili. A nulla è valso visto che, come specificato in uno dei documenti desecretati e ora accessibili al pubblico, i Sauditi non hanno esperienza e addestramento necessario per evitare vittime civili, e molti rappresentanti dell’Amministrazione americana erano assai scettici sulla loro capacità di bombardare gli Houthi senza uccidere civili o danneggiare infrastrutture critiche. Quindi chi autorizza l’invio di bombe italiane ai Sauditi - al netto delle considerazioni circa il rispetto o meno della 185/90 che vieta l’invio di armi a paesi in guerra - sa o non sa? Se sai puoi essere corresponsabile, se non sai hai commesso una grave omissione che potrebbe corrispondere a corresponsabilità? I documenti citati dalla Reuters ci raccontano di una discussione interna per meglio comprendere le eventuali ricadute legali del sostegno di Washington a Riad. Anche se poi gli avvocati del governo conclusero di non avere elementi sufficienti per affermare che sostenere Riad equivalesse ai sensi del diritto internazionale, essere considerati come co-belligeranti. In realtà - e a Washington lo sanno molto bene - la definizione di co-belligerante, e con essa di eventuali corresponsabilità in crimini di guerra, oggi è assai ampia. Non c’è bisogno di partecipare direttamente al crimine in questione, basta fornire assistenza pratica, incoraggiamento e appoggio morale. Questo determinò la Corte Penale Internazionale nel caso di crimini di guerra commessi dall’ex-presidente della Libera Charles Taylor. Viene da pensare allora a casa nostra. Autorizzare e inviare bombe ai sauditi potrebbe equivalere a dare assistenza pratica? Incontrare nei giorni scorsi il ministro della difesa Saudita potrebbe essere una forma di incoraggiamento? Quando l’Italia venne chiamata a ratificare il Trattato di Roma che istituì la Corte Penale Internazionale ci si limitò ad accogliere solo le parti che riguardavano la collaborazione con la Corte, ma non a integrare nel proprio codice penale le fattispecie di crimini contro l’umanità previste dal Trattato. Potrebbero però bastare le norme già previste dal Loac, (Law Of Armed Conflict) le norme di diritto internazionale di guerra. Lo sapeva bene - come ci dice una e-mail desecretata - il vicesegretario alla Difesa statunitense Anthony Blinken che nel gennaio 2016 convocò i suoi per capire meglio come evitare che gli Stati Uniti potessero essere perseguiti per il loro sostegno alla guerra saudita in Yemen. Una bomba ad orologeria che rischia di scoppiare nelle mani dell’amministrazione americana e non solo. Guerra. La guerra sporca dell’Italia in Yemen di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 15 ottobre 2016 Export di morte. "La ditta Rwm Italia ha esportato in Arabia Saudita in forza di una licenza rilasciata in base alla normativa vigente". I dati sulle esportazioni degli armamenti made in Italy sono opachi, ma dalla ministra della Difesa Pinotti arriva la conferma indiretta del nostro coinvolgimento nei bombardamenti della coalizione a guida saudita che fanno strage di civili. Potrebbero essere di fabbricazione italiana le bombe che sabato scorso hanno colpito l’edificio a Sanàa in Yemen dove era in corso una cerimonia funebre causando 155 morti e più di 530 feriti. Il corrispondente della tv britannica ITV, Neil Connery, che è entrato nell’edifico poco dopo il bombardamento, ha infatti pubblicato via twitter la foto di una componente di una bomba che, secondo un ufficiale yemenita, sarebbe del tipo Mark 82 (MK 82). Altre immagini pubblicate via twitter sono più precise: riportano la targhetta staccatasi da una bomba con la scritta: "For use on MK82, FIN guided bomb". Segue un numero seriale: 96214ASSY837760-4. L’ordigno sarebbe stato prodotto su licenza dell’azienda statunitense Raytheon per essere usato su una bomba MK82. Ma non è chiara l’azienda produttrice e il paese esportatore. Che potrebbe essere anche l’Italia. Bombe del tipo MK82, infatti, sono prodotte nella fabbrica di Domusnovas in Sardegna dalla Rwm Italia, azienda tedesca del colosso Rheinmetall, che ha la sua sede legale a Ghedi, in provincia di Brescia. E sono state esportate dall’Italia, con l’autorizzazione da parte dell’Unità per le autorizzazioni di materiali d’armamento (Uama). La conferma, seppur in modo indiretto, l’ha data mercoledì scorso (il 12 ottobre) la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, rispondendo a una interrogazione del deputato Luca Frusone (M5S): "La ditta Rwm Italia - ha detto la ministra Pinotti - ha esportato in Arabia Saudita in forza di una licenza rilasciata in base alla normativa vigente". All’azienda Rwm Italia nel biennio 2012-13 sono state infatti rilasciate da parte dell’Uama autorizzazioni all’esportazione per bombe aeree di tipo MK82 e MK83 destinate all’Arabia Saudita per un valore complessivo di oltre 86 milioni di euro. Impossibile invece sapere quante e quali bombe siano state esportate dall’Italia all’Arabia Saudita nell’ultimo biennio: le voluminose relazioni inviate al parlamento dal governo Renzi riportano infatti solo il valore complessivo delle autorizzazioni all’esportazione verso i singoli paesi e le generiche tipologie di armamento (munizioni, veicoli terrestri, navi, aeromobili, ecc.). Nel biennio 2014-15 il ministero degli Esteri ha autorizzato l’esportazione verso l’Arabia Saudita di un vero arsenale militare per un valore complessivo di quasi 420 milioni di euro. Tra questi figurano "armi automatiche" che possono essere utilizzate per la repressione interna, "munizioni", "bombe, siluri, razzi e missili", "apparecchiature per la direzione del tiro", "esplosivi", "aeromobili" tra cui componenti per gli Eurifighter "Al Salam", i Tornado "Al Yamamah" e gli elicotteri EH-101, "apparecchiature elettroniche" e "apparecchiatire specializzate per l’addestramenti militare". Nel medesimo biennio sono stati consegnati alle reali forze armate saudite sistemi e materiali militari per oltre 478 milioni di euro. Anche le dettagliate tabelle compilate dal ministero degli Esteri allegate alla relazione governativa che riportano tutte le singole autorizzazioni rilasciate alle aziende produttrici mancano di un dato fondamentale: il paese destinatario. Si può cioè sapere, ad esempio, che nel 2015 alla Rwm Italia sono state rilasciate 24 autorizzazioni per un valore complessivo di oltre 28 milioni di euro, ma non si possono sapere i paesi destinatari. E si può sapere che, sempre nel 2015, alla RWM Italia è stata concessa la licenza ad esportare 250 bombe inerti MK82 da 500 libbre insieme ad altre 150 bombe inerti MK 84 per un valore complessivo di oltre 3 milioni di euro, ma la tabella ministeriale non riporta il paese acquirente, rendendo così impossibile il controllo parlamentare e dei centri di ricerca. Informazioni che erano invece riportate fin dai tempi delle prime relazioni inviate al parlamento dai governi Andreotti. E che, incrociando le tabelle dei vari ministeri, si potevano evincere fino ai governi Berlusconi. Ha un bel dire la ministra Pinotti che la relazione governativa al parlamento consentirebbe "l’attività di verifica e di controllo così come spetta al parlamento": se non sa cosa di preciso si esporta verso un paese, come fa il Parlamento a controllare? Un dato però è certo: nel biennio 2014-5 il governo Renzi ha autorizzato esportazioni verso l’Arabia Saudita per un valore complessivo di quasi 419 milioni di euro: un chiaro "salto di qualità" se si pensa che una decina di anni fa le autorizzazioni per armamenti destinati alle forze militari saudite non superavano i dieci milioni di euro. Ma c’è un altro fatto certo. Nei mesi tra ottobre e dicembre dello scorso anno dall’aeroporto civile di Elmas a Cagliari sono partiti almeno quattro aerei Boeing 747 cargo della compagnia azera Silk Way carichi di bombe prodotte nella fabbrica Rwm Italia di Domusnovas in Sardegna: i cargo sono atterrati alla base della Royal Saudi Air Force di Taif in Arabia Saudita. È proprio su queste spedizioni e su tutti i sistemi militari che l’Italia sta inviando in Arabia Saudita che lo scorso gennaio la Rete italiana per il disarmo ha presentato un esposto in varie Procure. Esposto sul quale in Viceprocuratore di Brescia, Fabio Salamone, ha aperto un’inchiesta "verso ignoti" per presunte violazioni della legge sulle esportazioni di materiali miliari. La Legge n. 185 del 9 luglio 1990 sancisce che l’esportazione "di materiale di armamento nonché la cessione delle relative licenze di produzione devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia" e che "tali operazioni vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". La Legge vieta specificamente l’esportazione di materiali di armamento "verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere", nonché "verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione". Dal marzo del 2015, infatti, l’Arabia Saudita si è posta a capo di una coalizione che, senza alcun mandato internazionale, è intervenuta militarmente nel conflitto in corso in Yemen. La risoluzione n. 2216 approvata il 14 aprile del 2015 dal Consiglio di sicurezza dell’Onu non legittima, né condanna, l’intervento della coalizione a guida saudita: solo "prende atto" della richiesta del presidente dello Yemen agli Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo di "intervenire con tutti i mezzi necessari, compreso quello militare, per proteggere lo Yemen e la sua popolazione dall’aggressione degli Houti". Cosa sia successo da quel momento è sotto gli occhi di tutti: ad oggi sono almeno 4.125 i civili uccisi e oltre 7.200 i feriti. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon ha ripetutamente condannato i raid aerei sauditi che hanno colpito centri abitati, scuole, mercati e strutture ospedaliere, come quelle di Medici senza Frontiere: un terzo dei loro raid ha fatto centro proprio su obiettivi civili. "Effetti collaterali", hanno commentato i sauditi. Lo scorso agosto, l’Alto commissario per i diritti umani, il principe Zeid bin Ràad Al Hussein ha chiesto di avviare un’inchiesta indipendente e imparziale sulle violazioni del diritto umanitario perpetrare da tutte le parti attive nel conflitto in Yemen. La richiesta era sostenuta dai paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia, ma poi è stata ritirata dall’Ue senza alcuna motivazione. A seguito delle pressioni saudite la proposta è stata accantonata e pertanto si continuerà con l’inchiesta da parte delle autorità yemenite. A fronte della catastrofe umanitaria che sta subendo la popolazione yemenita, già lo scorso febbraio il Parlamento europeo ha votato ad ampia maggioranza una risoluzione con cui ha chiesto all’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, di "avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’Unione europea e di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita", alla luce delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen. Risoluzione che la ministra Pinotti non ha menzionato nel suo intervento in Parlamento. Forse anche perché finora è rimasta inattuata. Sono continuate invece le esportazioni di armamenti dei paesi europei e gli affari militari con le monarchie del Golfo. Per combattere l’Isis, viene detto; che però approfittando del conflitto ha guadagnato terreno anche in Yemen. *Analista dell’Osservatorio Permanente sulle armi leggere e le politiche di difesa e sicurezza di Brescia Migranti. Sulla via dell’accoglienza di Nunzio Galantino Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2016 Non so se è pericoloso, come il buon senso può far credere. Non so se sia corretto far tacere il ritmo degli impegni correnti, barrando di netto alcuni giorni dell’agenda. Non so, infine, che cosa qualcuno possa pensare di questo mio tornare con insistenza nel Medio Oriente. So per certo che, come non ho mai sopportato l’indifferenza, mi sento a casa laddove si può far qualcosa per restituire alle persone la dignità che hanno loro rubato. Sono le ragioni per cui questa settimana l’ho trascorsa volentieri in Giordania. Per quanti vorranno seguirmi, mi riprometto di raccontare nell’edizione di sabato prossimo quanto ho vissuto in questi giorni. Oggi, con gli occhi feriti dalle tante situazioni di dolore incontrate - ma anche accesi dai molteplici gesti di solidarietà che ho potuto constatare - vorrei tracciare una sorta di conclusioni del viaggio, soffermandomi sul tema dell’accoglienza e dell’inclusione. Per farlo, più che parlare degli "altri", vorrei rivolgermi direttamente ai cittadini del nostro Paese. Papa Francesco, con la forza della sua testimonianza, anche domenica scorsa ha alzato la voce: "È con un senso di urgenza che rinnovo il mio appello, implorando, con tutta la mia forza, i responsabili affinché si provveda a un immediato cessate il fuoco, che sia imposto e rispettato almeno per il tempo necessario a consentire l’evacuazione dei civili, soprattutto dei bambini, che sono ancora intrappolati sotto i bombardamenti cruenti". A quanti sono oppressi dalla violenza e dalla persecuzione non possiamo come Europa ritardare ulteriormente la realizzazione di un sistema che assicuri almeno una via di fuga: la strada dei corridoi umanitari verso i Paesi disponibili all’accoglienza - strada, tra l’altro, già possibile sul piano giuridico - è la prima condizione per evitare la crescita di quella tratta di esseri umani che oggi ingrassa il portafoglio di mafie e terrorismo. Tale via richiede, però, un ruolo maggiormente incisivo da parte di questa nostra Europa, che troppe volte alla prova dei fatti si rivela debole e cieca. Del resto, non saranno i muri - che in diversi Paesi del Vecchio Continente si stanno innanzando - a fermare chi è costretto a scappare dalla propria terra. Non saranno vecchie e nuove politiche di chiusura a fermare l’onda costante degli arrivi. A questo riguardo, il primo dovere con il quale dovremmo essere in grado di confrontarci è legato all’onesta con cui siamo chiamati a guardare alla situazione. Mi riferisco, tanto per essere chiaro, alla distanza tra la realtà delle cifre e quella della percezione soggettiva, sulla quale non si esita a speculare. Cifre alla mano, l’impatto di immigrati e rifugiati rispetto alla popolazione è davvero molto basso. L’Italia, in particolare, è agli ultimi posti in Europa, con un tasso di 1,9 rifugiati ogni mille abitanti e un 3% di richiedenti asilo. Oggi nel nostro Paese sono accolti in circa 160 mila tra richiedenti asilo e rifugiati; 30 mila di loro sono ospitati in strutture ecclesiali. Ma più dei numeri e dei fattori che ne turbano nell’opinione pubblica la percezione, ci tengo a sottolineare con forza la bugia di chi sostiene che l’immigrazione stia danneggiando la nostra economia e il nostro mercato del lavoro (peraltro già provato da lunghi anni di crisi). Chi conosce la realtà - e come Chiesa sul territorio non siamo secondi a nessuno - sa che l’immigrato che incontra una porta aperta che gli consente di diventare un cittadino, è in prima fila nel sostenere le sorti del Paese. Senza andare lontani, basterebbe un giro nelle valli della Penisola per accorgersi di quante scuole sono state letteralmente salvate dall’apporto dei figli degli immigrati: tanti piccoli centri sono ancora attraversati dalle voci dei ragazzi - e dei loro insegnanti! - proprio in virtù di questa presenza. I minori immigrati sono oltre un milione e 100 mila e più di metà di loro sono nati in Italia. Un discorso analogo occorrerà iniziare a farlo sul piano culturale. Sotto questo aspetto, infatti, la presenza dei migranti ci sta regalando una ricchezza che genera conoscenza, scambio e crescita per tutti noi. Se così stanno le cose, non commettiamo allora l’errore di continuare a guardare questi fratelli quasi fossero semplicemente dei numeri o dei problemi. La mobilità umana che incarnano è una dimensione essenziale per la rigenerazione del nostro Paese. Per coglierlo davvero dobbiamo riconoscere come dietro ciascuno di loro ci siano storie e insegnamenti di cui tutti dovremmo beneficiare, per la nostra crescita umana e anche spirituale; per il nostro impegno a servizio della giustizia e della pace. Certamente, perché tutto ciò diventi vero fino in fondo, è necessario che l’accoglienza maturi in integrazione: non si possono, infatti, salvare le persone e poi non sentirsi coinvolti quando si tratta di offrire loro una possibilità di futuro. Sì, la vera sfida da assumere con coraggio e creatività è quella dell’integrazione, rispetto alla quale in Italia oggi emerge con forza la necessità di una legge specifica. Perché se è stato significativo, ad esempio, l’aver esteso da parte del Governo il bonus cultura anche ai diciottenni immigrati - o parimenti l’iniziativa del Ministero dell’Interno di istituire borse di studio che consentano a studenti rifugiati di accedere alle nostre Università - ora occorre un salto di qualità, per giungere a una strategia di sistema. Nel farlo potrebbe essere intelligente anche puntare sulla valorizzazione delle competenze degli immigrati: fra loro non mancano laureati, professioni e tecnici. Sta a noi fare in modo di vincere la partita dei migranti: non considerandoli nemici dai quali difendersi, ma persone da accogliere e integrare. Non conosco alternativa possibile. Il viaggio in Giordania - la visita nei campi dei rifugiati, l’incontro con famiglie disgregate dall’esodo, il dialogo con i responsabili della Chiesa e della Caritas locale, nonché con tanti volontari - me l’ha confermato una volta di più. Ne parleremo sabato prossimo. Israele cancella tutti i rapporti con l’Unesco di Valerio Sofia Il Dubbio, 15 ottobre 2016 Crisi per aver negato la natura ebraica di Monte del Tempio e Muro del pianto. Scoppia una bomba a Gerusalemme e stavolta non si parla di tritolo. Ma le conseguenze sono forse persino peggiori e più pericolose. Si apre una nuova grave crisi diplomatica internazionale. Il punto è a risoluzione approvata dall’Unesco sul patrimonio di Gerusalemme facendo riferimento solo a quello islamico e ignorando (in modo sostanzialmente ostile) tutta l’eredità ebraica e anche cristiana. Per questo Israele ha bloccato tutti i suoi rapporti con l’Unesco, già difficili dopo precedenti crisi come quella quando l’agenzia dell’Onu ha riconosciuto la Palestina come Stato sovrano. Il comitato esecutivo dell’Unesco ha adottato una risoluzione che ignora tutti i nomi ebraici dei luoghi santi a Gerusalemme, compresa la piazza del Muro del Pianto, indicata con il nome arabo di Piazza al-Buraq e non quello ebraico di Hakotel Hamàaravi. Per il Monte del tempio (Har HaBayit, in ebraico) viene riportata solo la definizione araba di Spianata delle moschee, riferendosi alle denominazioni Moschea di Al-Aqsa e Haram al-Sharif. Dei 58 paesi membri, 24 hanno approvato la risoluzione mentre solo sei - Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Lituania ed Estonia hanno votato contro. Gli altri, compresa l’Italia, si sono astenuti o erano assenti. Nessun Paese europeo ha sostenuto la mozione, che era stata presentata dai palestinesi assieme ad Egitto, Algeria, Marocco, Libano, Oman, Qatar e Sudan. Il testo, che stigmatizza la gestione dei luoghi santi da parte di Israele, afferma che Gerusalemme è sacra per le tre religioni monoteiste, ma quando parla di quella che i musulmani chiamano la Spianata delle Moschee ignora il nome ebraico del luogo, dove un tempo si ergeva il tempio biblico costruito da re Salomone e poi da re Erode. Anche la piazza sottostante del Muro Occidentale (o del Pianto, unico resto dell’antico tempio) è citata solo con il nome musulmano. In vista della votazione la missione israeliana presso la sede parigina dell’Unesco aveva distribuito ai membri del consiglio e ad altri diplomatici internazionali un opuscolo che illustra in modo dettagliato i profondi legami storici che legano l’ebraismo ai siti in questione, considerati santi anche da cristianesimo e islam. Così Israele è riuscito ad ottenere qualche astensione in più del previsto (Francia, Svezia, Spagna, India, Argenitna). La risoluzione (e questo è il cuore politico) condanna anche numerose iniziative israeliane attuate sul sito religioso di Gerusalemme. Nel documento, infatti, vengono "fermamente condannate le crescenti aggressioni israeliane contro il dipartimento del Awqaf e del suo personale, oltre che la libertà di culto e di accesso ai musulmani alla moschea di al Aqsa". Il documento riconosce, tuttavia, "l’importanza della città vecchia di Gerusalemme e delle sue mura per le tre religioni monoteiste". Già in precedenza il direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova, si era espressa contro tali risoluzioni affermando che "negare o nascondere qualunque tradizione ebraica, cristiana o musulmana mina l’integrità del sito e contrasta con le ragioni che ne hanno giustificato l’iscrizione nel patrimonio mondiale nel 1981". Per il premier israeliano Benyamin Netanyahu si tratta di una decisione "assurda" che equivale a dire che "la Cina non ha legami con la Grande Muraglia o l’Egitto con le Piramidi". In una lettera alla direttrice Bokova, il ministro dell’Istruzione israeliano Naftali Bennett ha accusato l’Unesco di fornire "supporto al terrorismo islamico". Cina. L’ultimo prigioniero di Tienanmen, ancora in cella perché non pentito di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 15 ottobre 2016 Miao Deshun fu condannato per aver gettato un cesto su un carro armato già in fiamme. Per anni nessuno gli ha parlato. Ha 51 anni, è malato. Ma i compagni dicono che non si è piegato. È l’ultimo prigioniero della Tienanmen, secondo i registri delle organizzazioni umanitarie. Si chiama Miao Deshun, ha 51 anni, ne ha trascorsi più di 26 in cella e oggi, dice un’organizzazione per i diritti umani dagli Usa, dovrebbe essere liberato. Un avvenimento simbolico, anche se non di riconciliazione tra il potere cinese e la generazione di ragazzi che nel 1989 scesero in piazza per invocare la democrazia. Oggi Pechino, all’era del presidente Xi Jinping è impegnata in una campagna di repressione preventiva che porta in cella avvocati, sindacalisti, blogger e femministe. Resta il fatto che se i conti sono giusti oggi Miao Deshun uscirà dal carcere Yanqing nei dintorni di Pechino, quello dove sono concentrati i prigionieri in cattive condizioni di salute. E l’ultimo detenuto per Tienanmen è in pessimo stato: malato di epatite B e di schizofrenia, secondo quanto hanno riferito in passato dei suoi compagni di prigionia. "Era un tipo tranquillo, spesso molto depresso", ha raccontato alla Bbc Dong Shengkun, un altro reduce di Tienanmen che conobbe Miao in cella. "Entrambi avevamo ricevuto la condanna a morte con sospensione e questo prevedeva le catene ai piedi, io le avevo ma lui no, era così emaciato che le guardie probabilmente pensavano che fosse troppo debole per portare i ceppi". Miao aveva 25 anni ai tempi della rivolta di Tienanmen, "azione controrivoluzionaria" secondo Pechino. Non era uno studente ma un operaio dello Hebei, la provincia che confina con la capitale. La notte fatale tra il 3 e il 4 giugno del 1989 fu visto lanciare un cestino contro un carro armato in fiamme. Bastò perché fosse condannato come "incendiario". La pena di morte fu poi sospesa e commutata nel 1991 in ergastolo da scontare nel Carcere Numero 1 di Pechino. Con lui furono condannati in tutto ufficialmente 1.602 "controrivoluzionari", anche se un molti altri giovani furono arrestati con sentenze amministrative e inviati ai campi di "rieducazione attraverso il lavoro". Miao è rimasto l’ultimo prigioniero. Non ci sono foto del detenuto. L’ultima volta che qualche compagno lo ha visto risale ormai a dieci anni fa. Dicono che non si era piegato, che aveva rifiutato il lavoro e non aveva accettato di "esprimere pentimento" per la sua partecipazione alla rivolta. Per questa mancanza di collaborazione era stato trattato peggio degli altri. Ha interrotto i contatti anche con la famiglia, "perché non voleva che i genitori, anziani, affrontassero la fatica del viaggio dalla campagna verso la prigione di Pechino", ha detto ancora il suo ex compagno Dong. "Le autorità lo trattavano come se fosse impazzito e ho sentito dire che alla fine lo trasferirono a Yanqing". Si tratta di un centro di detenzione speciale a circa quattro ore da Pechino, bisogna superare le montagne per arrivarci. Qualche tempo fa, in mancanza di notizie, si era pensato che fosse morto. Si seppe invece che gli era stata accordata una riduzione di pena a vent’anni, nel 1997. Poi, a maggio, la Dui Hua Foundation basata a San Francisco che si batte per i diritti umani, ha annunciato di aver ricevuto dalle autorità cinesi l’informazione che a Miao era stato accordato uno sconto di pena di 11 mesi, facendo i conti significherebbe liberazione sabato 15 ottobre 2016. La Dui Hua ha lavorato più di dieci anni per tenere viva la speranza di far uscire Miao dal buco nero. La famiglia non sa niente, le autorità al ministero della Giustizia a Pechino rispondono di "mandare un fax con le domande di informazioni", la solita risposta che ricevono i giornalisti e che non porta da nessuna parte, almeno in tempi utili. L’Ufficio Amministrazione delle prigioni di Pechino dice al Corriere: siccome siete giornalisti rivolgetevi all’ufficio stampa; che non risponde. Il carcere ha il telefono occupato in eterno. Sembra che a Pechino non vogliano pubblicizzare l’evento, se effettivamente ci sarà. Ma d’altra parte, in questa società cinese giovane, con la completa rimozione di ogni informazione storica su Tienanmen, nessun cittadino comune sa che in piazza e nelle strade intorno quella notte di giugno del 1989 i carri armati fatti arrivare da remote guarnigioni di provincia schiacciarono i giovani studenti e operai, uccidendo centinaia se non migliaia di dimostranti per la democrazia. Miao ha speso più della metà della sua vita in cella per essere stato dalla parte sbagliata della barricata. Il Pakistan abolisce il delitto d’onore, finora gli assassini l’hanno scampata di Angelica Ratti Italia Oggi, 15 ottobre 2016 Sono migliaia le donne in Pakistan uccise impunemente per ripristinare l’onore, in genere quello degli uomini. Ora, il 6 ottobre, il parlamento pachistano ha approvato una legge che punisce la pratica del crimine d’onore che lascia sul campo centinaia di vittime ogni anno. Secondo una disposizione del codice penale del Pakistan, ispirato al diritto islamico, gli uomini che uccidono le donne della propria famiglia possono scappare alla giustizia se vengono perdonati dai parenti in cambio di una somma di denaro compensatoria. L’assassino facente parte della stessa famiglia della vittima viene sovente perdonato. Nel 2015, la Commissione dei diritti dell’uomo del Pakistan, un’organizzazione indipendente, ha censito 1.184 vittime, delle quali 88 uomini. Ma in realtà il bilancio potrebbe essere ben più pesante. Alle donne del Pakistan e di altri paesi musulmani non resta che la scelta di conformarsi alle leggi patriarcali e oppressive o rischiare la morte nell’indifferenza perché molto spesso gli uomini che uccidono le proprie donne raramente vengono segnalati alla polizia, e ancora meno alla giustizia. Adesso, la nuova legge abolisce il crimine d’onore e l’uccisione della donna viene considerato un crimine, sostenendo che questa pratica non trova posto nell’Islam. Questo irrigidimento normativo ha trovato l’opposizione degli ultra conservatori islamici. Inoltre, un altro passo avanti è stato fatto dal Pakistan del premier Nawaw Sharif in materia di diritti delle donne. È stata votata una legge che punisce lo stupro più severamente, con almeno 25 anni di prigione, in un paese dove le condanne sono rare o quasi inesistenti questo reato. Tunisia: il presidente concede la grazia a 784 detenuti Nova, 15 ottobre 2016 Il presidente tunisino Beji Caid Essebsi ha concesso la grazia a 784 detenuti in occasione del 53mo anniversario della partenza degli ultimi soldati francesi da Biserta nel 1963. Lo ha reso noto un comunicato presidenziale al termine di un colloquio tenuto oggi a Cartagine, vicino Tunisi, tra il capo dello Stato e il ministro della Giustizia, Ghazi Jeribi. L’ultimo rapporto dell’organizzazione non governativa Amnesty International denuncia che il codice penale criminalizza i rapporti omosessuali. L’articolo 230 del codice penale prevede fino a tre anni di reclusione e una multa per "sodomia e lesbismo" e l’articolo 226, che punisce con sei mesi di reclusione gli atti osceni e ritenuti offensivi per la morale pubblica, viene utilizzato anche contro le persone Lgbti.