L’ergastolo ostativo arriva alla Commissione europea di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2016 Presentata un’interrogazione alla Commissione europea sul tema dell’ergastolo ostativo che vige in Italia. A farlo è stata l’eurodeputata Eleonora Florenza del gruppo parlamentare europeo "L’altra Europa per Tsipras". Nel testo dell’interrogazione viene spiegato che in Italia circa 1.400 persone sono detenute in regime di "ergastolo ostativo" (art. 4-bis1 dell’ordinamento penitenziario) ovvero in assenza di ogni tipo di beneficio o misura alternativa. "Sono condannati senza scampo alla detenzione intramuraria a vita - spiega Florenza nell’interrogazione - e questo tipo di regime detentivo è contrario alla finalità rieducativa della pena (art. 27 della costituzione italiana) ledendo il principio di umanità. Nell’interrogazione viene citata anche una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativa al caso di Ocalan contro la Turchia sulle condizioni detentive del leader del popolo kurdo incarcerato in isolamento dal 1999. La sentenza del marzo 2014 si è espressa chiaramente contro la detenzione, anche per gli ergastolani, che non preveda il riesame della pena, la libertà condizionale e misure alternative al carcere. L’eurodeputata chiede quindi alla Commissione europea se ritenga che l’ergastolo ostativo sia un trattamento inumano e degradante in violazione dell’art. 3 della Cedu e dell’art. 4 della Carta di Nizza, se ritenga la prassi italiana in contrasto con la promozione delle misure alternative alla detenzione come da decisioni quadro del consiglio europeo "Giustizia e affari interni" e quali strumenti intenda mettere in campo perché la violazione posta in essere cessi al più presto. Eleonora Florenza spiega che l’interrogazione si inserisce in un impegno più ampio per i diritti dei detenuti ed in sostegno alle loro mobilitazioni per migliorare le condizioni detentive. Ricorda, inoltre, che molti ergastolani sono stati firmatari nei mesi scorsi di appelli e petizioni su questi temi alle autorità italiane ed europee. Appelli finora rimasti inascoltati. L’eurodeputata ringrazia soprattutto il lavoro dell’Associazione Yairaiha Onlus che le ha posto il problema e la lotta che ha intrapreso contro l’ergastolo ostativo. Nel frattempo sono in programma altre iniziative contro la cosiddetta "fine pena mai". La redazione di Ristretti Orizzonti ha promosso la giornata "contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita", che si svolgerà il 20 gennaio 2017 nella Casa di reclusione di Padova e alla quale ha aderito la Conferenza nazionale volontariato giustizia. Interrogazione sull’ergastolo ostativo di Eleonora Florenza eleonoraforenza.it, 12 ottobre 2016 Questa mattina ho presentato un’interrogazione alla Commissione Europea sul tema dell’ergastolo cosiddetto "ostativo". Nel nostro paese 1.400 persone sono detenute con pena a vita senza la possibilità di accedere ad alcuna misura alternativa al carcere, destinate a trascorrere l’intera pena in cella. Si tratta di circa 7 ergastolani su 10. Questo tipo di regime detentivo è contrario ad ogni tipo di fine riabilitativo della pena sancito dalla #Costituzione italiana e di fatto costituisce un trattamento inumano e degradante, espressamente vietato dalla Convenzione Europea dei #Diritti dell’Uomo e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione. L’ergastolo ostativo lede un principio di umanità e viola ogni impegno dell’UE per la promozione delle misure alternative al carcere. Nell’interrogazione ho citato anche una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativa al caso di Ocalan contro la Turchia sulle condizioni detentive del leader del popolo kurdo incarcerato in isolamento dal 1999. La sentenza del marzo 2014 si è espressa chiaramente contro la detenzione, anche per gli ergastolani, che non preveda il riesame della pena, la libertà condizionale e misure alternative al carcere. Ringrazio moltissimo per gli stimoli ed il loro grande lavoro l’Associazione Yairaiha Onlus. L’interrogazione si inserisce in un impegno più ampio per i diritti dei detenuti ed in sostegno alle loro mobilitazioni per migliorare le condizioni detentive e contro l’ergastolo ostativo. Molti ergastolani sono stati firmatari nei mesi scorsi di appelli e petizioni su questi temi alle autorità italiane ed europee, appelli finora rimasti inascoltati. Di seguito il testo dell’interrogazione In Italia circa 1.400 persone sono detenute in regime di "ergastolo ostativo" (art. 4-bis1 dell’Ordinamento Penitenziario) ovvero in assenza di ogni tipo di beneficio o misura alternativa. Sono condannati "senza scampo" alla detenzione intramuraria a vita. Questo tipo di regime detentivo è contrario alla finalità rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione italiana) ledendo il principio di umanità. La CEDU si è espressa con sentenza del 18.03.2014 nel caso Ocalan c. Turchia contro la detenzione senza possibilità di riesame e libertà condizionale. La questione è oggetto di appello presso il CPT di Strasburgo del settembre 2016, firmato da oltre 40000 persone. Si chiede dunque alla Commissione: - se ritenga l’ergastolo ostativo un trattamento inumano e degradante in violazione dell’art.3 della CEDU e dell’art. 4 della Carta di Nizza - se ritenga la prassi italiana in contrasto con la promozione delle misure alternative alla detenzione come da decisioni quadro dell’Unione (2008/909/GAI e 2008/947/GAI) - quali strumenti intenda mettere in campo perché la violazione posta in essere cessi al più presto. Amnistia, tra marcia e referendum di Massimo Lensi L’Opinione, 12 ottobre 2016 Il 6 marzo del 1992 il Parlamento operò una revisione costituzionale modificando profondamente la ratio dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Nel testo voluto dai Padri Costituenti amnistia e indulto erano concessi dal Presidente della Repubblica, previa legge di delegazione da parte delle Camere, approvata a maggioranza semplice. La modifica introdotta nel 1992 ha fatto sì che questi provvedimenti di clemenza oggi possano essere concessi solo con una legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera in ogni articolo e nella votazione finale. Prima del 1992 sono stati concessi ben ventinove provvedimenti di amnistia e indulto. Dopo soltanto uno: il famoso indulto (senza amnistia) del 2006. L’innalzamento del quorum necessario all’approvazione del provvedimento fu deciso sull’onda dell’emotività suscitata nella piazza dallo scandalo di "Mani Pulite" per evitare il ripetersi di amnistie "concesse a cuor leggero". Erano i tempi del lancio delle monetine davanti all’Hotel Raphael e la piazza, dotata di un’autonomia riflessiva tutta da verificare, esigeva una svolta nel rispetto della penalità. Fu in quel periodo che prese il via una prima trasformazione dei modelli istituzionali che lentamente portò al trasferimento dei sistemi di controllo sociale dalle forme di protezione a quelle della punizione. La grande crisi economica degli anni successivi ha portato a compimento questa operazione di trasformazione. L’insicurezza sociale che ne è scaturita si è, infatti, rivolta al sistema penale, nella forma dell’esercizio delle funzioni repressive. Il numero dei reati inseriti del codice penale è continuato a crescere insieme a una forte domanda di penalità, portando in pochi anni a raddoppiare il numero di detenuti delle carceri italiane: dai 30mila degli anni Novanta ai quasi 60mila dei nostri giorni. Il mutamento delle relazioni sociali e di potere e il tramonto di un certo tipo di welfare ha condannato qualsiasi progetto di amnistia in fondo al cassetto delle priorità. Le carceri italiane hanno così cominciato a conoscere il sistematico sovraffollamento ed i trattamenti inumani e degradanti riservati alla popolazione detenuta. Il 4 dicembre si voterà il referendum costituzionale. Un referendum senza quorum, ma con caratteristiche particolari, tra cui quella dell’impossibilità di votare i singoli provvedimenti di modifica. Uno di questi riguarda proprio l’articolo 79 della Costituzione. Se dovesse vincere il "Sì", i provvedimenti di amnistia, sempre con una maggioranza di due terzi, sarebbero di competenza della sola Camera dei deputati, facilitando non poco la realizzazione della clemenza, da tanti invocata ma da pochi perseguita. Una scelta non facile, ma che dovrebbe far riflettere i promotori della marcia del 6 novembre per l’amnistia in nome di Marco Pannella e di Papa Francesco. Il Partito Radicale è alla sua quarta marcia per l’amnistia e si trova di fronte alla maturazione di un’iniziativa nonviolenta che pone numerosi interrogativi, tra cui quello di far comprendere all’opinione pubblica la difficile situazione creatasi nel Paese in seguito all’evoluzione dello Stato Penale nel nostro ordinamento. La dovuta riflessione sul referendum non deve portare necessariamente a una presa di posizione favorevole al "Sì" in nome dell’amnistia, ma a risolvere una contraddizione che potrebbe esplodere nelle mani dei promotori dopo l’esito referendario, al di là di come sarà il risultato. Anche il "No" avrebbe dignità di elaborazione politica, così come il non-voto, cui personalmente aderirò. Servirebbe, però, ad evitare una contraddizione successiva che farebbe cadere l’iniziativa pro-amnistia per la Repubblica in una sorta di anomia procedurale priva di sbocchi, privando i promotori degli equilibri politici di relazione necessari al conseguimento del provvedimento di clemenza in sede parlamentare: qualunque sia l’esito del referendum del 4 dicembre. Stop al processo penale in Senato, la riforma slitta a novembre di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2016 Scompare, come previsto, dal calendario dell’Aula del Senato la riforma del processo penale. Va "a data da destinarsi" ha stigmatizzato in Assemblea la presidente del gruppo Misto e senatrice di Sel, Loredana De Petris, dopo la decisione della Capigruppo. Più o meno nelle stesse ore, da Palazzo Chigi facevano sapere che il 24 ottobre si terrà l’incontro tra il premier Renzi, il ministro Orlando e il presidente dell’Anm Davigo, chiesto da quest’ultimo per affrontare tre punti scottanti: riforma della giustizia penale, carenze di cancellieri, decreto di proroga delle pensioni dei vertici della Cassazione. Era stato proprio Renzi, durante i giorni del tira e molla sulla fiducia da mettere sulla riforma della giustizia penale, a chiamare in causa l’Anm e "il suo capo" Davigo in quanto "ostacolo" all’approvazione della riforma, sostenendo che non si potevano ignorare le critiche dei magistrati. Che sono essenzialmente due e riguardano le norme che impongono ai Pm di chiedere, "entro sei mesi" dalla chiusura delle indagini, l’archiviazione o il rinvio a giudizio, pena l’avocazione da parte del Procuratore generale, nonché quelle che impongono al Pm di iscrivere "immediatamente" la notizia di reato. Due punti sui quali la maggioranza si era blindata, escludendo modifiche. "Avevo detto che nel ddl penale c’erano due cose inaccettabili e dannose - ha ricordato ieri Davigo -. Il presidente del Consiglio ha dichiarato pubblicamente che non metteva più la fiducia sul Ddl perché l’Anm è contraria: la cosa mi stupisce - ha osservato non sarcastico - perché non importa a nessuno quando l’Anm è contraria". A questo punto, la riforma (che contiene anche i capitoli della prescrizione e delle intercettazioni) slitta come minimo ai primi di novembre perché nel frattempo al Senato è arrivato il decreto sulla proroga delle pensioni, che scade il 30 di ottobre e che, quindi, occuperà l’Aula nell’ultima settimana del mese. Poi si vedrà se, a pochi giorni dal voto referendario - sempre che nel frattempo non slitti anche quello - il Ddl sulla giustizia penale tornerà in Aula, e come: con o senza la fiducia, oppure con il voto di fiducia soltanto in caso di necessità, come dice Orlando. Riforma del processo penale. Dall’Anm chiusure al governo di Errico Novi Il Dubbio, 12 ottobre 2016 "Tre mesi in più ai pm per decidere? Diremo no". La trattativa? "Può anche non cominciare. Se il governo pensa di risolvere tutto dando ai pm tre mesi in più per esercitare l’azione penale, non ha neppure senso vedersi". A spiegarlo è un componente del Comitato direttivo centrale dell’Anm. Un magistrato che ha sondato l’umore del presidente Piercamillo Davigo in vista dell’incontro tra sindacato dei giudici e governo, di cui ieri è stata fissata la data: sarà il 24 ottobre. Negli auspici di Matteo Renzi dovrebbe trattarsi dello snodo chiave per riprendere l’esame della riforma penale. Ma se il premier pensa che basti proporre qualche correttivo per ottenere la "benedizione" di Davigo, si sbaglia. Non è detto che per approvare un ddl sul processo serva il via libera delle toghe. Il punto però è che Renzi ha detto di non voler porre la fiducia su "provvedimenti ritenuti dannosi dai nostri amici magistrati". Di fatto il capo dell’esecutivo si è consegnato nelle mani dell’Anm. Tanto più che, come spiega il componente del direttivo, "arrivano notizie di una proposta che per noi sarebbe priva di senso. Si pensa di modificare l’articolo 18 del ddl, che al momento prevede l’obbligo per il pm di scegliere nel giro di tre mesi tra richiesta di rinvio a giudizio o archiviazione. Noi abbiamo spiegato in tutte le sedi, e soprattutto nella riunione convocata dieci giorni fa in Cassazione, che una previsione del genere paralizzerebbe gli uffici inquirenti di tutta Italia. Da quanto abbiamo appreso, Renzi e il ministro Andrea Orlando potrebbero prefigurarci un allungamento dei termini da tre a sei mesi. Ma la proposta segnala l’assoluta mancanza di comprensione del problema". Che secondo l’Associazione magistrati non può ridursi a una questione di efficientismo. Perché in realtà molti dei procedimenti per i quali oggi le Procure lasciano trascorrere mesi se non addirittura anni senza esercitare l’azione penale costituiscono dei "rami secchi" dell’attività inquirente. Fascicoli destinati nella maggior parte dei casi alla prescrizione, e per i quali si è compiuta una mera iscrizione dell’indagato al registro riservato. Sono casi in cui non viene notificata l’informazione di garanzia. E che i pm lasciano perdere per dedicarsi alle indagini più significative. Se però il mancato rispetto del termine dei tre mesi può portare alla segnalazione disciplinare per il magistrato inadempiente, spiegano dall’Anm, "tutti i sostituti d’Italia si preoccuperebbero solo di adempiere burocraticamente all’obbligo previsto dalla riforma, lasciando perdere filoni investigativi di importanza maggiore". Quale magistrato inquirente - è il ragionamento - rischierebbe un procedimento disciplinare pur di dedicare il proprio tempo alle indagini più lunghe e difficili? Il punto di vista è suscettibile forse di controdeduzioni, ma non pare lasciar spazio ad accomodamenti. L’Anm dirà no al governo. Negherà ogni pubblico consenso alla riforma penale. E anzi opporrà a Orlando un muro invalicabile sull’ipotesi di concedere agli avvocati il diritto di voto, nei Consigli giudiziari, sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. Ipotesi respinta soprattutto dalle correnti "di destra" della magistratura associata: quella guidata proprio da Davigo, Autonomia & indipendenza, e Magistratura indipendente. Dopo le aperture fatte dal guardasigilli al Congresso nazionale forense, i due gruppi hanno diffuso comunicati con cui chiedono all’Anm di opporsi al progetto del ministro. L’incontro si preannuncia come minimo vivace. Assolto dopo 2.090 giorni in cella: non è un boss della ‘ndrangheta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2016 La storia di Carmelo Gallico, giudicato estraneo alle vicende criminali della sua famiglia. Era bollato come ‘ndranghetista da due condanne, un delinquente legato agli affari di quella sua famiglia ritenuta mafiosa. Accusato di svolgere un ruolo all’interno di quel sodalizio criminale aveva subìto, da innocente, più di duemila giorni di carcere, tra i quali anche il 41 bis. La sua prima colpa è di essere nato a Palmi. La seconda di appartenere alla famiglia Gallico, uno dei clan più noti in Calabria, coinvolto anni fa in una terribile faida con un clan rivale. La terza di essere fuggito. La casa dei Gallico venne distrutta da una bomba, il padre e capo clan riuscì a nascondersi, i fratelli e sorelle finirono ad uno ad uno dietro le sbarre per vicende di mafia. Carmelo viene arrestato una prima volta con l’accusa di associazione mafiosa, perché avrebbe aiutato uno dei fratelli a sfuggire alla polizia. Scarcerato per decorrenza dei termini, è rimasto nascosto per nove anni in Spagna, fino a quando viene arrestato una seconda volta. Durante il periodo di "latitanza", Gallico viene aiutato da alcuni amici bresciani che a marzo dell’anno scorso sono stati condannati per favoreggiamento. Uno dei due era una insegnante in pensione di 80 anni: aveva preso a cuore il caso di Gallico, perché quando scontò la pena, per un breve periodo lavorò da lei come tuttofare. Scontata la pena decide di tornare in Calabria per una breve vacanza, ma viene colpito da un nuovo provvedimento di custodia. Ha un momento di sconforto, decide di togliersi la vita, tagliandosi la giugulare. Lo salva una delle guardie, entrata per caso in quel momento nella sua cella. Comincia un lungo calvario, il carcere duro in regime di 41bis. Una prima sentenza della Cassazione accoglie il ricorso contro l’ordinanza di custodia cautelare per mancanza d’indizi riguardo i reati contestati. L’illusione di riconquistare con la libertà anche la dignità di cittadino dura poco. Il tribunale del riesame di Reggio Calabria gli contesta la fittizia intestazione di un terreno, ossia il reato di associazione mafiosa, in quanto il Gallico gestirebbe attraverso prestanome i beni del clan. Condannato a vent’anni, ottiene una riduzione a dodici, in quanto riconosciuto come partecipante e non come capo della cosca. Solo a giugno del 2015, la Corte d’appello gli rende giustizia mettendolo in libertà in quanto pienamente assolto. Gli resta la condanna inflitta a marzo scorso per il reato di intestazione fraudolenta, ma la pena l’ha già scontata avendo accumulato anni di carcerazione in precedenza. Ora che la sua ingiusta pena è stata accertata, insieme al suo avvocato sta intraprendendo una causa di risarcimento danni nei confronti dello Stato Italiano, che non gli riporteranno indietro gli oltre 2000 giorni di prigionia, ma che potrà comunque sfruttare per rifarsi una vita. Nella richiesta di danni nei confronti dello Stato - quantificati tra i 16mila e i 26mila euro - Gallico elenca un calvario detentivo che lo ha portato da Canton Mombello alla casa circondariale Badu e Carros di Nuoro, dalla casa di lavoro di Favignana (un anno di misura di sicurezza tra 2008 e 2009) alle carceri di Rebibbia e Cuneo. Denuncia la condizione della colonia penale sull’isola siciliana dove le celle erano sotto il livello del mare, poi la condizione del carcere sardo dove in una cella adibita per un massimo di tre detenuti in realtà ne ospitava sette. Inoltre non c’era acqua calda e i servizi igienici non avevano né muri né porte. A tutto questo va aggiunto il regime di carcere duro riservato agli indagati per mafia. Per Carmelo Gallico da questa richiesta di risarcimento, riparte un cammino verso il riscatto sociale. Un cammino che in realtà, non volendo, è iniziato dentro il carcere quando scriveva. Infatti Carmelo Gallico è uno scrittore e durante l’ultima detenzione ha pubblicato un libro che gli ha fruttato il Premio Casalini 2106, un riconoscimento letterario per detenuti scrittori. Reati violenti, l’Italia è in mora di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2016 Corte di giustizia dell’Unione europea - Grande Chambre - Sentenza 11 ottobre 2016 Causa C- 601/14. Italia inadempiente sui sistemi di indennizzo per le vittime di reati violenti. La Corte di giustizia europea - causa c-604/14 - ha chiuso ieri, con questa statuizione, il contenzioso aperto dalla Commissione europea per il ritardo accumulato dal legislatore italiano sulla direttiva 2004/80/Ce. La norma europea - che doveva essere recepita entro il 1° luglio 2005, ma che in Italia ha "semi"debuttato solo con la legge 122 del 7 luglio scorso - prevede la copertura delle vittime di reati violenti in tutto l’ambito comunitario, con la possibilità di chiedere l’indennizzo non solo nel paese di propria residenza, ma anche in quello in cui è avvenuto il fatto illecito. In Italia questa sorta di polizza statale per chi sia rimasto vittima di un "reato intenzionale violento" è comparsa solo parzialmente, materializzandosi nel dlgs 204/2007 per fatti legati a terrorismo e mafia. Sufficiente secondo Roma, questa lettura è stata contestata dalla Commissione europea - rappresentata dagli avvocati Enrico Traversa e Federica Moro - che nelle sue conclusioni ha pure escluso la possibilità degli stati di declinare la direttiva su fattispecie selezionate discrezionalmente. Questione centrale, in questo contesto, è la considerazione dell’indennizzo come corollario di garanzia alla libertà di circolazione nell’Ue riconosciuta dai trattati fondativi. Punto che la Corte, nelle motivazioni della sentenza, pone in rilievo laddove scrive che "la Repubblica italiana, non avendo adottato tutte le misure necessarie al fine di garantire l’esistenza, nelle situazioni transfrontaliere, di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi sul proprio territorio, è venuta meno all’obbligo ad essa incombente in forza dell’articolo 12 paragrafo 2 della direttiva 2004/80". La legge 122 del 7 luglio scorso (Legge europea 2015/2016) è intervenuta per colmare la lacuna, prevedendo in 5 articoli l’allineamento alla disciplina comunitaria. Tuttavia l’operatività delle norme è di fatto subordinata all’emanazione dei decreti di attuazione del Viminale (previsti entro sei mesi), sentiti i ministeri dell’Economia e della Giustizia, sugli importi da riconoscere alle vittime "comunque nei limiti delle disponibilità del Fondo di rotazione (...) assicurando un maggior ristoro alle vittime dei reati di violenza sessuale e di omicidio". Resta comunque, secondo gli interpreti, uno spazio di 11 anni (dal 1° luglio del 2005 ad oggi) in cui le vittime di reati violenti potrebbero citare a giudizio il Ministero, come già accaduto in alcuni distretti (la relazione alla legge europea parla di un contenzioso a Torino finito con la liquidazione in Appello di 50 mila euro alla vittima). Inoltre, le tabelle del futuro decreto attuativo dovranno comunque attenersi a parametri di ristoro non meramente simbolici. Il ministero della Giustizia, a margine della sentenza di ieri, ha spiegato in un comunicato che "l’Italia ha proceduto alle necessarie modifiche normative: intervento realizzato con la cosiddetta legge europea 2015-2016 che contiene la disciplina per l’indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti. Si tratta ora di procedere con tempestività alla valutazione delle domande di indennizzo che verranno proposte, anche per fatti criminosi commessi prima dell’entrata in vigore della legge, in modo da recuperare il forte ritardo nel recepimento della direttiva europea e ridurre il sacrificio ai diritti individuali che in tutti questi anni si è consumato". Indennizzo vittime reati: sentenza Corte Ue su norme precedenti, ora Italia in regola giustizia.it, 12 ottobre 2016 La sentenza odierna della Corte di Giustizia europea, con la quale si conferma il principio secondo il quale tutti i crimini violenti intenzionali devono dare accesso a un indennizzo dopo il processo penale, condanna per inadempienza l’Italia a causa della situazione normativa vigente al momento della procedura di infrazione della Commissione Europea (2011) e del conseguente deferimento davanti alla Corte di Lussemburgo (2014). Proprio per essere in linea con la direttiva europea (2004/80/CE) - e fatti salvi alcuni necessari aggiustamenti che ancora devono essere fatti - l’Italia ha proceduto alle necessarie modifiche normative: intervento realizzato con la cosiddetta legge europea 2015-2016 (L. 7 luglio 2016, n. 122, articoli 11-16), che contiene appunto la disciplina per l’indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti. Si tratta ora di procedere con tempestività alla valutazione delle domande di indennizzo che verranno proposte, anche per fatti criminosi commessi prima dell’entrata in vigore della legge, in modo da recuperare il forte ritardo nel recepimento della direttiva europea e ridurre il sacrificio ai diritti individuali che in tutti questi anni si è consumato. Scarsa tutela per i "corporate crimes" di Gabrio Forti Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2016 Attuazione della direttiva 2012/29/Ue, norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato - Decreto legislativo 15 dicembre 2015 n. 212. C’è una possibile "rivoluzione copernicana" all’orizzonte per il nostro ordinamento giuridico. La direttiva 2012/29/Ue (che sostituisce una decisione quadro del 2001) introduce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, con l’obiettivo di ridare voce e ascolto, prima, durante e oltre il processo penale, alle ragioni e agli interessi della persona offesa da un reato, oggi relegata quasi esclusivamente al ruolo marginale di portatrice di una pretesa risarcitoria. La direttiva del 2012 costituisce dunque il passo più avanzato nel percorso che la Ue ha intrapreso da tempo (basti ricordare la direttiva 2004/80/Ce relativa all’indennizzo delle vittime di reato) per promuovere un impegno degli Stati membri ad adottare misure, processuali e non, per la protezione, il sostegno, l’informazione e l’assistenza alle vittime di reato. A fronte del complesso e articolato sistema di tutele previsto dalla direttiva (che include il diritto di accesso a servizi di assistenza e l’obbligo di tempestiva valutazione delle specifiche esigenze di protezione di ciascuna vittima) il recepimento - tardivo - nel nostro ordinamento, con il dlgs 212/2015, appare assolutamente parziale, concentrato solo su un’integrazione (non sempre sistematica) delle facoltà e tutele processuali della persona offesa. Per tutte le figure che professionalmente entrano ogni giorno in contatto con vittime di reato il compito è dunque quello di valutare portata e corrette modalità di adempimento dei molti nuovi obblighi che le riguardano. Un compito ancora più complesso e delicato in presenza di illeciti posti in essere dalle imprese. Mentre, infatti, per alcune categorie vulnerabili (minori, vittime di maltrattamenti in famiglia, di tratta o di terrorismo) sono stati sviluppati nel tempo, spesso su impulso internazionale, normative e servizi di sostegno ad hoc, le vittime dei cosiddetti "corporate crimes" non hanno mai goduto di altrettanta attenzione. Ciò anche per la natura delle conseguenze dannose derivanti da questi reati, spesso caratterizzate da elevata diffusività e scarsa o ritardata visibilità. È questo un ambito che richiede un’attenzione e un impegno accresciuti, anche perché l’obiettivo di garantire una reale valorizzazione delle esigenze di riconoscimento e protezione delle vittime apre a forme di risoluzione alternativa e "negoziata" delle controversie i cui esiti possono risultare assai più soddisfacenti, per tutte le parti coinvolte, di quelli oggi offerti dalle vie giudiziarie tradizionali. Per rispondere a questi bisogni e interrogativi il Centro Studi Federico Stella dell’Università Cattolica si è reso capofila di un progetto internazionale di ricerca-azione, finanziato dalla Ue, dedicato all’implementazione della direttiva in rapporto alle vittime di reati commessi da imprese e aventi in particolare un impatto sulla sicurezza ambientale, farmaceutica e alimentare. Obiettivo principale è fornire a tutte le figure coinvolte nel contatto con vittime di questi illeciti alcune puntuali linee guida e, correlativamente, un’adeguata formazione, indispensabile non solo per gli attori istituzionali - forze dell’ordine, magistrati, personale dei servizi sociali - ma anche per chi, come avvocati, legali d’impresa, esponenti di Ong e simili, si trovi ad affrontare professionalmente, oltre ai complessi problemi tecnico-giuridici, le delicatissime quanto ineludibili ripercussioni personali e relazionali che se ne irradiano. I risultati delle prime fasi del progetto saranno presentati a Milnao domani e dopo (13 e 14 ottobre) all’Università Cattolica in un convegno internazionale e interdisciplinare dal titolo Victims & Corporations. Rights of Victims, Challenges for Corporations, Potentials for New Models of Criminal Justice. Appalti: il collegamento non basta, imprese fuori gara solo se l’offerta concordata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 11 ottobre 2016 n. 42965. Il collegamento tra due società che partecipano a una gara per aggiudicarsi un appalto pubblico non basta per configurare il reato di turbata libertà degli incanti. Perché scatti tale illecito occorre la prova che, dietro la costituzione di imprese apparentemente distinte, si nasconda un unico centro decisionale di offerte coordinate o che le imprese, utilizzando il collegamento abbiano presentato offerte concordate. Del principio, affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza 42965 depositata ieri, beneficiano gli amministratori di due società che avevano partecipato ad una gara, indetta dall’Anas, per vincere l’appalto di lavori stradali. I due manager erano stati condannati sia in primo grado sia in appello, con un risarcimento ridotto rispetto al primo grado, per turbata libertà degli incanti. Secondo i ricorrenti, la Corte d’appello, preso atto del provvedimento di esclusione, si era allineata al giudizio espresso dall’organo amministrativo, senza fare valutazioni autonome. Gli amministratori contestavano la decisione raggiunta dalla Corte territoriale, che aveva presunto la collusione e la turbativa della gara d’appalto basandosi sul semplice collegamento tra le due società e sul rapporto di amicizia tra i loro responsabili. Il tutto in assenza di condotte relative ad accordi fraudolenti o in contrasto con le indicazioni fornite in materia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza C-538/07). Per la Cassazione, i ricorrenti hanno ragione. Se è vero che il collegamento tra due società, rappresenta per gli amministratori una condizione propizia per stringere rapporti e consumare il reato previsto dall’articolo 353 del Codice penale, è altrettanto vero che non si può prescindere dalla verifiche nel concreto. E, visto che un abisso separa la supposizione di un fatto dalla prova della questo sia avvenuto, la Cassazione taglia la strada a qualunque possibilità di presunzione, affermando che per la turbativa d’asta è necessaria l’esistenza di collusioni o di altri mezzi fraudolenti. I giudici precisano inoltre che la turbata libertà degli incanti è un reato di pericolo che si configura a prescindere dal risultato raggiunto, essendo sufficiente la sola idoneità degli atti. Se c’è collusione, il reato si consuma nel momento in cui viene presentata l’ultima delle offerte illecitamente concordate. Dunque, il collegamento in sè, anche quando non consentito, è solo un indice di irregolarità che assume rilievo penale quando c’è la prova di un accordo sulle offerte. La conclusione raggiunta è in linea con la Corte Ue, secondo la quale la disciplina nazionale che imponga un divieto assoluto di partecipazione simultanea ad imprese collegate è contraria al diritto comunitario se manca la dimostrazione che il "legame" ha influito sui comportamenti nella gara. Sbaglia dunque la Corte d’appello a valorizzare quanto evidenziato dalla commissione esaminatrice che ha escluso i ricorrenti dalla gara, presumendo, dalla veste esteriore dei plichi che contenevano le offerte e dai precedenti rapporti personali e commerciali, che le offerte facessero capo a un unico centro di interessi e fossero il frutto di manovre clandestine intraprese violando i princìpi di libera concorrenza. A cosa servono le carceri minorili? di Carmelo Musumeci imgpress.it, 12 ottobre 2016 Con la carcerazione che ho fatto da minorenne e da giovane adulto ho espiato quasi 35 anni, su 61 anni che ho compiuto quest’anno. Si può dire che sono una creatura del carcere. Forse per questo sono così cattivo. (Diario di un ergastolano: carmelomusumeci.com). Qualche settimana fa, dopo la protesta di alcuni giovani detenuti in un carcere minorile del sud Italia, chiamata (con molta fantasia) "rivolta", mi hanno colpito le dichiarazioni di alcuni addetti ai lavori, che non condivido. E, dati alla mano, innanzitutto desidero informare che la popolazione detenuta è prevalentemente giovane. Infatti, secondo i dati riportati nel XII Rapporto Nazionale sulle condizioni di detenzione, fornito dall’Associazione Antigone, aggiornato al 31 marzo 2016, 4.100 detenuti hanno meno di 25 anni, la maggioranza della popolazione detenuta ha meno di 44 anni (66,4%) e quasi la metà si colloca nella fascia compresa tra i 30 e i 44 anni (45,78%). La percentuale si alza ancor di più se si parla di stranieri. I detenuti presenti negli Istituti Penali per Minorenni, al 28 febbraio 2015, erano 407, dei quali 168 stranieri (41,3%). Di questi giovani, il 43% non aveva ancora ricevuto una sentenza definitiva. Negli ultimi due anni, gli ingressi di questi Istituti sono diminuiti dai 1.252 del 2012 ai 992 del 2014. A parità di reato, i minori immigrati ricevono più frequentemente misure cautelari detentive, restando in carcere per un tempo maggiore rispetto agli italiani e, con meno frequenza, sono destinati a misure alternative, come il trasferimento in comunità. La maggior parte degli adolescenti entra in carcere per reati contro il patrimonio. Personalmente, ho conosciuto i carceri minorili all’età di quindici anni e adesso che ne ho sessanta quando vedo giovani detenuti in prigione non posso fare a meno di pensare che una società che li punisce con il carcere farà di loro dei criminali ancora più incalliti. Proprio l’altro giorno è rientrato in galera un giovane che era uscito da circa un mese. Appena l’ho visto di nuovo nel cortile a fare avanti ed indietro ho pensato che non c’è nulla da fare: attraverso il carcere, l’Italia non lotta contro la criminalità, ma la produce. E questo probabilmente perché quando vivi intorno al male, non puoi che farne parte. E in parte questo vale anche per le guardie carcerarie, che non sono nate "cattive", ma molto spesso lo diventano a furia di vivere in un ambiente di "cattività". Penso che spesso non siano i reati commessi a far diventare una persona criminale, bensì i luoghi in cui è detenuto e gli anni di carcere che vengono inflitti. Oggi, nelle scale per andare in infermeria, ho trovato un giovane detenuto seduto su uno scalino, con lo sguardo fisso nel nulla. Sembrava che le sbarre di fronte a lui catturassero tutta la sua attenzione. E mi ha fatto pena perché ho visto nei suoi occhi la disperazione dei giovani detenuti tossicodipendenti. Ho pensato: "Ma questo che cazzo ci sta a fare in carcere?". Infatti, credo che si dovrebbe stare molto attenti a mettere dei giovani in carcere, perché quando usciranno, molto probabilmente, saranno diventati più devianti e criminali di quando sono entrati. E odieranno la società e le istituzioni ancora di più, per averli fatti diventare dei "mostri". Almeno a me è accaduto questo. Giustizia e politica, la demarcazione resta poco chiara di Paola Balducci (Consigliere Csm) Gazzetta del Mezzogiorno, 12 ottobre 2016 Il grido di dolore del Procuratore della Repubblica di Bari e le recenti sentenze di assoluzione e richieste di archiviazione romane ripropongono un tema antico, quello dei rapporti tra politica e magistratura, che forse impone ancora qualche chiarimento. Le richieste di archiviazione della Procura della Repubblica di Roma alla fine di una indagine lunga e complicata con tanti indagati appartiene a quella che è e dovrebbe essere la fisiologia della fase delle indagini. Il pubblico ministero, che deve svolgere anche indagini a favore dell’indagato, se ritiene, ed è il codice di procedura penale a prevederlo, che non vi siano prove sufficienti per sostenere l’accusa al processo chiede l’archiviazione. Bene ha fatto la Procura di Roma, dunque, a scremare prima dell’inizio del processo le posizioni rispetto alle quali il giudizio prognostico della condanna era infausto. E veniamo alla vicenda dell’ex sindaco di Roma che è stato assolto dal giudice dell’udienza preliminare a seguito di richiesta di giudizio abbreviato. Anche in questo caso siamo nella normale fisiologia del processo: il pubblico ministero formula la sua accusa, il giudice al quale spetta sempre emettere la decisione, sulla base anche degli elementi di prova forniti dall’imputato, opta per l’assoluzione con formula piena. Anche in questa ipotesi sono state rispettate le regole processuali del contraddittorio tra accusa e difesa. E comunque la pubblica accusa potrà sempre impugnare la decisione. Il tema vero e sempre più presente è quello del rapporto tra magistratura e politica, rispetto al quale si vuole dare una demarcazione poco chiara. Il pubblico ministero è tenuto a svolgere le sue indagini in presenza di una notizia di reato e verificarne la sua fondatezza ed è questa la fisiologia della fase delle indagini. Ma una certa politica non deve usare il pretesto di una inchiesta in corso, magari anche se la iscrizione è un atto dovuto, per gridare alle dimissioni o alle non dimissioni, a seconda dei casi e delle convenienze di un politico o di un amministratore pubblico: questa è la patologia, la magistratura non ha e non deve avere il compito di incidere sulle scelte dei politici e della politica. Altro tema è quello della stampa che spesso usa la pendenza di un procedimento ancora in embrione per far scattare nell’opinione pubblica una presunzione di colpevolezza del politico indagato, che diventa difficile da cancellare, specie quando passa del tempo tra l’inizio della indagine e magari la sua archiviazione. In questo caso le conseguenze personali e professionali sono gravi e a nulla vale una notizia di archiviazione data dopo molto tempo, a massacro massmediatico ormai realizzato. Anche qui dovrebbero intervenire codici deontologici spesso inosservati. Credo che le frasi del Capo dello stato che invita i magistrati ad usare umiltà, come costante attenzione al proprio agire professionale, e apertura al dubbio sui propri convincimenti, siano state giustamente recepite da quelle procure come quella romana, che anche in casi delicati che coinvolgono la politica e i politici, fa delle scelte nette e doverose. Rispondendo alla preoccupazione del procuratore della Repubblica di Bari che giustamente lamenta che la irragionevole durata dei processi dipende anche dalla situazione degli uffici giudiziari, carenze del personale amministrativo, assenze di aule di udienza, non si può non essere d’accordo. Sono priorità che devono impegnare le istituzioni al livello centrale. Il Ministero della giustizia fa quello che può nei limiti stretti del suo bilancio. Il tema attuale oggi è però quello delle indagini. Se queste sono dirette a concludersi in un nulla di fatto anche sotto il profilo probatorio è auspicabile una sollecita definizione in senso favorevole all’indagato, per restituire dignità alle persone ma anche in ossequio alla ragionevole durata del processo. L’Italia è una Repubblica fondata sui pm di David Allegranti vanityfair.it, 12 ottobre 2016 I partiti non sanno più selezionare la classe dirigente. Aspettano che al loro posto ci pensi il pm di turno. Il caso Marino docet. Ignazio Marino? Prosciolto, non taroccò gli scontrini. Roberto Cota? Assolto, non comprò le mutande verdi a spese dei cittadini. Mafia Capitale? Archiviate 116 persone coinvolte nelle deposizioni di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Vincenzo De Luca? Assolto dalle accuse di corruzione e truffa aggravata (inchiesta durata 18 anni). Dai tempi di Tangentopoli, ci si interroga sul rapporto fra giustizia e politica. "Spesso la giustizia è usata per la lotta politica", dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Non può spingersi oltre, ma tanto basta. Spesso le accuse dei pm vengono smontate in tribunale. Ma è il segno di una giustizia che funziona o di un eccesso di protagonismo da parte di certi pubblici ministeri, che hanno scambiato le aule per sezioni di partito? Secondo il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, bisogna "porsi il problema dell’effettiva sostenibilità delle accuse in dibattimento". La legge già lo prevede. Nell’art. 358 del Codice di procedura penale è scritto che il pm deve svolgere anche accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini: non è tenuto solo all’obbligatorietà dell’azione penale. Il garantismo dovrebbe essere uno dei principi di una società liberale - ma i liberali non esistono, neanche tra chi si professa tale -, invece la politica italiana è preda di appetiti giustizialisti e manettari, che i partiti scaricano sull’avversario di turno. Si dirà che la questione riguarda solo la Lega Nord, che negli anni ‘90 sventolava manette e cappi, e il M5S con il suo bercio "onestà, onestà, onestà". Ma il problema è anche del centrosinistra, che accetta le decisioni della magistratura come surrogato della politica. Pensate a Marino, l’ex sindaco di Roma fatto fuori dal Pd. I partiti non sanno più selezionare la classe dirigente. Aspettano che al loro posto ci pensi il pm di turno. "Si dice che la magistratura funziona perché poi le persone vengono assolte, ma il problema è un altro", ci dice il professor Zeffiro Ciuffoletti, storico all’Università di Firenze. "Il problema sono i danni che produce questa distorsione dal punto di vista della democrazia. Le Regioni non funzionavano, ma l’immagine che ne è stata data è ancor più negativa di quanto fosse. Era dunque giusto riformare il Titolo V della Costituzione, ma è stato fatto male. Oggi la politica non ha più un’agenda sua, se la fa dettare da altri poteri. E i presidenti della Repubblica, pur essendo a capo del Csm, non hanno mai detto niente al riguardo, a parte qualche piccolo richiamo". Insomma, "la sintesi fra terzo e quarto potere, giustizia e media, è drammatica per la democrazia. Oggi chi potrebbe fare politica? Solo chi la affronta a muso duro. Ma a una persona minimamente decente - nessuno è perfetto - vengono dubbi su quello che fa oppure si abbatte, si ammala e muore. Il caso Tortora è emblematico. Era già tutto lì e nessuno pagò. E nulla cambiò quando gli italiani votarono per il referendum dei Radicali sulla responsabilità civile dei magistrati, vanificato dai partiti politici che ne ebbero paura e ridussero una richiesta venuta dal popolo a burletta". Informazione di garanzia non vuol dire condanna di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 12 ottobre 2016 Occorre trovare un linguaggio condiviso grazie al quale ogni atto processuale possa avere solo un significato tecnico, senza interpretazioni strumentali. Caro direttore, le sentenze favorevoli che, in questi ultimi giorni, hanno interessato esponenti di rilievo di partiti diversi, hanno generato una riflessione generale, sulla scorta di premesse, però, non sempre condivisibili. La prima e più importante è che non sono solo i politici, ma anche gli imputati "comuni" ad essere sovente assolti, dopo essere stati rinviati a giudizio, con la non secondaria differenza che di questi ultimi non si parla quasi mai, tema questo sul quale non sarebbe peregrino interrogarsi con la stessa attenzione. L’assoluzione, dunque, non è un’eccezione che deve suscitare allarme o far gridare all’errore giudiziario, ma la fisiologica conseguenza di un sistema nel quale, se funziona, il pubblico ministero, all’esito delle indagini preliminari, quando ha gli elementi necessari, chiede un rinvio a giudizio; e il giudice, alla luce delle prove che le parti gli sottopongono, condanna se quelle a carico dell’imputato sono granitiche, dovendo, invece, assolvere non solo quando difettino, ma anche quando siano insufficienti o contraddittorie. I giudici d’appello e di cassazione le riesaminano e possono dissentire - il che spiega le recenti assoluzioni in appello, ma anche molte condanne, in luogo dell’iniziale assoluzione - fino a giungere alla sentenza definitiva, prima della quale ogni imputato è presunto non colpevole e non presunto innocente, come si preferisce dire. Non si deve, dunque, chiedere scusa agli assolti, per averli indagati e processati o, peggio, evocare interferenze della magistratura nella politica, essendo ogni assoluzione la prova che il sistema funziona. Sarebbe piuttosto preferibile fare uno sforzo per trovare un linguaggio condiviso - speranza vana, ahimè, anche per mancanza di un reale interesse - usando il quale ad ogni fase processuale e ad ogni atto si attribuisca solo il significato che dà loro il codice. Ciò non accade, in particolare, con l’informazione di garanzia - una definizione finalmente appropriata, dopo l’infelice scelta di chiamarla, in passato, comunicazione giudiziaria - cui è da anni attribuita un’importanza che davvero non merita. Il pm, infatti, deve inviarla all’indagato, annotando il reato ipotizzato, la data e il luogo del fatto, solo se deve compiere un atto, al quale questi ha il diritto di assistere, a sua garanzia, dunque, per permettergli di difendersi. Una questione tecnica e una scelta temporale precisa, ma del tutto casuale, legata com’è all’andamento delle indagini, dunque, essendo il dato processuale rilevante, piuttosto, l’iscrizione nel registro degli indagati, a seguito dell’arrivo in Procura di una notizia di reato, che riguardi un soggetto identificato: del tutto ingiustificato è, dunque, sostenere - come sovente accade - che il suo invio aggravi la posizione processuale del destinatario ed il mancato inoltro la attenui. Eppure è dai tempi di Tangentopoli, quando si attendeva con spasmodica impazienza che venisse inviata agli esponenti di vertice dei partiti coinvolti, che l’opinione pubblica la considera una sorta di condanna anticipata e di questo sì occorrerebbe chieder conto a chi fa informazione e a chi ne strumentalizza la natura, così condizionando la percezione corretta di quel che accade dopo. Perché è da questa distorta convinzione che discende, immediato, lo straniante sconcerto collettivo, se chi l’ha ricevuta viene poi assolto, essendo la sua condanna, invece, lo scontato epilogo di quella errata premessa, il che incoraggia facili illazioni su pretesi favoritismi, ingenerando una diffusa sfiducia nella giustizia, che può non essere peregrina, ma per ragioni del tutto diverse. Indubbio è il rilievo, sotto il profilo dell’opportunità, dell’iscrizione nel registro degli indagati di chi svolge un ruolo pubblico, atto dovuto cui non si addice, però, l’asimmetrico clamore che spesso l’accompagna, specie quando non dipende dalla gravità dei reati o dalla dinamica dei fatti. Sbaglia, però, chi sposta in là il momento delle scelte da fare, per attendere un atto che potrebbe non arrivare e traendo auspici fausti o infausti da una scelta neutra ed obbligata; ma sbaglia di più chi, al contrario, gli attribuisce, magari in malafede, una valenza che proprio non ha: una carriera, una vita, la dignità sono ben più importanti di un pezzo di carta che arriva per caso. Sardegna: Santi Consolo visita a sorpresa le carceri. Uil "lo avremo accolto protestando" di Alessandro Congia castedduonline.it, 12 ottobre 2016 In Sardegna, l’odierna visita inaspettata del Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in Sardegna. Forti polemiche espresse dal sindacato della Uil: "Troppi problemi irrisolti nel sistema penitenziario sardo, se avessimo saputo del suo arrivo, avremo inscenato una manifestazione di protesta". Visita non annunciata del Capo del Dipartimento in Sardegna, la Uil: "Lo avremmo accolto con una manifestazione di protesta". Dura la reazione del segretario generale Sardegna a seguito della visita ancora in corso del Capo del Dipartimento dell’amministrazione Santi Consolo in alcuni Istituti carcerari della Sardegna. "Avremo certamente organizzato una manifestazione di protesta per accogliere il vertice del Dipartimento, dichiara Michele Cireddu, troppi problemi irrisolti, di recente la Uil a tutti i livelli ha proclamato lo stato di agitazione e si appresta ad effettuare una grande manifestazione nazionale, nel frattempo in occasione delle visite dei vertici dell’Amministrazione nelle varie regioni avevamo comunicato "un accoglienza" con manifestazioni di protesta! La visita odierna non è stata annunciata ed è avvenuta in maniera improvvisa, probabilmente anche per scongiurare la protesta della Uil e non rendere conto all’opinione pubblica delle problematiche denunciate a tutt’ora irrisolte. La Uil ha rivendicato nel volantino di protesta di eliminare gli sprechi e reinvestire i risparmi in mezzi e strumenti di lavoro moderni; rinforzare gli organici di tutti i ruoli della Polizia penitenziaria (carenti di circa 8.000 unità) ed eliminare le riduzioni previste dalla legge Madia; recuperare le migliaia di unità impiegate negli uffici ministeriali in compiti non operativi e quelle in servizio presso le sedi accorpate; adottare provvedimenti utili a prevenire e contrastare le aggressioni e gli atti di violenza nei confronti delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria; ripristinare regole di equità e trasparenza, costantemente violate e/o aggirate dall’Amministrazione Penitenziaria, attraverso corrette relazioni sindacali ed il rinnovo dell’Accordo Nazionale Quadro scaduto dal 2005; concretizzare il riallineamento dei ruoli direttivi e valorizzare i Funzionari con l’obiettivo di dare al Corpo una propria autonomia di gestione; realizzare un riordino delle carriere che efficienti gli apparati della sicurezza di questo Paese e ponga fine alle sperequazioni anche nei ruoli degli ispettori e dei sovrintendenti; definire un modello organizzativo con linee guida comuni per tutti gli istituti penitenziari e i nuclei traduzioni e piantonamenti; rinnovare il contratto di lavoro scaduto dal 2009; rendere gratuito l’utilizzo delle caserme nelle carceri per gli Agenti impiegati nei servizi, così come avviene per le altre Forze dell’Ordine. A questi punti di carattere nazionale, si aggiungono le gravi problematiche della regione Sardegna più volte denunciati dalla Uil e tutt’ora irrisolti per l’inerzia sin’ora dimostrata dai vertici dell’Amministrazione. Lo stesso Ministro di recente con un comunicato stampa ha denunciato l’impiego del doppio del personale necessario negli Uffici del Dap, e l’impossibilità per motivi, che rimangono misteriosi, di reimpiegare le unità in esubero, parole forti dal contenuto estremamente significativo". Volterra (Pi): ai piedi del carcere spunta un orto coltivato dai detenuti La Nazione, 12 ottobre 2016 Spunta un orto curato da detenuti per coltivare ortaggi da consumare all’interno del carcere. È il progetto compiuto nella Fortezza di Volterra dallo scorso luglio nell’ambito del progetto "L’Orto, luogo di incontri e di vita" nato dalla collaborazione tra la Direzione del Carcere di Volterra, il Comune di Volterra e la Confraternita Misericordia. Tre detenuti hanno usufruito di un regime più attenuato, potendo uscire quotidianamente per recarsi negli spazi aperti extra murari dell’istituto al fine di curare le aree adibite ad orto e coltivare zucchine, pomodori, peperoncini. Il progetto ha offerto la possibilità ai detenuti interessati di praticare volontariamente un’attività che li rende "temporaneamente liberi", liberi di pensare e curare la natura, produrre ortaggi che poi consumeranno assieme ai propri compagni nelle loro camere. "Il carcere di Volterra è sempre più una realtà di eccellenza, capace di interagire e di far parte della città - spiega il sindaco Marco Buselli. Quella dell’orto è un’altra idea brillante che la direttrice della struttura è riuscita, con la collaborazione dell’assessorato alle politiche sociali e della Misericordia, a realizzare all’interno di una realtà carceraria modello come quella volterrana". "Ci tengo a ringraziare la direttrice Giampiccolo, che da sempre si è dimostrata una persona attenta a valorizzare il nostro carcere - aggiunge l’assessore alle politiche sociali Francesca Tanzini - portando al suo interno progetti di inclusione e collaborazione con il territorio, grazie anche alla Misericordia di Volterra parte fondamentale per la realizzazione di questo progetto. Sarebbe bello poter ampliare il progetto con il coinvolgimento di altri volontari che porterebbero così un’ulteriore scambio di esperienze". Con la presenza del personale della Misericordia di Volterra, infatti, l’attività si pone anche l’obiettivo di consentire ai detenuti di intrattenere positive relazioni con la comunità esterna, nell’ottica di un graduale reinserimento nella società libera. Como: detenuti a scuola di intaglio, 100 bastoni in vendita nei rifugi lombardi di Anna Campaniello Corriere della Sera, 12 ottobre 2016 Un laboratorio in carcere diventa un’opportunità professionale. L’obiettivo era proporre un laboratorio diverso dal solito, che potesse coinvolgere i detenuti (nella foto di Fabrizio Cusa) e insegnare loro un mestiere. "In realtà abbiamo scoperto dei talenti", dicono i maestri di un corso proposto ai carcerati di Como e sfociato in un’attività produttiva. I bastoni del Bassone, in una prima edizione limitata di cento pezzi unici, realizzati a mano, sono ora in vendita nei rifugi della Lombardia con prezzi dai 15 ai 50 euro. Al successo del progetto hanno contributo maestri d’eccezione, i mascherai di Schignano, oltre agli operatori dell’Ersaf, che hanno lavorato accanto agli allievi ma hanno anche fornito il materiale per i bastoni, legni di nocciolo provenienti dalla foresta regionale dei Corni di Canzo. Il resto lo hanno fatto le capacità degli allievi. "Al corso ha partecipato un gruppo ristretto di detenuti - dice la direttrice del carcere del Bassone, Carla Santandrea. Persone che sono apparse subito molto interessate e poi hanno dimostrato capacità particolari. Il laboratorio era partito un pò in sordina, ma il risultato finale è sorprendente e unico nel suo genere". Un risultato riconosciuto anche a livello nazionale, visto che i bastoni da passeggio prodotti dai detenuti del Bassone hanno vinto il premio nell’ambito del concorso Comunità Forestali Sostenibili. "Tra i detenuti che hanno seguito il corso alcuni si sono rivelati davvero dei talenti nell’intagliare il legno - conferma Battista Peduzzi, mascheraio di Schignano, tra i docenti che hanno lavorato in carcere. Penso in particolare a un uomo originario di questa zona, già legato all’ambiente della natura e del bosco, ma anche a un albanese che ha mostrato di avere capacità incredibili". I primi cento bastoni da passeggio, ideali anche per le camminate in montagna, grazie alla collaborazione di Assorifugi e della Cooperativa Homo Faber sono in vendita nei rifugi della Lombardia. Si va da un costo base di 15 euro per quelli più semplici fino ai 50 euro chiesti per i pezzi più elaborati, "quasi opere d’arte", come dicono gli stessi maestri. "Gli incassi della vendita torneranno ai detenuti - spiega la presidente dell’Ersaf Elisabetta Parravicini. Questo non è un hobby ma è diventata un’attività professionale vera e propria e questo è un ulteriore obiettivo raggiunto nell’ottica del futuro reinserimento nella società dei detenuti". "Siamo riusciti a tutelare la dignità dei detenuti e dare loro un’opportunità reale di acquisire competenze utili per tornare a pensare al futuro e sperare in una nuova occasione", commenta il consigliere segretario Daniela Maroni, che da tempo collabora con la direzione del carcere del Bassone e assicura ora, visto il risultato del progetto dei bastoni, un rilancio dell’attività. "Vogliamo fare in modo che questa attività diventi autonoma e possa proseguire nel futuro - conclude la responsabile di Ersaf. Continueremo a garantire la fornitura di legno certificato delle foreste del territorio, con l’obiettivo di avere per la prossima stagione estiva una produzione di bastoni da passeggio importante sia dal punto di vista della quantità sia soprattutto della qualità, in modo da poter continuare a presentare e vendere i prodotti del laboratorio dei detenuti, facendo crescere l’attività e coinvolgendo altre persone che mostrino interesse e capacità". Livorno: solidarietà del carcere di Porto Azzurro per i terremotati tenews.it, 12 ottobre 2016 Il ringraziamento della Caritas ai detenuti della Casa di Reclusione. Il Garante per i Diritti dei Detenuti del Carcere di Porto Azzurro, Nunzio Marotti, ci segnala questo articolo, che volentieri pubblichiamo. Riceviamo dal direttore della Caritas diocesana Leonello Ridi: "Carissimi, dopo la breve pubblicazione sul giornale per la colletta di solidarietà effettuata in carcere a Porto Azzurro, personalmente ho fatto recapitare a Caritas Italiana la notizia attraverso una breve lettera. Il direttore di Caritas ci ha risposto con due brevi lettere una indirizzata a noi e agli operatori, cappellano compreso ed una rivolta proprio ai detenuti. Se pensate di poterne condividere con i lettori, ve le inviamo volentieri. Un fraterno saluto. Leo". Pubblichiamo perciò molto volentieri le due lettere a firma del direttore della Caritas italiana don Francesco Soddu, iniziando da quella indirizzata al direttore della Caritas della nostra diocesi: "Gentile direttore, abbiamo accolto la solidarietà degli amici ristretti come un segno di fraternità e condivisione. Mi piace sottolineare che il gesto esprime la volontà di lasciarsi "provocare" da una situazione di dolore e che l’esperienza dell’associazione Dialogo, che opera nell’ambito della Caritas diocesana, mostra come i percorsi di ascolto della Parola e di riconciliazione portano i frutti di carità e come la solidarietà vissuta è l’inizio di una riconciliazione con Dio e con la comunità. Amicizia, fraternità e misericordia che costruiscono futuro e speranza. Un grazie anche al cappellano, don Francesco Guarguaglini, e a te per il lavoro che svolgi nella tua Caritas diocesana e ricordando il lavoro svolto in passato nel coordinamento emergenze". Ancora più importante la lettera ai detenuti della casa di reclusione di Porto Azzurro: "Carissimi amici, abbiamo gradito il vostro pensiero e sentiamo il bisogno di ringraziarvi per il gesto di solidarietà per i fratelli colpiti dal terremoto del 24 agosto 2016 nel centro Italia. Il vostro dono indica sensibilità, vicinanza e prossimità. Impegneremo la vostra offerta per alleviare e consolare il dolore e costruiremo un’opera segno che farà ripartire la quotidianità di chi ha visto distrutte non solo le cose, ma i sacrifici di una vita e che attende il risorgere di una comunità capace di costruire futuro. A voi auguriamo un futuro di libertà e responsabilità nel perseguire il bene comune per costruire una società fondata sulla solidarietà. Cordiali saluti". Lecce: Ugl "aprire il nuovo padiglione richiede aumento di poliziotti penitenziari" lecceprima.it, 12 ottobre 2016 Carceri, nota di De Pasquale del sindacato Ugl Polizia Penitenziaria. Il Segretario Nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria Alessandro De Pasquale, trasmette oggi una lettera al Capo del Dap, Pres. Santi Consolo, segnalando la necessità di aumentare il personale di polizia penitenziaria nel carcere di Lecce. De Pasquale dichiara infatti che a seguito della prossima apertura del nuovo reparto, potrebbe aumentare il carico di lavoro per il personale di polizia penitenziaria che, come noto, ha già una situazione preoccupante sul fronte delle risorse umane impiegate. L’apertura del nuovo padiglione - afferma De Pasquale - richiederà certamente l’impiego di un maggior numero di poliziotti per garantire la necessaria sicurezza e il raggiungimento degli obbiettivi tracciati dalla legge. Secondo l’Ugl Polizia Penitenziaria, nel penitenziario di Lecce, negli ultimi anni molti poliziotti hanno lasciato l’Amministrazione la quale, purtroppo, non ha provveduto a sostituirli, costringendo quindi i lavoratori in servizio a svolgere incarichi non in linea con le previsioni normative, considerato che il datore di lavoro deve adottare tutte le misure idonee a prevenire i rischi nell’ambiente di lavoro, dato che la sicurezza del lavoratore è un bene di rilevanza costituzionale che impone necessariamente al datore di anteporre al proprio profitto la sicurezza di chi esegue la prestazione. Il segretario nazionale De Pasquale ha quindi chiesto al Capo del Dap di tener conto delle esigenze di sicurezza dei lavoratori e quelle del penitenziario di Lecce, incrementando le unità di polizia penitenziaria soprattutto in ragione dell’apertura del nuovo padiglione. Siracusa: carenza di organico nelle carceri, stato di agitazione della polizia penitenziaria di Oriana Vella siracusaoggi.it, 12 ottobre 2016 Stato di agitazione per i poliziotti penitenziari aderenti all’Ugl. Alla base della decisione, la carenza di organico, i disagi che gli operatori incontrano nello svolgimento della propria attività. Un problema che non riguarda soltanto le strutture carcerarie del territorio, ma che va esteso a tutte le carceri italiane, tanto che il Consiglio d’Europa ha condannato l’Italia per le "intollerabili condizioni di vita dei ristretti- spiega in una nota la segreteria provinciale del sindacato- Le richieste sono chiare: immediata assunzione di personale attraverso le graduatorie degli idonei dei concorsi già effettuati". Immissioni in ruolo che non sarebbero, comunque, sufficienti, tanto che l’organizzazione sindacale richieste ulteriori assunzioni per i diversi profili professionali richiesti. "Infine - prosegue il sindacato - considerata la necessità non più rinviabile di armonizzare il lavoro all’interno degli istituti penitenziari, svolto dai diversi operatori divisi dalla loro anacronistica collocazione in diversi comparti contrattuali, si reputa necessario far confluire tutto il personale penitenziario inquadrato nel comparto ministeri, all’interno dei ruoli tecnici della polizia penitenziaria, da creare con provvedimento legislativo ad hoc, in occasione del prossimo riordino delle carriere delle forze di polizia". Roma: il 14 ottobre convegno sul reinserimento dei detenuti agensir.it, 12 ottobre 2016 "Lo spazio ritrovato. Il reinserimento del detenuto nell’ambiente sociale" è il convegno in programma il 14 ottobre a Roma (Isola Solidale, in via Ardeatina, 930 - ore 9.30) per iniziativa di "Isola solidale". Obiettivo dell’incontro, spiega un comunicato, "evidenziare come i detenuti e gli ex detenuti possano costituire una risorsa per la nostra società invece che rivestire un ruolo passivo e dipendente". Per questo, prosegue la nota, "sono stai coinvolti tutti gli agenti sociali e istituzionali nazionali e territoriali per promuovere - soprattutto su Roma - le necessarie sinergie tra la magistratura, i servizi socio-sanitari, il volontariato, la politica e la comunità religiosa per favorire l’integrazione dei detenuti o ex detenuti". Intervengono tra gli altri Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia; monsignor Augusto Paolo Lojudice, vescovo ausiliare di Roma; Alessandro Pinna, presidente di Isola solidale; Cinzia Clandrino, provveditore Amministrazione penitenziaria delle Regioni Lazio-Abruzzo e Molise; Giuseppe Chinnici, presidente Fondazione Ozanam; Patrizio Gonnella, presidente associazione Antigone,; Rossella Santoro, direttore della Casa circondariale di Civitavecchia, e Orazio La Rocca, giornalista de La Repubblica. Tempo di oligarchie e di chiarimenti di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 12 ottobre 2016 A Scalfari rispondo che la democrazia è lotta per la democrazia e non è la classe dei privilegiati quella che può condurla. L’oligarchia è la sola forma di democrazia, ha sostenuto Eugenio Scalfari nei suoi due ultimi editoriali su questo giornale. Ha precisato che le democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non sono che oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la democrazia diretta può valere solo per questioni circoscritte in momenti particolari, ma per governare è totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa ci sarebbe, ed è la dittatura. Quindi - questa la conclusione che traggo io, credo non arbitrariamente, dalle proposizioni che precedono - la questione non è democrazia o oligarchia, ma oligarchia o dittatura. Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è evidentemente la forma estrema, si dovrebbe concludere che la differenza rispetto alla democrazia non è di sostanza. Tutti i governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette e inamovibili; cambia solo la forma, democratica o dittatoriale. Nell’ultima frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente a riflettere sulle sue tesi, cosa da farsi comunque perché la questione posta è interessante e sommamente importante. Se fosse come detto sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione ("L’Italia è una repubblica democratica"; "la sovranità appartiene al popolo") è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le riflessioni. Se avessimo a che fare con una questione solo numerica, Scalfari avrebbe ragione. Se distinguiamo le forme di governo a seconda del numero dei governanti (tanti, pochi, uno: democrazia, oligarchia, monarchia) è chiaro che, in fatto, la prima e la terza sono solo ipotesi astratte. Troviamo sempre e solo oligarchie del più vario tipo, più o meno ampie, strutturate, gerarchizzate e centralizzate, talora in conflitto tra loro, ma sempre e solo oligarchie. Non c’è bisogno di chissà quali citazioni o ragionamenti. Basta la storia a mostrare che la democrazia come pieno autogoverno dei popoli non è mai esistita se non in alcuni suoi "momenti di gloria", ad esempio l’inizio degli eventi rivoluzionari della Francia di fine 700, finiti nella dittatura del terrore, o i due mesi della Comune parigina nel 1871, finita in un bagno di sangue. Dappertutto vediamo all’opera quella che è stata definita la "legge ferrea dell’oligarchia": i grandi numeri della democrazia, una volta conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti brutalmente, evolvono rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie ristrette del potere, cioè verso gruppi dirigenti specializzati, burocratizzati e separati. Ogni governo realmente democratico non è che una fugace meteora. In quanto autogoverno dei molti, fatalmente si spegne molto presto. Tuttavia, la questione non è solo quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e il come governa. Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale contro il popolo minuto. In questa visione, i numeri perdono d’importanza: è solo una circostanza normale, ma non essenziale, che "la gente" sia più numerosa dei "signori", ma i concetti non cambierebbero (dice Aristotele) se accadesse il contrario, se cioè i ricchi fossero più numerosi dei poveri. Si può parlare di oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma, per lo più, fin dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo: gli oligarchi non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere che hanno acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei molti. L’oligarchia è quindi una forma di governo da sempre considerata cattiva; così cattiva che deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi nel segreto. Questa è una sua caratteristica tipica: la dissimulazione. Anzi, questa esigenza è massima per le oligarchie che proliferano a partire dalla democrazia. Gli oligarchi devono occultare le proprie azioni e gli interessi particolari che li muovono. Non solo. Devono esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con discorsi propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste. Occorre convincere i molti che i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene. Così, l’oligarchia è il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di attributi dei governanti e di opacità nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque, ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della democrazia il "persistere delle oligarchie". Se ci guardiamo attorno, potremmo dire: non solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi "globalizzandosi" e velarsi in reti di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive di connessioni malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e sempre meno decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il velo e guardare la nuda realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di vedere? Annodiamo i fili: abbiamo visto che la democrazia dei grandi numeri genera inevitabilmente oligarchie e che le oligarchie sono nemiche della democrazia. Dovremmo dire allora, realisticamente, che la democrazia è il regime dell’ipocrisia e del mimetismo, un regime che produce e nutre il suo nemico: il condannato che collabora all’esecuzione della sua condanna. Poveri e ingenui i democratici che in buona fede credono nelle idee che professano! C’è del vero in questa visione disincantata della democrazia come regime della disponibilità nei confronti di chi vuole approfittarne per i propri scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare qui. Una legge generale dei discorsi politici è questa: il significato di tutte le loro parole (libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice, dipende dal punto di vista. Per coloro che stanno in cima alla piramide sociale, le parole della politica significano legittimazione dell’establishment; per coloro che stanno in fondo, significa il contrario, cioè possibilità di controllo, contestazione e partecipazione. Anche per "democrazia" è così. Dal punto di vista degli esclusi dal governo, la democrazia non è una meta raggiunta, un assetto politico consolidato, una situazione statica. La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi, la democrazia è lotta per la democrazia e non sono certo coloro che stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni politiche, il diritto di contare almeno qualcosa. Le costituzioni democratiche sono quelle aperte a questo genere di conflitto, quelle che lo prevedono come humus della vita civile e lo regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti utili per indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli distruttivi. In questo senso deve interpretarsi la democrazia dell’articolo 1 della Costituzione, in connessione con molti altri, a incominciare dall’articolo 3, là dove parla di riforme finalizzate alla libertà, all’uguaglianza e alla giustizia sociale. Whistleblower. Una legge per gli Snowden italiani: "chi denuncia non resterà solo" di Davide Lessi La Stampa, 12 ottobre 2016 Dopo mesi di stallo è in Senato il provvedimento che tutela chi segnala corruzione e illeciti. Solo il 5% delle società private ha adottato un modello organizzativo che prevede la tutela dei dipendenti che segnalano illeciti e corruzione in azienda. Il funzionario Alessandro è stato spostato a far niente in un ufficio-deposito del Comune. All’ingegnere Vito è stata riconosciuta la malattia professionale per mobbing. Anche Andrea non ce l’ha fatta e, dopo mesi di pressioni e demansionamenti, ha lasciato l’azienda. Messi all’angolo o costretti ad andarsene. La loro colpa? Aver denunciato illeciti e corruttele nei luoghi di lavoro. In inglese si chiamano whistleblower, letteralmente "soffiatori di fischietto". Da noi non c’è una parola per definirli. Presto, però, potrebbe esserci una legge per proteggere questi Snowden italiani. Persone che, come l’ex tecnico della Cia, non sono rimaste in silenzio. Il vuoto normativo - Dopo mesi di stallo e rinvii sono arrivati in commissione al Senato due ddl. "Attualmente c’è un solo articolo per la tutela dei dipendenti che decidono di segnalare delle irregolarità", spiega Giorgio Fraschini, dagli uffici di Transparency International Italia. La legge Severino, nel 2012, ha introdotto una norma nel Testo unico sul pubblico impiego. "Ma appunto - spiega il legale Fraschini - vale solo per i dipendenti pubblici. E inoltre ha altre criticità: non sono previste sanzioni per chi sgarra e non protegge l’identità di chi segnala le irregolarità, con il rischio che poi subisca ritorsioni sul luogo di lavoro". Manca, insomma, una disciplina completa. "Ci siamo mossi più lentamente degli altri Paesi europei", ammette Fraschini che in passato ha lavorato al Public Concern at Work, l’ente di riferimento per il whistleblowing nel Regno Unito. "Ma anche da noi le cose stanno cambiando: ormai ci si è resi conto che la corruzione, nel pubblico e nel privato, ha un costo insostenibile". I costi sociali - Ventitré miliardi, tanto sono costati gli sprechi nella sanità nel 2014 secondo il libro bianco Ispe. Per Transparency Italia circa sei miliardi sono da considerarsi corruzione. E non un caso che proprio nel settore sanitario il servizio di allerta anticorruzione (Alac) dell’associazione abbia ricevuto il numero più alto di segnalazioni. Appalti pilotati, nomine non qualificate, benefit ingiustificati e mazzette per tagliare le liste d’attesa. L’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), nel suo rapporto sul whistleblowing in Italia ha preso in esame 299 segnalazioni da settembre 2014 a maggio 2016. La maggior parte arrivano dal settore pubblico (circa il 65%): si va dalla truffa nella richiesta dei buoni pasti e nella timbratura dei cartellini fino alle parcelle gonfiate per spese da liquidare. Il professore Lucio Picci, ordinario al dipartimento di scienze economiche dell’Università di Bologna, ha scritto che il reddito medio degli italiani sarebbe più alto di circa 10 mila euro se ci fosse lo stesso livello di corruzione che c’è in Germania. "C’è come una silenziosa accettazione che la corruzione in Italia sia inevitabile", racconta sconsolato Andrea Franzoso, 39 anni. Lui è il whistleblower per antonomasia: il funzionario di Ferrovie Nord che ha denunciato le spese pazze (600 mila euro) del vecchio presidente Norberto Achille. "Non mi sento una spia: penso di aver fatto il mio dovere, solo che poi l’ho pagato sulla mia pelle", dice. Da qualche giorno, dopo mesi di battaglia legale e ritorsioni in ufficio, ha accettato la risoluzione del contratto. Ma non intende smettere di denunciare quanto successo. I punti critici - "Anche la legge in discussione lascia una tutela vaga per i casi come quello di Andrea", spiega Priscilla Robledo, portavoce della campagna Voci di giustizia. L’articolo 2 del ddl, infatti, prevede l’estensione della normativa al settore privato. "Ma è formulato facendo riferimento a un particolare modello organizzativo delle aziende, il 231, che pochissime hanno adottato". In pratica la tutela dei dipendenti rischia di riguardare solo il 5% delle società private. E c’è un altro problema: "Non c’è la possibilità della segnalazione anonima che garantirebbe maggiore tranquillità ai whistleblower. Potrebbero rimanere in azienda senza ritorsioni". Tutelati, senza dover essere messi di parte o costretti ad andarsene. Solo per aver fatto il loro dovere. Droghe. Dipendenze, come cambiare da sé di Harald Klingemann* Il Manifesto, 12 ottobre 2016 L’auto cambiamento (self change), definito in termini clinici come remissione spontanea", è il processo attraverso cui una persona riesce a uscire da una condizione sfavorevole, non voluta, senza un aiuto professionale: può essere l’uscita da una carriera deviante, oppure dalla dipendenza da sostanze. Il motore dell’auto cambiamento consiste nel trovare un nuovo significato nella vita e nel valutare i pro e i contro se smettere o continuare il comportamento auto distruttivo. Il self change non è affatto raro, al contrario è la regola, come dimostrano le persone che smettono di fumare, facendo a meno di una sostanza pur "pesante" come la nicotina. La ricerca documenta l’esistenza della "remissione spontanea" per tutte le droghe, mostrando come i consumatori utilizzino uno straordinario apparato creativo di strategie quotidiane di coping. Gli operatori delle dipendenze potrebbero imparare molto dall’esperienza di chi esce dalla dipendenza da sé. Ma allora, perché il self change è ignorato dai servizi e pressoché sconosciuto all’opinione pubblica? Perché "si pensa che il mondo sia come lo si vede": questo motto vale sia per i professionisti che per il pubblico, e spiega il bias nella percezione della realtà, dovuto allo stigma attribuito alla dipendenza. Sappiamo che solo una minoranza delle persone con consumo problematico è in contatto con i servizi, ma gli operatori tendono a generalizzare partendo dalla "punta dell’iceberg": prendendo i casi più gravi che conoscono dalla loro pratica come rappresentativi della popolazione generale. Collegata a questo, è l’idea che i tossici non siano in grado di prendere decisioni consapevoli e che la addiction sia una malattia progressiva destinata ad aggravarsi sempre più in mancanza di aiuto professionale. Questa rappresentazione diffusa fra gli operatori può essere diagnosticata come "negazione". Infatti, la tipica uscita dalla dipendenza avviene senza l’aiuto professionale, come indicano gli studi sul self change. La remissione spontanea non dipende solo dalle capacità delle persone, ma anche da fattori sociali. Che cosa può fare la società per favorire l’auto cambiamento? Per cominciare, una società "amica del self change" elimina le barriere per chi è in cerca di aiuto: la più importante è la non volontà degli operatori di negoziare gli obiettivi del cambiamento e il trattamento con gli utenti, proponendo l’astinenza come obiettivo unico. Eppure, sappiamo che ci sono molte strade che conducono alla addiction, e altrettante per uscirne. Secondo: una società self change friendly cerca di facilitare l’auto cambiamento. Il self change può sembrare un termine individualistico, ma le condizioni del cambiamento, ossia il "capitale di recupero" (sociale e materiale) gioca un ruolo importante ed è distribuito in maniera diseguale. Per alcuni il cambiamento è più facile che per altri, e questi ultimi hanno diritto al trattamento. Infine, eliminare lo stigma della dipendenza è un fattore cruciale per promuovere l’auto cambiamento. Una società "amica del self change" dovrebbe lanciare campagne alla popolazione per sostenere l’idea che i comportamenti additivi possono cambiare, che il cambiamento è assai comune e merita il sostegno sociale. Una società amica del cambiamento fa sì che le persone che sono uscite da sé dalla dipendenza non debbano più nascondere il loro successo, in previsione dello stigma, del venir meno della fiducia altrui, della perdita del lavoro; al contrario, le spinge a parlare con orgoglio della propria storia, per incoraggiare gli altri sulla stessa strada. * sociologo, Università di Scienze Applicate, Berna Pena di morte, in Texas la sedicesima esecuzione del 2016 La Repubblica, 12 ottobre 2016 Ad un uomo di 53 anni è stata praticata un’iniezione letale che lo ha portato alla morte dopo 38 minuti di agonia. Era accusato di aver sterminato una famiglia di 4 persone. Negli Usa si registra, tuttavia, una costante diminuzione di presenze nei bracci della morte. Esecuzioni anche in Bielorussia, unico paese dell’Unione Europea dove vige la pena capitale. È morto dopo 38 minuti di agonia il 16° condannato a morte in Texas, lo Stato Usa con il primato delle esecuzioni capitali. A togliergli la vita è stata un’iniezione letale che gli è stata praticata sul lettino delle esecuzioni nel carcere di Huntsville, capitale del sistema giudiziario texano. La persona giustiziata - si apprende dal sito di Nessuno Tocchi Caino - è la numero 538, da quando lo Stato meridionale degli Usa ha introdotto la pena di morte. Si chiamava Barney Ronald Fuller, aveva 53 anni, bianco, accusato (reo confesso) di aver ucciso i propri vicini di casa al termine di una lite. Le vittime, nel maggio 2003, furono Annette e Nathan Copeland, di 39 e 43 anni. Il figlio delle vittime, Cody, 14 anni, fu anche lui ferito, ma sopravvisse. Da maggio aveva rinunciato ad ulteriori ricorsi. Fuller venne condannato a morte nel luglio 2004 da una giuria popolare della Houston County. L’esecuzione è la prima dopo oltre 6 mesi in Texas, ed è la prima in assoluto di una persona condannata nella Houston County da quando la pena di morte è stata reintrodotta nel 1976. Da maggio ad oggi, Fuller aveva chiesto al proprio difensore di non presentare ulteriori ricorsi e di non rallentare in alcun modo l’iter dell’esecuzione. Fuller diventa il 7° giustiziato di quest’anno in Texas e il n° 1438 da quando gli Usa hanno ripreso le esecuzioni nel 1977. Diminuiscono i detenuti nei bracci della morte in Usa. È stata pubblicata l’ultima edizione di "Death Row USA", aggiornata al 1° luglio 2016. A quella data, nei bracci della morte degli Stati Uniti c’erano 2.905 persone. L’ormai tradizionale rapporto trimestrale conferma la graduale, costante diminuzione dei detenuti nei bracci della morte. Rispetto allo stesso rapporto di 10 anni fa, quando i detenuti erano 3.336, c’è stato un calo del 14%. Il calo di detenuti è maggiore del numero di esecuzioni effettuate in questo arco di tempo, il che significa che, oltre alle esecuzioni, altri motivi concorrono alla diminuzione. Diminuiscono le nuove condanne a morte, ed aumentano gli annullamenti per via giudiziaria di condanne a morte emesse tempo prima. In California 41 persone nel braccio della morte. Il braccio della morte più popoloso rimane, come ormai da moltissimi anni, quello della California (741), seguito da quello della Florida (396), del Texas (254), dell’Alabama (194) e della Pennsylvania (175). Divisi per razze, nei bracci della morte ci sono 42,34% bianchi, 41,79% neri, 13,08 % ispanici, 1,82 asiatici, 0,93 pellerossa più un detenuto del quale non è determinata la razza. Divisi per sesso, i detenuti sono 98.11% maschi (2850) e 1,89% femmine (55). BIELORUSSIA - La terza condanna a morte del 2016. La Corte Suprema bielorussa ha confermato la condanna a morte emessa nei confronti del 33enne Siarhei Vostrykau a maggio. Si tratta della terza condanna a morte in Bielorussia quest’anno. L’imputato è stato giudicato colpevole di omicidio, stupro, violenza sessuale e furto - e condannato al plotone di esecuzione. L’annuncio del verdetto da parte del Tribunale Regionale di Homiel risale al 19 maggio. Diversi attivisti per i diritti umani, sia bielorussi che internazionali, erano presenti all’annuncio della decisione della Corte Suprema: "Siarhei Vostrykau ha ascoltato la decisione della Corte Suprema senza emozioni. Il giudice ha chiesto se avesse capito la decisione e l’imputato ha risposto di averlo fatto", ha detto l’attivista Andrei Paluda. L’unico paese dell’UE che applica la pena di morte. La Bielorussia è l’unico paese in Europa che ancora applica la pena di morte. Questo è uno dei motivi principali per cui il Paese non può riottenere lo status di invitato speciale nel PACE. Il Consiglio d’Europa e altre organizzazioni internazionali hanno più volte invitato le autorità bielorusse a introdurre una moratoria sulla pena di morte. Dal 1990 più di 400 persone sono state condannate a morte in Bielorussia. In 26 anni solo una persona ha ricevuto la commutazione della propria condanna a morte. NIGERIA - Un governatore commuta 14 condanne capitali. Il governatore David Umahi dello Stato nigeriano di Ebonyi ha ordinato la commutazione in ergastolo delle condanne a morte di 14 prigionieri originari di Ebonyi, detenuti in varie prigioni dello Stato. È stato anche reso noto che altri 32 detenuti nello Stato hanno ottenuto la grazia incondizionata per i reati che li avevano portati in carcere. "L’ordine è per i responsabili delle prigioni di Enugu, Abakaliki e Afikpo, in forza dei poteri conferiti al governatore dello Stato dalla sezione 212 della Costituzione del 1999, e successive modifiche". "Queste decisioni sono state raggiunte dopo aver consultato il Comitato sulla Prerogativa della Grazia dello Stato e altri organismi e questo costituisce un mandato ufficiale", ha detto il Governatore. GAZA - Condannata all’impiccagione per l’omicidio del marito. Un tribunale di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, ha condannato all’impiccagione una donna palestinese dopo averla riconosciuta colpevole di omicidio premeditato, ha reso noto un comunicato diffuso dall’ufficio del procuratore. Il tribunale ha condannato la donna, identificata solo con le iniziali N.A., per aver ucciso suo marito Rabie Abu Anzeh, 36 anni. Anzeh è stato trovato morto nel sud della Striscia di Gaza il 30 gennaio. Il 4 ottobre, la procura generale di Gaza si è appellata contro la decisione presa il mese scorso da un tribunale di Deir al-Balah, relativa ad un uomo giudicato colpevole di aver ucciso una delle sue mogli con la complicità della sua seconda moglie e condannato a dieci anni di reclusione, mentre la sua seconda moglie è stata rilasciata. Gran Bretagna: contro la recidiva progetto per i giovani detenuti dislessici di Annalisa Lista west-info.eu, 12 ottobre 2016 L’Inghilterra premia il primo carcere minorile dislessia-friendly al mondo. È l’unico in cui i detenuti con disturbi dell’apprendimento possono contare su uno speciale metodo di insegnamento che consente loro di frequentare normalmente le lezioni insieme agli altri compagni di cella. La rivoluzionaria offerta formativa, sviluppata insieme alla non profit Novus, leader della scolarizzazione nei riformatori, si avvale di ausili ben precisi per facilitare i ragazzi: simbologia e segnaletica sulle pareti delle classi; dizionari con caratteri adatti ai dislessici; fogli ingranditori in plastica da appoggiare sulle pagine dei libri; pennarelli specifici per scrivere sulla lavagna bianca. Oltre a un training per formatori e docenti del penitenziario.