Franco Corleone: ora è necessario garantire la qualità della vita dietro le sbarre Il Dubbio, 14 ottobre 2016 "Passare dalla parola al cambiamento per non giocarsi la credibilità". Questa è la sfida lanciata dal Garante toscano dei diritti dei detenuti Franco Corleone, al convegno in onore di Alessandro Margara dal titolo "Lo stato del carcere dopo gli Stati generali", aperto ieri mattina a palazzo Panciatichi. Tra le proposte avanzate da Corleone per garantire dignità alla popolazione carceraria: "L’eliminazione degli sgabelli dalle celle, da sostituire con le sedie"; la "rimozione della terza branda", il "finanziamento dei progetti per la realizzazione dei luoghi dell’affettività nei 18 istituti penitenziari toscani" e "l’apertura sia di biblioteche fruibili che non siano solo depositi di libri", sia di "ampi refettori per favorire la socialità dei detenuti". Il garante nazionale Mauro Palma nel suo intervento ha toccato vari aspetti sullo stato dell’esecuzione penitenziaria in Italia. "Spesso - ha detto Palma - è caratterizzata nell’opinione comune da un pensiero regressivo" che la definisce un "castigo meritato" o "soggetto in cura". "Superata l’emergenza quantitativa, cioè l’affollamento in carcere - ha aggiunto Palma - è emersa la necessità di garantire la qualità della vita in carcere". Palma ha evidenziato la necessità di sanare varie discrasie del sistema, come la distanza tra carcere raccontato e vissuto, "tra la norma e la prassi con la necessità di applicare i regolamenti", "tra il tempo esterno e quello detenuto che per esempio non può utilizzare le moderne tecnologie, restando fuori dal progresso". Alcuni degli aspetti positivi, invece, riguardano la questione del lavoro molto più strutturata e il miglioramento delle garanzie di tutela dei bambini, figli di detenuti che si recano in visita negli istituti penitenziari. Corleone ha ricordato l’imminente chiusura dell’ospedale psichiatrico di Montelupo, "il carcere manicomio criminale - ha detto - a breve scomparirà. Dobbiamo rivendicare che l’Italia è all’avanguardia e dobbiamo tradurre questa capacità nel coraggio di riformare il carcere". Tra gli interventi, il magistrato Fabio Gianfilippi su "I nodi irrisolti del carcere, la prospettiva del magistrato di sorveglianza nel rapporto con il garante per i diritti dei detenuti"; Katia Poneti e Saverio Migliori su "Salute in carcere: sezioni psichiatriche penitenziarie, tossicodipendenze, riduzione del danno" e "Trattamento rieducativo, percorsi di reinserimento e alternativa al carcere". Perché il popolo Lgbtq dovrebbe occuparsi dei carcerati gay.it, 14 ottobre 2016 Il 6 novembre a Roma. Ecco perché noi che abbiamo subito per decenni ingiustizie e repressioni di ogni genere, dobbiamo occuparci dei diritti dei carcerati. Cosa c’entra parlare qui di detenuti, amnistia, diritti umani e così via? C’entra, c’entra eccome. La scuola della lotta politica nonviolenta di Gandhi, Martin Luther King, Rosa Parks, Harvey Milk, e, per rimanere in Italia, di Danilo Dolci, Marco Pannella, Aldo Capitini, Rita Bernardini, persone coraggiose e anti-sistema, ci ha insegnato che battersi per i diritti umani delle persone non può limitarsi ad una battaglia per categorie o settori distinti tra loro. Le democrazie in qualche modo accolgono queste lotte e spesso diventano, grazie ai media e alla conoscenza, conquiste civili. Un esempio per tutti è la (pessima) legge recentemente approvata sulle unioni civili, sostenuta da un ampio mondo politico e civile che certo non risolve il problema dell’uguaglianza ma garantisce in questa ‘fase di transizionè molti ‘diritti civili’ alle coppie gay conviventi. Questa "fase di transizione" così come lo sono stati i Pacs francesi terminerà solo quando si raggiungerà l’obiettivo del matrimonio egualitario. Chi per decenni o secoli ha subito ingiustizie, vessazioni, repressioni di ogni genere, non può oggi non considerare tra le sue priorità la lotta per i diritti civili e umani della popolazione detenuta e dell’universo mondo carcerario, incluse le pessime condizioni di lavoro degli agenti penitenziari. Abbiamo un sistema carcerario arcaico, vecchio, che risale nella sua forma più repressiva ai secoli scorsi, che non ha avuto una sua propria evoluzione sul piano della rieducazione e delle possibilità che tutti, anche i peggio delinquenti, dovrebbero avere per riscattare la propria vita dopo un incidente di percorso. Gli unici a battersi in modo costante, determinato e nonviolento per accendere i fari su questo mondo sono stati in questi decenni, insieme a pochissime altre associazioni e volontari, gli esponenti e i militanti del Partito Radicale, guidati fino a qualche mese fa da Marco Pannella, scomparso lo scorso maggio che passava tutte le feste comandate dentro le carceri italiane. È per questo che dal 40° Congresso del Partito Radicale Nonviolento, svoltosi dentro il Carcere di Rebibbia lo scorso settembre, è nata l’idea di promuovere il prossimo 6 novembre una Marcia per l’Amnistia, la Giustizia e la Libertà che ha l’obiettivo di sensibilizzare la classe politica sul tema del carcere e chiedere azioni e interventi drastici per rivoluzionare l’attuale sistema carcerario e per interrompere la costante violazione dei diritti umani così come ripetutamente richiamato dalla Corte Europea di Giustizia. La manifestazione è intitolata alla memoria di Marco Pannella e ciò che è forse ancora più scandaloso, per noi convinti anticlericali rigorosi e testardi, anche a Papa Francesco, che ha dimostrato una grande sensibilità al tema dei diritti dei detenuti dedicando la giornata del 6 novembre al Giubileo dei carcerati (e abolendo l’ergastolo dentro le mura del Vaticano pochi giorni dopo il suo insediamento). Ecco perché quel giorno saremo per le strade del centro di Roma a marciare per i loro diritti, perché quei diritti sono anche i nostri. Alla Marcia hanno aderito personalità politiche di diversi schieramenti, molte istituzioni e centinaia di singoli cittadini, oltre che personalità dello spettacolo e dell’impegno sociale, tutti uniti sotto le bandiere del Partito Radicale che dei diritti civili ha fatto la sua bandiera da oltre mezzo secolo. "Così Davigo rovina i rapporti tra giudici e avvocatura" di Franco Insardà Il Dubbio, 14 ottobre 2016 Dai rappresentanti dell’Ordine forense dura risposta alle chiusure sui Consigli giudiziari. Il giudizio è unanime e senza appello. Una sonora bocciatura, da parte degli avvocati, della posizione di Autonomia & Indipendenza sulla possibilità che l’ordine forense possa avere diritto di voti nei Consigli giudiziari. In un comunicato infatti la corrente che fa riferimento al presidente dell’Anm Piercamillo Davigo ha prefigurato il rischio di un "condizionamento anche soltanto potenziale". Se gli avvocati possono esprimere un voto sull’efficienza di un magistrato, quest’ultimo "vedrebbe condizionata la propria carriera anche dal parere dei rappresentanti di quelle parti a cui quotidianamente distribuisce torto e ragione". Nella nota di Autonomia & indipendenza si fa riferimento ai "piccoli Tribunali, a realtà locali con forte infiltrazione criminale, a pur possibili patologie di rapporti anche diretti tra difensori in importanti procedimenti e gli avvocati presenti nei Consigli giudiziari". Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere penali, denuncia "la netta chiusura nei confronti di una visione democratica della giustizia da parte di alcune correnti della magistratura. L’idea che ogni valutazione di efficienza e di capacità dei magistrati debba essere un affare esclusivo denota una posizione autoreferenziale, paternalistica e obsoleta. Arrivare addirittura a ipotizzare che ci possano essere condizionamenti esterni è offensivo e spero che non sia condiviso da tutti i magistrati. Purtroppo sull’argomento, finora, non c’è stata una presa di distanza da parte dell’Anm, né delle altre correnti della magistratura. L’arroganza di pensare che la politica debba accettare e accogliere soltanto i desiderata della magistratura è senza dubbio da respingere". Ancora più duro il giudizio - di Laura Jannotta, presidente delle Camere civili italiane: "Sono davvero perplessa ed esterefatta per le esternazioni che ho letto. Penso che con questo attacco all’avvocatura si sia oltrepassato ogni limite. Non possiamo accettare simili giudizi offensivi". L’atteggiamento di Autonomia & Indipendenza, secondo Patrizia Corona, presidente dell’Unione Triveneta dei Consigli degli Ordini, è "di una gravità assoluta. Fuori da ogni logica. Volendo applicare fino in fondo questo ragionamento bisognerebbe allora riconsiderare anche la posizione dei pubblici ministeri all’interno dei Consigli giudiziari. Nel processo anche i pm, infatti, sono parte al pari degli avvocati: quindi potrebbero essere influenzati nella valutazione dei magistrati giudicanti". Carlo Panzuti, presidente dell’Unione delle Curie pugliesi, parla di "pregiudizio grave da parte di alcune correnti della magistratura. Ci può essere il timore di cambiare, l’apertura a una maggiore "ingerenza" può generare dei dubbi. Io ribalto la questione e ritengo che, essendo interessate più categorie, si possono ottenere degli indubbi benefici per la giustizia. Anche perché, vista la delicatezza dell’incarico, è chiaro che l’individuazione degli avvocati per i Consigli giudiziari avviene tenendo presente le qualità, l’equilibrio, la formazione e la loro storia all’interno delle istituzioni. Mi sento di escludere che ci possano essere rischi di situazioni patologiche legate alla criminalità: gli avvocati, così come i magistrati sono persone qualificate". Sui rapporti tra magistratura e avvocatura il presidente dei civilisti Jannotta fa un’analisi molto chiara: "Finora la relazione tra le due componenti del sistema giustizia è stata sempre caratterizzata dalla reciproca stima e dal rispetto dei ruoli. La conflittualità con l’Anm, da quando è presidente Davigo, nuoce prima di tutto alla giustizia. Questa chiusura alla proposta del ministro Orlando, è incomprensibile. La presenza degli avvocati nei Consigli giudiziari è minima e tale rimarrebbe, ma questa intransigenza denota una insofferenza a qualsiasi valutazione da parte degli avvocati". Ma sul tavolo ci sono anche altre questioni: su tutte quella della riforma del processo penale. E su questo il presidente dell’Unione delle Camere penali Migliucci è molto chiaro: "Secondo l’Anm ogni possibile riforma del processo penale deve avere la necessaria e ineludibile approvazione della magistratura. In materia di prescrizione si spinge sulla necessità di riforme autoritarie e contrarie al Giusto Processo, già ritenute incongrue e dannose in sede di Commissione Giustizia del Senato. Su questo argomento l’Anm tiene tuttora in scacco il governo e il Parlamento e mette in pericolo gli equilibri politici e istituzionali del Paese. La pietra dello scandalo e il motivo scatenante della rivolta alla approvazione del ddl governativo sta, tuttavia, in quella norma, l’articolo 18, che impone ai magistrati il rispetto di termini precisi per il promovimento dell’azione penale all’esito delle indagini preliminari. Una norma di civiltà e di buon senso, che va nella direzione di realizzare il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, che viene vista dalla magistratura come una insopportabile ingerenza. Per Anm il processo è evidentemente il luogo ove la magistratura può esercitare un potere illimitato e dove un pubblico ministero insofferente a ogni regola decide in totale arbitrio, e come fosse affar suo, quali processi fare e quanto debbano durare. Agitando il feticcio dell’obbligatorietà dell’azione penale quando fa comodo. Il pm diventa il dominus incontrastato delle scelte e della vita delle persone, che possono stare sotto processo per il tempo desiderato da chi accusa, in netto contrasto con il modello liberale previsto dal rito accusatorio. Noi avvocati auspichiamo sempre il confronto con la magistratura che c’è sempre stato fino all’elezione del dottor Davigo. Lo abbiamo invitato all’ultimo congresso delle Camere penali, ma non è venuto perché aveva altri impegni. Riteniamo che un confronto serio possa dare un contributo alla giustizia e alla libertà, senza però le posizioni di autoreferenzialità e autoritarismo, come quelle espresse in varie occasioni da una parte della magistratura. Non dimentichiamo che il dottor Davigo, appena eletto presidente dell’Anm, dichiarò che i politici erano corrotti e rubavano più di prima. Auspichiamo che la politica reagisca e operi libera da condizionamenti di chicchessia". Giudici in pensione, rinvio rischia incostituzionalità di Claudia Morelli Italia Oggi, 14 ottobre 2016 Profili di incostituzionalità e di irragionevolezza. Per questo la norma del decreto legge 168 sulla efficienza degli uffici giudiziari che proroga al 31 dicembre 2017 il pensionamento delle figure apicali di Corte di Cassazione, Corte dei conti e Consiglio di stato andrà "soppressa" oppure "modificata" e allargata a tutti gli incarichi direttivi. In Senato a sostenere la tesi di una modifica dell’articolo 5, che ha già tenuto banco alla Camera e che però ha retto all’esame nonostante le critiche di Csm e Anm, non è solo l’opposizione. La richiesta di modifica giunge proprio dalla commissione costituzionale presieduta da Anna Finocchiaro (Pd), che mercoledì sera ha approvato il parere sul testo in vista dell’esame di merito in commissione giustizia. La relatrice Doris Lo Moro, anch’essa del Pd, ha raccolto le perplessità di tutti i senatori ed ha così suggerito di modificare il parere dando parere non ostativo ma invitato la commissione giustizia a sopprimere o modificare la norma. "Le disposizioni richiamate presentano profili di criticità, in riferimento al principio di uguaglianza e al canone costituzionale di ragionevolezza, in base al quale", secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, "la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali e in maniera razionalmente diversa situazioni diverse", spiega il parere ritenendo "che una disciplina differenziata potrebbe determinare discriminazioni arbitrarie e ingiustificate". Dal canto suo la stessa presidente è andata giù dura ritenendo che "le finalità delle misure adottate con il provvedimento in titolo, cioè l’eliminazione delle cause pendenti e la salvaguardia della funzionalità della giustizia amministrativa e contabile, non appaiono sufficienti a giustificare l’introduzione di una significativa disparità di trattamento all’interno della magistratura, con particolare riferimento al tema del collocamento a riposo". Stessa posizione ha espresso Felice Casson durante la discussione in commissione giustizia, mentre Nitto Palma (Fi) ha annunciato la presentazione in aula della pregiudiziale di incostituzionalità. Il termine per gli emendamenti è fissato per lunedì 17 ottobre e il provvedimento sarà in aula il 18. Il punto è verificare come si regolerà il Governo per evitare il tiro incrociato anche del fuoco amico. In fatto di fisco, giustizia non è fatta di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 14 ottobre 2016 La legge sui crediti tributari e sull’interpello è molto importante, ma non viene applicata: mancano i decreti applicativi e i regolamenti. La nuova legge esiste, ed è pure una buona legge per il contribuente alle prese con il Fisco, peccato che a fine settembre sia passato ormai un anno dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale il 24 settembre 2015 senza che la legge ancora possa essere applicata in concreto. Lo stanno sperimentando i contribuenti che, pur vincendo contro l’Agenzia delle Entrate nelle sentenze fiscali emesse dalle Commissioni Tributarie, non ottengono che questi verdetti abbiano esecutività immediata, come in teoria la legge del 2015 disponeva che dovesse accadere a partire dal primo giugno 2016. Per anni, infatti, si era lamentata l’asimmetria tra Fisco e contribuente in forza della quale un contribuente, quando perdeva in giudizio di primo grado, doveva comunque cominciare a pagare subito il Fisco, mentre il contribuente, quando si vedeva riconoscere ragione da una sentenza favorevole della Commissione Tributaria, per poter incassare quanto dovutogli doveva comunque aspettare che la sentenza superasse le successive impugnazioni dell’Agenzia delle Entrate e passasse in giudicato. Nel 2015 il decreto legislativo 156 ("Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario") mise fine a questa sperequazione, e stabilì che dall’1 giugno 2016 il contribuente vittorioso dovesse subito ottenere l’esecutività delle sentenze fiscali a lui favorevoli e quindi l’immediato pagamento dalla controparte Fisco (ovviamente dovendo restituire i soldi, con interessi, in caso di ribaltamento della decisione nei successivi gradi di giudizio). La legge faceva solo una distinzione di entità: se la cifra che il Fisco perdente deve pagare al contribuente vittorioso supera i 10.000 euro, questi per avere l’immediata esecutività della sentenza può essere chiamato dal giudice (a seconda delle sue condizioni di solvibilità) a prestare una idonea garanzia, i cui termini-modalità-durata dovevano essere specificati da un apposito regolamento. E qui ecco la (non) manina che sta inceppando tutto il meccanismo. La (non) manina di una assenza: a tutto settembre 2016, e dunque dopo un anno, il governo non ha ancora emanato il decreto ministeriale sulle garanzie, e l’Agenzia delle Entrate in una circolare ha interpretato questa mancanza come paralizzante in primo grado la restituzione ai contribuenti vittoriosi dei soldi non soltanto nei casi nei quali la somma ecceda i 10.000 euro, ma anche in tutti gli altri casi. L’impasse suggerisce tre considerazioni. La prima incrina ulteriormente la vulgata (spesa anche nel dibattito sul prossimo referendum costituzionale) secondo la quale sarebbe il ping-pong tra Camera e Senato a rallentare l’entrata in vigore di leggi al passo invece con le esigenze dei cittadini, così frustrate nel loro dinamismo dai ritardi della "navetta" tra i due rami del Parlamento: a parte il fatto che i numeri dei tempi medi di approvazione di una legge dimostrano che non è vero, e a tacere dalla comune esperienza della velocità-lampo con la quale tutti i governi (quando davvero vogliono far passare una misura a loro cuore) impongono l’approvazione parlamentare delle loro decretazioni d’urgenza, il mini-esempio delle sentenze fiscali dimostra che il lavoro legislativo è lavoro di fatica, di pazienza, di cesello, e che di una buona legge ce ne si fa niente se poi la si lascia sul binario morto di decreti applicativi inattuati. cattivi pensieri. La seconda constatazione è un corollario, e riguarda la dimensione psicologica del decisore politico: è come se essa si esaurisse nel momento dell’annuncio, alfa e omega del bottino di consenso da conquistare o di dissenso da evitare, sicché poi tutto il lavoro che serve a valle per dar corpo a quella decisione venga percepito come un fastidio, svilito e noioso e persino quasi inutile perché ormai, con una azione in Borsa dopo lo stacco del dividendo, l’annuncio ha già conseguito l’incasso per il quale era stato pensato. Il terzo è un cattivo pensiero: ora che sui numeri del bilancio dello Stato ci si sente invitati a fidarsi del fatto che tra un anno i conti saranno davvero quelli che ora tutti gli osservatori indipendenti non trovano invece nelle carte, non incoraggia atti di fede constatare che un anno è passato senza che faccia davvero il suo "mestiere" non una già di per sé controversa proiezione contabile, ma persino una legge già approvata "chiavi in mano". Il "ne bis in idem" alla Corte Ue di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2016 Corte di cassazione, ordinanza 13 ottobre 2016, n. 20675. Finisce con un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte Ue il "doppio binario" sanzionatorio penale/amministrativo per reati finanziari. A disporlo è stata ieri la Sezione tributaria civile della Corte di cassazione - ordinanza interlocutoria 20675/16 - accogliendo il ricorso di Stefano Ricucci (più Carlsson Re e Magiste International, entrambe in liquidazione) per la vicenda, ormai passata agli annali di storia, della scalata a Rcs Mediagroup. Ricucci e le due società erano stati sanzionati da Consob per manipolazione del mercato (articolo 187-ter del testo unico della finanza) a 10,2 milioni di multa, ridotta della metà dalla Corte d’appello di Roma e infine impugnata in Cassazione. Nelle more del procedimento amministrativo, Ricucci era stato sottoposto anche a indagine penale per gli stessi fatti, inchiesta conclusa con un patteggiamento diventato definitivo, ma con la pena estinta per applicazione dell’indulto del 2006 (legge 241). Un capo di imputazione di quella sentenza - che, pur patteggiata, equivale a tutti gli effetti a una condanna - riguardava "la diffusione di notizie false concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione" del titolo Rcs, replicando nella sostanza le ipotesi su cui era già intervenuta la Consob ("condotte manipolative poste in essere nell’ambito di una strategia tesa a richiamare l’attenzione del pubblico sui titoli in questione e, per tale via, a sostenerne le quotazioni"). Nel 2015 la Cassazione aveva rinviato alla Consulta le questioni di costituzionalità emergenti da questo fascicolo a seguito della famosa sentenza Grande Stevens sul ne bis in idem (Cedu, 4 marzo 2014), ma la Corte costituzionale le aveva respinte perché formulate in maniera "dubitativa e perplessa". Da qui la scelta "obbligata" della Sezione tributaria di piazza Cavour, che chiede ora alla Corte di Giustizia se sia conforme alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea - e alla giurisprudenza della Cedu - l’apertura di un procedimento sanzionatorio amministrativo dopo che sul medesimo fatto "naturalistico" sia già calata una pronuncia penale irrevocabile. Proprio quest’ultimo aspetto - cioè la chiusura in anticipo del processo penale rispetto al procedimento amministrativo - differenzia il caso odierno Ricucci/Rcs dal precedente Grande Stevens, anche se sul punto la Cassazione ritiene di poter considerare il ne bis in idem allargato un principio "bidirezionale", in sostanza insensibile alla velocità relativa dei due procedimenti. Ciò che appare chiaro al giudice rimettente, comunque, è che l’apertura contemporanea di due versanti sanzionatori (amministrativo e penale) non è preclusa da alcuna norma, mentre sembra fuori discussione che il primo approdo sanzionatorio definitivo (cioè irrevocabile) qualunque sia, estingue di fatto il filone parallelo. Nell’evoluzione del diritto comunitario in tema di reati finanziari (Regolamento 596/14, articolo 30) vale la pena sottolineare che gli Stati membri possono anche decidere di non comminare sanzioni amministrative per abusi che siano già soggetti a sanzioni penali. Nel diritto italiano, invece, l’unica norma di diritto positivo sul ne bis in idem è l’articolo 649 del codice di procedura, che lo riconosce, ma solo in ambito strettamente penale. Da qui la necessità di una nuova pronuncia di principio della Corte di giustizia europea, anche per stabilire se il giudice nazionale può applicare direttamente in ne bis in idem allargato della Cedu. Col rito abbreviato, alla sentenza d’appello ampi margini per ribaltare il giudizio di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2016 Corte di cassazione, sentenza 13 ottobre 2016, n. 43242. Il giudice d’appello può ribaltare la sentenza di assoluzione di primo grado senza obbligo di rinnovazione del dibattimento, a condizione che l’imputato avesse scelto in origine il rito abbreviato non condizionato. Con una lunga motivazione, la Terza sezione penale (sentenza 43242 /16, depositata ieri) completa - solo apparentemente in contraddizione - la decisione del 6 luglio scorso delle Sezioni Unite (27620) sui poteri di riforma dell’appello. Il caso analizzato riguarda un processo per violenza sessuale sulla figlia minorenne dell’imputato, genitore che venne assolto davanti al Gup sulla base della valutazione - tra gli altri elementi - della testimonianza delle bimba, assunta nelle forme dell’incidente probatorio. Nel 2015, quattro anni dopo l’assoluzione, la Corte d’appello di Roma aveva ribaltato il verdetto, condannando l’uomo all’esito di una rivalutazione cartolare del fascicolo del Gup. Secondo il ricorrente, il giudice d’appello in tal modo aveva violato l’obbligo di (adeguata) motivazione, superando il "ragionevole dubbio" semplicemente riapprezzando le prove cartolari. Il punto, a giudizio della Terza, è proprio nelle caratteristiche del rito originario (abbreviato "secco") dove l’imputato, per ragioni di convenienza sull’eventuale pena (lo sconto) aveva di fatto scelto la "cartolarizzazione" del rito. rinunciando così alle maggiori garanzie - ma anche ai maggiori rischi - offerte dalla "oralità" del dibattimento. Pertanto, scrive il relatore, sarebbe oltremodo incoerente imporre al giudice di secondo grado di "rinnovare" un dibattimento mai svolto davanti al Gup, e quindi trasformare solo in appello un giudizio "cartolare" scelto e in ultima analisi "imposto" dallo stesso imputato. Lamentare in questo contesto una violazione del "ragionevole dubbio", scrive ancora la Terza, significherebbe allora porre la questione di costituzionalità di tutti i cosiddetti "riti alternativi" che prescindono proprio dal ragionevole dubbio "anzi, lo invertono, cartolarizzando, per così dire, l’accertamento e dunque vincendo, per via cartolare, la presunzione di non colpevolezza quando il giudizio sfocia in condanna". In sintesi, se il giudice d’appello "ripete tutti i poteri decisori" del primo, questa affermazione non può essere letta se non in una prospettiva di perfetta simmetria tra i due momenti processuali. Misure cautelari, è mafioso chi fa gli interessi della cosca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2016 Corte di cassazione, sentenza 13 ottobre 2016, n. 43357. Ai fini dell’adozione di una misura di prevenzione personale e patrimoniale, l’appartenenza all’associazione mafiosa, deve essere valutata alla luce della concreta idoneità a riaffermare, consolidare irrobustire e rendere più facilmente raggiungibili gli interessi della struttura criminale mafiosa alla quale si appartiene e alla quale si assicurano risorse, servizi ed utilità. Partendo da questo principio la Cassazione annulla, ritendo non provato il nesso funzionale, la confisca dei beni e la misura di prevenzione personale nei confronti di uno degli imputati. La svolta culturale che serve contro mafia e corruzione di Giuseppe Pignatone (Procuratore della Repubblica di Roma) Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2016 L’influenza della mafia sull’economia si è ormai estesa dal Meridione d’Italia ad altre zone del Paese. Pur con differenze, anche significative, il risultato è sempre lo stesso: dinamiche economiche distorte, concorrenza schiacciata e, specie in tempi di crisi, la sirena del denaro a basso o a nessun costo. Lasciare fuori dalla porta i mafiosi dopo averne accettato il denaro, è illusorio quanto l’idea che, superate le difficoltà, si possa restituire il prestito e liberarsi di soci scomodi. Non è così: il mafioso non si farà più estromettere e ricorrerà alla violenza, se lo riterrà necessario. La mafia entra in contatto con l’impresa imponendo il pizzo alle attività commerciali e tangenti sull’importo dei lavori acquisiti. Denaro utile alle cosche, certo, ma pagare significa anche riconoscerne la sovranità su un territorio o un settore economico. Tra gli imprenditori che pagano il pizzo non ci sono solo "vittime" poiché talora sono essi stessi a voler interagire con i boss in base al calcolo (errato) che, giacché si paga, tanto vale usare l’ombrello protettivo mafioso per conseguire sul mercato vantaggi altrimenti impossibili. In sintesi, alla base di questo patto c’è una convenienza economica ormai riconosciuta dagli stessi imprenditori. L’alleanza con le imprese è strategica perché permette alle mafie di "agganciare" componenti della società cui non avrebbero altrimenti accesso ed entrare in questa rete di contatti è la loro vera forza, il loro "capitale sociale". Accanto all’alleanza con le imprese c’è quella con la cosiddetta "area grigia" formata da esponenti di diverse categorie sociali che fiancheggiano le mafie, senza farne direttamente parte. I legami con politici, amministratori e pubblici funzionari, servono ai mafiosi per deviare flussi di denaro, appalti, risorse a loro favore e verso gli imprenditori loro prestanome. Analogamente, per fare affari e riciclare denaro, il mafioso ha bisogno di acquisire le competenze e le relazioni proprie dell’area grigia. Fino a qualche anno fa, questa analisi era o sembrava valida per le sole regioni di origine delle cosiddette "mafie tradizionali" (cosa nostra, ?ndrangheta, camorra), che là esercitano un significativo controllo del territorio. Oggi, come attestano inchieste e sentenze, l’analisi è valida anche per zone non trascurabili del Centro e del Nord d’Italia, anche se in queste ultime le organizzazioni non esercitano affatto un controllo "militare" del territorio, ma contano piuttosto su importanti reti relazionali, su un numero incredibilmente alto di uomini-cerniera in ogni categoria professionale, oltre che su un complessivo deterioramento del contesto imprenditoriale (e sociale latu sensu). Ha osservato lo studioso Enzo Ciconte in un recente saggio, che per la cultura imprenditoriale del Nord Italia "l’intervento dei mafiosi è un costo e lo considera un affare commerciale come un altro, senza badare alle conseguenze e senza un minimo di etica che pure dovrebbe avere come operatore economico", aggiungendo che questi imprenditori spesso ricorrono prima alla corruzione e poi alla ?ndrangheta, senza tuttavia poterne controllare le dinamiche avendo consapevolezza di una possibile deriva violenta, che trasforma il rapporto in assoggettamento e omertà. Ed è questo, in sintesi estrema, il metodo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. Nella sua storia, la criminalità organizzata ha sempre fatto ricorso alla corruzione, fermo restando che mafia e corruzione sono due realtà diverse e non sempre dove c’è l’una c’è anche l’altra. L’elemento di novità è che la corruzione è diventata strumento e manifestazione dell’intimidazione mafiosa. Chiarissima, su questo punto, la Cassazione nella sentenza emessa nel procedimento "Buzzi Salvatore e altri", il c.d. Mafia capitale (ma il principio di diritto è valido in generale): "Ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento e omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politiche ed elettorali, con l’uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio". L’attività corruttiva viene scelta innanzitutto perché gli atti violenti allarmano l’opinione pubblica e attirano l’attenzione di polizia e magistratura; inoltre, la mescolanza tra il mondo mafioso e quello "altro" genera influenze reciproche così che le mafie accettano le regole, a volte mutuano persino il linguaggio, dei loro interlocutori. I criminali, infine, stanno bene attenti a non mettere in difficoltà con episodi violenti l’amministratore o il funzionario amico, perché questi possa "aggiustare" la gara d’appalto con i "suoi" metodi e i "suoi" tempi. Come affrontare in modo efficace l’intreccio fra mafia, corruzione, grande evasione fiscale, riciclaggio? Mentre per la mafia esiste un sistema repressivo e sanzionatorio efficace, non altrettanto si può dire per i reati contro l’economia e la Pa, come testimonia l’esiguo numero dei processi e dei soggetti condannati. Non sembri strano ma - come in passato - il primo passo per contrastare le mafie è quello di riconoscerne l’esistenza, senza lasciarsi ingannare dalla mancanza di episodi tipici della loro presenza (incendi, aggressioni, addirittura omicidi). Senza, cioè, restare vittime dello stereotipo dell’immutabilità dei comportamenti, che invece i criminali modificano e rimodulano a seconda delle esigenze. È chiaro che la repressione penale da sola non basta. Servono anche una svolta culturale che coinvolga soprattutto le nuove generazioni, una ridefinizione di regole generali e, a monte, riconsiderare il tema delle scelte e delle responsabilità individuali. La repressione - seria, efficace, continuativa - resta però indispensabile perché non solo accerta e punisce le responsabilità dei singoli, ma crea spazi di libertà, di agibilità politica ed economica, a disposizione della società civile. La quale - ove davvero esista e se lo sa fare, anche esponendosi e rischiando - potrà occupare quegli spazi bonificati, per evitare che al termine di processi e condanne, tutto torni come prima. Ma se il punto di forza delle mafie sono le relazioni con il mondo "altro", bisogna agire su entrambi i contraenti per spezzare il patto di convenienza. Il primo contraente è la mafia e qui sappiamo cosa occorre: indagini, arresti condanne, sequestri e confische (anche se legislatore e giudici prestano crescente attenzione alla salvaguardia dell’impresa, in quanto fonte di lavoro e ricchezza). Gli imprenditori hanno imboccato da tempo la strada di un sistema premiale che vorrebbe rendere "più conveniente" stare con lo Stato che non a fianco della mafia, attraverso strumenti come il rating di legalità o le white list. Quanto alle altre categorie (professionisti, funzionari, politici, pubblici amministratori, senza escludere magistrati e forze dell’ordine), occorre partire dall’assunto che nessuna di esse è immune dal rischio del contagio mafioso e che esiste al loro interno un problema di crisi di valori e di scelte etiche individuali. Si deve infine radicare il principio secondo cui legalità ed efficienza sono due facce della stessa medaglia. La giusta tensione verso la legalità non può portare a evitare responsabilità o a creare ostacoli (tali da stimolare la corruzione) come, al contempo, efficienza ed emergenza non possono diventare il pretesto per bypassare ogni controllo e vivere la legalità come intralcio al progresso. Benevento: malore in carcere, detenuto di 59 anni muore in ospedale ottopagine.it, 14 ottobre 2016 La vittima è Agostino Taddeo, 59 anni, di Benevento. Sarà eseguita l’autopsia. Qualche giorno fa si era sentito male in carcere, per questo era stato soccorso e trasportato al Rummo. Dove stanotte il suo cuore ha cessato di battere per sempre. Agostino Taddeo, 59 anni, di Benevento, era un personaggio noto alle forze dell’ordine. Era ospite della casa circondariale di contrada Capodimonte, dove stava scontando una condanna a 3 anni, per droga, diventata definitiva. Secondo una prima ricostruzione, Taddeo aveva accusato un malore di natura cardiovascolare che aveva reso indispensabile il suo trasferimento in ospedale. Sottoposto ad un intervento, era ricoverato nel reparto di rianimazione, dove è morto. La salma è stata trasferita in obitorio, a disposizione del sostituto procuratore Iolanda Gaudino, che nei prossimi giorni affiderà al medico legale, la dottoressa Monica Fonzo, l’incarico di procedere all’autopsia. Un appuntamento che sarà possibile solo dopo aver avvisato le parti interessate, a cominciare dai familiari, assistiti, tra gli altri, dall’avvocato Vincenzo Sguera. Novara: detenuto in regime di 41bis muore per grave malattia, aveva 56 anni di Luigi Griffo napoli.zon.it, 14 ottobre 2016 Alfio Papale è morto nel carcere di Novara, dove era detenuto in regime di 41 bis. Secondo quanto riportato da Cronache della Campania, ieri pomeriggio si sarebbero svolti anche i funerali in forma strettamente privata nel cimitero di Ercolano. Il reggente del clan di vico Moscardino aveva 56 anni ed era detenuto da alcuni anni. Dopo l’uccisione del fratello Antonio avvenuta nel febbraio 2007 per mano del clan Chierchia di Torre Annunziata su mandato dei Birra di Ercolano, le redini della cosca furono prese dai due fratelli Alfio e Luigi e dai rispettivi figli. Per la morte di Alfio avvenuta in seguito a una grave malattia che l’aveva colpito durante il periodo di detenzione, la famiglia non ha fatto trapelare alcuna notizia visto che il boss è morto la settimana scorsa e ieri pomeriggio si sono svolti i funerali. Nessuno dei suoi tre figli detenuti - Pietro, Ciro e Gerardo - era presente, in quanto non hanno ricevuto il permesso per dare l’ultimo saluto al genitore defunto. La Spezia: detenuto in meno di 3 mq per 900 giorni, indennizzato con quasi 8mila euro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 ottobre 2016 Ha trascorso più di novecento giorni in una cella con meno di tre metri quadrati e lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo per detenzione inumana e degradante nel carcere di La Spezia. Grazie alla tenacia dell’avvocatessa Deborah Cianfanelli - da poco eletta presidentessa del Comitato radicale per la Giustizia Piero Calamandrei - il ministero della Giustizia è stato condannato dal giudice del tribunale di Genova a versare una somma pari a 7656 euro, 8 euro per ogni giorno di permanenza. Nella causa è stato accertato che il detenuto, nelle varie fasi della carcerazione, aveva a disposizione uno spazio vitale inferiore a tre metri quadri, misura ben sotto il minimo di quattro metri quadri pro capite indicato dal Comitato europeo di prevenzione della tortura (Cpt), organismo del Consiglio d’Europa. Quattro metri quadri è il valore indicato dal Cpt come spazio minimo vitale da assegnare ad ogni persona in carcere. Tre metri è la soglia minima riconosciuta a seguito della sentenza pilota "Torreggiani" della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013. La Corte europea aveva riconosciuto la strutturale violazione dell’articolo 3 Cedu da parte dell’Italia a causa del "grave sovraffollamento" dei relativi istituti penitenziari. Per questo condannava il nostro Paese, ma, al contempo, dichiarava sospesi tutti i ricorsi dei detenuti italiani, aventi ad oggetto il riconoscimento della violazione patita, concedendo allo Stato convenuto il termine di un anno a partire dal maggio 2013 (termine poi posticipato al giugno 2015), entro il quale adottare le misure necessarie per porre rimedio alla situazione di sovraffollamento delle carceri. In risposta a quanto intimatogli, il governo italiano emanava il decreto legge n. 146 del 2013 (il cosiddetto decreto "svuota-carceri"), successivamente convertito nella l. n. 10 del 2014, introducendo nell’ordinamento penitenziario nuovi rimedi preventivi e risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che avevano subito un trattamento in violazione dell’art. 3 della Cedu. In estrema sintesi, la rafforzata tutela si concretizza in due autonome azioni, disciplinate, rispettivamente, agli art. 35-bis e 35-ter dell’ordinamento penitenziario, che dovrebbero consentire al detenuto di essere sottratto con rapidità ad una situazione che genera la violazione del suo fondamentale diritto a non subire trattamenti inumani e al contempo di conseguire un ristoro per la violazione subita. La legge per il risarcimento quindi c’è ma, come denuncia la stessa avvocata Cianfanelli, non è facile ottenere i risarcimenti perché oltre alla durata irragionevole del processo, c’è anche la forte opposizione dell’avvocatura di Stato. Il procedimento era iniziato nel 2014 e l’accertamento della violazione è risultato farraginoso a causa della difficoltà di ottenere tutta la documentazione dal carcere e l’impossibilità di fare un sopralluogo. Inoltre l’avvocatura di Stato aveva chiesto che nel calcolo della soglia minima dello spazio vitale fosse conteggiato anche quello coperto dai letti. Ma non solo. Sempre l’avvocatura di Stato aveva aggiunto che, nel caso venisse riconosciuto l’indennizzo, tale somma doveva essere scalata dalle spese di mantenimento penitenziario e di giustizia. La giudice Ada Lucca di Genova non ha accolto entrambe le richieste e ha riconosciuto che l’indennizzo non deve essere compensato con nessuna altra spesa perché andrebbe in contraddizione con la ratio della legge. Nuoro: Poste italiane entra nel carcere di Badu e Carros con un progetto per i detenuti di Tito Siddi tentazionidellapenna.com, 14 ottobre 2016 È partito presso la Casa Circondariale di Badu e Carros il progetto formativo-culturale "Filatelia nelle carceri", una iniziativa promossa e sviluppata da Poste Italiane in collaborazione con i Ministeri della Giustizia e dello Sviluppo Economico, la Federazione fra le Società Filateliche Italiane e l’Unione Stampa Filatelica Italiana. Il progetto, ha un programma formativo di due ore settimanali, coinvolge 19 detenuti. Badu e Carros è il primo Istituto della regione Sardegna che ha aderito all’iniziativa coinvolgendo 19 partecipanti. La referente Filatelica di Poste Italiane di Nuoro e Cagliari Giovanna Strabone, con la piena collaborazione delle educatrici della Casa Circondariale, ha pianificato una serie di incontri settimanali di due ore nel corso dei quali illustra la storia del servizio postale e i primi rudimenti del collezionismo filatelico. Per facilitare e stimolare l’apprendimento della nuova disciplina, ad ogni studente è stata consegnata una guida realizzata da Poste Italiane e del materiale filatelico. Al momento gli allievi hanno sviluppato un tema scritto sull’argomento e stanno già iniziando a realizzare degli elaborati grafici. Al termine del progetto saranno presentate delle cartoline ed un annullo speciale. Entrambi i prodotti filatelici saranno realizzati utilizzando i lavori ritenuti più significativi prodotti dagli studenti. "Filatelia nelle carceri" si propone come progetto formativo di ampio respiro che, avvalendosi delle sostanziali caratteristiche di multidisciplinarità e interdipendenza tipiche della filatelia, consente agli studenti di sondare una varietà di aree di interesse collegate al francobollo come la storia, la geografia, l’arte, le Istituzioni, le diversità culturali, le tradizioni, i popoli, gli eventi celebrativi legati a personalità o avvenimenti storici che hanno segnato in modo rilevante la storia nazionale e internazionale. Espressione della società e della cultura di un paese, simbolo per eccellenza del collezionismo, al francobollo e alle sue peculiarità viene dunque affidato un ruolo decisivo ad alta valenza formativa: stimolare la curiosità e il desiderio di sottrarsi alla monotonia della vita carceraria, proporre spinte motivazionali per approfondire argomenti e tematiche di forte impatto culturale e soprattutto contribuire al processo di riabilitazione e reinserimento nella società dei detenuti, elementi fondanti e obiettivi dello stesso sistema carcerario italiano. L’idea di sviluppare un progetto educativo in carcere nasce nel 2010 su impulso di un gruppo di reclusi del Carcere di Bollate che, appassionati di francobolli, hanno dato autonomamente vita ad un circolo filatelico all’interno della struttura che li ospita. Grazie al supporto della Direzione dell’Istituto, di vari collezionisti italiani che, gratuitamente, hanno messo a disposizione materiale filatelico, nonché dell’Unione Stampa Filatelica Italiana, una ventina di detenuti - tutti a digiuno di filatelia - hanno sviluppato un percorso educativo attraverso i francobolli, realizzando anche una piccola ma significativa collezione esposta, nel marzo 2011, nell’ambito di Milanofil. Tale prima esperienza ha dimostrato che i detenuti, spinti inizialmente dalla curiosità e dal desiderio di sottrarsi alla monotonia della cella, hanno trovato nella Filatelia le giuste motivazioni per approfondire - divertendosi - argomenti e tematiche di forte impatto culturale, realizzando quella rieducazione che è alla base dello stesso sistema carcerario italiano. Parma: ampliamento carcere, Dall’Olio e Maestri (Pd) interrogano Comune e Ministero parmapress24.it, 14 ottobre 2016 Nicola Dall’Olio e Patrizia Maestri hanno presentato una interrogazione rispettivamente al Comune e il Ministero della Giustizia sulla precaria situazione del carcere di Parma: "Sono in corso i lavori di ampliamento del carcere di Parma che arriverà ad ospitare fino a 800 detenuti, facendolo diventare, in proporzione alla popolazione, il più importante dell’Emilia-Romagna. Crediamo che sia decisivo avviare una riflessione comune sul ruolo di questa struttura, anche per le sue ricadute sulla nostra città, senza dimenticare la carenza di organico denunciata più volte dalla polizia penitenziaria e il numero elevato di detenuti". "Chiediamo di sapere da dove arriveranno i nuovi detenuti e per quale tipologia di reati sono stati condannati e se si tratta di persone senza fissa dimora o meno, ma anche come si intende risolvere la carenza di agenti che ormai dura da anni e se il Comune ha intenzione di adeguare i programmi di reinserimento sociale e lavorativo visto l’incremento della popolazione carceraria e i relativi costi". Sull’ampliamento del carcere che ha iniziato i lavori lo scorso 15 settembre hanno in questi mesi a lungo protestato gli agenti penitenziari e Sinappe. La principale criticità denunciata è la carenza di organico e l’insicurezza che questo comporta per gli stessi agenti in primis. "Sappiamo che ci sono competenze diverse tra Comune e Governo, - continuano gli esponenti del Pd parmigiani - ma questo ampliamento va ad incidere direttamente su entrambi e abbiamo voluto agire su due fronti. Crediamo sia importante dare risposte concrete e trasparenti ai cittadini rispetto ad un tema su cui deve essere fatta piena informazione". Chiedono inoltre se si "stia o meno pianificando l’attivazione o l’adeguamento dei programmi di reinserimento sociale e lavorativo, tenendo conto del previsto incremento dei detenuti e quali sono i maggiori costi che si prevede di dover sostenere e dove queste risorse verranno reperite". "Nella maggior parte dei casi - commenta Dall’Olio - chi esce dal carcere si ferma sul territorio in cui ha scontato la pena, quindi l’aumento dei detenuti porta come conseguenza maggiori casi da affrontare per la città. Per questo una struttura penitenziaria di maggiori dimensioni, oltre a un’adeguata dotazione di personale di Polizia penitenziaria, deve prevedere un adeguato presidio sul territorio delle forze dell’ordine ma anche un sistema che permetta di gestire nel modo migliore chi ha finito di scontare la propria pena. Per questo vorrei sapere dall’amministrazione cosa intende fare e dove vuole reperire i fondi necessari". La deputata Patrizia Maestri chiede al ministro Orlando come intenda agire per la questione, mai risolta, della carenza di agenti: "Da tempo abbiamo sollevato questo problema e con l’ampliamento la situazione diventa sempre più critica: vorrei sapere se c’è in programma un adeguamento del personale in servizio visto che da tempo i rappresentanti degli agenti lamentano una situazione insostenibile. Con questo intervento il carcere di Parma, in rapporto al numero di residenti, diventa quello più popoloso e la cosa deve essere risolta in tempi brevi. Una struttura carceraria di queste dimensioni ha anche ricadute sulla città che la ospita, per questo credo che sia importante, come già detto in tante occasioni, che si prevedano maggiori investimenti per la sicurezza di Parma". Cuneo: dal carcere di Saluzzo una raccolta per i terremotati di Michelangelo Nasca La Stampa, 14 ottobre 2016 Un gesto di solidarietà dei detenuti e il loro desiderio di essere riconosciuti parte integrante della società. È ancora dalle periferie della nostra società che ci è possibile toccare con mano la solidarietà e la vicinanza offerta a coloro che si trovano a vivere in situazioni di estremo bisogno. I detenuti del carcere di Saluzzo hanno, infatti, operato una raccolta di denaro per aiutare le vittime del terremoto che ha recentemente colpito il centro Italia. 515 euro raccolti dagli ospiti delle due sezioni di alta sorveglianza, che nel carcere di Saluzzo stanno scontando la loro pena. "Spesso - dichiara Giorgio Borge, delegato carceri dell’interregionale Piemonte e Valle d’Aosta della Società di San Vincenzo de Paoli - la solidarietà mi è stata insegnata proprio dai carcerati che, nonostante tutto, hanno attenzioni particolari verso chi è meno fortunato nella vita". È nelle mani di Borge - da 26 anni vicino a tantissimi carcerati, ai quali dedica gran parte del suo tempo libero - che i detenuti di Saluzzo hanno consegnato la loro significativa offerta. In tanti altri casi - sottolinea Borge - "mi è capitato di vedere delle persone recluse che si occupano in modo ammirevole di altri detenuti economicamente in difficoltà, che non hanno nulla, magari provenienti dalla libertà e frastornati dall’impatto con il mondo della galera". Il gesto di solidarietà operato dai detenuti di Saluzzo diventa anche un invito a considerare la difficile condizione di chi è carcerato, e che vorrebbe in qualche modo essere riconosciuto parte integrante della società, bisognoso più di amicizia e attenzione umana che di ogni altra cosa, nel tentativo di rintracciare se stesso e un ruolo ripristinante nella società. Una prospettiva, questa, che motiva gli assistenti volontari penitenziari della San Vincenzo dè Paoli, presenti in quasi tutte le regioni italiane a sostegno dei detenuti. L’ultima delle iniziative promosse dalla Società di San Vincenzo De Paoli - in collaborazione con il Ministero della Giustizia, con il patrocinio di Camera e Senato - è stata la nona edizione del premio "Carlo Castelli", il concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane. Un evento che ha invitato alla riflessione e al confronto oltre cento carcerati, alcuni dei quali in regime di alta sicurezza, più di 150 volontari vincenziani, la stampa e le autorità. "Non è stata soltanto la solita premiazione di un bando di concorso - ha dichiarato Antonio Gianfico, presidente nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli - ma l’occasione per dare voce ai carcerati su un argomento tanto significativo come il perdono". Tra i relatori del convegno "La libertà del perdono" hanno partecipato: Giovanni Bachelet, che ha perdonato l’assassino del padre Vittorio Bachelet nel 1980; Caterina Chinnici, figlia del giudice Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia nel 1983; Maria Falcone, sorella di Giovanni Falcone, che ha trovato la morte nella strage di Capaci del 1992; Angelica Musy, moglie di Alberto Musy, ucciso a Torino nel 2012; Renato Balduzzi, membro laico del Csm e il giornalista Luigi Accattoli. Le opere finaliste - dei 166 elaborati, provenienti da ottanta istituti penitenziari - sono state raccolte in un volume dal titolo: "Il cuore ha sete di perdono". A ciascuno dei tre vincitori sono stati devoluti 1.000 euro per finanziare l’acquisto di attrezzature e materiale didattico di un’aula scolastica in India; 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di un giovane adulto dell’Ipm Malaspina di Palermo; 800 euro per l’adozione a distanza di una bambina del Kazakistan per 5 anni. Roma: Festa del cinema a Rebibbia, quattro appuntamenti speciali per la città primapaginanews.it, 14 ottobre 2016 L’Università Roma Tre - Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo invita a partecipare agli eventi della Festa del Cinema di Roma che si svolgeranno nell’Auditorium del Carcere di Rebibbia. Un’occasione unica per condividere con i detenuti quattro appuntamenti dedicati al grande cinema internazionale e, in prima assoluta, uno spettacolo in live streaming da un carcere proiettato sullo schermo della Festa del Cinema del Maxxi. Gli eventi sono gratuiti con prenotazione obbligatoria. L’iniziativa rientra nell’attività costante del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo di Roma Tre nelle carceri romane, frutto della convenzione tra l’ateneo, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria-Ministero della Giustizia e l’Istituto superiore degli Studi penitenziari firmata nel 2014, rinnovata e arricchita nel dicembre scorso. "Il teatro che si realizza negli istituti penitenziari ha conquistato una propria specifica identità riconosciuta da studiosi e critici teatrali", spiega Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo a Roma Tre, curatrice del progetto insieme ai professori Enrico Menduni e Gianni Celata. "È un teatro che si fonda sull’ascolto delle persone e dei luoghi in cui opera, proponendone i molteplici linguaggi e in grado di coltivare nei detenuti qualità artistiche e di comunicazione. L’attività teatrale nelle carceri si sta sempre più sviluppando. I dati rilevati da un recente studio della Direzione generale Detenuti e Trattamento mostrano che i laboratori teatrali sono presenti in tutto il territorio nazionale con una percentuale che supera il 50% degli Istituti e con una durata nel tempo superiore a dieci anni per il 33% dei laboratori stessi". Perché la Festa del Cinema a Rebibbia. Il tempo vuoto della pena va riempito di opportunità: istruzione, formazione, lavoro, arte e cultura. Nell’Auditorium di Rebibbia ogni anno, a migliaia, dai 15 anni in su, entrano liberamente per assistere agli spettacoli dei detenuti. Da quando le macchine da presa si sono affacciate sempre più spesso oltre le sbarre, i detenuti si sono appassionati anche al "dietro le quinte" di un’arte che di solito si conosce solo a cose fatte. Da qui il desiderio di vedere buone pellicole, incontrare i protagonisti, confrontarsi. Programma Domenica 16 ottobre ore 16:30: Max Steel - Regia Stewart Jendler. Dalla Sezione Alice Nella Città. Regno Unito/Stati Uniti / 2016. CAST Ben Winchell, Ana Villafañe, Andy Garcia, Josh Brener, Maria Bello (riservato ai detenuti e ai loro familiari) Lunedì 17 ore 16:30 - Sole, Cuore, Amore - Regia Daniele Vicari, con Isabella Ragonese, entrambi presenti all’Auditorium di Rebibbia Martedì 18 ore 20:30 - un grande film in uscita: Inferno - Regia Ron Howard Con Tom Hanks. Giovedì 20 ore 17 - Prima mondiale di Video-Teatro live streaming da un carcere. Dalla città dolente colpa, Pena, Liberazione attraverso le visioni dell’Inferno di Dante. Regia di Fabio Cavalli. Presenteranno la serata ed il collegamento in streaming con il Teatro di Rebibbia la regista e attrice Francesca D’Aloja, l’attore Massimo Ghini e il regista e critico cinematografico Mario Sesti. Al termine dell’evento, saluti live streaming fra i detenuti-attori e il pubblico del MAXXI. Tutti gli eventi sono ad ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria fino ad esaurimento posti. Venezia: con Giorgio Fontana evento letterario nel carcere femminile della Giudecca Ristretti Orizzonti, 14 ottobre 2016 Sabato 15 ottobre 2016 alle ore 17 si vedrà la definitiva realizzazione di un progetto su cui Closer sta lavorando da tempo: IAS - Interrogatorio Allo Scrittore. L’idea è semplice: IAS vuole offrire il primo evento letterario ospitato all’interno delle mura carcerarie condotto da persone in stato di detenzione. Per una volta, saranno le donne detenute a "interrogare". La scelta di definirlo "interrogatorio" è volutamente provocatoria: la serie di domande poste all’autore, ovviamente, si limiterà alla sua opera e attività letteraria. Il primo interrogato sarà Giorgio Fontana, scrittore e giornalista, vincitore del Premio Campiello 2014 con Morte di un uomo felice (Sellerio, 2014), e in attesa della pubblicazione a settembre di un nuovo romanzo per Sellerio, Un solo paradiso. Proprio dall’opera Morte di un uomo felice l’incontro muoverà i primi passi, nella stessa città che, due anni fa, ha giocato un ruolo decisivo nel percorso di Fontana. La cornice quest’anno non è il Teatro della Fenice, ma la Casa Circondariale - Casa di Reclusione Donne della Giudecca, Venezia. L’evento di ottobre è la seconda fase di un progetto concepito quasi un anno fa; la prima fase, inaugurata all’inizio dell’estate, ha visto svolgersi una serie di incontri tra un gruppo selezionato di persone detenute e i ragazzi di Closer. È stata un’occasione per incanalare la creatività dei soggetti ristretti illuminando insieme le tematiche care a Fontana, tematiche affrontate nella sua prosa e negli articoli. Le persone interessate a partecipare all’evento hanno dovuto iscriversi inviando a Closer entro il 25 settembre i dati personali in modo da poter consentire le autorità competenti di autorizzare il loro accesso in istituto. Ogni persona inoltre ha sostenuto il progetto versando una donazione a Closer attraverso la piattaforma Produzioni dal Basso, un contributo che insieme a quello degli altri Closer utilizzerà per migliorare gli spazi ricreativi/culturali del carcere e creare altri eventi del genere. Closer è riuscita a raccogliere circa 800 euro e ha ricevuto la richiesta di partecipazione da 70 persone. In conclusione, per quanto riguarda le persone detenute coinvolte il fine ultimo del progetto è l’acquisizione di un forte senso di responsabilità e della consapevolezza della propria individualità davanti all’altro; per quanto riguarda le persone libere, il risultato sperato è un netto ridimensionamento dei pregiudizi riguardo la realtà carceraria attraverso la responsabilizzazione insita nella partecipazione. I 70 partecipanti potranno finalmente sentire loro uno spazio cittadino che normalmente rimane nascosto e chiuso. Closer è un’associazione culturale no-profit impegnata a creare un laboratorio culturale permanente contro ogni forma di esclusione e marginalizzazione. Roma: #FootballPeople. Atletico Diritti e Fare Network contro discriminazione nel calcio Ristretti Orizzonti, 14 ottobre 2016 Lunedì 17 ottobre alle 11.30 presso la sala stampa della Camera dei Deputati le associazioni Antigone, Progetto Diritti e la polisportiva Atletico Diritti presenteranno un dossier circostanziato sulle discriminazioni nei confronti degli immigrati nel calcio, sia a livello di scuole calcio che di sport agonistico. Verranno preannunciate azioni di contenzioso strategico su questo tema. L’occasione della conferenza stampa sono le due settimane d’azione #FootballPeople, promosse dal network Fare, al fine di costituire un fronte unitario contro tutte quelle barriere che escludono le persone e le comunità. Tra il 6 e il 20 ottobre, gruppi amatoriali, squadre di calcio professioniste e migliaia di altri sui social media, celebreranno il potere del calcio nella lotta contro le discriminazioni e organizzeranno una serie di attività, tra cui partite dedicate, workshop educativi, tornei di calcio e molto altro, per promuovere e diffondere l’inclusione sociale. Le settimane d’azione Football People sono un momento per tutti quelli coinvolti nel calcio per schierarsi insieme per lo stesso obiettivo: portare avanti un cambiamento positivo attraverso il calcio. "Queste settimane sono ormai la più grande attività di cambiamento sociale nello sport e siano contenti di contare su Antigone, Progetto Diritti e Atletico Diritti, per aiutarci a portare ancora più lontano il messaggio e festeggiare con noi" ha detto Piara Powar, Direttore Esecutivo di Fare. Nel 2016, più di 2.000 attività sono state organizzate in più di 60 paesi. Con più di 100.000 persone direttamente coinvolte. "Anche nella nostra attività agonistica quotidiana - dichiara Susanna Marietti - ci siamo scontrati con le troppe discriminazioni che investono i ragazzi immigrati nel mondo dello sport. Perciò abbiamo deciso di partecipare con convinzione, con migliaia di altre realtà in giro per l’Europa, alla Football people action week promossa da Fare". Alla conferenza stampa parteciperanno: Susanna Marietti - coordinatrice nazionale Antigone, presidente Atletico Diritti; Carolina Antonucci - dirigente Atletico Diritti; Alessandra Camporota - capo dell’ufficio di Gabinetto Dipartimento libertà civili e immigrazione Ministero dell’Interno; Luigi Manconi - presidente Commissione diritti umani del Senato; Paolo Beni - Deputato; Giulio Marcon - Deputato; Alessandro Marinelli - Regista. Verrà inoltre mostrato un breve estratto da "Frammenti di Libertà", il film che il regista Alessandro Marinelli ha girato sull’esperienza dell’Atletico Diritti. Andrea Oleandri Ufficio Stampa Associazione Antigone Radicalizzarsi in carcere: l’Europa è una fucina di islamisti di Andrea Spinelli Barrile ibtimes.com, 14 ottobre 2016 Lo stato d’emergenza in vigore in Francia dagli attentati del 13 novembre 2015 ha concesso ampi poteri alle forze dell’ordine e alla magistratura per sorvegliare, e soprattutto fermare e arrestare, persone sospettate di essere "pericolose" per la sicurezza nazionale: questo sta velocemente portando al collasso le carceri transalpine, che già alla fine del 2014 scoppiavano letteralmente di detenuti e dove il rischio radicalizzazione è altissimo. In un rapporto del 22 dicembre 2014 della Direzione dell’amministrazione penitenziaria francese si leggeva che i 67.105 detenuti nelle carceri di Francia erano stipati in appena 57.854 posti disponibili in 188 strutture, affollati soprattutto nelle Maison d’arret, galere pensate per chi deve scontare pene brevi e dove spesso ci si contende in 4 appena 7 metri quadri di spazio. Oggi i detenuti sono circa 82.000 per lo stesso numero di posti, un sovraffollamento tale che il governo francese costruirà dalle 10.000 alle 16.000 celle singole entro gennaio 2025, in ottemperanza a una legge del 1875 che ne sancisce l’obbligo. Lo stato d’emergenza ha portato in carcere centinaia di persone sospettate di essere pericolose per la sicurezza nazionale francese, accusate a vario titolo di essere coinvolte in attività terroristiche o di fiancheggiare sospetti terroristi: il tutto in barba allo stato di diritto, baluardo dei valori dell’occidente che si vorrebbero esportare. O almeno tutelare. Secondo quanto rivelato i primi di settembre dal primo ministro francese Manuel Valls 15.000 persone sono attualmente monitorate perché sospettate di essere islamisti radicali e attualmente i detenuti di religione musulmana sono tra il 60 e il 70 per cento del totale della popolazione carceraria francese. Nel 2014 fecero scandalo le foto che un ex-detenuto a Baumettes, carcere a pochi chilometri da Marsiglia, pubblicò sulla sua pagina Facebook: scattate dai detenuti, queste li ritraevano mentre fumavano marijuana, giocavano a poker fumando sigari cubani e mettendo in bella mostra mazzette di banconote e cellulari. Una situazione generale che non è cambiata di molto: diversi rapporti, sia dell’amministrazione penitenziaria che di diverse associazioni che nelle carceri ci lavorano, riferiscono di continue rivolte nelle prigioni d’oltralpe. I primi di settembre 10 detenuti musulmani radicali sono stati trasferiti dal carcere di massima sicurezza di Fleury-Merogis, la più grande prigione del continente appena fuori Parigi, in altre strutture per timori di una rivolta. In un’altra struttura (della quale non sono stati rivelati dettagli) un detenuto è stato sorpreso con alcune armi rudimentali all’interno della sua cella e due guardie carcerarie sono state accoltellate all’inizio di settembre da un detenuto, radicalizzatosi in carcere, al grido di "Allah akhbar": il detenuto, Bilal Taghi, ha colpito una guardia alla schiena e un’altra alla gola, disegnando infine un cuore sul muro con il sangue delle sue vittime e mettendosi scenograficamente a pregare. Quest’ultimo episodio ha convinto il ministro della giustizia francese Jean-Jacques Urvoas ad adottare nuove misure di sicurezza, accelerando la creazione di sezioni speciali di "de-radicalizzazione" all’interno delle strutture penitenziarie, un esperimento pilota inedito in Europa: qui le autorità hanno il compito di rompere il senso di auto-isolamento dei detenuti radicalizzati cercando di sganciare loro dalla violenza interna al carcere. "Danbury non era una prigione, era una scuola di crimine. Io entrai con un diploma in marijuana e ne uscii con un dottorato in cocaina" recita Jonny Depp nel film Blow, impersonando l’ex-trafficante di droga americano George Jung. Una battuta che vale ancora oggi, anzi forse oggi più che mai, in tutte le democrazie del mondo incapaci di dotarsi e di gestire un sistema penale rieducativo nel pieno senso della parola. Nel 2011 Mohamed Merah fu arrestato per furto e quando entrò in prigione "era solo un bambino che batteva i pugni contro la porta della sua cella e urlava per avere la PlayStation". L’anno dopo, uscito dal carcere, uccise sette persone a Tolosa in nome del suo Dio: in carcere Merah si era radicalizzato. In Germania è emblematico il caso di Harry S., a processo ad Amburgo perché accusato di essere un membro del gruppo Stato Islamico: secondo quanto rivelato dal Die Welt Harry, 27 anni, era un criminale comune che in carcere a Brema ha stretto contatti con esponenti salafiti che gli offrirono diversi comfort nelle prime settimane di detenzione e tanta amicizia. Come ha spiegato l’imam di Amburgo Fejzulahi gli islamisti usano debolezze e disperazione, frustrazione e ignoranza per spingere la loro teologia come se fosse una droga, in una visione del mondo semplificata e divisa tra "fratelli" e "infedeli": molti foreign fighters partiti dall’Europa verso la Siria si sono radicalizzati in carcere, dove hanno maturato la convinzione che l’alternativa al furto e allo spaccio fosse il Califfato. Oggi Harry è un collaboratore di giustizia ma per sua stessa ammissione "sono stati gli eventi" a convincerlo a collaborare e non le autorità tedesche, che raccolgono come manna dal cielo la sua confessione e la disponibilità di questi a lavorare per arginare la marea di radicalizzazione nelle carceri tedesche. Nel Regno Unito alcuni detenuti radicalizzati estorcevano un vero e proprio pizzo ai detenuti non credenti a meno che questi non si fossero convertiti: un’estorsione simile alla jizya, la tassa che ebrei e cristiani pagano nei territori sotto il controllo del gruppo Stato Islamico. La scelta delle sezioni di de-radicalizzazione "è buona" secondo il segretario generale del sindacato nazionale di Polizia Penitenziaria francese "ma non è ciò che accade nelle carceri" dove i detenuti vengono semplicemente messi in isolamento. Le prigioni francesi sono dei barili di polvere da sparo pronti ad esplodere ed è così da anni: Amedy Coulibaly e Cherif Kouachi, responsabili dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, si sono conosciuti nel carcere di Fleury-Merogis, dove si sono entrambi avvicinati all’Islam grazie alle lezioni di Djamel Beghal, reclutatore di al-Qaeda che stava scontando 10 anni. In quello stesso carcere oggi è detenuto in isolamento Salah Abdeslam, l’unico sospettato superstite per gli attentati di Parigi dello scorso novembre. Secondo quanto raccontato da una guardia carceraria al Wall Street Journal Abdeslam è stato accolto da molti detenuti come "un messia", altro che fischi pubblicizzati sui giornali; anche Adel Kermiche, 19 anni, che ha partecipato all’attacco alla chiesa di Saint-Ètienne-du-Rouvray in Normandia, era stato detenuto a Fleury-Merogis, dove egli stesso affermava di avere incontrato la sua "guida spirituale". Oggi l’obiettivo del ministro Urvoas sembra essere, più che la de-radicalizzazione dei soggetti, quella di impedire contatti tra la popolazione carceraria "a rischio", isolandola, e gli altri detenuti. Restringendo insomma i detenuti radicalizzati in una condizione ancor più reazionaria e isolata, cosa che secondo molti non fa altro che incattivirli ulteriormente: questa è la ricetta per la sicurezza della sinistra francese. La destra invece propone, se possibile, qualcosa di peggio: sia l’ex-presidente Nicolas Sarkozy che gli esponenti del Front National hanno infatti proposto la creazione di tribunali speciali e strutture di detenzione apposite per i sospettati di terrorismo e per i detenuti radicalizzati, una proposta che ha il sapore di una Guantánamo francese, con tutte le conseguenze che la storia del carcere militare americano dovrebbe insegnare. In Belgio la situazione non è poi molto migliore, tanto che sovente capita che detenuti musulmani radicali in Belgio vengano trasferiti senza grosse trafile in carceri francesi, e viceversa. Il caso francese è emblematico per descrivere cosa non bisogna fare nella lotta preventiva ai potenziali attentatori che vivono in Europa: sia in Francia che in Belgio, lo dicono diversi rapporti di agenzie governative, fino alla fine del 2015 i detenuti radicalizzati rappresentavano una sorta di "aristocrazia carceraria", un po’ come i narcotrafficanti nelle carceri colombiane o come è stato per anni per i boss mafiosi in Italia. Spesso la cartina tornasole per capire che qualcosa non va non sono i detenuti ma le loro mogli, quando cominciano ad indossare l’hijab nelle visite coniugali. In Italia la situazione è altrettanto delicata, anche se non critica come in Francia: a gennaio l’amministrazione penitenziaria del carcere di Bolzano ha disposto la chiusura della sala dotata di linea ADSL e computer, utilizzati da alcuni detenuti per collegarsi a siti ed account social inneggianti allo Stato Islamico e al Califfo, un fatto segnalato anche alla procura bolzanina che ha aperto un’inchiesta. A Rossano Calabro, riferisce Vice News, alcuni detenuti esultarono quando seppero degli attentati di Parigi dello scorso novembre e anche il Ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva descritto le carceri, nel gennaio scorso, come "dei luoghi in cui si può strutturare una visione estremista dell’Islam, con capacità di proselitismo" spiegando che il fenomeno della radicalizzazione "ha come focolaio gli istituti penitenziari". I rischi sono noti almeno dal 2010, quando il sociologo Mohammed Khalid Rhazzali ha pubblicato il saggio "L’Islam in carcere. L’esperienza religiosa dei giovani musulmani nelle prigioni italiane" (edizioni Franco Angeli) un testo che è valido ancora oggi e che dovrebbe essere sulla scrivania di tutti i dirigenti ministeriali e delle amministrazioni penitenziarie d’Europa. Anche in Italia è stata paventata la soluzione dell’isolazionismo coatto e preventivo: Donato Capece, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, ha proposto di riaprire il supercarcere dell’Asinara che non ha impedito a suo tempo a boss mafiosi come Raffaele Cutolo e Totò Riina di scalare le gerarchie del potere mafioso, a Palermo come a Napoli. La proposta di Capece piacque molto alla Lega Nord e, in generale, alla destra italiana, che su questo tema è perfettamente allineata con la posizione della destra francese e belga. In realtà, almeno in Italia, è noto da almeno 10 anni che le carceri sono luogo di indottrinamento e reclutamento di nuove leve islamiste da parte dei veterani ma la situazione non è tanto critica come altrove: secondo l’Associazione Antigone i detenuti di fede musulmana (tutti i detenuti di fede musulmana) sono poco più di 6.000, gli osservati speciali sono "circa 200" secondo il DAP (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria) e quelli accusati di terrorismo internazionale erano 21 circa un anno fa, tutti detenuti a Rossano Calabro. "La reazione più efficace nei confronti della minaccia del proselitismo estremista nelle carceri potrà avvenire soprattutto in collaborazione con le comunità musulmane d’Italia, se queste verranno sostenute nel loro tentativo di dare vita un islam effettivamente italiano, alternativo all’identificazione di questa religione con una scelta fondata su di un’autorappresentazione identitaria chiusa e risentita" ha dichiarato Rhazzali a Vice News. Il terrorismo e le parole giuste di Alberto Melloni La Repubblica, 14 ottobre 2016 Siamo vulnerabili davanti ai terroristi che vogliono uccidere/uccidersi anche perché usiamo categorie approssimative e ambivalenti. Come quelle di "jihadismo" e "radicalizzazione", che spiccano nel titolo di un disegno di legge di cui si sta discutendo nella Commissione I della Camera. Che il terrorismo islamista abbia sequestrato la parola "jihad", che vuol dire "sforzo ascetico" è un sopruso: ma a molti sembra la cosa più comoda. Chiamare "radicali" gli assassini - il paese di Marco Pannella lo capisce subito - è un regalo che si fa ai terroristi: ma ormai questo è gergo politico europeo e nazionale. Lo dimostra la "Policy Review" sull’estremismo violento presentata a Bruxelles pochi giorni fa ( in cui la ricerca italiana, priva da mesi di un proprio attaché scientifico presso l’Unione, è stata gentilmente invitata ad ascoltare): il documento, dovuto ad un grande specialista come Gilles Kepel, propone quattro soluzioni tutte fondate sulla ricerca; ma assume che la "radicalizzazione" sia un percorso auto-evidente di passaggio all’estremismo violento. Su scala nazionale lo conferma il citato disegno di legge sulla "prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista": una proposta che mescola ambizioni securitarie (con insegnanti elevati al rango di controllori), utopie sull’educazione interculturale ( con compiti affidati a personale che non si capisce chi formi e dove), e ipotesi di allargare il mercato del dialogo (con la richiesta di produrre "controlli" e "contro-narrative"). Chi pensa che un linguaggio mordace e di controllo possa impedire il reclutamento di terroristi coltiva tre illusioni. La prima illusione riguarda la posizione delle più antiche comunità di fede. Strumenti invasivi di scrutinio religioso sono inaccettabili all’ebraismo, che sa bene che i congegni anti-islamici fecondano l’antisemitismo. E il cattolicesimo romano non potrà accettare in Italia un sistema di controlli che altrove nel mondo gli potrà essere usato contro. La lotta al terrorismo va fatta chiamandolo così: senza concedere patenti religiose a giovani sanguinari assetati di adrenalina, e senza illudersi che ci siano strumenti diversi dalla intelligenza repressiva e senza cedere al sospetto preventivo. La seconda illusione è che la predicazione repubblicana possa proteggere le comunità di fede e oggi la comunità islamica dalla aggressione di terroristi: chi loda l’imposizione dell’inno nazionale cantato da tutti in Francia - con i solchi abbeverati dal "sangue impuro" della Marsigliese - come profilassi "anti-radicale" compie una pericolosa semplificazione. Il jihadismo (in questo ha ragione Kepel) non vuole né "distruggerci" né "sottometterci": gli basta che noi perdiamo il desiderio di essere una società aperta e pluralista. Sogna che accettiamo forme di repressione più o meno sottile, utili ad aggregare ad una "avanguardia" sanguinaria le masse sunnite in una insurrezione generale che ridia unità e dignità politica a terre usate come poligono di tiro dalle aviazioni di mezzo mondo. E a questa sfida noi dobbiamo rispondere pretendendo parole rigorose, pensieri attenti evitino di farci fare ciò che il terrorismo vorrebbe farci fare: e con due "racconti". Il primo riguarda la storia di cristiani ed ex cristiani di questa Europa. Essi hanno smesso di uccidersi per un credo di Stato o per l’ateismo di Stato quando due processi si sono incontrati: quello che ha portato il pensiero critico a ripensare il potere pubblico e la sua funzione; uno che ha portato i cristiani a ripensare la chiesa, con quel movimento ecumenico che ha insegnato a desiderare che la chiesa come luogo delle diversità riconciliate. A Bruxelles si sta pensando a un Museo della storia europea (che speriamo gemmi musei nazionali e musei virtuali circolanti): e, pena la sua irrilevanza, dovrà chiedere ai grandi intellettuali chiamati a pensalo come raccontare questa parte di storia. Il secondo riguarda proprio l’Islam: i 15 milioni di musulmani europei, destinati a crescere per i normali flussi demografici, hanno diritto di sapere che la loro fede non è quel che credono di saperne piccole gang di dissoluti depressi, nutriti a wikicorano dal web, ma la grande tradizione di filosofie e di scienza. E qui l’Italia - a partire da Palermo, la capitale fredericiana di un mondo mai nato - avrebbe qualcosa di suo da fare: un museo dell’arte e della storia della scienza islamica, certo; ma anche un dipartimento di scienze dell’Islam dove si studi la storia della scienza, la filosofia della scienza e l’algebra, come perle e orgoglio di una civilizzazione che ha dato all’Occidente molto di ciò che è, e che può ancora dare alla pace che non sappiamo neppure desiderare. Stoltenberg (Nato): "Anche gli italiani schierati al confine con la Russia" di Marco Zatterin La Stampa, 14 ottobre 2016 Nel 2018 un contingente di soldati italiani sarà inviato al confine europeo con la Russia. "Sarete parte di uno dei quattro battaglioni dell’Alleanza schierati nei Paesi baltici", precisa Jens Stoltenberg, da due anni segretario della Nato. Pochi uomini, presenza "simbolica" in una forza "simbolica" da quattromila unità. Tuttavia, serve a dimostrare che "ci siamo e siamo uniti", che "abbiamo una difesa forte che garantisce la deterrenza", mentre "vogliamo tenere aperto il dialogo" col Cremlino. Non solo. "Sempre nel 2018 - aggiunge il norvegese - l’Italia sarà nazione guida nel Vjtf", la Task Force di azione ultrarapida, la "punta di lancia" in grado di intervenire in cinque giorni in caso di emergenza. Schierata, e non è un caso, sulla frontiera Est. Davanti a Putin che, ammette l’ex premier di Oslo, "ha dimostrato la volontà di usare la forza militare contro i vicini". Visita romana ricca di incontri per Stoltenberg. Passaggio al Defence College, colloqui col Papa, col presidente Mattarella e coi ministri del governo Renzi. Bagno serale fra le stellette a Palazzo Brancaccio. Dove, per nulla distratto dai ricchi stucchi della residenza un tempo patrizia, il norvegese ha fatto il punto con "La Stampa" sulle tante minacce che ci circondano. Tranquillo e convinto, almeno nei limiti del possibile. C’è una escalation tesa fra Russia e Alleanza. I rapporti fra Washington e Mosca sono ai minimi. È una nuova Guerra fredda? "Non siamo nella Guerra fredda, ma non c’è nemmeno il partenariato a cui lavoriamo da anni. Attraversiamo un territorio nuovo, è un sistema di relazioni con Mosca mai visto sinora". Come lo affrontate? "La Nato deve essere in grado di adattarsi e rispondere alle sfide. Il messaggio è "Difesa e dialogo". Non "Difesa o dialogo". Sinché la Nato si dimostra ferma e prevedibile nelle sue azioni sarà possibile impegnarsi in contatti concreti con la Russia, che è il nostro vicino più importante. Non possiamo in alcun modo isolarla, non dobbiamo nemmeno provarci. Ma dobbiamo ribadire con chiarezza che la nostra missione è proteggere tutti gli alleati. Che serve una forte Alleanza non per provocare una guerra, ma per prevenirla. La chiave è la deterrenza, un concetto che si è dimostrato valido per quasi settant’anni". Si sente pronunciare sempre più spesso la parola "guerra". "La responsabilità della Nato è prevenirla. Conservare la pace. Per questo anche il linguaggio è importante e io non farò nulla per aumentare le tensioni. Anche perché non vedo minacce imminenti per gli alleati. Ce n’è una terroristica, ma non militare". La Russia testa i suoi missili. È successo con gli Iskander a Kaliningrad poche ore fa. Solo "business as usual"? "Fa parte del loro modo di comportarsi. Hanno investito pesantemente nella Difesa. Hanno triplicato la spesa in termini reali dal Duemila, mentre gli alleati europei della Nato la tagliavano. Hanno modernizzato l’esercito. Hanno dimostrato di essere disposti a usare la forza. Questo è il motivo per cui la Nato ha reagito. Si è adattata a un contesto nuovo e più insidioso". Con le nuove forze e basi alla frontiera orientale? "Abbiamo triplicato la dimensione della forza di risposta rapida, con otto quartieri generali nell’Europa centro-orientale. Ci sono i quattro battaglioni nelle repubbliche baltiche. Sono difensivi e proporzionati. Però dicono che la Nato c’è e che la risposta, certo limitata rispetto alle divisioni russe, è multinazionale". Cosa vuole Putin? "Non voglio speculare troppo sulle sue ragioni. Vedo però cosa fa la Russia. Da anni cerca di ricostruire un sistema basato sulle sfere di influenza in cui le grandi potenze controllano i vicini, per limitarne sovranità e indipendenza. È il vecchio sistema, il sistema di Yalta in cui le potenze si spartivano l’Europa. Non lo vogliamo. Nessuno può violare la sovranità dei singoli Paesi". Mosca dice che, crescendo, minacciate la loro sovranità? "Sbagliato. È una scelta libera e democratica di Stati sovrani quella di unirsi alla Nato". Però si rischia grosso, no? "Dobbiamo essere forti, calmi, uniti e determinati. È così che si prevengono i conflitti. La Nato deve rafforzare la Difesa e fare il possibile per avere una relazione di maggiore cooperazione con la Russia". C’è un problema anche in Siria. Putin bombarda i convogli umanitari e minaccia le forze francesi e americane. "La risposta è evitare di aumentare le tensioni. Essere fermi, ma affermare che non vogliamo alcuno scontro". E la Turchia? "È un valido alleato. Importante per la Nato e l’Europa". Anche se Putin e Erdogan sono sempre più vicini. "Incoraggio il dialogo politico sempre e l’ho fatto anche dopo l’incidente dell’aereo abbattuto. Non è nell’interesse di nessuno che fra i due Paesi ci siano delle tensioni". La Nato auspica che gli alleati spendano il 2% del Pil per la Difesa. È il momento di alzare la voce? "Non piace a nessuno aumentare le spese militari. Quando ero ministro delle Finanze negli Anni Novanta le ho tagliate. Ma era un altro tempo. Ora non si può. Bisogna aumentare la spesa. Non perché ci piace, ma perché una Difesa forte previene i conflitti". Lo chiede anche all’Italia? "Apprezzo pienamente l’ottimo contributo dell’Italia all’Alleanza. È in Afghanistan come in Kosovo. Ospita molte installazioni, a partire dal comando di Napoli. Presto arriverà la sorveglianza del territorio con aerei e droni, a Sigonella. Nel 2018 sarete nella "punta di lancia" e nei battaglioni baltici". E i soldi? "Nel 2016 per la prima volta da tempo ha aumentato la spesa per la Difesa. Tutti devono tendere al 2%. L’obiettivo resta". Veniamo al Mediterraneo. Che programmi avete? "Ho discusso con l’Alto rappresentante Federica Mogherini e prepariamo un sostegno maggiore all’operazione Sophia per il controllo delle acque internazionali. Siamo pronti ad aiutare la formazione della guardia costiera e del personale della Difesa libica, se richiesti. La nostra operazione marittima "Sea Guardian" unirà i proprio sforzi a quelli di Sophia. Stiamo discutendo le modalità. Nato e Ue lavorano bene insieme". Profughi nelle caserme, tra proteste e blocchi per impedire l’accoglienza di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 14 ottobre 2016 I centri sono ormai al collasso. La mappa della crisi va da Nord a Sud. Massima allerta in Veneto. I fondi chiesti dal Viminale sono bloccati. La situazione ormai è al collasso. I centri di accoglienza per i migranti sono ormai ben oltre la capienza, in numerose regioni ci sono proteste per evitare che gli stranieri vengano accolti, tanto che molti di loro sono stati sistemati nelle caserme. E numerose organizzazioni e associazioni umanitarie che gestiscono le strutture - ancora in attesa di ottenere il pagamento dei servizi da aprile scorso - hanno già fatto sapere di non essere più in grado di garantire l’accoglienza. La mappa della crisi va da Nord a Sud, con la Sicilia che continua a garantire il primo ingresso e dunque i controlli imposti dall’Unione Europea per la fotosegnalazione di chi sbarca e i prefetti che ormai quotidianamente segnalano la grave emergenza. Nuovo record di sbarchi - A dare la dimensione di quanto sta accadendo sono i numeri, ma soprattutto le zone dove più alta è la tensione. Perché siamo quasi alla quota record del 2014 quando - dati aggiornati al 13 ottobre - si raggiunse il numero di 146.953 arrivi. E ben oltre la cifra dello stesso giorno dell’anno scorso quando il numero era di 137.333 persone. Ieri risultavano approdati sulle coste italiane 144.950 migranti (con un incremento pari al 5,55 rispetto al 2015), ben 164.921 sono quelli accolti nelle strutture governative e in quelle temporanee. A loro si aggiungono quasi 20 mila minori non accompagnati. Persone che rimangono mesi in attesa di sapere se hanno diritto allo status di rifugiati e intanto devono essere assistiti. Caserme e proteste - In Veneto c’è una situazione di massima allerta con 700 migranti trasferiti nella caserma di Conetta di Cona, in provincia di Venezia, e proteste di fronte alla struttura militare di Abano Terme per impedire che lì vengano portati altri stranieri. A Bagnoli di Sopra siamo oltre quota mille, mentre inizialmente si pensava a un massimo di 200 posti. In Puglia tutti i centri accolgono il doppio delle persone. Solo per fare un esempio a Bari, dove dovrebbero trovare posto 800 profughi, ce ne sono 1.500. A Mineo si è andati oltre la soglia dei 3.000. Due giorni fa nella struttura di Monastir, in provincia di Cagliari, c’è stato un attentato che ha mandato in tilt la rete elettrica della ex scuola di Polizia penitenziaria dove sono in corso lavori di ristrutturazione proprio per trasformarla in un centro di accoglienza. Niente soldi erogati - I 600 milioni che il Viminale chiede da mesi sarebbero stati trovati, ma dal ministero dell’Economia fanno sapere che soltanto Palazzo Chigi può autorizzare lo sblocco dei finanziamenti. Una situazione di stallo che può avere conseguenze gravissime, visto che molte strutture hanno già comunicato di dover far andar via i richiedenti asilo perché non hanno più i fondi per garantire il cibo e i servizi minimi per la sopravvivenza. Ma anche perché non sono più in grado di pagare gli stipendi di dipendenti e operatori esterni che comunque devono provvedere a numerose incombenze previste dalla legge. Una situazione già denunciata dieci giorni fa dal presidente di Confcooperative Giuseppe Guerini. E confermata nella comunicazione del ministero dell’Interno all’Economia dove si parlava di rischi per l’ordine pubblico proprio con riferimento alla possibilità che le strutture private fossero costrette a "liberare" gli stranieri. Non ci sono documenti ufficiali, ma le stime parlano di almeno 20 mila profughi che potrebbero uscire dai centri. Gli accordi violati - La scelta dell’Italia di alzare i toni dell’attacco nei confronti dell’Unione Europea trova conforto nei dati. Nessuno si era illuso che l’agenda messa a punto dal presidente della commissione Jean-Claude Juncker potesse essere rispettata. Ma certo non si poteva prevedere che il fallimento fosse tanto clamoroso. E invece, rispetto alla previsione di redistribuire 40 mila profughi giunti in Italia e Grecia in tutti gli Stati della Ue in un massimo di due anni, sei mesi dopo il via libera all’accordo le cifre appaiono ridicole. Sono soltanto 1.318 le persone trasferite: tra loro 1.230 adulti e 88 bambini. Nonostante la promessa di collaborazione, la Germania ne ha presi soltanto 20, 50 la Spagna, 231 la Francia. Poco sopra la soglia è andata la Finlandia con 322 persone accettate, il Portogallo con 183, l’Olanda con 226. Da Villa Literno a Mondragone, nell’inferno dei caporali di Antonio Sciotto il manifesto, 14 ottobre 2016 Tra le dosi di cocaina e i cumuli di spazzatura ogni mattina i furgoncini caricano i braccianti bulgari per la raccolta nei campi. La Flai Cgil cerca di ristabilire diritti e legalità. L’omaggio alla tomba di Jerry Masslo. "Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato e allora ci si accorgerà che esistiamo". Jerry Masslo scriveva queste parole nel 1989, lo stesso anno in cui in effetti fu ucciso a colpi di pistola da una banda di criminali che aveva fatto irruzione nella sua baracca per rubare a lui e agli altri braccianti il provento di durissime giornate nei campi. Ieri queste stesse parole sono risuonate a Villa Literno, davanti alla sua tomba, lette da una ragazzina delle scuole medie. Con le segretarie di Cgil e Flai, Susanna Camusso e Ivana Galli, il sindaco della cittadina campana, la console del Sudafrica (paese di provenienza di Masslo), una piccola folla ha reso omaggio a lui e ai tanti immigrati che pagano le nostre pensioni, abbassano fino al paradosso i prezzi dei nostri pomodori, preparano anche per noi un’Italia diversa e multicolore. La giornata era cominciata alle 5, all’alba, con tre pullman del sindacato di strada diretti da Castel Volturno verso tre piazze del caporalato: Villa Literno, Mondragone e Pescopagano. A Mondragone l’inferno è reale oltre le rappresentazioni più fantasiose, e lì ti rendi conto che Gomorra è soltanto una serie tv: banchetti con le dosi di cocaina sfacciatamente esposti agli angoli dei palazzoni, vicino alla piazza principale. I balconi scrostati, la lunga serie di panni appesi alle finestre, e un esercito di braccianti bulgari - almeno mille nella zona, ma arrivano fino a duemila in alta stagione - che pur vivendo qui da qualche anno non parla una parola di italiano. Tra i bidoni dell’immondizia dove rovistano i cani randagi e i furgoni dei caporali che fin dalle 5,30 sfrecciano tra le strade, rischi di sentirti un alieno perché la parola Stato qui è un nonsenso: ma d’altronde, tutti sappiamo benissimo che anche questa è l’Italia. I sindacalisti della Flai avvicinano i braccianti - tante sono donne, con un fazzoletto in testa o una sorta di vestito tradizionale bulgaro - distribuiscono volantini scritti nella loro lingua, un berretto con il logo del sindacato e un k-way per ripararsi da vento e pioggia. Riusciamo a parlare con qualcuna di queste lavoratrici grazie alla mediazione di Valentina Vasylionova, del sindacato di Sofia, invitata dalla Cgil. "Sì, grazie, se avremo bisogno verremo al sindacato". Ma più che al volantino, le braccianti sembrano interessate al berretto, alla t-shirt e al k-way, che vanno a ruba: anche perché in campagna tutto quel che copre può essere prezioso. Raccontano di essere qui con i loro mariti, ma alcune sono venute da sole, e i loro bimbi sono rimasti in Bulgaria. Mandano i soldi, ci pensano i nonni a crescerli. Intanto a Mondragone c’è da saldare l’affitto di quei palazzoni, il cibo per tirare la giornata, e poi, certo, si devono pagare anche i caporali. Che dai loro furgoncini sorridono, prendono anche loro il berrettino della Cgil, mostrano il volto buono: ma quando si richiudono i portelloni, e le donne ci salutano sorridenti come bambine, probabilmente il discorso cambia. Il sindacato diventa un nemico - "non ci andate da loro" - ci riferisce un altro lavoratore accennando qualche parola in italiano. Grazie alla fiducia dischiusa da Valentina, visto che parla la loro lingua, finalmente però un piccolo spiraglio si è aperto: una quindicina di lavoratori e lavoratrici bulgare ha deciso che mercoledì prossimo andrà alla Flai, per una riunione con il segretario Igor Prata. "Con i bulgari - ci spiega Prata - la comunicazione è più complicata, sono una comunità piuttosto chiusa. Diverso è con i rumeni, gli ucraini, gli africani del Maghreb che pure lavorano qui. Siamo contenti che si sia creato questo filo: intanto basta aiutarli anche solo per i documenti, o per piccoli bisogni, più avanti magari si può pensare a delle vertenze". Anche perché le campagne del casertano riproducono le condizioni di tante altre parti d’Italia: 25-30 euro al giorno per 12-14 ore di lavoro, 5 dei quali vanno al caporale, poche pause e ritmi bestiali, salute e sicurezza sotto i limiti della dignità. In questo caso non ci sono baracche, i bulgari vivono nei palazzoni di Mondragone, ma fino a 15 persone in appartamenti di 60-70 metri quadri con servizi quasi inesistenti. Giornalisti, nuove intimidazioni di Antonio Maria Mira Avvenire, 14 ottobre 2016 Il contatore scorre velocemente. Il 6 ottobre segnava 2.993, ieri era già a quota 3.019. Numeri molto preoccupanti. Sono, infatti, i giornalisti che hanno subito intimidazioni, minacce e ritorsioni. Li sta contando dal 2006 "Ossigeno per l’Informazione", l’Osservatorio su Informazioni Giornalistiche e Notizie Oscurate, istituito nel 2008 con il patrocinio della Fnsi e dell’Ordine nazionale dei Giornalisti. Si pensava di raggiungere quota 3mila tra ieri e oggi, giornata in cui si era deciso di fare una sorta di pit stop, in occasione di alcuni importanti eventi organizzati dal 24 ottobre per la Giornata internazionale, indetta dall’Onu, per mettere fine all’impunità per i reati contro i giornalisti (vedi box a fianco). Ma il contatore ha invece accelerato, registrando nuovi e inquietanti casi. Secondo Ossigeno si tratta comunque della punta dell’iceberg. Secondo stime attendibili questi numeri, in realtà nomi e cognomi di giornalisti, rappresentano meno del dieci per cento di quelli che potrebbero essere pubblicati ma spesso le vittime non hanno la forza di renderli noti. I 3mila casi sono "verificati e certificati attraverso un rigoroso metodo di osservazione, il ‘Rilevatore della censura nascosta’, elaborato e sperimentato da Ossigeno - spiega il direttore responsabile dell’associazione, Alberto Spampinato, la cui validità è stata certificata dalla Commissione parlamentare Antimafia e adesso è oggetto di studio e sperimentazione in alcuni Paesi europei che pensano di adottarlo". Con questo metodo, sottolinea il segretario di Ossigeno, Giuseppe Mennella, "abbiamo certificato tre casi su dieci, passando da 10mila segnalazioni e 3mila verificate, attraverso la raccolta degli atti giudiziari e colloqui coi giornalisti coinvolti". Nel 2016 Ossigeno ha documentato minacce a 255 giornalisti, inoltre ha reso note minacce ad altri 91 per episodi degli anni precedenti conosciuti solo ora. In tutto ad oggi 346 casi. Storie che possono essere consultate sul sito dell’associazione. "Ossigeno" ogni mese ha esaminato in media 148 segnalazioni di probabili minacce, giudicandone fondate in media 37. Nel 2015 erano state in tutto 528, ma hanno influito gli oltre cento cronisti di giudiziaria che si erano occupati dell’inchiesta ‘mafia Capitalè denunciati dalla Camera penale di Roma. Nel 2014 si era arrivati a 506, a 386 nel 2013, a 327 nel 2012, a 326 nel 2011 e 250 nel 2010. La regione più interessata è il Lazio con 533 casi. Seguono la Campania con 381, la Lombardia 327, la Sicilia 240, la Puglia 151 e la Calabria 129. A preoccupare è l’aumento delle denunce giudiziarie, soprattutto quelle in sede civile, che chiedono risarcimenti fino ad alcuni milioni di euro. Nel 2016 sono state finora 110, tra denunce e azioni legali, ma non mancano altre forme di minacce: 43 aggressioni fisiche, 89 avvertimenti, 5 danneggiamenti e 13 ostacoli alla libertà d’informazione. In tutto aggressioni fisiche e avvertimenti di vario tipo arrivano a circa il 54%, mentre le querele pretestuose e le altre azioni giudiziarie strumentali, a poco meno del 39%. Scorrendo, invece, i dati degli ultimi dieci anni troviamo 204 casi di insulti, 217 aggressioni, 102 minacce personali, 104 striscioni e scritte, 75 lettere minatorie, 79 lettere con proiettili attivi, 64 minacce su Facebook e altri social network, 53 danneggiamenti, 46 minacce di morte e addirittura 22 spari e 37 incendi di auto o abitazioni. Ma a colpire sono soprattutto le azioni giudiziarie, che superano quota 700. Per quanto riguarda il tipo di media, i giornalisti più minacciati sono quelli della carta stampata con 599 casi dal 2011 a oggi. Seguono la televisione con 222, il web 261. Numeri che confermano, è la riflessione di Ossigeno, la necessità di norme severe che tutelino il diritto costituzionale alla libertà di informazione. Attualmente nessuno viene punito, nessuno paga nulla, se una denuncia temeraria viene archiviata. Intanto passano anni, il giornalista spende soldi per la difesa e resta a lungo "sotto scacco". Unione Europea: "i minori non accompagnati non devono essere detenuti" Reuters, 14 ottobre 2016 La risoluzione atta a proteggere i piccoli migranti è stata fatta propria dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. La detenzione dei minori non accompagnati che arrivano in Europa con i flussi migratori deve essere evitata in ogni circostanza e nel momento in cui sono individuati si deve procedere immediatamente alla loro registrazione, a fornirgli un alloggio adeguato e servizi sanitari. A chiederlo con la risoluzione "armonizzare la protezione dei minori non accompagnati" redatta dal deputato italiano Manlio Di Stefano (M5S), è l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Nella risoluzione si denuncia che migliaia di minori non accompagnati giunti in Europa sono scomparsi nel nulla e divenuti probabilmente vittime del crimine organizzato. Nella risoluzione si evidenzia anche che "negli Stati membri del Consiglio d’Europa è chiaro che gli standard da garantire per l’accoglienza dei minori non accompagnati sono ben lontani dall’essere rispettati". Inoltre si afferma che "la maggior parte dei Paesi non ha nella propria legislazione la definizione ‘di minore scomparso’ e che questo ha effetti molto negativi sulle indagini, i tempi d’attesa e i livelli d’allarme". L’assemblea chiede che i minori migranti siano trattati innanzitutto come minori, che siano migliorate o introdotte procedure di richiesta d’asilo accelerate per quelli non accompagnati, che non gli sia mai negato l’ingresso in un Paese e che si faciliti al massimo il ricongiungimento familiare. Pakistan: Asia Bibi, processo rinviato "sine die" di Stefano Vecchia Avvenire, 14 ottobre 2016 Dopo giorni di attesa dall’annuncio dell’udienza che avrebbe dovuto decidere la sorte di Asia Bibi, condannata a morte per blasfemia, ancora una volta un cavillo legale ha portato al rinvio a data da destinarsi del giudizio. A costringere alla sospensione subito dopo l’apertura dell’udienza, la rinuncia del giudice Iqbal Hamid-ur-Rehman, in quanto parte giudicante anche nel processo di secondo grado all’Alta corte di Islamabad nei confronti di Mumtaz Qadri. Quest’ultimo è stato condannato all’impiccagione per aver ucciso, nel gennaio 2011, il governatore del Punjab Salman Taseer "colpevole" di avere sostenuto la libertà per Asia Bibi e una modifica della "legge antiblasfemia". La sentenza era stata accolta con favore dai chi si oppone al controllo dell’islamismo estremista sul Paese, ma aveva spinto radicali musulmani a scendere in piazza per chiedere l’esecuzione di Asia Bibi e minacciare il governo di ritorsioni se fosse stata assolta e scarcerata. "I due casi - quello di Asia Bibi e di Mumtaz Qadri - sono collegati nella figura di Taseer", ha spiegato il giudice Rehman e da qui una presunta incompatibilità, che avrebbe potuto essere rilevata anche prima di una udienza considerata non solo essenziale per decidere della vita o della morte dell’accusata, ma anche vista come uno spartiacque per lo Stato di diritto nel Paese. "Il caso è aggiornato per un tempo indefinito, tuttavia cercherò di fare del mio meglio per attenere una nuova udienza entro fine ottobre, inizio novembre", ha dichiarato Khalil Tahir Sandhu, ministro per i Diritti umani e per gli Affari delle minoranze nel governo provinciale del Punjab e, come avvocato, parte del collegio di difesa di Asia Bibi e presente ieri in aula. Per ragioni di sicurezza, Asia Bibi - in carcere da 2.671 giorni e in attesa da luglio dello scorso anno di un giudizio definitivo sulla sua sorte da parte della Corte Suprema dopo la sospensione dell’esecuzione, non era presente all’udienza, ma la tensione attorno alla sede della Corte a Islamabad è stata comunque fortissima. Nella capitale sono stati schierati migliaia di agenti di polizia. La pressione verso giudici, governo, avvocati di Asia Bibi e in genere chi si espone nella difesa di accusati per blasfemia, è stata accentuata con una fatwa emessa solo due giorni prima da un gruppo di 150 religiosi vicini ai taleban che chiedevano l’esecuzione immediata della mamma cattolica e degli altri detenuti nei bracci della morte per la stessa accusa infamante. Come segnala all’agenzia Fides dall’avvocato di Asia Bibi, il musulmano Saiful Malook che si è dichiarato sorpreso per la circostanza, "la cancelleria della Corte ha disposto un rinvio: attendiamo nei prossimi giorni la data della nuova udienza". Sorpreso anche Joseph Nadeem, tutore della famiglia di Asia Bibi, in aula a fianco del marito della donna, Ashiq Masih. "È un ostacolo imprevisto: speravamo in una rapida soluzione del caso. Aspetteremo ancora ma non perdiamo la speranza - ha osservato. Confidiamo in Dio e nella giustizia". "Possiamo solo sperare e pregare che venga presto convocata una nuova udienza e che la sorte di Asia Bibi possa essere decisa presto. Io prego perché sia fatta giustizia e la comunità cristiana in Pakistan prega per la sua liberazione", è il commento del domenicano padre James Channan, che guida nella città di Lahore il Centro per la pace, apprezzata iniziativa di dialogo interreligioso. Le Maldive lasciano il Commonwealth per la lite sui diritti umani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 14 ottobre 2016 La repubblica delle Maldive lascia il Commonwealth, di cui era membro da 34 anni, in polemica con le richieste di rispetto dei diritti umani da quando, nel febbraio del 2012, fu rovesciato e incarcerato il primo presidente democraticamente eletto del paese, Mohamed Nasheed. L’isola meta di sposini e luogo dell’immaginario turistico è, in realtà, al centro dell’attenzione sia dell’Onu sia delle organizzazioni internazionali che si occupano di diritti civili. "La decisione di lasciare il Commonwealth è stata difficile, ma inevitabile", spiega una nota del ministero degli Esteri, secondo cui il paese, in cui risiedono 340.000 musulmani sunniti, è stato trattato dal blocco "in modo ingiusto". Il quotidiano The Maldives Independent, nella sua pagina online, ricorda che la decisione è stata adottata dopo che l’organismo di controllo del rispetto della democrazia del Commonwealth ha posto lo scorso settembre le Maldive nella sua agenda. Inoltre il Gruppo di Azione ministeriale dell’organismo ha dato tempo al governo di Malé fino al marzo 2017 per migliorare la sua azione in sei aree relative alla gestione della democrazia e della libertà nell’arcipelago. Da quando ha conquistato la presidenza il 17 novembre 2013 Abdulla Yameen ha guidato il Paese con il pugno di ferro, facendo anche arrestare rilevanti personalità politiche del Paese. Nelle Maldive si applica un codice penale che è un misto tra sharia islamica e diritto inglese. Il sesso al di fuori del matrimonio è proibito ma il divieto non si applica ai turisti che possono anche girare per le isole a loro destinate in costume e bere alcolici.