L’ennesimo richiamo dell’Europa per le condizioni di detenzione L’Indro, 13 ottobre 2016 Troppi detenuti, meno carcere, più misure alternative. Oltre 40mila con problemi mentali. Nel corposo rapporto elaborato dall’European Committee on Crime Problems, presentato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, c’è un paragrafo, il ventitreesimo, che mette sotto accusa l’Italia (e l’Ungheria). Riguarda le carceri e più in generale lo stato della giustizia. Vediamo. Si comincia con il ricordare che non da ora la Corte Europea ha denunciato la criticità di questo "problema strutturale". La soluzione più appropriata, si osserva, "consiste nell’applicazione più ampia di misure alternative alla detenzione", provvedimento che, si auspica, "dovrebbe essere ridotta al minimo". Si riconosce che l’Italia ha avviato riforme che vanno nella giusta direzione, ma al tempo stesso si osserva che malgrado i numerosi interventi sul piano internazionale, nel 2014 la durata della detenzione è aumentata dell’1%, con punte, in alcuni Paesi, del 5%. Il libro bianco, inoltre, ricorda l’importanza di adottare misure in grado di assicurare il pieno rispetto dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo: il divieto di trattamenti inumani e degradanti come interpretati dalla stessa Corte di Strasburgo. Per questa ragione si raccomanda la "rottamazione" dei vecchi e usurati edifici carcerari, con nuove prigioni moderne in grado di offrire condizioni umane di detenzione: secondo la relazione, "i nuovi istituti penitenziari possono costare meno ed essere più adeguati alle esigenze dei detenuti per la risocializzazione e reinserimento nella società". Sempre in tema di carcere: oltre 42mila detenuti italiani - il 77 per cento degli oltre 54 mila totali - convivono con un disagio mentale: si va dai disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi. Una situazione che comporta conseguenze estreme come l’autolesionismo (circa 7mila episodi in un anno) o il suicidio (solo nel 2014, 43 casi, e oltre 900 tentativi). Il carcere, secondo gli esperti della Società Italiana di Medicina e Salute Penitenziaria, è "un amplificatore dei disturbi mentali: l’isolamento insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un problema psichico, a volte latente". Sit-in di Antigone a Montecitorio per la legge sul reato di tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 ottobre 2016 In Europa siamo l’unico Stato che non lo prevede nel suo Codice penale. L’Italia non può aspettare, il reato di tortura deve essere approvato. Lo richiede a gran voce la storica associazione Antigone che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzia del sistema penale, per questo ha promosso nella mattinata di oggi, a partire dalle ore 10, un sit-in in Piazza Montecitorio, per chiedere al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando, di farsi garanti dell’approvazione del reato di tortura. Antigone ricorda che in Italia non sono mancati i casi di tortura per i quali, le vittime, non hanno ricevuto giustizia. Oltre alla scuola Diaz, anche gli episodi di violenza avvenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001 e le torture avvenute nel carcere di Asti nel 2004 sono attualmente all’attenzione della Cedu che, a breve, si pronuncerà su entrambi. Lo Stato italiano aveva proposto una composizione amichevole, patteggiano le torture per 45.000 a testa per ogni ricorrente, lasciando intendere quanta consapevolezza ci sia, anche da parte del governo, rispetto al fatto che quegli atti si possano qualificare come tortura. Torture per le quali, in Italia, esiste l’impunità. Eppure nel 1984 l’Italia firmò la Convenzione di New York con l’impegno di introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento. Solo che da allora ogni tentativo è miseramente fallito. Il divieto di tortura è contemplato non solo da numerose convenzioni generali sui diritti umani, ma anche da specifici trattati ai quali l’Italia ha aderito, come la Convenzione dell’Onu contro la tortura del 27 giugno 1987 e la Convenzione Europea per la Prevenzione della Tortura e della pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti del 26 novembre 1987. La Convenzione dell’Onu contro la tortura prevede all’art. 1, in combinato disposto con l’art. 4, l’obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura (come pure il tentativo di praticare la tortura o qualunque complicità o partecipazione a tale atto) fosse espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale interno, conformemente alla definizione prevista dall’art. 1 della su citata Convenzione, la quale identifica la tortura come: "Qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali al fine di segnatamente ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni (?) qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. " Prendendo come esempio solo l’Europa, l’Italia è l’unico Paese senza il reato di tortura. I Paesi del vecchio continente che hanno inserito nel loro codice penale il reato di tortura sono: Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria e, grazie all’attuale Papa, anche la Città del Vaticano. In realtà, da noi, si è provato più volte ad introdurre il reato di tortura, ma con esiti negativi. Il primo tentativo avvenne nel lontano 1989 tramite il senatore Nereo Battello dell’allora Partito Comunista Italiano, il quale propose un disegno di legge che prevedeva per il pubblico ufficiale che si macchiava del reato di tortura una pena compresa tra tre e sette anni di reclusione. Ma la proposta non venne approvata. Altro tentativo ci fu nel 1999 tramite Silvio Berlusconi, il quale presentò un’interpellanza alla Camera dove chiedeva al governo in carica a che punto fosse l’approvazione del reato di tortura, sottolineando quello che venne definito "un inqualificabile inadempimento" da parte dell’esecutivo allora in carica. Un altro tentativo d’introduzione del reato di tortura si ebbe il 28 agosto 2000 tramite Piero Fassino, l’allora ministro della Giustizia del governo Amato, il quale presentò di concerto con il ministro degli Affari Esteri Lamberto Dini un disegno di legge dal titolo: "Norme in materia di tortura e di altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti". Ma il documento non venne più presentato. Dopo cinque anni la patata bollente del reato di tortura toccò proprio al governo Berlusconi. Mercoledì 26 maggio 2004 il ministro della Giustizia Gaetano Pecorella, Forza Italia, in commissione giustizia sulla discussione relativa all’articolo sul reato di tortura, fece riferimento all’approvazione da parte dell’Assemblea, il 22 aprile 2004, dell’emendamento Lussana (Lega Nord) che prevedeva come il reato di tortura si conclamasse a seguito di reiterate minacce. L’emendamento in questione bloccò una proposta che secondo le intenzioni di Pecorella avrebbe previsto una pena da uno a 15 anni alla persona ritenuta colpevole di aver inflitto torture fisiche e mentali ad un altro soggetto. Ma l’emendamento Lussana di fatto bloccò tutto. Passano due anni e il 12 Maggio del 2006, Alfredo Biondi di Forza Italia, presentò al Senato una proposta di legge che prevede l’istituzione del reato di tortura ai sensi dell’articolo 593-bis. La proposta venne affidata alla seconda commissione permanente giustizia presieduta da Cesare Salvi che arrivò alla calendarizzazione in aula nel 2008. Ma poi saltò tutto con la crisi del governo Prodi. E arriviamo a marzo del 2014 quando il senato aveva dato il via libera all’introduzione nel Codice Penale degli articoli 613 bis, che disciplina il delitto di tortura e l’articolo 613-ter, che incrimina il pubblico ufficiale che istiga altri alla commissione del fatto. Passa un anno e finalmente, nell’aprile del 2015, il reato di tortura venne approvato alla Camera all’indomani della condanna dell’Italia per le torture nella scuola Diaz da parte della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. Però il testo iniziale, presentato dal senatore del Pd Luigi Manconi, viene depotenziato. Fu lo stesso Manconi ad esprimersi, pur votando la legge, una forte delusione: "La mia critica non si limita ad alcune questioni, pur rilevanti, ma all’impianto ed all’ispirazione complessiva del disegno di legge a mio avviso depotenziato in misura rilevante nel suo significato, come la prospettiva e la finalità di questa normativa, a partire dalla formulazione che prevede la reiterazione degli atti di violenza, cioè il fatto che debbano essere ripetuti perché si dia la fattispecie della tortura". Visto che il testo fu modificato, venne spedito nuovamente al Senato per avere di nuovo l’approvazione. È tuttora impantanato lì. Processo penale, serve più coraggio di Piergiorgio Morosini Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2016 "Nessuna riforma contro i giudici". Con una battuta, il premier blocca il disegno di legge n. 2067 sul processo penale. Lo fa dopo che il presidente della Associazione nazionale magistrati l’aveva bollato come "inutile e dannoso". Così, le proposte del Guardasigilli, discusse per due anni dentro e fuori il Parlamento, si arenano a pochi metri dal traguardo. Rinvio tattico per evitare spaccature nella maggioranza? Forse. Timore delle reazioni di magistrati e avvocati, con rischi di impopolarità in una fase delicata della vita repubblicana? Da non escludere. Ma non basta a spiegare lo stop. Da anni, le riforme sul "penale" risentono di polemiche istituzionali, demagogie e opportunismi, che riaffiorano, come in questi giorni, dopo sentenze su personaggi eccellenti. Intanto i processi sono troppi e durano troppo; c’è chi ne abusa (di solito gli imputati più facoltosi); le sanzioni spesso sono tardive e inefficaci; il carcere è l’unica risposta a ogni forma di devianza, senza essere in grado di rieducare. Nel Paese dove dilagano corruzione e mafia, le leggi devono coniugare efficienza e garanzie. Ma occorrono maggioranze coese su "temi chiave": cosa punire, come punire, con quale processo. Invece, assistiamo a divisioni trasversali. Non solo tra garantisti di comodo e giustizialisti illiberali. Ma anche tra esperti equilibrati. E finanche tra giudici autorevoli. Così, anche per la riforma in cantiere, se il presidente Davigo è iper critico sulle novità, il vertice della Suprema Corte tende a valorizzarne la portata (es. impugnazioni). La frammentazione parlamentare può anche generare compromessi al ribasso. Sta accadendo su uno dei punti qualificanti della riforma: la prescrizione. Modificarla era uno degli obiettivi di questo esecutivo. Lo chiedeva anche l’Europa (2015) per una efficace lotta alla corruzione. Ma la politica non riesce a trovare soluzioni razionali che tengano conto dell’attuale realtà giudiziaria. Il senatore Casson ha formulato una proposta "di sistema". Si esclude, per tutti i reati, la possibilità di estinzione del reato dopo la sentenza di primo grado. D’altronde, con quella pronuncia lo Stato dimostra tempestivamente e concretamente l’interesse a punire. Quella soluzione eviterebbe appelli pretestuosi o richieste dilatorie finalizzate alla prescrizione, oggi forieri di enorme spreco di risorse giudiziarie. Ma frazioni della maggioranza pongono il veto. Così si affacciano altre proposte. Prima tra tutte, l’allungamento dei termini di prescrizione per il solo reato di corruzione. In questo modo, però, "reati spia" come frode fiscale e falso in bilancio, decisivi per ricostruire manovre illecite, continuerebbero a prescriversi. Dunque, una soluzione miope e inefficace verso gli abusi del processo. Che rischia di affievolire l’efficacia di altre misure utili per decongestionare l’intero carico giudiziario pur presenti nel disegno di legge n. 2067, quali le norme sulle condotte riparatorie che estinguono il reato o quelle che "scremano" i ricorsi in Appello e in Cassazione. Ma c’è un capitolo della riforma in esame che si segnala per la nettezza delle scelte e per la sua organicità. Sono le norme sull’ordinamento penitenziario. Si aggiorna un impianto risalente al 1975. L’idea ispiratrice è che il carcere non sia solo "neutralizzazione" e non possa ridursi, come oggi, a "pattumiera" della emarginazione sociale. Così, il disegno di legge promuove i diritti dei detenuti (lavoro, istruzione, religione, relazioni affettive); implementa forme di giustizia riparativa che mostrano attenzione verso le vittime dei reati; insiste sulla finalità rieducativa della pena; e rilancia il ruolo del magistrato di sorveglianza. Azzerate le preclusioni della "ex Cirielli", apre la possibilità, a chi lo merita, di misure alternative al carcere, evitandone il "sovraffollamento". Il tutto senza rinunciare al rigore con boss e terroristi, come qualcuno ha sbrigativamente sostenuto. Infatti, il 41-bis non viene toccato. E al di fuori di esso sarebbe sempre un giudice a valutare in concreto le condizioni per la concessione di benefici, in base alla "storia" di ogni detenuto. Le carceri sono il test di civiltà di un Paese. Con i giusti investimenti, le novità proposte sarebbero un grande passo avanti. Non a caso sono frutto di un confronto tra oltre duecento esperti di diversa estrazione professionale e culturale. Meriterebbero in Parlamento una corsia preferenziale (stralcio?) per l’immediata approvazione. D’altronde quel capitolo della riforma ha una sua autonomia rispetto al resto. Ci sarà il coraggio per fare, in tempi brevi, almeno questo? "Gli avvocati stiano fuori". La corrente di Davigo in rivolta di Errico Novi Il Dubbio, 13 ottobre 2016 No di Autonomia & Indipendenza a concedere il diritto di voto ai difensori nei Consigli giudiziari. Intanto, teniamo fuori gli avvocati. Sembra lo slogan a cui si ispirano le correnti dell’Anm, soprattutto quelle "di destra", in vista della "trattativa" con il governo sulla riforma penale. Proprio mentre il sindacato dei giudici fissava per il 24 ottobre l’incontro con Renzi e Orlando, è partito l’attacco delle toghe su un tema in apparenza laterale: il diritto di voto da riconoscere all’ordine forense nei Consigli giudiziari. Il ministro della Giustizia è favorevole alla svolta. A osteggiarla è invece la magistratura associata. E in particolare proprio il gruppo che fa capo al presidente dell’Anm Davigo. Da Autonomia & indipendenza arriva infatti un comunicato molto duro sull’ipotesi che l’avvocatura contribuisca a produrre le valutazioni di professionalità sui giudici. Già da diversi mesi Orlando ha pronto un provvedimento che dia più peso ai difensori negli organismi distrettuali. In modo da incidere tra l’altro sulle "pagelle" per i magistrati che aspirano a essere indicati dal Csm per gli incarichi direttivi. Il tema si è imposto un mese fa, in occasione del convegno promosso dal Consiglio nazionale forense proprio sul ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari. Intervenuto all’incontro, il guardasigilli ha detto chiaramente di essere non solo favorevole a un’ipotesi avanzata da Giovanni Canzio, che prevede il diritto di voto almeno per il presidente del Consiglio dell’Ordine, ma di non escludere che la "presenza attiva" possa essere riconosciuta a più di un avvocato in ciascuna assemblea. Sabato scorso il ministro della Giustizia ha ribadito al Congresso forense l’intenzione di intervenire sulla materia. È stato l’innesco che ha portato alla dirompente reazione della magistratura. In contemporanea le due correnti della "destra giudiziaria", con altrettanti comunicati stampa, hanno chiesto all’Anm di dare "una risposta unitaria" fino a ipotizzare "iniziative di protesta". Presa a pochi giorni dall’incontro sulla riforma del processo, l’iniziativa parallela di "Autonomia & indipendenza" e "Magistratura indipendente" appare un po’ strumentale. Pare studiata per alzare la posta al tavolo del confronto sindacale. Il 24 ottobre Davigo vedrà Renzi e Orlando per discutere solo di una cosa: la posizione dell’Anm sul ddl penale, bloccato in Senato proprio per le contestazioni dei magistrati. Alle toghe preme che la riforma del processo sia corretta in un punto: l’articolo 18. Che messa così pare una faccenda da conflitto sindacale classico. All’articolo 18 del disegno di legge in questione però non si parla di licenziamenti. Piuttosto dell’obbligo per i pm di esercitare l’azione penale entro tre mesi dalla chiusura delle indagini, pena il rischio di procedimenti disciplinari e di avocazione del fascicolo da parte del procuratore generale. Il vero conflitto - "È una previsione irragionevole, spiegano proprio dalla corrente di Davigo, "perché spesso le indagini si accumulano e le Procure sono costrette a operare delle scelte di priorità: si finisce cioè per lasciar perdere le inchieste meno rilevanti e con minor possibilità di arrivare a sentenza prima della prescrizione, e ci si concentra sulle più significative. I fascicoli lasciati inerti sono quasi sempre", viene chiarito, "quelli per i quali si fa l’iscrizione al registro riservato, senza trasmettere informazioni di garanzia all’indagato che dunque neppure sa dell’indagine. che senso ha preoccuparsi di esercitare dunque tempestivamente l’azione penale?". Il pomo della discordia vero è in questa "costrizione". O meglio, come viene fatto notare ancora da un magistrato che ha avuto modo di discutere della questione con Davigo, "il problema è nel rischio disciplinare e nella paralisi che ne seguirebbe: perché tutti i pm finirebbero per preoccuparsi esclusivamente di adempiere all’obbligo di chiedere entro tre mesi il rinvio a giudizio o l’archiviazione per tutti i fascicoli, in modo da non incorrere in azioni disciplinari. Ma così l’attività degli uffici si sclerotizzerebbe in un’ossessione burocratica, e le indagini davvero meritevoli di essere condotte a processo verrebbero drammaticamente trascurate". È una linea sindacale pienamente recepita da Davigo, e che infatti il presidente dell’Anm avrebbe già anticipato ai suoi interlocutori, Renzi e Orlando appunto. Ma visto che né il premier né il guardasigilli hanno lasciato intravedere una soppressione del contestato articolo 18, la strategia della magistratura associata si è orientata su una più ampia articolazione del conflitto. Ed ecco che è partita l’offensiva sul tema dei Consigli giudiziari. No alle intrusioni - Dopodiché è chiaro che giudici e pm sono davvero contrariati dall’idea di vedersi sottoposti al giudizio vincolante degli avvocati. Il no a concedere loro il diritto di voto nei Consigli giudiziari è davvero sentito. Almeno dalle due correnti "di destra", tradizionalmente più orientate a una interpretazione "sindacale" dell’associazionismo togato. Proprio il comunicato della corrente di Davigo, Autonomia & indipendenza, è particolarmente duro nel prefigurare il rischio di un "condizionamento anche soltanto potenziale". Se gli avvocati possono esprimere un voto sull’efficienza di un magistrato, quest’ultimo "vedrebbe condizionata la sua carriera anche dal parere dei rappresentanti di quelle parti a cui quotidianamente distribuisce torto e ragione". In pratica giudici e pm sarebbero meno propensi ha valutare i fatti in modo imparziale e più tentati dall’assecondare le aspettative di quei difensori che potrebbero influire sulla valutazione della loro professionalità. Addirittura, si legge nella nota di Autonomia & indipendenza, si fa riferimento ai "piccoli Tribunali, a realtà locali con forte infiltrazione criminale, a pur possibili patologie di rapporti anche diretti tra difensori in importanti procedimenti e gli avvocati presenti nei Consigli giudiziari". Tradotto, tramite i difensori potrebbe essere addirittura la mafia, a incidere sulla carriera delle toghe. No deciso anche a "soluzioni graduate e intermedie" come quella proposta da Canzio. E obiezioni persino sul protocollo d’intesa stipulato il 13 luglio dal Csm con il Consiglio nazionale forense, definito "preoccupante", giacché impegna le parti a "valorizzare il ruolo dell’avvocatura nell’ambito delle funzioni attribuite ai Consigli giudiziari" e "a valutare posizioni comuni per le modifiche dell’attuale disciplina della loro partecipazione". Muro invalicabile insomma davanti all’ipotesi prospettata dal guardasigilli. La magistratura ritiene di doversi giudicare da sola. Punto. E a Renzi e Orlando magari farà presente che essa sola può dire l’ultima parola sulla riforma del processo penale. Allarme giustizia: a Napoli i processi iniziano dopo due anni di Dario Del Porto La Repubblica, 13 ottobre 2016 L’inchiesta è chiusa, ma il processo comincia fra due anni. Chi si è rivolto alla magistratura per una piccola truffa oppure è finito sotto inchiesta per un abuso edilizio non aggravato o, ancora, è vittima di percosse o di altri reati con pena non superiore ai quattro anni di reclusione, può mettersi l’anima in pace. Se anche il pm chiudesse oggi l’indagine, il rito monocratico non inizierebbe prima del giugno 2018. Con il risultato che, nella stragrande maggioranza dei casi, nonostante la citazione diretta prevista dalla legge, che per questi procedimenti consente al pubblico ministero di rinviare a giudizio senza passare attraverso il filtro dell’udienza preliminare, il fascicolo arriverà davanti al giudice ormai prossimo alla prescrizione. In media, 40 processi a settimana vengono fissati da qui a oltre diciotto mesi. "A Napoli si celebrano solo i processi con detenuti che hanno, giustamente, una corsia preferenziale. Ma per il resto i tempi sono dilatati in maniera inaccettabile, con gravi ripercussioni sia per gli imputati sia per le persone offese", allarga le braccia l’avvocato Attilio Belloni, presidente della Camera penale. Ma al momento, non si può fare diversamente. L’assegnazione dei processi avviene con l’algoritmo del sistema informatico "Giada", in uso anche al tribunale di Milano, che individua automaticamente il giudice destinatario del fascicolo e la prima data libera. Nel caso di richieste di rinvio a giudizio per le quali la norma prevede l’udienza preliminare (tutti i reati più gravi) il sistema fissa davanti al Gup da un minimo di 50 giorni a un massimo di 90. Per le citazioni dirette davanti al giudice monocratico, il termine va da 120 giorni all’infinito. Per ogni giorno di udienza, vengono assegnati in media sette fascicoli: quattro di rito monocratico, due al Gup e uno "di emergenza", vale a dire con detenuti o con termini prossimi alla prescrizione. Ogni giudice celebra in media 250 processi l’anno, 40 di rito monocratico, e ne definisce con sentenza circa 220. "I numeri confermano che la produttività dei magistrati del tribunale di Napoli è tra le più elevate d’Italia - spiega Giovanna Ceppaluni, presidente della sezione Misure di prevenzione e coordinatrice del settore penale - ciò nonostante, il carico di lavoro resta pesante e aumenta costantemente a fronte di un organico inadeguato". La Camera penale, argomenta l’avvocato Belloni "ha sollevato il problema degli organici dei magistrati e del personale amministrativo proclamando due astensioni e avanzando al ministero della Giustizia una richiesta di ispezione straordinaria che non ha avuto alcun riscontro. Non dimentichiamo - aggiunge il penalista - che il 70 per cento dei processi si prescrive nella fase delle indagini. Non a caso, nel progetto di riforma è previsto un termine di tre mesi per l’esercizio dell’azione penale, pena l’avocazione del fascicolo da parte del pg". In ogni processo, sottolinea il penalista Marco De Scisciolo, "ci sono innanzitutto delle persone che chiedono giustizia, siano esse vittime o parti lese. Assisto un padre imputato di inosservanza degli obblighi di assistenza dei figli minori. La richiesta di fissazione è del 22 giugno 2015, la prima udienza è in programma il 21 settembre 2017. È vero, la pena prevista è bassa. Ma se questa accusa non desta allarme sociale, è pur vero che desta allarme familiare. C’è un padre che ha diritto di essere assolto se innocente e dei figli che, se invece il genitore è colpevole, devono avere giustizia". Il penalista difende anche due sorelle di 85 e 80 anni "denunciate per violenza privata. Hanno chiuso con il catenaccio un cancello di loro proprietà, ma il vicino ritiene di avere diritto di servirsi ugualmente della strada. La richiesta è del 16 marzo 2015, il processo inizierà il 28 settembre 2017. Due anni e mezzo. A questo punto, meglio un’amnistia", conclude De Scisciolo. Secondo la presidente Ceppaluni, "per uscire da questa situazione andrebbero, innanzitutto, aumentati gli organici dei magistrati, il ministero invece sembra orientato addirittura a diminuire il numero di giudici del tribunale di Napoli. Anche la Procura - rileva la coordinatrice del settore penale - dovrebbe forse iniziare a ragionare in termini di priorità, utilizzando con oculatezza l’azione penale. Tutto questo naturalmente non ci esime dal vigilare sul funzionamento di "Giada" e dell’algoritmo. Se dovessimo riscontrare la necessità di apportare correttivi, lo faremo certamente. La nuova versione del programma consentirà di ottimizzare i tempi", assicura la presidente. In un quadro così difficile, l’avvocato De Scisciolo non perde un cauto ottimismo: "Non si disperi, la controparte. Le mie assistite, pur avendo 85 e 80 anni, godono di ottima salute. Il 21 settembre 2017 saranno in aula, pronte a difendersi". Le sentenze si discutono da casa. Una webcam ai giudici-mamma di Andrea Priante Corriere della Sera, 13 ottobre 2016 L’iniziativa del Tribunale di Vicenza. "Così si conciliano famiglia e lavoro". C’è la cameretta del bambino, i pannolini, le pappe e tutto il resto. E accanto un’altra stanza, con il computer e la webcam accesa. Mamma oggi lavora da lì, in casa, a pochi metri dal suo bambino. Partecipa a una video conferenza e si confronta con i suoi due colleghi, riuniti in una sala piena di schermi e telecamere. Sembra una storia di "normale" telelavoro. E invece no. Perché la donna a casa è un giudice che, dialogando a distanza con gli altri togati del Collegio, sta decidendo quale sia la sentenza più equa in un processo civile. È la novità introdotta dal Tribunale di Vicenza, che ha l’obiettivo di salvaguardare il rapporto tra le mamme-magistrato e i loro bambini. Il tutto, si spera, migliorando la produttività. Piattaforma "Linch" - Al centro del progetto, la sala allestita al secondo piano del Palazzo di Giustizia. All’interno si svolgono le camere di consiglio, quando al termine delle udienze i giudici si ritirano per stabilire chi abbia torto e chi ragione. Il presidente del tribunale, Alberto Rizzo, ha fatto installare un sistema che trasmette le immagini attraverso una piattaforma chiamata "Linch", superprotetta e a prova di hacker. In questo modo, uno dei togati può collegarsi dall’esterno utilizzando un computer portatile (munito di webcam) e partecipare alla camera di consiglio, discutendo con i colleghi come farebbe se fosse presente. L’idea è di consentire ai giudici con figli piccoli di lavorare da casa qualora il bambino abbia bisogno di assistenza, ad esempio quand’è malato. "Funzionerà soltanto per i procedimenti civili" precisa Rizzo. Lo scopo è evidente: "Rispettare il ruolo e le esigenze di una mamma, significa anche metterla nelle condizioni di poter lavorare con serenità, senza dover rinunciare ad accudire i propri figli in caso di necessità". Da casa - Naturalmente ci sono alcune regole da rispettare, a cominciare dal fatto che nessuno dovrà avere accesso alla stanza durante la "diretta" da casa. Ma i vantaggi non ricadono soltanto sui magistrati: aziende e cittadini coinvolti nelle cause giudiziarie non rischieranno di trovarsi alle prese con i rinvii dovuti all’assenza di un componente del Collegio. Insomma, sentenze più rapide. Negli ultimi due anni, cinque giudici del Tribunale di Vicenza sono diventate mamme. Tra queste, c’è Martina Rispoli: "Si può essere una brava madre, presente nei momenti che contano, senza per questo dover rinunciare a impegnarsi nel proprio lavoro. Per questo è positivo che, chi torna dal congedo di maternità, abbia la possibilità, in situazioni di emergenza, di lavorare da casa". Ed è solo il primo passo. Tra poche settimane, in un’ala del seminterrato dello stesso tribunale, aprirà un asilo destinato ai figli di magistrati, avvocati e di tutti i professionisti che ogni giorno frequentano il Palazzo di Giustizia. Il presidente Rizzo ne fa una questione di principio: "Dimostreremo che famiglia e carriera non sono due ambizioni in contrasto tra loro". Quanto fruttano i rifiuti alle ecomafie di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2016 A spiegare bene perché sempre più spesso l’igiene non è urbana ma criminale - come le vicende che si accavallano a Roma testimoniano da mesi - ci ha pensato il ministro dell’Interno Angelino Alfano nella sua relazione di accompagnamento allo scioglimento del Comune di Corleone (Palermo). "Le attività connesse alla gestione del ciclo dei rifiuti - scrive Alfano nel decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 201 dell’8 settembre - sono quelle che suscitano maggiore interesse da parte della criminalità organizzata, sia per gli enormi proventi che ne derivano sia per la possibilità di esercitare un capillare controllo del territorio". Più chiaro di così si muore e non certo di pulizia, come ancora una volta Roma testimonia. Entrare anche in un solo ingranaggio del ciclo dei rifiuti garantisce alla criminalità - che sia di stampo mafioso o meno poco importa - soldi a palate e una "telecamera" accesa h24 su ogni singola strada, vicolo o rio della grande città così come del piccolo paese. Ancor più nel dettaglio lo ha spiegato a febbraio il sostituto procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi che nella relazione della Dnaa sul 2015 ha affermato che "le realtà criminali, proprio per le dinamiche operative e gli scopi che le contraddistinguono, spesso non disdegnano e anzi ambiscono al rapporto con le centrali di tipo mafioso le quali, a loro volta, hanno "cambiato pelle", smettendo i panni di gruppi monopolistici della violenza pura, sostituendo il potere delle armi con quello finanziario, attraverso il quale continuano a perpetrare la sopraffazione che le contraddistingue. Altro non sono che compagini imprenditoriali che di rifiuti si occupano, le quali nel loro statuto occulto hanno inserito stabilmente il ricorso al delitto. E, pertanto, non improbabile è il ricorso a qualsiasi strumento illecito di contorno della gestione dei rifiuti per sconvolgerne o, quanto meno, alterarne il ciclo, primi tra tutti i delitti contro la pubblica amministrazione e quelli di falso. Abusi d’ufficio e corruzione - Quanto ai primi, soprattutto abusi d’ufficio e corruzione, utili per addomesticare gli organi amministrativi preposti alla tutela ambientale ed al rilascio delle autorizzazioni previste dalla legge. Senza, peraltro, dimenticare che quando nelle violazioni ambientali incorrono centrali economiche di primaria importanza capaci di esercitare la giusta persuasione, per non dire pressione, può pure avvenire che i problemi siano risolti attraverso la trasformazione dell’illecito in lecito, grazie ad interventi legislativi. Salvo poi incorrere, come più volte occorso allo Stato italiano, nelle dure sanzioni dell’Unione Europea, con la conseguenza che a pagare per le condotte di pochi sia l’intera comunità nazionale. Quanto ai secondi, la falsificazione di qualunque cosa che ne possa formare oggetto, sia dal punto di vista materiale che ideologico, per garantirsi il profitto illecito". Non esiste conferma migliore alle parole del ministro e del magistrato antimafia che l’osservazione della nuda e cruda cronaca degli ultimi anni, che offre infiniti esempi e altrettanti gridi di allarme nelle sedi più alte della politica e delle Istituzioni. Con una differenza: i primi trovano uno spazio "mordi e fuggi" sui media, i secondi restano quasi sempre insonorizzati all’interno dei consessi che li ricevono. Se - infatti - risuona ancora l’eco dell’indagine della procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) che ha portato all’arresto di 20 persone, tra i quali vari amministratori locali e il presidente della Provincia di Caserta, Angelo Di Costanzo, con accuse a vario titolo di turbata libertà degli incanti, corruzione di pubblici ufficiali per atti contrari ai doveri d’ufficio, truffa ai danni di enti pubblici e abuso d’ufficio nelle procedure di gara per l’assegnazione del servizio di raccolta, conferimento, trattamento e smaltimento dei rifiuti e di altri servizi collaterali nei comuni di Alvignano, Piedimonte Matese e Casagiove, nulla i media hanno scritto di quanto ha detto il 3 agosto 2016 nella Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti il sottosegretario all’Interno Gianpiero Bocci. Alcuni dati - Eppure il sottosegretario non ha dato solo conto dell’attività svolta nei 90 Comuni della cosiddetta terra dei fuochi dalla task force delle forze dell’ordine e delle polizie locali contro i reati ambientali ma ha spiegato soprattutto perché l’igiene urbana, la (in)capacità amministrativa e la mano criminale sono parte integranti di uno stesso perverso circuito. Fino a giugno 2016 sono stati effettuati nella terra dei fuochi 3.242 controlli sulle aziende per la verifica delle procedure di trattamento degli scarti di lavorazione, 3.938 contravvenzioni, 1.161 denunce per violazioni ambientali, di cui 139 per il reato di incendio dei rifiuti; 100 arresti, 539 sequestri di aree interessate da scarico abusivo e combustione di rifiuti, 331 sequestri dei veicoli impiegati per il trasporto e sono stati comminati 500mila euro di sanzioni amministrative. Se però nella provincia di Napoli i fuochi sono in diminuzione, in provincia di Caserta negli ultimi sei mesi sono aumentati del 10% rispetto allo stesso periodo del 2015. "Il dato al rialzo nel casertano - ha dunque spiegato Bocci - si spiega essenzialmente con le difficoltà amministrative, organizzative e finanziarie che alcuni comuni stanno incontrando nell’esercitare le proprie competenze, tra le quali la raccolta dei rifiuti urbani e assimilati". Nulla, ancora, è stato scritto di quanto - da nord a sud - hanno dichiarato nella stessa Commissione sul ciclo dei rifiuti presieduta da Alessandro Bratti (Pd) i prefetti. Quello di Perugia, Raffaele Cannizzaro, il 25 febbraio 2016 ha spiegato che il monitoraggio sul ciclo dei rifiuti è capillare e ha annunciato che su 39 ditte iscritte negli elenchi prefettizi, sono state adottate ben cinque interdittive antimafia ma spostandoci nel nord-est, già il 27 novembre 2014 il prefetto di Venezia Domenico Cuttaia dichiarò che "in sede di attività preventiva la prefettura ha individuato occasioni e situazioni che si sono presentate come possibilità, stroncate sul nascere, di inserimento della criminalità organizzata sul territorio, in particolare all’interno di aziende che operano proprio nel settore dello smaltimento dei rifiuti". E torniamo dunque al motivo - il solo che conti per le organizzazioni criminali, che siano di stampo mafioso o meno - per il quale le attività connesse al ciclo dei rifiuti fanno tanto gola: il dio denaro. Quanto conti ce lo ripete ogni anno Legambiente con il suo rapporto sulle ecomafie. Nel 2015 il business è stato di 19,1 miliardi, quasi tre miliardi in meno rispetto al 2014, a causa della netta contrazione degli investimenti a rischio nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa, che hanno visto nell’ultimo anno prosciugare la spesa per opere pubbliche e per la gestione dei rifiuti urbani sotto la soglia dei 7 miliardi (a fronte dei 13 dell’anno precedente). Ed è sempre Legambiente a spiegarci perché c’è ancora molta strada da fare: la criminalità organizzata la fa ancora da padrone in questo business, visto che i clan censiti con interessi nel settore sono 326 (in continuo aumento negli anni) e la corruzione rimane un fenomeno dilagante. È il volto moderno delle ecomafie che colpisce l’Italia senza distinzione. "Giustizia per Cucchi", attacco hacker al sito internet del Sappe Il Messaggero, 13 ottobre 2016 "Giustizia per Cucchi": è il messaggio lasciato da alcuni hacker che hanno violato il sito internet del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Questi hacker sono di una ignoranza spaventosa - commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe. Scrivono a noi, esponenti e rappresentanti della Polizia Penitenziaria, di volere giustizia per Stefano Cucchi senza sapere che sia la sentenza di primo grado che quella di appello hanno assolto i poliziotti penitenziari che lavorano proprio a piazzale Clodio dalle accuse (non suffragate da alcuna prova!) loro mosse. Lo hanno accertato due Corti, 4 giudici togati, 12 giudici popolari. Lo ha confermato, definitivamente, la Corte di Cassazione! Siamo sempre stati solidali con la Famiglia Cucchi per la perdita del loro familiare, ma anche fieri del nostro lavoro quotidiano e della nostra abnegazione al servizio del Paese. Siamo convinti che il Sappe proseguirà la battaglia in difesa dei colleghi e dell’intero Corpo di Polizia Penitenziaria che in questa vicenda è attaccato da molti che forse sono in possesso di una verità che conoscono solo loro. È il caso di questi hacker, eccellenti sotto il profilo delle conoscenze informatiche ma ignoranti sulla realtà dei fatti". Il Sappe evidenzia l’anomalia di avere subito questo attacco informativo "dopo avere diffuso la notizia, sul blog poliziapenitenziaria.it che Marco Carrai, membro del direttivo della fondazione politica del presidente del Consiglio Matteo Renzi ed esperto internet del Governo, ha assunto uno degli hacker che violò il sito web del Sappe e di altre istituzioni e aziende negli anni passati. Singolare coincidenza". Caso Mered, l’abbaglio è Generale di Lorenzo Tondo Il Manifesto, 13 ottobre 2016 Da cinque mesi nel carcere di Pagliarelli a Palermo c’è un giovane eritreo. Per i pm sarebbe "il più sanguinario tra i mercanti di uomini in Libia". Ma fin dal suo arresto testimonianze di rifugiati e parenti smentiscono questa ricostruzione. Tutti sostengono che l’uomo catturato a Khartum non sia il temibile criminale. Cento quarantatré giorni. Hiwett non smette di contare le albe dallo scorso 24 maggio, quando cinque poliziotti sudanesi si sono presi il fratello in un bar di Khartum. Incappucciato e spedito in Italia dove lo attende una cella e un lungo processo. "Abbiamo catturato Medhanie Yehdego Mered, il più feroce trafficante di uomini della storia", annunceranno gli inquirenti giorni dopo. Le immagini di un giovane eritreo, con i capelli arruffati, che scende mezzo addormentato le scale di un aereo a Fiumicino fanno il giro del mondo. Arrivano anche ad Oslo, dove Hiwett vive da 5 anni. La ragazza non crede ai suoi occhi: "Quello è mio fratello! Non è Mered. Mungeva vacche in Sudan in attesa di raggiungermi in Europa". Da quasi cinque mesi, una cella del carcere di Pagliarelli a Palermo ospita un giovane eritreo che i pm dicono essere Yehdego Mered, detto "il Generale", il più sanguinario tra i mercanti di uomini in Libia. Ma poche ore dopo il suo arresto, sui maggiori siti d’informazione iniziano a circolare le testimonianze di numerosi rifugiati che sollevano dubbi sull’identità dell’uomo estradato. Sono tutti eritrei, vittime giunte in Europa sui barconi della morte del "vero Mered". E tutti sostengono che l’uomo catturato a Khartum non è lui. Al numero 90 di York Way, negli uffici del Guardian di Londra arrivano decine di telefonate per denunciare il "clamoroso scambio di persona’". Arriva anche la voce singhiozzante di Hiwett. "Il ragazzo arrestato si chiama Medhanie Trasfamariam Behre, è un rifugiato di 26 anni, è nato nel quartiere Ghezzabanda ad Asmara. Io mi chiamo Hiwett e sono sua sorella". L’identità del ragazzo fornita ai giornali da Hiwett è la stessa rilasciata ai magistrati dal giovane estradato, nel primo interrogatorio il 4 giugno 2016: "Sono innocente - ribadirà Medhanie ai pm - Non sono io il trafficante Mered. Abbiamo solo lo stesso nome di battesimo". Medhanie Yehdego Mered non è un eritreo qualunque. I suoi connazionali lo conoscono bene. I procuratori di Palermo Maurizio Scalia, Gery Ferrara e Claudio Camilleri nel 2015 ne tracciano un profilo preciso e terrificante nelle carte dell’operazione "Glauco II". "Sono il nuovo Gheddafi", si vanta al telefono il "Generale", 34 anni. Cinico e arrogante, parla dei migranti come merce da caricare e scaricare. "Quest’anno ho lavorato bene - ripete al telefono - ne ho fatti partire 8.000". Gode di complicità eccellenti e, soprattutto, guadagna bene. I profitti viaggiano su cifre a sei zeri. Una montagna di soldi che Mered custodirebbe in un conto a Dubai. Di lui gli inquirenti hanno anche una foto, rilasciata agli organi di stampa lo scorso anno. Capelli lunghi, baffi e al petto un grosso crocifisso d’oro che penzola su una maglietta azzurra. È proprio quella foto ad alimentare i primi sospetti su un possibile scambio di persona. Il ragazzo dallo sguardo spento, con le manette ai polsi, appena estradato a Roma dal Sudan non gli somiglia affatto. Nei corridoi della Procura di Palermo la tensione prende il posto dell’euforia. Sulla vicenda interviene anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, pronto ad assicurare che "le autorità stanno lavorando alle verifiche del caso". Un caso "singolare", ammetterà il Capo della Procura di Palermo Francesco Lo Voi, precisando tuttavia che "la gestione dell’operazione è stata condotta dalla Nca britannica e dalle autorità sudanesi". Lo Voi dice il vero. Se c’è stato un errore, la responsabilità non è degli italiani. Sono gli inglesi dell’Nca (equivalente dell’Fbi) a occuparsi della cattura del sospettato. In Italia non vige alcun accordo con Khartum e con il suo presidente Omar Hasan Ahmad al-Bashir sul quale pende un mandato di cattura emesso dal Tribunale penale internazionale per genocidio. Se gli italiani vogliono acciuffare Mered, hanno bisogno dell’appoggio di Londra che in Sudan gode di rapporti extra-diplomatici. La collaborazione tra i britannici e la procura di Palermo inizia a maggio del 2015. In Sudan risiedono oltre 200.000 eritrei. Khartum è una tappa obbligatoria per chi vuole imbarcarsi dalla Libia. Ed è proprio a Khartum che, secondo i pm, potrebbe nascondersi Mered. In una mail inviata il 21 gennaio del 2016 al procuratore Gery Ferrara dall’agente della NCA nel Corno d’Africa Roy Godding, di cui il manifesto è in possesso, lo 007 inglese comunica al magistrato di aver trovato a Khartum un uomo che sembra rispondere all’identikit del ricercato. "La Nca dispone di elementi credibili che indicano che Medhanie possa avere un domicilio a Khartum - scrive Godding - Riteniamo però che potrebbe lasciare il Sudan alla fine dell’inverno. Dobbiamo agire in fretta". La pista sembra quella giusta, anche perché dal cellulare dell’uomo arrestato partono tre chiamate dirette ad un trafficante di uomini di stanza in Libia. Il 24 maggio Medhanie verrà arrestato in un bar di Khartum mentre sorseggia una tazza di caffè caldo a pochi passi dal suo appartamento: una bettola dai muri scrostati dalla muffa che il giovane condivideva con altri 4 coinquilini. Le foto di quell’appartamento, inviate da uno dei compagni di stanza del ragazzo imputato, sono pubblicate in esclusiva in questo articolo. A rincarare la dose del probabile equivoco, i poliziotti che fanno irruzione in casa di Medhanie non trovano né armi né indizi e i suoi coinquilini risulteranno non coinvolti nell’indagine né nel traffico di uomini. Strano per un uomo che a detta degli inquirenti, "fa la bella vita in Sudan, scortato da uomini armati e intasca 100mila dollari per ogni viaggio". Godding però ne è sicuro. Si fida dei sudanesi che lo hanno catturato. E consegna il ragazzo nelle mani degli italiani. Nell’assidua corrispondenza tra Godding e Ferrara, emerge un curioso particolare: nelle mail inviate al procuratore palermitano, l’agente della Nca chiama il ricercato con il suo nome di battesimo: Medhanie. Fin qui nulla di strano, se non fosse che il giorno della cattura, il sito della Nca britannica festeggerà l’operazione titolando: "Il Supertrafficante Medhanie arrestato in Sudan". Come a dire insomma che "Gennaro è stato arrestato a Napoli". Medhanie è infatti uno dei nomi più comuni tra gli eritrei. Un "errore" che scatenerà confusione tra i cronisti impegnati a scrivere sulla vicenda, seguita dall’immediata rettifica della Nca. Che Roy Godding abbia preso un granchio a partire dal nome dell’eritreo è una ipotesi che l’avvocato Michele Calantropo, difensore del giovane arrestato, non sente di escludere. "Medhanie è il corrispettivo di Rosario a Palermo - spiega l’avvocato - Se a questo aggiungete che al mio cliente sono state intercettate tre conversazioni con un trafficante, la coincidenza per Godding si è erroneamente trasformata in certezza". Ecco, appunto. Le tre conversazioni intercettate continuano a rappresentare un solido pilastro per i pm a conferma della irreprensibilità dell’operazione. Il contenuto di quei dialoghi viene svelato durante la prima udienza del processo preliminare il 4 luglio scorso. Dalle intercettazioni, si evince che il ragazzo sospettato in realtà non desideri parlare con i trafficanti, ma con un giovane eritreo che conosce bene. Si chiama Kezete ed è in partenza dalla Libia. Il ragazzo da Karthoum lo rassicura, dice che ha parlato con i suoi famigliari e che faranno avere i soldi per imbarcare Kezete quanto prima. Ordinaria amministrazione nei viaggi della speranza, dove i rifugiati sono costretti a consegnare i propri cellulari ai trafficanti. Saranno poi questi a contattare famigliari o amici per accertarsi che abbiano saldato il conto della traversata, effettuando uno squillo sui loro telefoni e attendendo così di essere richiamati. "Il mio cliente non è un trafficante - dice Calantropo - Ha comunicato con alcuni di loro al telefono, solo per poter parlare con suo amico che doveva attraversare il Mediterraneo. Ma questo non fa di lui un trafficante. Se sono un eritreo e voglio raggiungere l’Europa non posso di certo recarmi in aeroporto". Le telefonate vengono utilizzate dai procuratori per comparare la voce dell’uomo arrestato con quella di Mered intercettato nel 2014. L’esito però della perizia fonica risulterà "inconcludente". Secondo il perito del tribunale infatti "non è possibile affermare che la voce di Mered sia la stessa dell’uomo arrestato". Il 2 luglio arrivano a Palermo due testimoni chiave. Uno si chiama Ambesajer Yemane, ha 23 anni, vive in Svezia ed è un rifugiato. L’altro, seppur identificato dall’avvocato, preferisce non rilasciare il suo nome alla stampa - lo chiameremo Birhan. Sono entrambi eritrei, arrivati in Europa su uno dei barconi di Mered. Non conoscono il ragazzo estradato in Italia, ma sono sicuri che non si tratti di Mered. E loro lo conoscono bene Mered. "Il Generale mi ha truffato - racconta Birhan a il manifesto. Dovevo partire per l’Europa. Avevo pagato il mio biglietto. Ma durante il viaggio, Mered ha venduto me ed altri compagni ai beduini. Ci hanno torturati per 10 mesi. Molto dei miei compagni sono morti. Io sono riuscito a salvarmi. Ho dovuto ripetere il viaggio dall’Etiopia. Quando sono arrivato in Libia l’ho rivisto lì quel bastardo. Sparava in aria con un fucile e fumava hashish". E ancora: "Non so chi sia l’uomo che gli italiani hanno arrestato - dice - ma di certo non è Mered". I pm non riterranno però le loro testimonianze attendibili. Per provare la sua innocenza Medhanie fornirà ai magistrati le password per accedere ai suoi account Facebook e Yahoo. Proprio su Facebook i pm puntano l’indice su una chat tra l’uomo arrestato e Lidya Tesfu, indicata nelle carte di Glauco II come la moglie di Yehdego Mered. Per i procuratori si tratta dell’ennesima prova. Eppure, quella chat - il cui contenuto è in possesso de il manifesto - sembra scagionare l’imputato. Su Facebook la Tesfu è una donna popolare e stringe amicizia con migliaia di eritrei. Il giovane arrestato è uno di questi. In chat il ragazzo intenta delle sfrontate avances a Lidya. "Ci siamo visti ad Asmara - scrive lui - è possibile?". "Impossibile! - risponde lei - non vado ad Asmara da anni e non mi ricordo di te". Poi lo liquida: "Sono sposata e mio marito è un uomo molto geloso". Il marito, ovviamente, è il "Generale" Yehdego Mered. A fine luglio, dopo la seconda udienza, i magistrati affermano di aver trovato delle "foto raccapriccianti" sul cellulare sequestrato al ragazzo. "Corpi di migranti fatti a pezzi" diranno i pm. Peccato che quelle foto arrivino direttamente da un sito web buddista che descrive un rituale di purificazione tramite il sezionamento di corpi già deceduti. Anche in questo caso il manifesto è in possesso di alcuni screenshot. Intanto a Palermo, la Procura, pressata dai media, si chiude in silenzio stampa mentre in città arriva anche Hiwett con il figlio di un anno. L’amministrazione del carcere di Pagliarelli le vieterà un tanto atteso incontro con il fratello. "Lui è Medhanie Yehdego Mered, e non ci risulta abbia sorelle", dicono dalla direzione. "Tutto questo è assurdo - si dispera Hiwett - dovevano catturare un trafficante. Hanno preso un rifugiato. Uno di quelli che dovrebbero proteggere". Da qualche mese Medhanie non è più lo stesso. "All’inizio era spaventato - racconta l’avvocato Calantropo - Ora invece non vuol parlare con nessuno, sta male. E le notizie sull’esito del processo non aiutano il suo morale". Il 21 settembre scorso, il Gip Alessia Geraci, decreta il suo rinvio a giudizio. La prima udienza è prevista il 21 novembre. Medhanie sa già che dovrà trascorrere ancora molto tempo in carcere, dove le ore scorrono lente, come le albe, giorno dopo giorno. Sono 143 per l’esattezza. Quei giorni che Hiwett non smette di contare. Quei giorni che Medhanie, da 4 mesi dietro le sbarre, ha smesso invece di contare da un pezzo. "Un rifugiato che paga al posto di un trafficante: il colmo per la giustizia europea" di Lorenzo Tondo Il Manifesto, 13 ottobre 2016 Intervista a Don Mussie Zerai, l’"angelo dei profughi". "Se il ragazzo arrestato a Palermo non è il super-trafficante Yedhego Mered, sarebbe un fatto gravissimo. Un orrore per l’Europa che chiude le porte ai rifugiati". Sul caso dell’eritreo catturato a Khartum e sull’ipotesi di un "clamoroso scambio di persona", interviene Don Mussie Zerai, l’"angelo dei profughi", candidato al premio Nobel per la Pace nel 2015 per l’aiuto dato a migliaia di migranti africani e voce della comunità eritrea nel Vecchio Continente. Don Zerai, che vive tra l’Italia e la Svizzera, è nato ad Asmara, come il giovane estradato in Italia, da dove è fuggito nel 1992, appena diciassettenne, per rifugiarsi nel nostro Paese. È stato il primo a denunciare la tratta degli schiavi nel Sinai ed è fondatore e presidente dell’agenzia Habeshia, in prima linea nell’accoglienza. Il suo personale numero di cellulare è diventato il "telefono rosso" per i migranti in difficoltà durante la traversata nel Mediterraneo. Padre, che idea si è fatto del ragazzo arrestato dalla Procura di Palermo? È il "Padrino dei barconi" Mered? Non è semplice. In tanti dicono che non è lui, mentre la Procura insiste nel dire che si tratta di Mered. So che è stato rinviato a giudizio. Ma mi chiedo, chi stanno processando? Sono sicuri che si tratti di lui prima di passare la palla ad un altro grado di giudizio? Spero che i magistrati abbiano ragione. Ma se un rifugiato sta pagando al posto di un trafficante sarebbe il colmo per la giustizia europea. I pm dicono che abbia avuto dei contatti con i trafficanti. Ma questa è una cosa normalissima per i rifugiati. In Eritrea il governo non rilascia passaporti agli uomini al di sotto dei 50 anni e alle donne al di sotto dei 40. E anche se lo facessero, con le leggi europee, nessuno di loro otterrebbe un visto per l’Europa. Gli eritrei sono costretti a contattare degli intermediari o degli uomini che lavorano per i trafficanti se vogliono fuggire. Non hanno alternative. Ecco, l’Europa. Da anni lotta contro un atteggiamento di chiusura. Lo dico da anni a Bruxelles. Se vogliamo liberarci dei trafficanti, se vogliamo evitare sofferenze e drammi, se vogliamo porre fine ai morti nel Mediterraneo, l’Europa deve cambiare. Sono leggi restrittive come quelle in atto in questo continente, leggi che impediscono i ricongiungimenti famigliari, che non consente a questa gente di ottenere il più banale dei visti, è questa chiusura che genera indirettamente un business milionario nelle tasche dei trafficanti. Ma se l’Europa non cambia, cosa può fare la giustizia? È giusto lottare contro i trafficanti di uomini. Ma spesso le intercettazioni non bastano. Prima di consegnare un uomo alla giustizia, dovremmo assicurarci che sia veramente lui. Soprattutto se a rischiare una condanna sbagliata e ingiusta è un rifugiato che cercava protezione in Europa. Il ritiro della patente è legittimo anche con sanzioni penali di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2016 Una multa stradale decisa in un procedimento penale può essere seguita, a breve, dal ritiro della patente, in via amministrativa, anche se le due misure si riferiscono allo stesso fatto. Per la Corte europea dei diritti dell’uomo, che si è pronunciata con la sentenza Rivard contro Svizzera (ricorso n. 21563/12), depositata il 4 ottobre, in questi casi non si viola il principio del ne bis in idem, anche se entrambe le misure vanno qualificate come penali. A rivolgersi a Strasburgo, un canadese residente in Svizzera. Fermato per eccesso di velocità, l’uomo aveva subìto un processo penale, con condanna a una multa di 600 franchi. Dopo due mesi, gli era arrivato il ritiro della patente, deciso da un’autorità amministrativa. Il ricorrente aveva contestato la misura, ritenendosi oggetto di una doppia condanna per lo stesso fatto, in violazione dell’articolo 4 del Protocollo 7 alla Convenzione dei diritti dell’uomo, che vieta doppi procedimenti per lo stesso reato per il quale un individuo sia stato già assolto o condannato. Tutti i ricorsi interni erano stati respinti. Di qui l’azione a Strasburgo, con esito negativo. Prima di tutto, la Corte europea ha chiarito che la classificazione di una misura come penale o amministrativa non dipende dal diritto interno, ma dalla presenza di alcuni elementi individuati dalla giurisprudenza di Strasburgo. Poco importa, quindi, che il ritiro della patente sia classificato, sul piano interno, come misura amministrativa: per la Corte, ci sono elementi per considerarla penale. È - osservano i giudici internazionali - una sanzione supplementare che completa la condanna penale (la multa). Ciò comporta l’applicazione del ne bis in idem, perché quel che conta è che il fatto relativo ai due procedimenti sia identico e la misura sia nell’essenza penale, a prescindere dalla diversa qualificazione giuridica. Detto questo, però, pur in presenza di uno stesso fatto, (l’eccesso di velocità) che dà origine a due procedure, una penale e l’altra amministrativa, in questo caso non c’è stata violazione del principio del ne bis in idem. Le sanzioni inflitte al ricorrente - precisa la Corte - sono state pronunciate da due autorità distinte in due procedimenti diversi, ma in presenza di un legame materiale e temporale "sufficientemente stretto perché si possa considerare il ritiro della patente come una delle misure previste dal diritto interno per la punizione dei reati legati alla guida". È, quindi, la necessità di coordinare le procedure che ha portato a due momenti distinti per applicare misure sanzionatorie (entrambe, in sostanza, penali) riferite allo stesso fatto. Il lasso temporale tra i due procedimenti è stato poi minimo e il ritiro della patente è stato deciso appena la condanna per eccesso di velocità è divenuta esecutiva. Con la conseguenza che il ritiro della patente non è altro che una pena complementare rispetto a quella penale e che i due procedimenti, penale e amministrativo, sono due aspetti di un sistema unico, senza che si possa configurare un doppio procedimento che faccia scattare la violazione dell’articolo 4 del Protocollo 7. Appropriazione indebita anche nel mandato senza rappresentanza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 12 ottobre 2016 n. 43119. Appropriazione indebita anche per il "mandatario senza rappresentanza" che si appropri delle cose ricevute durante l’esecuzione del mandato con l’animus di trattenerle per sé e di non ritrasferirle al mandatario. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 12 ottobre 2016 n. 43119, chiarendo che ai fini penali non c’è differenza tra il mandato con o senza rappresentanza. Il ricorrente, condannato dalla Corte di appello di Cagliari per essersi appropriato di 31mila euro riscossi nell’interesse dell’azienda di cui era agente, si è difeso sostenendo che "in carenza del requisito della altruità delle somme" non sussisteva neppure il reato di appropriazione indebita. La Suprema corte premette che vi sono due forme di mandato: "con e senza rappresentanza". Nella prima ipotesi, spiega la sentenza, il mandatario agisce in nome e per conto del mandante e gli acquisti effettuati dal primo si accrescono direttamente nel patrimonio del secondo. Nel mandato senza rappresentanza, invece, il mandante agisce in nome proprio, ma pur sempre nell’interesse del rappresentato, "il quale infatti ha facoltà, entro certi limiti, di acquisire comunque direttamente alcuni effetti giuridici dell’operato del mandatario". In particolare, il mandante, sostituendosi al mandatario, "può esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato e può rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio". Per cui, prosegue la sentenza, con riferimento al delitto di appropriazione indebita "la differenza fra le due figure non presenta alcuna rilevanza nell’ambito penale". Infatti, prosegue la Corte, "se nel caso del mandato con rappresentanza è di palmare evidenza che il mandatario si appropria di cose o denaro di cui ha il possesso, ma che sono già entrate a far parte del patrimonio del mandatario, non diversamente accade - a ben vedere - anche nel caso di mandato senza rappresentanza". Anche in questa ipotesi, infatti, "le cose o il denaro ricevuti in esecuzione del mandato appartengono alla sfera giuridica del mandatario, sia per via delle facoltà di riscossione (dei crediti) e di rivendica (delle cose mobili) riconosciutegli dalla legge pur in difetto di un acquisto diretto della titolarità dei diritti, sia perché il mandante è comunque obbligato a ritrasferire al mandatario quanto acquisito nel corso del mandato". In definitiva il principio di diritto per cui: commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, violando le disposizioni impartitigli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto per l’adempimento del mandato e lo utilizzi per propri fini (Cassazione n. 50156/2015), va esteso anche al mandato senza rappresentanza. A meno che il mandatario "non abbia legittimo diritto di ritenzione per la natura del mandato conferitogli", nel caso di mandato in rem propriam, "o limitatamente ai crediti, per soddisfarsi delle spese e dei compensi cui ha diritto". "Segreto istruttorio, è ora di riesumarlo". E il "Fatto" scoprì la riservatezza di Piero Sansonetti Il Dubbio, 13 ottobre 2016 C’è un titolo sul "Fatto Quotidiano" di ieri (richiamato anche in prima pagina) francamente sensazionale. È questo: "Segreto istruttorio, è ora di riesumarlo". L’articolo che sorregge questo titolo ad effetto è una riflessione molto ragionevole di Massimo Fini. Cosa c’è di sensazionale in questo titolo? Due cose: la prima è che campeggi sulle pagine del "Fatto". Cioè sul giornale che fino a ieri mattina considerava l’ipotesi del segreto istruttorio una vera e propria mordacchia degna solo di stati totalitari e di dittature feroci. Una minaccia per la libertà di stampa. Negli ultimi venti o trenta giorni la demolizione di ogni ipotesi di segreto nelle indagini aveva fatto capolino almeno una decina di volte negli editoriali di Travaglio. L’ultima volta è stato venerdì scorso, quando il direttore del "Fatto" ha scritto un articolo indignato contro la Procura di Roma che - rispettando a sorpresa la legge - aveva mantenuto riservata per diversi mesi l’informazione sulle indagini in corso (per "Mafia capitale") sul presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti. Ma che modo è?, si era lamentato Travaglio: ci avvertite che state indagando su Zingaretti quando avete già deciso di archiviare? E noi come facciamo a metterlo sulla graticola? È una vigliaccata... Capite bene che dopo aver letto quell’articolo - francamente paradossale - di Travaglio, non si può non fare un salto sulla sedia trovandosi a leggere l’articolo di Fini. La seconda ragione sello stupore sta in quella parolina: "ora". Che vuol dire "ora"? Da circa 24 anni l’assenza del segreto istruttorio e la violazione della Costituzione e dello stesso codice di procedura penale ? da parte di inquirenti e giornalisti - ha provocato decine e decine di crisi di governo, sia a livello nazionale che regionale o locale. Ha sterminato alcuni partiti politici. Ha raso al suolo carriere di decine di dirigenti di partito poi risultati innocenti. Ha provocato cambi di maggioranze parlamentari e regionali e rovesciamenti di risultati elettorali (come successe a Berlusconi nel 1995 e forse anche nel 2011 e come successe a Prodi nel 2006). Ha anche spinto alcuni nostri concittadini al suicidio, ai tempi di Tangentopoli. Dunque perché "ora"? Cosa c’è di nuovo e di così più grave della caduta dei governi? Non ci vuole molto a capire a cosa si riferisca quell’"ora": al caso Muraro. Al coinvolgimento dei "5 stelle" in inchieste giudiziarie, e soprattutto in robuste fughe di notizie delle quali sono protagonisti magistrati e giornalisti dei grandi giornali e vittime, stavolta, i grillini. E questo fa indignare il giornale che, più o meno apertamente, rappresenta le ragioni e gli interessi del movimento di Grillo. Detto ciò, l’articolo di Massimo Fini è una riflessione molto seria sulla prepotenza di parte della magistratura e sulla infingardaggine di settori molto grandi del giornalismo, ai quali appartiene, a pieno titolo, il giornale per il quale Fini scrive. Fini propone una soluzione drastica, e legislativa, al problema, e chiede il segreto tombale sulla fase delle indagini. In realtà non ci sarebbe bisogno di nuove leggi: questo segreto già è previsto dalla Costituzione, che all’articolo 111 (piuttosto sconosciuto nel dibattito pubblico, e aborrito sicuramente da molti magistrati e giornalisti, e forse anche da un certo numero di costituzionalisti, visto che quasi mai viene citato) prevede il diritto degli indagati ad "essere informati riservatamente" dell’avvio delle indagini su di loro. In questi anni, almeno se l’indagato era di qualche notorietà (ma non solo) la riservatezza si è realizzata, di solito, con una conferenza stampa, oppure con la diffusione della notizia attraverso un giornale amico. È importante che persino la parte più giustizialista dell’intellettualità e del giornalismo italiano inizi a porsi qualche domanda su queste pratiche barbare di azione giudiziaria e di lotta politica. Potrebbe essere l’inizio di un ripensamento, di un ritorno al mito, ormai dimenticato, dello stato di diritto. P. S. Sul "Fatto" prosegue la campagna contro l’immunità parlamentare. In particolare contro l’estensione dell’immunità parlamentare ai 100 consiglieri regionali (o sindaci) che, con la riforma costituzionale, diventeranno senatori. Campagna nobile e di alto valore etico. Però infondata. Sarebbe come se i circoli repubblicani (se esistono: sennò potremmo fondarli) raccogliessero le firme per l’abolizione dei titoli nobiliari: marchese, principe, barone. I titoli nobiliari non esistono più da 70 anni, abolirli è impossibile. L’immunità parlamentare non esiste più dal 1993. È stata tolta dalla Costituzione (forse con un colpo di mano, al quale nessun costituzionalista si oppose...). È rimasta l’impunità dei parlamentari per i delitti di opinione (e magari sarebbe il caso di estenderla a tutti i cittadini) e il divieto di arresto e di perquisizione senza autorizzazione delle Camere (immagino che neanche Travaglio vorrebbe abolire queste minime garanzie per la democrazia rappresentativa). Oltretutto questa forma molto blanda di "protezione" è attualmente a favore di 315 senatori: se vince il sì sarà a favore solo di 100 senatori, quindi si ridurrà. Questo non toglie nulla all’ipotesi che Renzi sia un farabutto matricolato; però, insomma, non dovrebbe essere tanto difficile trovargli colpe più verosimili. Livorno: mensa ko e niente acqua calda, scoppia la protesta dei detenuti Il Tirreno, 13 ottobre 2016 La cucina nuova pronta da anni non è ancora stata aperta. Nell’alta sicurezza si batte sulle sbarre delle celle. Rifiuto del carrello, accompagnato da lunghi colpi sul metallo delle sbarre delle celle. Colpi che lunedì hanno riecheggiato nei corridoi del carcere di Livorno fino a tarda sera. Gli oltre cento detenuti che vivono nel padiglione dell’alta sicurezza sono in stato di agitazione: da due giorni protestano per la mensa nuova ma mai aperta e per l’acqua calda che, a quanto risulta, in questa ala del carcere manca da più di una settimana. A riferirlo è il garante dei detenuti, Marco Solimano, che ieri mattina ha raggiunto la struttura. "Da lunedì - conferma - i detenuti dell’alta sicurezza sono in stato di agitazione. Protestano per alcune cose che per loro sono fondamentali, a partire dal vitto". "La nuova cucina - spiega Solimano - non è mai stata aperta: era già attrezzata quando fu inaugurato il nuovo padiglione, circa due anni fa. Per lungo tempo ci è stato detto che era rimasta chiusa per questioni burocratiche, ora scopriamo che il problema potrebbe essere ben più importante, di carattere strutturale". I riflettori sono puntati sui lavori eseguiti, sullo spessore delle colonne, su cui il garante chiede di fare chiarezza. Ma intanto resta il problema della qualità della mensa. "È una questione di sicurezza - sottolinea Solimano -: la nuova cucina, che è attrezzata come un albergo a cinque stelle, non viene utilizzata e viene utilizzata una cucina vecchissima, che avrebbe dovuto essere chiusa da tempo. I detenuti stanno facendo il rifiuto del carrello, accompagnato da battiture di un’ora sui ferri delle loro celle. Se la situazione non sarà risolta, faranno lo sciopero della spesa e passeranno allo sciopero della fame a oltranza". Ad esasperare la situazione è stato anche un problema che si è presentato negli ultimi giorni. "Si è rotta una pompa - spiega il garante - e da otto giorni, mentre è arrivato il freddo, sono senza acqua calda. La pompa è già stata ordinata, sta per arrivare, ho avuto rassicurazioni dalla direzione e spero che a breve la situazione possa essere risolta. Perché in un clima già teso, è fonte di grande nervosismo". Questa è la prima richiesta, guardando all’immediato. Poi c’è la mensa: "Chiedo che le questioni poste dai detenuti, che hanno a che fare con la dimensione igienico-sanitaria, vengano immediatamente superate. Se mancano attrezzature idonee, si prendano dalla cucina mai utilizzata: se la nuova area è chiusa, mettiamo almeno quella vecchia in condizione di funzionare bene. Perché a questo punto abbiamo capito tutti che non si tratta più di una fase transitoria". In più viene chiesto che ci sia un "turnover tra i detenuti della media e dell’alta sicurezza che lavorano nella mensa, perché ritengono che anche con il poco che viene messo loro a disposizione, possa essere migliorata la qualità del cibo". Salerno: il Tar riapre il carcere di Sala Consilina di Filippo Tizzi infocilento.it, 13 ottobre 2016 Il carcere di Sala Consilina potrebbe riaprire i battenti. Questo almeno secondo quanto deciso dai giudici del Tar Campania, sezione distaccata di Salerno, che hanno accolto il ricorso presentato dal comune di Sala Consilina contro il Ministero della Giustizia, respingendo tutte "le eccezioni d’inammissibilità del ricorso, sollevate dalla difesa dell’Amministrazione della Giustizia" e riconoscendo l’interesse dell’amministrazione comunale valdianese ad impugnare il decreto soppressivo della Casa Circondariale. Secondo il tribunale, in particolare, il provvedimento di soppressione viola "immotivatamente e ingiustificatamente" il principio della territorialità, privando "un vastissimo territorio, coincidente con il circondario del Tribunale di Lagonegro, di un istituto penitenziario con ingiustificato pregiudizio per la comunità locale e per gli operatori del diritto (oltre che, s’osserva, per gli stessi detenuti e per le loro famiglie)". Ritenuta fallace dai giudici amministrativi, inoltre, anche la motivazione economica della soppressione del carcere considerato che "L’impugnata soppressione costringe l’Autorità Giudiziaria di Lagonegro ad utilizzare una delle seguenti strutture penitenziarie, tutte esterne al circondario del Tribunale: - casa circondariale di Castrovillari (CS), distante circa 75 km e con tempi di percorrenza di 1 ora e 15 min.; - casa circondariale di Potenza, distante oltre 100 km e raggiungibile in 1 ora e 30 min.; - casa circondariale di Vallo della Lucania, distante circa 100 km e raggiungibile in 1 ora e 10 min.; - casa di reclusione di Eboli, distante 100 km, con tempi di percorrenza superiori a un’ora; mentre la Casa circondariale di Sala Consilina distava, dal Tribunale di Lagonegro, solo 40 km e i tempi di percorrenza erano inferiori ai 30 minuti". "Orbene - si legge nella sentenza - se si scorre il testo dell’impugnato D. M. del 27.10.2015, di soppressione della casa circondariale di Sala Consilina, non si trova il benché minimo accenno alle tematiche, pur considerate centrali, sia a livello legislativo, sia nella stessa prassi attuativa del Ministero della Giustizia, della territorialità dell’esecuzione penale e del suo corollario, del massimo avvicinamento delle strutture carcerarie ai detenuti, alle loro famiglie, ai loro difensori, più in generale al contesto territoriale di riferimento". Di qui la decisione accogliere la richiesta dell’amministrazione comunale di annullare il provvedimento del Ministero della Giustizia, condannato al pagamento delle spese e dei compenti relativi al giudizio. Nuoro: Fns-Cisl; alla Colonia penale di Mamone situazione insostenibile La Nuova Sardegna, 13 ottobre 2016 La situazione è ormai insostenibile. "Basti pensare che non funzionano nemmeno i depuratori e i nuovi pannelli solari, i nuovi frigo delle cucine detenuti, i gruppi elettrogeni non vengono sistemati e sono indispensabili per quando manca la corrente, specialmente nel periodo invernale". È la panoramica della Colonia penale di Mamone fatta dalla Fns-Cisl. "La caserma agenti è un obbrobrio dove mai nessuno ha pensato di investire finanziariamente, passarvi sere e notti d’inverno è una sfida alla natura. Intanto il personale è costretto ad acquistare buste della spazzatura e detersivi perché non vuole lavorare in mezzo alla sporcizia. Dov’è l’amministrazione? - incalza Nino Manca, segretario generale della Fns-Cisl. Perché si permette tutto questo? E non dimentichiamo di sottolineare, anche se lo abbiamo già fatto e non abbiamo mai ricevuto risposta, che negli uffici si fa a gara per usare una stampante, in qualche diramazione la stampante in uso è del personale, come si suole dire… ma dove vogliamo andare?". La Fns-Cisl interpella ancora una volta i vertici dell’amministrazione penitenziaria (in particolare Maurizio Veneziano, provveditore amministrazione penitenziaria Regione Sardegna) sulla assegnazione dei detenuti alle Colonie agricole della Sardegna (Mamone, Isili e Is Arenas). Il sindacato chiede un incontro "per discutere del futuro che interessa le tre Colonie agricole della Regione Sardegna di Mamone, Is Arenas e Isili. Nel prendere atto dell’impegno dell’amministrazione, in particolar modo del capo del dipartimento presidente Santi Consolo - sottolinea Manca, che da tempo ha indirizzato la sua attenzione al futuro delle Colonie agricole sarde, ci chiediamo quale ruolo avrà la polizia penitenziaria e quale nuova organizzazione del lavoro bisognerà prevedere considerato che in tale circolare si fa riferimento anche alle assegnazioni di ergastolani così come riportato nei criteri d’accesso. Come lei ben sa gli organici di polizia penitenziaria, finanche di personale civile amministrativo, delle tre Colonie agricole non sono sufficienti a garantire i servizi e quindi alla copertura di tutti i posti necessari e questo già con un numero non elevato di utenza figuriamoci se questa aumentasse al massimo della capienza, significherebbe un aumento dei carichi di lavoro difficilmente gestibili". "Altresì bisognerebbe approfondire, e in modo concreto, la situazione in cui versano i mezzi di trasporto persone e per il lavoro nei campi, oggi in queste strutture possiamo dire che vi sono dei cimiteri dedicati ai mezzi e alcuni di questi risultano operativi ed invece il loro posto dovrebbe essere nel fuori uso". Verona: i detenuti di Montorio cureranno il verde pubblico del Parco delle Mura veronasera.it, 13 ottobre 2016 Ufficializzata la collaborazione fra Amia, Legambiente e il carcere. "Un’ulteriore possibilità a coloro che desiderano riscattarsi", ha commentato il presidente di Amia Andrea Miglioranzi. È stata da poco ufficializzata ma la collaborazione fra Amia, Legambiente e il carcere di Montorio era già attiva da alcuni mesi. Il progetto rientra in un percorso sociale per favorire il reinserimento dei detenuti ed ex detenuti nella vita quotidiana e nel mondo del lavoro. Amia da anni sostiene il lavoro di Legambiente attraverso una convenzione per la gestione di alcune aree verdi del Parco delle Mura di Verona e Legambiente per la cura quotidiana di queste aree verdi si avvale di persone provenienti dal mondo del disagio sociale e da settembre, in occasione di Puliamo il Mondo, ha accolto quattordici detenuti che hanno svolto il lavoro, assieme ai volontari, per la pulizia del vallo di San Francesco e dell’Adige. Ora la convenzione è stata formalizzata con la casa circondariale di Montorio, diretta da Maria Grazia Bregoli che è stata ringraziata dal presidente di Amia Andrea Miglioranzi. "Credo che questa strada sia un primo, fondamentale passo per piegare virtualmente le sbarre del carcere ed evitare il rischio di recidive", ha commentato Miglioranzi. L’inserimento dei detenuti riguarderà la manutenzione e la cura del verde pubblico, con la guida di Legambiente. I detenuti regoleranno l’erba, rimuoveranno rami secchi e sterpaglie, ripuliranno aiuole e giardini. E insieme al nuovo lavoro impareranno o recupereranno l’importanza del rispetto delle regole. "Grazie a progetti come questo possiamo dare un’ulteriore possibilità a coloro che desiderano riscattarsi ed inserirsi nel mondo del lavoro - ha concluso Miglioranzi. Tutto sotto gli stessi valori sociali della solidarietà e del rispetto della dignità di tutti. Perché il confronto ed il rispetto delle regole sono valori indiscutibili, a prescindere dalla realtà che si vive". Firenze: i Garanti dei detenuti riuniti in memoria di Alessandro Margara controradio.it, 13 ottobre 2016 La situazione del carcere dopo gli Stati generali. Se ne parlerà oggi, giovedì 13 ottobre, a partire dalle ore 9.30, nel convegno, in onore di Sandro Margara, che vede riuniti i garanti dei detenuti regionali e comunali a Firenze. L’appuntamento che si tiene in auditorium a palazzo Panciatichi (via Cavour 4), sarà aperto dal presidente del Consiglio regionale della Toscana, Eugenio Giani. Tra le relazioni il Garante nazionale Mauro Palma parlerà dello "Stato dell’arte in Italia: dagli Stati generali dell’esecuzione penitenziaria alla legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario"; il magistrato Fabio Gianfilippi interverrà su "I nodi irrisolti del carcere, la prospettiva del magistrato di sorveglianza nel rapporto con il garante per i diritti dei detenuti"; Corrado Marcetti affronterà "Il caso Toscana" mentre Katia Poneti e Saverio Migliori discuteranno rispettivamente di "Salute in carcere: sezioni psichiatriche penitenziarie, tossicodipendenze, riduzione del danno" e "Trattamento rieducativo, percorsi di reinserimento e alternativa al carcere". Ad introdurre e coordinare la tavola rotonda di discussione sarà Franco Corleone. Le conclusioni alle 18 saranno affidate al sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri. Un’esperienza virtuosa di cui vogliamo dare notizia è quella dell’orto curato da detenuti per coltivare ortaggi da consumare all’interno del carcere. È il progetto "L’orto, luogo di incontri e di vita" che si è concretizzato nella fortezza di Volterra (Pisa) e nato dalla collaborazione tra la direzione del carcere, il Comune e la Misericordia. Tre detenuti hanno usufruito di un regime più attenuato, potendo uscire quotidianamente per recarsi negli spazi aperti extra-murari dell’istituto per curare l’orto e coltivare zucchine, pomodori e peperoncini. Varese: Gherardo Colombo "rispettate la Costituzione e si potranno chiudere le carceri" Varesenews.it, 13 ottobre 2016 Lezione dell’ex PM di Mani Pulite Gherardo Colombo ai ragazzi che hanno partecipato al concorso "Esprimi i tuoi diritti". Una lezione tra legalità, libertà e rispetto. "Calamandrei, padre costituente, diceva: "La Costituzione è come un foglio di carta. Se lo reggi con le dita rimane in piedi, altrimenti cade". Se non saprete far vivere i valori di questa Carta la nostra società avrà sempre problemi". Gherardo Colombo, ex magistrato protagonista di Mani Pulite, dimessosi dalla magistratura nel 2007 ha incontro questa mattina, nell’aula magna dell’Università dell’Insubria, gli studenti del ciclo primario, protagonisti del concorso promosso dal Villaggio SOS di Morsolo insieme a Unicef "Esprimi i tuoi diritti". Discriminazioni a cui siamo abituati - Una lezione di diritto e società che ha coinvolto i ragazzini con domande del loro vissuto quotidiano: "Voi siete ascoltati? Non tanto? E come mai? forse perché anche voi non ascoltate? E chi vi ha detto che si può non ascoltare e fare solo ciò che si vuole". Gherardo Colombo si è soffermato su alcune situazioni ormai così connaturali alla nostra quotidianità che nemmeno ci facciamo più caso: "Perché nelle scuole esistono i "bagni per i docenti"? Cosa significa? Che i ragazzi non possono utilizzarli in quanto selvaggi? Questa discriminazione non viene più colta ma ha un significato molto preciso" Il valore della libertà - Un discorso di legalità e civiltà che ha spaziato dai temi delle tasse, che permettono di usufruire dei servizi basilari quali scuola e ospedali per cui è importante che tutti le si paghi, a quelli dell’istruzione: " neonati quale libertà hanno? solo quella di gridare per farsi ascoltare dagli adulti. A mano a mano che crescono, aumentano le loro possibilità. E sapete a cosa si deve questo aumento della libertà? Alla conoscenza: più sappiamo e più siamo liberi. Per questo motivo la scuola è obbligatoria fino a una certa età, ritenuta sufficiente per darvi tutte le nozioni importanti a fare le scelte consapevoli. Chi avrà accumulato più informazioni nel percorso della conoscenza, sarà avvantaggiato perché non dovrà dipendere da nessuno". Conoscenza, libertà e rispetto - "Tutte le persone hanno pari dignità. La nostra Costituzione ne fa un valore fondamentale: imparate a rispettarvi tutti, al di là delle questioni legate al sesso, alla razza, alla religione, al ceto sociale. In questo modo e solo in questo modo non ci sarà più bisogno di giudici che mettono in galera gli uomini". Asti: "L’altra chiave" per lavorare in carcere, a lezione di serenità e mediazione di Selma Chiosso La Stampa, 13 ottobre 2016 Quando si pensa al carcere in automatico il pensiero va ai detenuti. Ma dietro alle sbarre c’è anche tutto un altro mondo. È quello di chi tutti i giorni con fatica e dedizione ci lavora: polizia penitenziaria, impiegati, educatori, volontari, docenti, medici. Il carcere di Asti, diretto da Elena Lombardi Vallauri, è vissuto da molte persone con ruoli diversi e 280 detenuti ad alta sicurezza. In questi giorni si sta inaugurando un nuovo progetto, dedicato a tutti, ma proprio tutti, coloro che ci lavorano. È innovativo perché basato su istruzione, crescita professionale, inclusione. Nasce dentro ma apre finestre sul mondo. Come? Con "L’altra chiave" questo il nome del progetto finanziato dalla Compagnia San Paolo. Elena Lombardi Vallauri spiega: "L’istituto ha cambiato destinazione dalla primavera del 2015. Il compito affidato richiede un cambiamento che il personale della Casa di reclusione di Asti insieme agli interlocutori della comunità locale ha deciso di affrontare. Tutti insieme ci siamo seduti attorno ad un tavolo e con umiltà e spirito critico abbiamo definito le carenze e i bisogni da colmare per offrire alla cittadinanza un servizio di qualità. Operare per la sicurezza, per gli operatori penitenziari significa essere qualificati professionisti nella presa in carico delle persone detenute che lo Stato affida". Ed è emerso un bisogno comune: lavorare in un ambiente sereno e avere gli strumenti per mediare i conflitti. Il conflitto, in una comunità ristretta colpisce tutti. Questo è stato il punto di partenza. Tra le docenze offerte al personale della casa di reclusione c’è anche il teatro del conflitto come tecnica di apprendimento. Il progetto si svolge in diversi momenti con lezioni specifiche, tecniche e laboratori. La parola chiave è: ascolto. Il carcere di Asti si pone però anche come risorsa per la comunità: "Noi viviamo fisicamente distanti dalla collettività ma abbiamo l’esifenza di farne parte, di lasciarci conoscere", ha detto il direttore. Ed è per questo che quattro lezioni sono aperte a tutti, rilasciano crediti formativi a insegnanti e giornalisti, e il Comune ha messo a disposizione gratuitamente sala Pastrone. Oggi a scuola dalla Mobile - Il primo incontro moderato dal giornalista Claudio Cerrato, ha avuto come focus il conflitto. Il tema è stato trattato dal docente universitario e criminologo Adolfo Ceretti e dall’avvocato Federica Brunelli della cooperativa Dike di Milano. Il secondo appuntamento è oggi alle 17 (sempre in sala Pastrone). Il tema è l’evoluzione della criminalità organizzata in Piemonte. Ne parla Marco Martino dirigente della squadra mobile di Torino. Sempre di criminalità ma in riferimento alle mafie e alla loro radicalizzazione si disquisirà il 23 novembre con il sociologo Marco Sciarrone. Gli incontri pubblici si chiudono a febbraio con Claudia Mazzuccato docente di diritto penale e Adolfo Ceretti che aprono al futuro con una conferenza sulla giustizia riparatrice. I promotori - Il progetto è stato firmato da tante mani: la direzione e personale della Casa di reclusione; garanti dei detenuti; Fondazione Goria; Libera; cooperativa Jokko; Comune; Provincia; Gol (gruppo attivo locale); sindacati di polizia penitenziaria; Effatà; Università di Torino, Cattolica, Bicocca, del perdono; centro studi Federico Stella. Milano: progetto "Opera... azione Libertà" all’Istituto penale minorile Cesare Beccaria L’Opinione, 13 ottobre 2016 Un progetto didattico di Siae con il patrocinio del ministero della Giustizia - Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità dal nome "Opera... azione Libertà!" e uno spettacolo teatrale intitolato "Belli, ricchi e cattivi... all’opera", pensato e costruito per unire tre mondi solo apparentemente distanti: l’opera lirica - ambito in cui gli autori italiani hanno una tradizione d’eccellenza - i ragazzi delle scuole elementari del comune di Milano e i giovani detenuti dell’Istituto penale minorile "Cesare Beccaria". Il progetto, nato da un’idea dell’avvocato Maria Grazia Maxia, presidente della Federazione Autori, consigliere di Sorveglianza Siae, che dal 2010 si occupa della realizzazione di progetti per la valorizzazione degli autori di opere liriche moderne, è sviluppato da Cristina Bersanelli, musicista e autrice di libri didattici dedicati ai bambini sull’opera lirica, dal regista e autore teatrale Davide Garattini Raimondi e dalla discografica e vocal coach Chiara Bella. La prima edizione di Opera... azione Libertà!, realizzata grazie al sostegno della Società Italiana degli Autori ed Editori, ha preso il via lo scorso 6 settembre presso il carcere minorile "Cesare Beccaria" di Milano con un corso di introduzione alle opere, ai libretti e alle vite dei compositori dal titolo "Tre vite Rock". Al termine degli incontri ai ragazzi è stata proposta la partecipazione a un laboratorio finalizzato alla messa in scena di uno spettacolo per bambini sul magico mondo della lirica, in un ideale passaggio di testimone tra giovanissimi. Hanno aderito 14 ragazzi tra i 14 e i 25 anni, che partecipano al laboratorio (di 6 ore a settimana) e che a breve diventeranno protagonisti dell’allestimento: attori, assistenti alla regia, alle luci e ai costumi. L’avvocato Maxia terrà alla fine del percorso una lezione sull’importanza di tutelare il diritto d’autore. Il progetto vede i cattivi dell’opera lirica sfidarsi a suon di racconti delle loro più atroci gesta: Iago, Don Giovanni e Scarpia confessano i loro peccati mostrandosi più perfidi che mai, e i piccoli spettatori dovranno stabilire chi di loro è il più cattivo. Il prossimo 25 novembre (alle ore 10.30), presso il nuovissimo Teatro annesso all’Istituto di pena, andrà in scena lo spettacolo, frutto di tre mesi di lavoro: per la prima volta in Italia, e grazie al linguaggio musicale e teatrale, il mondo della lirica, quello dei bambini e quello dei giovani detenuti si potranno incontrare. Il pubblico sarà composto da bambini e ragazzi dai 6 ai 10 anni, che assisteranno a uno spettacolo teatral-musicale all’interno dell’Istituto penale Beccaria. Le scene e gli oggetti sono realizzati dalla falegnameria del carcere, mentre il celebre atelier teatrale Brancato fornirà i costumi di scena gratuitamente. Per assistere allo spettacolo è possibile chiedere informazioni all’indirizzo mail belliricchiecattivi@gmail.com. Catania: progetto della Lega Navale "offriamo un’alternativa ai minori detenuti" di Livio Mario Cortese livesicilia.it, 13 ottobre 2016 Saranno in venti i minori italiani e stranieri, già sottoposti a procedimenti giudiziari, che dai primi di ottobre potranno beneficiare di mezzi e strutture della Lega Navale. Il progetto, messo a punto nei mesi scorsi dalla sezione catanese, ha l’obiettivo di offrire ai giovanissimi detenuti l’alternativa di un contesto sano nel quale apprendere anche l’arte velica. "L’iniziativa va ad intrecciarsi con quella portata avanti in collaborazione con l’Unità Spinale del Cannizzaro, che continua a mandare da noi diverse tipologie di disabili: saranno proprio i ragazzi ad assisterli, insieme ai nostri volontari", illustra il presidente Domenico Nicotra: "Creiamo competenze: imparare a gestire un’imbarcazione o un ormeggio, e a navigare in sicurezza. Sono tutte attività che servono a responsabilizzarsi". I primi risultati sembrano incoraggiare tale sistema, che nelle prossime settimane troverà applicazione in tutte le sezioni della Lega Navale sparse lungo la penisola, grazie ad un protocollo d’intesa col Dipartimento per la Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia. Ma l’attuazione, perlomeno a Catania, non manca di complicazioni anche basilari. "L’ormeggio rimane un problema", lamenta Nicotra: "lo spazio concesso per le nostre imbarcazioni è minimo, dobbiamo districarci in mezzo ai pescherecci; tre metri in più farebbero la differenza, e quando dobbiamo condurre a bordo dei disabili il problema diviene pressante". Per non pregiudicare la sicurezza dei portatori di handicap, la Lega si appoggia estemporaneamente al Diporto Nautico. Anche gli spazi associativi, organizzati ma alquanto ridotti, sembrano risentire di una minima considerazione da parte degli enti pubblici. "Per mezzo nostro, il Comune potrebbe beneficiare di servizi prestigiosi e per di più gratuiti", fa notare ancora il presidente, "eppure continuiamo ad urtare contro un muro di gomma". E mentre persino Al Jazeera English si è interessata a questa situazione, altre città italiane iniziano ad adottare strutture nautiche e imbarcazioni più facilmente accessibili. "A Palermo il pontile per disabili è un orgoglio per il Comune", ci viene detto. Malgrado i crucci, la Lega Navale continua a proporre la propria collaborazione nel settore istruzione: oltre al rapporto consolidato col Politecnico del Mare, si parla di un prossimo protocollo col Cinap dell’ateneo catanese: un ente volto a fornire servizi utili agli studenti affetti da disabilità. Nell’immediato, i volontari della LNI saranno presenti domenica 9 ottobre con uno stand ed una lezione di avviamento alla vela rivolta ai giovani affetti da dislessia e altri disturbi dell’apprendimento; l’evento farà parte delle iniziative comprese entro la Settimana Nazionale della Dislessia, con l’obiettivo di informare e sensibilizzare il pubblico su questo complesso di problemi ancora poco noti e in via di riconoscimento anche nell’ambito didattico. "Ti racconto il mio Opg", il primo libro dell’infermiere Armando Pirolli di Giuseppe Della Gatta pupia.tv, 13 ottobre 2016 È un infermiere aversano, Armando Pirolli, il terzo classificato del primo concorso letterario nazionale "Gustavo Pece", indetto dalla casa editrice romana "La Ruota Edizioni". Premiato lo scorso 1 ottobre, durante la celebrazione tenutasi nel comune molisano di Forlì del Sannio, Pirolli ha conquistato il podio con l’opera di narrativa "Ti racconto il mio O.P.G.". Lo scrittore, attualmente infermiere presso il reparto di servizio psichico del nosocomio Moscati di Aversa, è stato, infatti, ex caposala presso l’Ospedale Giudiziario "Filippo Saporito" della città normanna. Il racconto, come si evince dal titolo, racconta del proprio vissuto, sia lavorativo che di vita, avvenuto all’interno delle mura della struttura. Situazioni complicate, ed esperienze di notevole portata, quelle scritte nelle pagine del libro, che hanno portato la giuria del concorso a motivare con queste parole il terzo posto dello scrittore aversano: "Per la capacità dell’autore di aprire degli squarci intensi nell’animo di chi legge, raccontando una realtà di vita vissuta da un operatore all’interno del complicato contesto di un ospedale psichiatrico giudiziario. Una narrazione breve, ma efficace, scorrevole e coinvolgente". L’idea di tale opera, racconta Pirolli, nasce dal presupposto di creare una specie di colloquio intimo con se stesso, una sorta di diario, diremmo, dove si vanno ad intrecciare la propria coscienza con il proprio vissuto lavorativo. Un tema come quello degli Opg, che andarono in sostituzione ai vecchi manicomi criminali, rimane ancora oggi un argomento scottante, tanto che ha portato la politica a constare la loro chiusura definitiva con la legge 9/2012. A tale proposito, Pirolli, attraverso il suo libro, riesce anche a trasmettere un "grido di rabbia" verso coloro che hanno messo in luce sempre e solo gli aspetti negativi di queste storiche istituzioni. Il libro, infatti, diviene fonte di tanti aspetti positivi che si creavano all’interno della struttura giudiziaria aversana, come racconta lo stesso ex caposala: "Ci sono per esempio racconti che narrano di partite di calcio, ma anche del Natale, di feste organizzate pur non avendo risorse a disposizione, ma anche di delusioni e di amarezza". Constatando, attualmente, che le sezioni psichiatriche dei penitenziari sono già piene, viene automatico porsi tanti interrogativi riguardo la chiusura degli ospedali giudiziari. Criticamente, infatti, lo scrittore si chiede:" Le nuove realtà residenziali sono davvero le soluzioni più adatte per i pazienti? Ci siamo mai chiesti se la chiusura sia stato veramente un bene per i tanti ammalati psichiatrici?". Armando Pirolli, dunque, fa del suo libro un cavallo di battaglia, ribadendo più volte che queste realtà non andavano chiuse, ma dovevano essere fonte di opportunità per i pazienti nel potersi aprire col mondo esterno e reintegrarsi col tessuto sociale. "Ti racconto il mio O.P.G." sarà curato e pubblicato dalla casa editrice "La Ruota Edizioni" e vedrà la sua comparsa sugli scaffali delle librerie nei primi mesi del 2017. Migranti. L’Europa riforma Dublino, norme più dure per rifugiati di Carlo Lania Il Manifesto, 13 ottobre 2016 Le nuove regole non tengono conto delle richieste italiane. Domande di asilo esaminate anche in assenza dell’interessato. È l’esatto contrario di quanto l’Italia sta chiedendo a Bruxelles da anni, la dimostrazione di come gli egoismi nazionali riusciranno probabilmente ancora una volta a prevalere sul principio di solidarietà - anche tra Stati membri - che dovrebbe essere alla base dell’Unione europea. La riforma di Dublino III - il regolamento che impone al Paese di primo sbarco o di primo ingresso via terra di farsi carico dei rifugiati - sta per approdare in Commissione Libertà e Giustizia dell’Europarlamento (relatrice la svedese Cecilie Wikstrom) ma le modifiche che la Commissione europea presieduta da Jean Claude Juncker propone in una relazione di oltre cento pagine contraddicono le aspettative di Matteo Renzi e preparano un ulteriore restringimento dei diritti di quanti cercano in Europa un rifugio sicuro. Anziché istituire un sistema unico centralizzato dividendo così la responsabilità nell’esame delle domande di protezione - come previsto da una risoluzione approvata dal parlamento di Strasburgo - le nuove norme continuano infatti a scaricare la responsabilità dell’accoglienza sui paesi di primo sbarco (Italia e Grecia in testa) e prevedono il respingimento di fatto della domanda di asilo per il richiedente asilo che si trasferisce in un paese diverso da quello in cui è arrivato. Se approvato, quindi, Dublino IV rappresenterebbe un passo indietro anche rispetto all’Agenda Immigrazione presentata da Juncker - dove si auspicava il superamento di regole che si sono rivelate un fallimento e l’istituzione delle quote obbligatorie di profughi - rappresentando allo stesso tempo per l’Europa l’ennesimo fallimento nella gestione dei migranti. A novembre la commissione Libertà e Giustizia comincerà l’esame del testo e per il momento non sono previsti colpi di scena positivi. Oltre a confermare in pieno la responsabilità dei paesi di primo sbarco, sono previste forti limitazioni per i profughi, ai quali viene di fatto imposto di non muoversi dal paese in cui sono arrivati. Coloro che dopo aver presentato domanda di asilo decidono di trasferirsi in un altro Stato europeo, magari per raggiungere un familiare, rischiano di vedersi respingere lo status di rifugiato. Le nuove norme prevedono infatti che lo Stato a cui spetta la decisione possa, contrariamente a quanto accade oggi, esaminare la richiesta di asilo con procedura accelerata e in assenza dell’interessato, che così non potrà spiegare le proprie ragioni. "Il che significa che la domanda verrà quasi sicuramente bocciata sperando che questo possa servire da deterrente", commenta Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Ma non basta. Anche se si trova in un Paese "sbagliato", oggi un richiedente asilo ha diritto a un posto dove dormire e mangiare e all’assistenza sanitaria e legale, diritti destinati a cadere in futuro. "Rischiando così di creare una bomba sociale, con migliaia di persone abbandonate per strada senza più alcun aiuto" avverte Schiavone. Per quanto riguarda un’eventuale distribuzione dei profughi tra gli Stati, l’unico momento in cui è prevista è quando il paese di prima accoglienza deve far fronte a un numero eccessivo di domande. I criteri per stabilire la quantità massima di richiedenti asilo che un singolo stato può ospitare si basano sulla popolazione e il Pil. Se il tetto fissato viene superato del 150% si attiva un meccanismo di distribuzione automatica i cui principi di funzionamento non sono però molto chiari. L’unica cosa certa è che non è prevista la consultazione dei parlamenti nazionali, proprio quello contro cui si sono sempre battuti i paesi dell’Est e si può escludere che possano cambiare posizione. Infine i minori non accompagnati. Anche loro potrebbero dover fare richiesta di asilo nel paese in cui sono sbarcati e non, come accade oggi, in quello in cui si trovano al momento della presentazione della domanda. Migranti. Cittadinanza, l’Italia che non c’è in Parlamento di Luca Fazio Il Manifesto, 13 ottobre 2016 Un anno fa, era il 13 ottobre 2015, la Camera licenziò la proposta di riforma della legge sulla cittadinanza. Non è accaduto nulla, nemmeno è cominciata la discussione alla Commissione Affari Costituzionali. Il tempo stringe e la strada per il referendum è sempre lastricata di buone intenzioni e promesse impossibili da mantenere. In questo caso il governo, o meglio una parte del Pd, spinge perché il Senato calendarizzi al più presto la discussione sulla riforma della cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia (sono più di un milione). Un anno fa, era il 13 ottobre 2015, la Camera licenziò la proposta di riforma della legge sulla cittadinanza. Non è accaduto nulla, nemmeno è cominciata la discussione alla Commissione Affari Costituzionali. Il testo, infatti, è fermo al Senato non per colpa del bicameralismo perfetto - come vorrebbe far credere qualcuno - ma a causa degli 8 mila emendamenti presentati dalla Lega. Doris Lo Moro, senatrice del Pd e relatrice del ddl sulla cittadinanza, ha preso un impegno: "Faccio mia la richiesta di approvare la legge entro la fine dell’anno, ma ci troviamo di fronte a un tema delicato che provoca diversi scontri". Una missione quasi impossibile. La dichiarazione cade nel giorno in cui i giovani promotori della campagna "L’Italia sono anch’io" hanno deciso di manifestare tutto il loro disagio in alcune piazze italiane (oggi, con indosso un lenzuolo bianco, organizzano flash mob a Napoli, Padova, Palermo, Reggio Emilia e Roma). La legge, lasciano intendere, è inadeguata ma è meglio di niente. "Il ddl licenziato alla Camera - dicono - non è quello che avremmo voluto, presenta molte criticità e carenze sul tema delle naturalizzazioni, sulle misure atte a evitare la discrezionalità delle pubbliche amministrazioni nella valutazione delle singole richieste di cittadinanza, sull’introduzione della clausola del possesso da parte di uno dei genitori della Carta di lungo soggiornante, il cui rilascio è legato al reddito e alle dimensioni dell’abitazione, sulla normativa che riguarda i minori arrivati da piccoli in Italia". Detto questo, "la sua rapida approvazione consentirebbe che un milione di giovani di origine straniera ma italiani di fatto lo diventino anche per legge". In teoria, sulla carta, in aula potrebbe esserci una maggioranza disposta ad approvare il provvedimento, ma si sa che prima del referendum non si muove foglia. Tanto più che il livello del confronto lo detterebbe Roberto Calderoli che ieri ha replicato con parole inequivocabili, da sommare ad alcune farneticazioni sulle periferie ghetto di Bruxelles: "Continuerò a bloccare una legge pessima che il Pd sta cercando di far approvare solo per meri interessi elettorali di bottega". Se così stanno le cose, bisognerà vedere se il Pd avrà il coraggio di aprire un scontro politico su una materia così delicata. "Ad ogni modo - ha precisato Lo Moro - non voglio essere relatore di un provvedimento che resta impantanato e userò tutti gli strumenti a mia disposizione per farlo passare". Mancano settantanove giorni alla fine dell’anno. Il cambio di passo sui migranti, sfida di una sinistra riformista di Goffredo Buccini Il Manifesto, 13 ottobre 2016 Dai Comuni e dai sindaci sale una richiesta di sicurezza che se non gestita rischia di portare a xenofobia e a manifestazioni di razzismo. L’ultima viene da Calizzano, Liguria. Il sindaco di centrodestra del paesino ha invitato quaranta migranti, collocati dalla prefettura in un hotel del posto, a non usare i bus negli orari in cui gli studenti vanno a scuola. E certo l’"invito" ha un brutto retrogusto segregazionista, come dice il Pd regionale. Ma è anche vero che Calizzano è stato un Comune virtuoso nell’accoglienza, i migranti dovevano essere la metà, tensioni soprattutto con le studentesse ce n’erano: forse il problema non si risolve negandolo, ma magari con bus più frequenti, e meno affollati, e/o full immersion di educazione civica. C’è insomma una questione ben più grave del referendum del 4 dicembre a mettere in discussione la tenuta stessa della nostra democrazia: un’ondata migratoria da 150 mila persone l’anno, mille e mille Calizzano in arrivo. Per la sinistra riformista girarsi dall’altra parte significa lasciare, da un lato, al benaltrismo della sinistra massimalista (il vero problema non è il bus tra calca e imprecazioni ma l’eredità del colonialismo...) e, dall’altro, alla xenofobia della destra identitaria la gestione della sicurezza, vera o percepita, tema centrale della convivenza. Non si tratta di "copiare un po’" gli xenofobi, la gente alla fine sceglierebbe l’originale. Ma di prosciugare l’acqua dove nuotano: la paura, che ha contagiato l’Inghilterra della Brexit, l’Ungheria di Orbán, l’Austria appesa a un filo, la Francia e la Germania che s’accostano a un 2017 elettorale dove, inutile illuderci, i partner europei, alle prese con le loro grane, ci lasceranno soli. La mitica redistribuzione dei profughi s’è rivelata una fola per bambini. I migranti ci servono. Pagano già le nostre pensioni e, senza di loro, da adesso alla metà del secolo, la popolazione italiana calerebbe di alcuni milioni e sarebbe composta soprattutto di vecchi. Ma bisogna trovare il modo di farli stare con noi, non contro di noi. Il punto è stato colto a sinistra soprattutto dai sindaci, che vivono certi attriti sulla pelle. Giuseppe Sala a Milano ha strappato il velo chiedendo al governo "un cambio di passo". Prima di lui, ma da un palco meno visibile, Vicenza, lo aveva fatto Achille Variati ("stiamo trasformando un popolo di disperati in un popolo di clandestini"). Piero Fassino ha parlato di "superamento della soglia governabile": "Rischiamo di essere travolti". A Genova un autocandidato sindaco, il pd Simone Regazzoni, teme che, lasciando i vicoli del centro fuori controllo, la prossima tornata elettorale sarà un’ecatombe e s’è messo a incalzare il sindaco Doria perché affronti il "tabù". Pagine Facebook come "Di sinistra e antirazzista ma contro l’invasione straniera" fanno capire quanto il sentimento popolare rischi di sterzare anche la base democratica verso parole d’ordine e semplificazioni salviniane. Come per il bus di Calizzano, la sinistra riformista ha davanti un ventaglio di interventi razionali, e due bussole: legalità e integrazione. Anzitutto, l’adesione al sistema Sprar, l’accoglienza diffusa, non può essere più solo su base volontaria: è deflagrante che duemila Comuni virtuosi si facciano carico dei restanti seimila, pericoloso il contenzioso prefetto-sindaco che spesso ne deriva. Insediamenti minimi, parametrati alla popolazione residente ma a carico di tutti (Alfano ha ragione sul punto), possono essere facilitati portando i migranti al lavoro: allentando il patto di Stabilità (come per il terremoto) per quei Comuni che li inseriscano in occupazioni socialmente utili creando senso di comunità con i residenti. Va snellito l’iter di accettazione-espulsione, magari limitando la possibilità di appello. Ora il limbo può durare anni, troppi fuggono o diventano braccia per la malavita (l’Ismu stimava in 400 mila gli irregolari nel 2015): un sistema amministrativo efficiente è la base di una politica migratoria seria, che ovviamente passi anche attraverso gli accordi bilaterali. "Rimandiamoli indietro" (ineffabile slogan leghista) non vuol dire nulla, a meno che non si voglia abbandonarli in mare o ricacciarli nel deserto libico da cui sono scappati a rischio della vita. Abbiamo accordi bilaterali con quattro Paesi al momento, Tunisia, Nigeria, Egitto, Marocco. Dobbiamo averne con una dozzina, incentivando le intese economicamente. È il Migration compact renziano, che s’è perso per strada. I rimpatri devono essere più veloci e sicuri, l’apprendimento della nostra lingua e della nostra educazione civica condizione di permanenza. E tuttavia uno Stato lungimirante deve dare un segnale al futuro, varando subito la legge sulla cittadinanza delle cosiddette seconde generazioni (i figli dei migranti), bloccata da un anno in Senato a causa di ottomila emendamenti leghisti. Sono questi nuovi italiani, che qui studiano, lavorano e mediano tra culture, il bus da non perdere: perché avanti c’è posto. Caporalato. Renzi metta la fiducia sulla legge di Antonio Sciotto Il Manifesto, 13 ottobre 2016 Premio Jerry Masslo. Susanna Camusso al premier: "Una volta tanto lo faccia sui diritti fondamentali delle persone", la leader del sindacato all’iniziativa della Flai Cgil contro lo sfruttamento della manodopera nei campi. "Spesso accettiamo di lavorare senza contratto, per un salario molto basso, senza contributi e senza ferie. Accettiamo anche di pagare per lavorare, anche se non abbiamo i soldi per tornare a casa". La voce di Valentina Vasylionova rimbomba tra i palazzoni scrostati di Mondragone, nel casertano, tra i panni stesi e gli sguardi diffidenti della gente del posto: i lavoratori bulgari si sono avvicinati al palco della Flai Cgil solo quando hanno sentito parlare la loro lingua. Abitano in centinaia qui, braccia per le campagne del posto, 20 euro al giorno per 14 ore di fatica. Quando prende la parola Susanna Camusso, si rivolge direttamente al premier Matteo Renzi: "Metta la fiducia sulla legge contro il caporalato, perché lo ha già fatto tante altre volte: ma quando si parla dei diritti fondamentali delle persone non vediamo la stessa urgenza". La Cgil ricorda come ogni anno Jerry Masslo, il bracciante sudafricano ucciso nel 1989 a Villa Literno dopo aver difeso strenuamente i diritti dei lavoratori migranti. Siamo già alla quarta edizione del Premio istituito dalla Flai in sua memoria: quest’anno i giovani delle scuole e gli artisti riflettono sui muri in costruzione in tutta Europa e sulle politiche di accoglienza. Questa mattina, all’alba, è previsto un giro del sindacato di strada per le rotonde dove i caporali reclutano la manodopera e successivamente l’omaggio alla tomba di Masslo. Emilia Spurcaciu, rumena, cerca di sollecitare i suoi connazionali a non arrendersi anche se le condizioni di lavoro sono dure: "Gli italiani hanno già combattuto per diritti che sono a disposizione anche per noi, non partiamo da zero. Il sindacato mi ha fatto capire che devo pretenderli anche per me: non è normale che si lavori per 20-25 euro al giorno, fino a 15 ore, quando da contratto devi avere minimo 52 euro per una giornata di 6 ore". Prende la parola Jacob Atta, ghanese, bracciante e sindacalista a Rosarno: "Jerry è morto tanti anni fa, ma noi siamo qui per ricordare quello che ha fatto, perché come noi dopo un lungo viaggio era venuto a cercare fortuna in Italia. Non deve morire più nessuno, e noi continueremo a batterci anche se ci minacciano: qualche anno fa hanno bucato tutte e quattro le gomme del furgoncino Flai di Gioia Tauro, ma noi le abbiamo cambiate e l’indomani eravamo di nuovo sulla strada". Adam Muka, pakistano, racconta di non essere stato pagato per ben 8 mesi, finché non è si è rivolto alla Cgil di Caserta: "Mi hanno fatto riavere stipendi e contributi. Se ti spacchi la schiena sotto il sole per tante ore, il minimo è che ti riconoscano tutti i diritti. Io vorrei iscrivermi all’università, cambiare la mia vita". Sara Moutmir, 21 anni, è nata in Marocco ma ha studiato fin dalle elementari nel nostro Paese. La conoscenza dell’italiano è preziosa per chi fa sindacato di strada: "Dico alle donne che lavorano nelle campagne che non devono avere paura: perché è proprio la nostra paura che permette a loro, agli imprenditori e ai caporali, di sfruttarci". La segretaria generale della Flai Cgil, Ivana Galli, invita la politica a percorrere l’ultimo miglio perché si approvi finalmente la legge contro il caporalato: "È un provvedimento utile, perché estende le sanzioni, anche penali, alle imprese che utilizzano l’intermediazione illecita. Si prevede l’arresto, la confisca dei beni guadagnati violando le regole". Chiede poi alle prefetture e ai Comuni di adoperarsi perché il Protocollo firmato nel maggio scorso diventi operativo: permetterebbe di migliorare mezzi di trasporto e alloggi per chi lavora nei campi. La segretaria Cgil Camusso insiste sull’importanza dell’accoglienza: "L’Italia ha anche straordinarie risorse di generosità, come dimostrano i cittadini di Lampedusa: dobbiamo valorizzarle proprio noi che ci crediamo". Il caporalato e le condizioni di semi schiavitù nei campi sono "la ferita aperta del nostro Paese", e "ci sono volute purtroppo delle morti per ottenere dalla politica una nuova legge, già la seconda dopo quella che ha istituito il reato di caporalato". "Chiediamo al governo di mettere la fiducia su quella legge, come ha già fatto troppe volte: una volta tanto lo faccia sui diritti fondamentali delle persone". Droghe. Cannabis legale, il 15 e il 16 ottobre si firma anche in carcere Il Dubbio, 13 ottobre 2016 La battaglia per la cannabis legale varca i cancelli delle carceri italiane. Sabato 15 e domenica 16 ottobre Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni, promotori della campagna Legalizziamo!, raccoglieranno le firme dei detenuti sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione della cannabis e la decriminalizzazione dell’uso personale di tutte le sostanze. I militanti delle associazioni radicali e delle altre organizzazioni che sostengono la campagna Legalizziamo entreranno con i banchetti di raccolta firme sabato 15 ottobre negli istituti di Regina Coeli a Roma, di Bollate a Milano, di Bolzano, Velletri e Vigevano; domenica 16 ottobre negli istituti di Rebibbia a Roma e San Vittore a Milano. I detenuti del carcere di Foggia potranno firmare la legge popolare per la cannabis legale sabato 22 ottobre. "È proprio sulla giustizia e sulle carceri che si riflettono in modo più drammatico i danni e il fallimento delle politiche proibizioniste", spiegano il segretario di Radicali Italiani Riccardo Magi e il segretario dell’Associazione Luca Coscioni Filomena Gallo, "sono quasi 17mila in Italia i detenuti reclusi a causa dell’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti, che punisce la produzione il traffico e la detenzione di sostanze stupefacenti. Parliamo del 32% della popolazione penitenziaria: cioè uno su tre. Per questo riteniamo importante coinvolgere i detenuti nella lotta per una riforma non più rinviabile, che ormai trova d’accordo la Direzione nazionale antimafia, sindacati di Polizia come il Siulp, magistrati come Raffaele Cantone, e la stragrande maggioranza del Paese. Ringraziamo quindi il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per aver autorizzato la raccolta firme nelle carceri sulla nostra legge popolare Legalizziamo.it", concludono nel comunicato i Radicali Italiani. Grecia: diminuiscono i migranti detenuti, peggiorano le condizioni Dire, 13 ottobre 2016 Il numero dei migranti illegali e richiedenti asilo trattenuti in un stato di detenzione amministrativa si è ridotto rispetto al 2015, tuttavia le condizioni di tale detenzione non sono migliorate, e presentano varie irregolarità sotto il profilo del rispetto tanto della legislazione greca, che degli standard internazionali, ivi incluse le raccomandazioni del Cpt, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (European committee for the prevention of torture). Questo quanto emerge da "Forgotten", ("Dimenticati", ndr), lo studio realizzato da Aitima, ong greca impegnata nel monitoraggio e assistenza legale ai migranti con sede ad Atene, dove ieri è stato presentato. Forgotten, il primo rapporto ufficiale sulle procedure nazionali di detenzione amministrativa di migranti irregolari e richiedenti asilo, e realizzato grazie ai finanziamenti dell’Epim, (l’European programme for integration and migration), ha preso in esame i principali centri di detenzione della Grecia - ufficiali, temporanei nonché quelli interni alle stazioni di polizia, che ospitano generalmente un numero più basso di detenuti - dal 15 settembre 2015 al 15 settembre 2016. L’avvio del monitoraggio è coinciso con un generale peggioramento della libertà di circolazione per i migranti: se da un lato si assisteva al picco negli arrivi di rifugiati e migranti in Grecia e verso l’Europa centrale - mentre cresceva anche la pressione esercitata su Atene, al fine di controllare i confini settentrionali - dall’altra un progressivo irrigidimento nelle politiche dei singoli stati europei ha fatto sì che aumentassero le barriere e i respingimenti alla frontiera, così come ‘la selezione’ e ‘la riduzione delle nazionalità dei migranti’ a cui consentire l’ingresso. Sempre più persone si sono trovate quindi bloccate nei centri, poiché nell’impossibilità di proseguire il viaggio. Situazione che per le autorità elleniche ha significato un deciso aumento di persone non più solo transitanti, ma anche ‘stanziali’, rallentando così la macchina burocratica che fatica a trattare tutte le richieste di asilo presentate. Tuttavia, il numero dei migranti e richiedenti asilo sottoposti a misure di detenzione amministrativa, se era di circa 7mila unità all’inizio del 2015, è sceso a poche centinaia nel 2016, cosi come il termine massimo per il fermo di 18 mesi viene sempre meno raggiunto. ‘Nel solo centro di Amygdaleza - a nord di Atene - il numero di ‘detenuti’ è passato da 280 del novembre 2015, a 240 in aprile 2016’, si legge nel testo. Il rapporto lamenta tuttavia la ‘quasi totale assenza di misure alternative alla detenzione, ugualmente efficaci e meno problematiche sotto molti aspetti’. Inoltre le condizioni detentive hanno subito ‘un netto peggioramento’, come confermato dalle varie proteste inscenate dagli ‘ospiti’ negli ultimi mesi. Stando al rapporto Aitima, il problema è che non vengono osservati gli standard previsti dalle regolamentazioni nazionali ed internazionali. ‘In particolare- scrivono ancora gli autori- i problemi consistono nella mancanza di spazi comuni, di adeguate fonti di illuminazione, di pasti sufficienti, insieme a condizioni igienico-sanitarie deludenti e all’assenza di assistenza medica e legale. Questi servizi risultano spesso forniti da Ong greche o internazionali indipendenti’. L’analisi di ‘Forgotten’ ha prestato poi ampia attenzione alle strutture di fermo e detenzione di categorie vulnerabili, come le donne, osservando l’Hellinikon women’s detention facility, o i minori non accompagnati, presenti ad esempio nello Special holding facility of Amygdaleza for unaccompanied minors. In quest’ultimo risultavano, ad aprile 2016, 22 minori detenuti. Anche qui si rilevano le medesime criticità degli altri centri di detenzione, con una particolare carenza di spazi ricreativi per l’infanzia, nonché assistenza sociale e psicologica, prevista dalla regolamentazione nazionale ed europea a tutela dei minori in condizioni di fermo. Ai minori inoltre vengono negate informazioni riguardanti lo status. La permanenza dei minori nei centri di detenzione, che dovrebbe essere temporanea e funzionale al trasferimento in centri di accoglienza appositamente predisposti, si prolunga in media di un mese o due: ‘al numero di minori regolarmente registrati nei centri di detenzione per i non accompagnati, va aggiunta l’alta percentuale di minori registrati come adulti e detenuti in comuni centri di fermo’. Le interviste raccolte da Aitima riportano specifici casi di minori collocati in centri di detenzionie per adulti che dichiaravano invece un età inferiore ai 18 anni. Infine, un altro problema evidenziato dal rapporto è costituito dalla totale mancanza di informazioni di natura legale per i migranti che approdano in Europa. Per il detenuto diventa molto difficile orientarsi in un sistema legislativo sconosciuto e reclamare i propri diritti, di cui spesso restano all’oscuro. Mancano figure specializzate che informino queste persone del proprio status legale e dell’iter della pratica di cui il sistema amministrativo dovrà farsi carico; spesso non sanno che esiste la possibilità di contestare la detenzione amministrativa o il rimpatrio, così come ignorano il diritto a un’assistenza legale gratuita. I costi di quest’ultima così come dell’assistenza medica sono quindi totalmente a carico dei migranti, oppure delle ong internazionali e delle iniziative di volontariato. ‘Il problema principale resta comunque il fatto che la maggior parte dei migranti - che siano nei campi o meno - sono privi di documenti’ spiega presidente di Aitima, Spyros Rizakos, nonché uno degli autori del rapporto, aggiungendo un altro punto di criticità importante. ‘La mancanza di documenti in fase di pre-registrazione e la lungaggine dei tempi per ottenere almeno lo status di richiedente asilo- aggiunge- scoraggia i migranti dal rispettare le procedure legali, cercando soluzioni alternative ma illegali che li espongono al rischio di essere arrestati e detenuti’. Secondo Rizakos, "considerato il fatto che il Servizio d’asilo continua a non garantire l’accesso alla procedura di richiesta d’asilo negli uffici regionali, invitando piuttosto i migranti a presentare richiesta seguendo l’inadeguata procedura via Skype, risulta quanto mai chiaro che la maggioranza delle persone intenzionate a rispettare l’iter legale rimarrà senza alcun documento valido, incorrendo nel rischio di essere arrestati. Una situazione analoga è stata riscontrata anche nelle isole, dove la presenza di punti di fermo ed identificazione di migranti, i cosiddetti hot-spot, ed i numerosi ritardi dello svolgimento delle pratiche d’asilo hanno ulteriormente esasperato il clima di tensione. Molte persone- racconta il presidente di Aitima- tentano infatti di abbandonare le isole procurandosi documenti falsi, mentre proteste e disagi nei centri di detenzione sono frequenti. Le autorità tentano di tenere sotto controllo la situazione, ma questo peggiora le cose, perché finiscono per ricorrere sempre più spesso alla controversa pratica dell’arresto e detenzione sulla base di motivi di ordine pubblico", conclude Spyros Rizakos. Il rapporto si chiude con una serie di raccomandazioni alle autorità greche, in particolare al Servizio di asilo nazionale e alle istituzioni europee circa l’opportunità di operare in conformità alle disposizioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Ecpt), tenendo in considerazione le caratteristiche specifiche assunte dal sistema di detenzione amministrativa di migranti e richiedenti asilo in Grecia e dunque, in certi casi, l’impossibilità di garantire condizioni di vita decenti ai detenuti, così come previste dalla legge greca e dalle principali convenzioni europee ed internazionali in materia. Alla presentazione del rapporto hanno partecipato rappresentanti di molte ong impegnate nella tutela dei diritti umani tra cui l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), Human rights watch (Hrw), e il Greek council for refugees (Gcr). Prevista prossimamente anche una presentazione a Bruxelles, per sollevare la questione all’attenzione delle istituzioni europee. Aitima Ong si occupa di assistenza legale e sociale ai moltissimi richiedenti asilo e transitanti ad Atene, ed è parte della rete di supporto e soccorso ai migranti che include al suo interno la Picum (Platform for international cooperation on undocumented migrants), l’Ecre (Platform for international cooperation on undocumented migrants) e la Idc (International detention coalition). (Ha collaborato Marina De Stradis). Iran. Sarà messa a morte la ventiduenne che uccise in Iran il marito violento di Viviana Mazza Corriere della Sera, 13 ottobre 2016 Aveva 15 anni quando si è sposata, a 17 è stata arrestata con l’accusa di aver ucciso il marito. Oggi, a 22 anni, Zeinab Sekaanvand rischia di morire impiccata in Iran. Due associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani - "Iran Human Rights" e "Amnesty International" - chiedono alla Repubblica Islamica di sospendere l’esecuzione perché il processo è stato "viziato da gravi irregolarità" e perché la pena di morte è vietata categoricamente dal diritto internazionale nei confronti di chi ha commesso un reato quando aveva meno di 18 anni. Zeinab Sekaanvand è cresciuta in una famiglia povera e conservatrice di etnia curda della provincia dell’Azerbaijan occidentale, l’estrema punta nordovest dell’Iran. Per sposarsi era scappata di casa, sognando una vita migliore. Ma il marito Hossein Sarmadi aveva cominciato a picchiarla. Lei si era rivolta alla polizia, che non ha mai indagato sulle denunce di abusi. Il marito rifiutava la sua richiesta di divorzio, né la ragazza poteva ritornare dai genitori che l’avevano rinnegata. Il primo marzo 2012, quando Hossein Sarmadi fu trovato ucciso, Zeinab fu arrestata: incarcerata per 20 giorni e, secondo Amnesty International, torturata dagli agenti, confessò di averlo accoltellato. Prima del processo, cambiò versione e indicò il cognato, che l’aveva stuprata più volte, come il vero assassino. Ha spiegato che lui l’aveva convinta a confessare, promettendole di concederle il perdono: la legge islamica consente ai familiari della vittima di accettare denaro in cambio della vita dei condannati a morte. La Corte non le ha creduto e l’ha destinata alla forca, secondo il criterio del "qisas" o "pena equivalente". Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights, che ha esaminato i documenti del caso, crede all’innocenza di Zeinab. "Il tribunale non ha prestato attenzione alle prove che indicavano che non può essere lei l’assassina. Non hanno nemmeno ricostruito la scena del crimine", dice al Corriere. "Risulta che la vittima sia stata colpita alle spalle: c’era del sangue sul muro dietro di lui, ma non sui vestiti della donna". Condannare una minorenne alla pena capitale, inoltre, è una violazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia. L’Iran l’ha firmata ma continua a punire come adulti i bambini a partire dai 15 anni e le bambine dai 9, anche se si aspetta che compiano la maggiore età prima di impiccarli. Un recente emendamento nel codice penale prevede che il giudice possa valutare se il minorenne era davvero in grado di comprendere le conseguenze dei suoi atti, ma nel caso di Zeinab questa norma non è stata considerata (anche se, secondo gli esami ufficiali, soffriva di "disturbi depressivi" e difficoltà a prendere decisioni). Rinchiusa nella prigione di Urmia, nel nord dell’Iran, l’anno scorso Zeinab ha sposato - con il consenso delle autorità - un altro detenuto, ed è rimasta incinta: allora l’esecuzione è stata posticipata, essendo illegale impiccare una donna durante la gravidanza; ma il 30 settembre il figlio è nato morto, dunque ora può essere impiccata. La storia di Zeinab non è isolata: diventò famosa quella di Sakineh Asghtiani, condannata alla lapidazione per l’omicidio del marito, poi graziata. Questo caso però ci ricorda tre gravi questioni. La prima il dramma delle spose bambine, non solo nella Repubblica Islamica - dove l’età minima per il matrimonio è 13 anni per le femmine e 15 per i maschi - ma in tanti altri Paesi, come ha ricordato in occasione della "Giornata mondiale delle bambine" un rapporto di Save the Children, secondo cui ogni 7 secondi nel mondo una minorenne si sposa. La seconda questione è quella delle esecuzioni per reati commessi prima dei 18 anni: tre nel 2015 e almeno uno nel 2016 in Iran. Un terzo aspetto allarmante, i rischi per gli attivisti anti-pena di morte: come Atena Daemi, che dovrà tornare per 14 anni nel carcere di Evin, e come Golrokh Ebrahimi Iraee, condannata a sei anni per un romanzo sulla lapidazione in Iran che non aveva ancora nemmeno pubblicato. Germania. Trovato impiccato in cella il presunto terrorista siriano Jaber Albakr di Danilo Taino Corriere della Sera, 13 ottobre 2016 Era stato arrestato il 9 ottobre scorso, consegnato alla polizia da tre suoi connazionali. Nel suo appartamento era stato rinvenuto un chilo e mezzo di materiale esplosivo. È stato trovato morto impiccato in carcere. Il presunto terrorista siriano arrestato lunedì dalla polizia tedesca dopo una caccia all’uomo di due giorni, Jaber al-Bakr, è stato trovato morto ieri sera nella sua cella del carcere di Lipsia. Impiccato. Si parla di suicidio e pare che nelle scorse ore avesse dato segni di volere togliersi la vita. Era dunque sotto osservazione continua, o avrebbe dovuto esserlo, e il fatto che abbia potuto impiccarsi, come sostengo le autorità, solleva interrogativi sulla dinamica degli eventi e sull’efficienza dei controlli ai quali era sottoposto: dalle prime notizie circolate, pare che fosse guardato solo una volta ogni ora. Al-Bakr, un profugo siriano arrivato in Germania nei primi mesi del 2015 dove aveva ricevuto lo status di rifugiato, era stato sotto osservazione della polizia per mesi, sospettato di fare riferimento a organizzazioni militanti islamiche. L’arresto - Al momento di arrestarlo nella sua casa di Chemnitz, sabato scorso, era riuscito a fuggire: le forze dell’ordine avevano trovato nell’appartamento un chilo e mezzo di esplosivo Tatp e indicazioni sulla base delle quali si sospetta che stesse preparando un attentato suicida a un aeroporto di Berlino questa settimana. La sua ricerca era durata fino a quando, due giorni dopo, tre connazionali siriani, anch’essi rifugiati, ai quali aveva chiesto aiuto e rifugio lo avevano immobilizzato e avvertito le autorità della sua presenza nella loro casa di Lipsia. Arrestato lunedì, nei giorni scorsi pare avesse dato segni perdita di controllo, iniziato uno sciopero della fame e avesse anche sostenuto che i tre siriani che l’hanno messo fuori combattimento fossero in realtà conniventi e non gli eroi di cui hanno parlato le autorità tedesche, compresa Angela Merkel, e i media. Bloccato dai connazionali - I procuratori di Karlsruhe, che guidano le indagini, non hanno voluto dire se credessero a quanto da lui sostenuto o se, come possibile, egli cercasse solo di vendicarsi dei tre connazionali che a suo modo di vedere l’hanno tradito. Il suicidio di ieri apre naturalmente un fronte di polemiche destinate a farsi forti nei prossimi giorni. Soprattutto sulla capacità delle forze dell’ordine di fare fronte alla lotta al terrorismo in modo serio: si sospetta che al-Bakr fosse in contatto con l’Isis e un suo interrogatorio avrebbe potuto risultare nei prossimi mesi utile per verificare la consistenza della presenza di cellule terroriste in Germania e i modi e i tempi con i quali si era radicalizzato. Tra l’altro, dopo essere arrivato in Germania una prima volta pare sia tornato in Siria, via Turchia, e questo aveva probabilmente insospettito gli investigatori, che però non erano intervenuti fino a sabato scorso. Che al-Bakr fosse pronto a suicidarsi è anche testimoniato dal fatto che nella sua casa di Chemnitz fosse stato trovato un cinturone da kamikaze quasi pronto all’uso. Gli avvocati d’ufficio parlano di "uno scandalo giudiziario". E ieri sera rappresentanti di un po’ tutti i partiti politici tedeschi chiamavano in causa le responsabilità delle autorità della Sassonia, il Land di Lipsia, e si domandavano come sia possibile suicidarsi quando si è osservati speciali. Francia: "dentro il carcere Salah è trattato come una bestia" di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 13 ottobre 2016 Gli avvocati del jihadista rinunciano al mandato. Salah Abdelsalam, unico superstite tra gli attentatori dello scorso 13 novembre a Parigi, non ha più assistenza legale. I suoi avvocati Sven Mary e Frank Berton hanno infatti gettato la spugna rinunciando al loro mandato difensivo. Salah si è chiuso in un mutismo estremo, e "non collabora più" da tempo, rifiutandosi di partecipare ai colloqui: "Posso essere vilipeso, insultato, assimilato ai peggiori criminali, essere solo contro tutti, non mi disturba, è il mio lavoro. Sono il portavoce dei diritti di una persona, ma non posso essere il portavoce di un silenzio, dei diritti di un cliente che non mi vuole", spiega Breton intervistato dal Nouvel Observateur assieme al collega Mary. Se inizialmente, nelle settimane successive all’arresto avvenuto il 18 marzo a Bruxelles nel quartiere di Molenbeek, Salah aveva espresso l’intenzione di parlare, perché voleva liberarsi di un peso come disse al magistrato che lo aveva interrogato la prima volta, la sua condotta è progressivamente cambiata, sprofondando nell’isolamento totale. "L’ho visto una decina di volte, ci siamo regolarmente parlati per telefono, sembrava fiducioso, ma oggi si rifiuta di rispondere a qualsiasi domanda, non credo che avrà altri avvocati, ha abbandonato, come se si stesse suicidando", racconta Mary. Breton denuncia le condizioni carcerarie "speciali" a cui è stato sottoposto Salah, misura imposte anche dal clamore mediatico, dal clima di vendetta pubblica che si è creato intorno al jihadista belga: "Assisto da mesi allo spettacolo di un ragazzo di 27 anni che sta crollando psicologicamente ed è il sistema carcerario che ha creato questa situazione. Mi sono battuto perché togliessero la videosorveglianza a cui è sottoposto 24 ore su 24, invano". In effetti la detenzione di Salah si può tranquillamente definire estrema e ai limiti della legalità: è l’unico detenuto controllato giorno e notte dalle telecamere a infrarossi, la sua sola zona di privacy corrisponde alla superficie del water, la sua unica finestra è ostruita dal plexiglass, non ha accesso all’aria pulita e non ha alcun contatto umano da sette mesi, a parte i secondini che lo perquisiscono regolarmente. "Lo stanno trasformando in una bestia selvaggia e lui si radicalizza sempre di più, è una cosa degradante: in 25 anni di carriera non ho mai visto nulla di simile", tuona ancora Breton. Ancora più dure le parole dell’avvocato Mary: "La sua prigionia è una tortura, ma tutti se ne fregano. Sperano forse che si impicchi? Questo non è Stato di diritto". Ucraina: detenuti nel limbo, l’accordo di Minsk non funziona euronews.com, 13 ottobre 2016 Il cosiddetto accordo di Minsk firmato nel 2014, sulla fine della guerra tra i ribelli filorussi e le forze ucraine, fa acqua su molti fronti, ma quello relativo alla liberazione e lo scambio dei prigionieri è il più insidioso. I numeri sui detenuti trattenuti dai due schieramenti non coincidono. L’Osce, il mediatore degli accordi di pace, non può imporre lo scambio dei prigionieri, mentre Kiev e i separatisti filorussi non arrivano neanche ad accordarsi sulla lista dei prigionieri. Entrambe le parti sembrano utilizzare la questione dei detenuti per forzare concessioni su altri argomenti di natura politica. Tra questi: l’organizzazione di elezioni nella regione controllata dai ribelli e il ripristino del pieno controllo da parte dell’Ucraina al confine con la Russia. Amnesty International e Human Rights Watch sostengono che i due gruppi abbiano volontariamente imprigionato dei civili, talvolta detenendoli per mesi in carceri non riconosciuti dalle autorità. Volodymyr Zhemchugov è stato da poco liberato dopo la cattura da parte degli uomini dall’autoproclamata Repubblica popolare di Lugansk. L’uomo è rimasto in prigione per oltre 11 mesi, durante i quali ha dichiarato di aver subito delle torture.