Carcere preventivo extrema ratio? Misure cautelari disposte nella metà dei procedimenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 ottobre 2016 Ma solo 48 Tribunali su 136 hanno risposto alla richiesta di dati del ministero. Sono passati tre mesi dalla relazione sull’applicazione della riforma del 2015 approvata per ridurre l’uso del carcere preventivo, ma ad oggi i dati risultano ancora incompleti. In questa prima rilevazione, per una serie di difficoltà solo 48 Tribunali su 136 hanno risposto alla richiesta di dati del ministero. La relazione ministeriale presentata al Parlamento ai sensi dell’art. 15 della legge di riforma della custodia cautelare, entrata in vigore l’8 maggio del 2015, costituisce il primo documento ufficiale che affronta le questioni inerenti all’utilizzo delle misure cautelari personali, alla eventuale modifica della loro applicazione in rapporto alla introduzione delle nuove norme, ed ai rapporti delle stesse con gli esiti del processo. Secondo il rapporto dell’Unione delle Camere Penali i risultati sono però stati deludenti. "Sotto il profilo metodologico - spiega l’Ucpi - si è avuto modo di rilevare alcuni difetti nella raccolta, elaborazione ed analisi dei dati francamente sconcertanti e tali da privare l’intera Relazione di ogni utilità rispetto le sue finalità di ricognizione e di monitoraggio del fenomeno". In pratica le carenze della relazione riguardano l’assoluta modestia del dato di rilevazione a causa dell’ostruzionismo dei tribunali. Ma, nonostante ciò, l’Unione delle Camere Penali fa notare che "il dato del 46% avrebbe dovuto far riflettere su come resti altissimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere nonostante il legislatore abbia sempre inteso l’adozione di questo strumento da parte del giudice quale extrema ratio, e dovendosene conseguentemente auspicare un’applicazione "residuale" e, dunque, davvero marginale in termini statistici". Per adesso la relazione indica che su 12.959 misure emesse dal 35% dei Tribunali interessati nei primi dieci mesi di vita della riforma, la custodia cautelare in carcere è stata disposta 6.016 volte (46%) mentre negli altri casi (più della metà) si è scelto il ricorso alle "alternative", dall’obbligo di firma agli arresti domiciliari, che hanno toccato quota 29%. Inoltre, dei 3.743 procedimenti "cautelari" iscritti nel 2015 "soltanto 42" sono stati chiusi con una sentenza definitiva di assoluzione, mentre 156 con una sentenza assolutoria non definitiva. "Le assoluzioni definitive - si legge nella relazione - impattano 14 procedimenti con misura carceraria e 15 con misura detentiva domiciliare. Quelle non definitive, 69 procedimenti con misura carceraria e 52 con misura degli arresti domiciliari". Intanto per avere una chiara situazione sulla custodia cautelare, dobbiamo aspettare che i tribunali si apprestino il più presto possibile a fornire i dati richiesti. Il ministro della giustizia Orlando aveva fatto sapere che "la Direzione generale degli Affari penali del Ministero della Giustizia ha previsto di elaborare una integrazione della relazione non appena il numero dei dati forniti da tutti gli uffici sarà completato". Medicina penitenziaria. Il 77% dei detenuti convive con un disturbo mentale di Nicla Panciera La Stampa, 11 ottobre 2016 L’isolamento e la mancanza di contatto con l’esterno, insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un disagio psichico. Un monitoraggio della situazione nelle carceri dove il 77% dei detenuti convive con qualche disagio psichico. Spesso ancora avvolte nello stigma e nel pregiudizio, le malattie psichiche costituiscono un problema di salute pubblica. Secondo l’Oms, entro il 2030 la malattia più diffusa sarà la depressione. Oggi la depressione maggiore colpisce un europeo su 15, cifra che sale a 4 su 15 se si considerano anche le altre forme depressive e l’ansia. Il 27% dei cittadini europei maggiorenni e under 65 ha sofferto negli ultimi dodici mesi di un qualche disturbo mentale, inclusi quelli derivanti dall’uso di sostanze e disordini alimentari. Si tratta di 83 milioni di persone, la cui vita privata e lavorativa è pesantemente influenzata. Andando a vedere l’indice DALys (che indica la somma degli anni di vita potenziale persi a causa di mortalità prematura e degli anni di vita produttiva persi a causa di disabilità) le malattie neuropsichiatriche sono al terzo posto dopo le cardiovascolari e le neoplastiche. "H-Open Day": l’iniziativa di ONDA per le donne - Consulenze psichiatriche e colloqui psicologici gratuiti, sportelli di ascolto e ricevere materiale informativo sono previste per la terza edizione dell’"H-open Day", iniziativa di ONDA l’Osservatorio nazionale sulla salute della donna, che si svolgerà nel corso dell’intera settimana dal 10 al 16 ottobre, con l’obiettivo di avvicinare le donne alle cure e superare lo stigma che ancora aleggia su queste patologie neurologiche, psichiche e del comportamento. "L’H-Open Day 2016 sulla salute mentale - spiega Francesca Merzagora, Presidente di Onda - è un’iniziativa già collaudata da anni, in cui oltre 140 ospedali prevalentemente del network Bollini Rosa, mettono a disposizione della popolazione servizi per consentire alle donne e ai familiari delle pazienti di poter esprimere il loro disagio in un contesto dedicato". Inoltre, Onda organizzerà inoltre dal 10 al 14 ottobre un ambulatorio nella propria sede a Milano (info. 02/ 29015286 dalle 10 alle 12). "Insieme": il progetto di salute mentale in carcere - L’isolamento e la mancanza di contatto con l’esterno, insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un disagio psichico che può essere già diagnosticato o ancora latente. I numeri sono allarmanti: più di 42 mila detenuti italiani - il 77% degli oltre 54 mila totali - convivono con un disturbo mentale: dai disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi, con una prevalenza nettamente più alta rispetto a quella che si registra nella popolazione generale. I numeri della depressione per chi sta dietro le sbarre - Se fuori dal carcere, ad esempio, i disturbi psicotici si riscontrano nell’1% delle persone, dietro le sbarre la percentuale sale al 4%. Più alti sono anche i numeri della depressione: nei detenuti la prevalenza si attesta intorno al 10% contro il 2-4% della popolazione generale. Inoltre più della metà dei reclusi, il 65%, convive con un disturbo della personalità, una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra normalmente (5-10%). Al disagio mentale, infine, si sommano spesso i disturbi da sostanze stupefacenti, che tra i detenuti hanno una frequenza 12 volte maggiore rispetto a quella della popolazione generale (48% contro 4%). Disagi che possono portare a conseguenze estreme come l’autolesionismo (circa 7 mila episodi in un anno) o il suicidio (43 casi e oltre 900 tentativi solo nel 2014). Un progetto per formare coloro che devono dare supporto - Per questo, la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, la Società Italiana di Psichiatria e la Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze con il supporto incondizionato di Otsuka hanno individuato nuovo Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale, si propone di integrare le diverse figure professionali che lavorano all’interno delle prigioni e di assicurare una continuità terapeutica-assistenziale anche dopo la scarcerazione. Il progetto Insieme punta alla formazione di tutti i soggetti coinvolti nel percorso assistenziale e prevede l’organizzazione di corsi di formazione in alcuni istituti penitenziari italiani, destinati a chi opera nel carcere, ma anche agli operatori sanitari che lavorano sul territorio. "Free to Live Well with HIV in Prison", un progetto per i sieropositivi in carcere quotidianosanita.it, 11 ottobre 2016 Dalla consolidata collaborazione tra Nps Italia Onlus - Network persone sieropositive -, la Società di Medicina e Sanità Penitenziaria - Simspe Onlus - e l’Università Ca Foscari di Venezia e con il contributo incondizionato di ViiV Healthcare, nasce "Free to Live Well with HIV in Prison" (Vivere bene con l’Hiv in carcere). Il numero considerevole dei detenuti, l’aumento dell’età media della popolazione ristretta, l’alta frequenza di soggetti con fattori di rischio patologico e la limitata possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione hanno contribuito a elevare il numero di reclusi con patologie complesse e infezioni da HIV all’interno delle carceri, con un’alta percentuale di detenuti inconsapevoli del proprio status sierologico. Il progetto "Free to Live Well with HIV in Prison" si focalizza su precisi obiettivi: - implementare conoscenze, atteggiamenti dei detenuti, che consentano loro di compiere scelte responsabili e consapevoli riguardo alla propria salute già durante la detenzione, promuovendone il proprio benessere fisico soprattutto nell’ottica del ritorno in società; - offrire al personale sanitario, agli agenti di polizia penitenziaria, agli educatori e ai volontari presenti in carcere la possibilità di sviluppare conoscenze, atteggiamenti e competenze per un’adeguata gestione in sicurezza del loro lavoro quotidiano; - raccogliere elementi conoscitivi sui bisogni di salute dei detenuti e predisporre strumenti da fornire alle Regioni e alle AA.SS.LL per rispondere a tali necessità. A partire dal mese di ottobre, medici infettivologi del Simspe ed esperti dell’Università Cà Foscari di Venezia, con il fondamentale supporto di Peer Educator, ovvero ex detenuti attivisti nell’ambito dell’area dell’HIV in grado di comprendere le necessità e le difficoltà dei detenuti, svolgeranno un’articolata attività di formazione informazione all’interno di 10 istituti penitenziari per adulti e un istituto penale per minorenni, per un totale di circa 1000 detenuti, in sei regioni: Lazio, Calabria, Liguria, Sicilia, Puglia, Marche. In ogni carcere verranno svolti almeno due interventi: uno rivolto specificamente ai detenuti e uno ai formatori/operatori. Gli interventi formativi saranno affiancati da un’attività di ricerca finalizzata a individuare le effettive conoscenze dei detenuti e del personale carcerario rispetto all’HIV, a verificare l’esistenza di pregiudizi e paure legate alla convivenza forzata e a definire le necessità formative. Le attività d’intervento saranno corredate da un’attenta facilitazione di accesso al test per l’HIV e da un monitoraggio della presa in cura di eventuali esiti positivi al test per l’HIV, grazie al coordinamento con i centri clinici di ciascun istituto, nonché dalla distribuzione di materiale informativo realizzato ad hoc. Per Margherita Errico, presidente di Nps Italia Onlus, "punto di forza di questo genere di formazione è la sua forma non tradizionale che vuole fornire adeguate informazioni sui comportamenti a rischio nell’ambito di una convivenza forzata anche su temi ancora oggi molto difficili da trattare, perché permeati di stigma, come l’HIV, superando le difficoltà grazie all’alleanza tra società civile, comunità scientifica, attivisti nella lotta all’HIV e personale penitenziario". "La formazione arricchita dagli interventi esperienziali dei Peer educator è da anni un patrimonio culturale di Simspe, e rivela in queste occasioni tutta la sua forza espressiva. D’altronde i dati che dalle sessioni della nostra recentissima XVII Agorà sono emersi, hanno consentito di esporre un vasto sommerso di patologia che è necessario portare alla luce per consentire non solo migliore prevenzione, ma approcci terapeutici oggi efficaci e sicuri, anche per i pazienti affetti da questa patologia". Così Luciano Lucania, Presidente di Simspe Onlus. Fabio Perocco e Alesssandro Battistella, del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali - Università Cà Foscari Venezia, aggiungono che "Questo progetto s’inserisce in un filone di ricerca-azione sulla conoscenza dell’hiv/aids che l’Università Cà Foscari ha seguito in questi anni con riferimento a diverse tipologie di popolazione: in questo caso lavorare con le persone detenute, oltre a contribuire allo sviluppo di una loro maggiore consapevolezza sulle reali problematiche legate alla malattia, consentirà di approfondire alcuni aspetti sociologici legati alla percezione dell’HIV nella convivenza forzata". L’iniziativa ha ottenuto il patrocinio del Ministero della Salute e del Ministero della Giustizia. L’eresia di Orlando: "Torniamo alla Costituzione" di Errico Novi Il Dubbio, 11 ottobre 2016 Una sfilza di assoluzioni: iniziata con De Luca e Bertolaso e chiusa, per ora, con Marino e Cota, senza dimenticare la riabilitazione tardiva di Penati. Un’improvvisa resipiscenza garantista, che non si limita all’invito di Giovanni Legnini ("i pm facciano indagini anche su fatti e circostanze favorevoli all’indagato, come da articolo 358 del codice di procedura", ha detto il vicepresidente del Csm a la Repubblica). Persino l’ex procuratore di Milano Bruti Liberati anziché fare il controcanto ammette che un compito fondamentale degli inquirenti è la "valutazione degli aspetti pro e contro l’ipotesi di accusa". Eppure il cambio di registro sui rapporti tra inchieste e politica rischia di essere un fuoco fatuo. E a saperlo bene è il ministro più di tutti investito della questione: Andrea Orlando, guardasigilli e voce sempre più distinguibile all’interno del governo. Si è fatto sentire anche nel suo intervento di sabato al Congresso nazionale forense, il titolare della Giustizia. Con un attacco alle vicende giudiziarie "trasformate in presupposto della lotta politica, anzi un surrogato a cui si ricorre per mancanza di idee". E un richiamo, forse elementare eppure inedito, alla "Costituzione", che dovrebbe ispirare una "moratoria" sulla base di alcuni principi: "Presunzione di non colpevolezza, diritto alla difesa e al contraddittorio". Il ministro ne ha parlato tre giorni fa davanti a una platea di oltre duemila avvocati. Si trattava senza dubbio dell’uditorio più attento al tema delle garanzie che sia dato trovare oggi nel Paese. Ma la scelta di campo dell’inquilino di via Arenula è ormai chiara. E quest’ultimo scorcio del suo mandato si intreccia inevitabilmente con il ddl sul processo penale, che pur tra diversi equilibrismi prova a fare un po’ di chiarezza sulle intercettazioni, per esempio. A Rimini, dal palco del Palacongressi, Orlando ha detto di "non voler entrare nel merito delle recenti assoluzioni" ma lo ha fatto comunque con quelle considerazioni generali. Ha ricordato che l’uso della giustizia come arma politica impropria "non si verifica solo tra una forza politica e l’altra ma anche all’interno dello stesso partito". E pure questo è attestato dai fatti. Sulle inchieste a uso e consumo della retorica anti-casta Orlando rischia di trasgredire persino alla sua riconosciuta pacatezza, anche perché proprio il populismo penale gli sta bloccando la riforma. Sì, lui stesso ha detto che prima di riavviare l’esame del ddl al Senato si dovrà passare "per l’interlocuzione con l’Anm", ma sa bene che il problema è Grillo, più che Davigo. Il sindacato dei giudici fa muro, ma l’ostacolo politico reale è l’accusa di difendere "una legge benevola con corrotti e mafiosi" già agitata dai Cinquestelle, e destinata a ripetersi soprattutto se venisse posta la fiducia. Il ministro è comprensibilmente estenuato dalla retorica giustizialista che impedisce di riformare il processo, e anche per questo dà battaglia contro l’uso strumentale delle inchieste. "La prima distorsione è in un sistema processuale che funziona male e si presta a usi impropri: la riforma è importante in questo senso anche perché affronta un tema non banale come l’uso distorto delle intercettazioni". Si tratterà pure di una delega, ma almeno vi si scrive che il pm deve vigilare affinché le conversazioni intrusive rispetto alla privacy di persone non indagate non vengano neppure trasferite nei brogliacci. E sarebbe un grande passo avanti. Orlando sa poi che le intercettazioni di per sé non altererebbero il gioco politico se non venissero spiattellate dai giornali. Ma anziché a un "bavaglio" dice di confidare in un "codice di autoregolamentazione che i media dovrebbero darsi", per poi avvertire: "L’altra strada da seguire riguarda il Csm e il ricorso a criteri chiari per selezionare i capi degli uffici: vanno scelti in base alla loro capacità organizzativa, non per il fatto di finire spesso sui giornali grazie alle loro inchieste". Che vuol dire rispondere con fermezza agli attacchi mossi dall’Anm contro la riforma del processo. Vincere la battaglia sarà difficilissimo, per Orlando, anche considerate le incognite che gravano sulla legislatura. Ma il ministro ci proverà e intanto sigla un patto con l’avvocatura, su almeno tre misure che si impegna a promuovere: "Equo compenso per i professionisti del diritto in modo da contrastare l’egemonia delle grandi committenze. Una legge sul legittimo impedimento delle avvocate in gravidanza e in generale sulla condizione specifica delle donne nel sistema del processo". E ancora, "diritto di voto agli avvocati nei Consigli giudiziari, anche sulle valutazioni di professionalità dei magistrati". Può anche darsi non si faccia in tempo, ma già tracciare una direzione di marcia così inconsueta è un passo avanti. "Il circo mediatico-giudiziario condiziona la vita del paese". Ohibò! di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 ottobre 2016 Scoperto un "cortocircuito" a Repubblica. Immaginate che un giorno Beppe Grillo scriva sul suo blog che in Italia c’è un problema: l’antipolitica. O che Matteo Renzi attraverso la sua e-news dica che c’è stato chi ha esagerato con la rottamazione. Oppure che Matteo Salvini accusi sui social chi soffia sul fuoco dei problemi dell’immigrazione alimentando la xenofobia. Qualcuno direbbe che hanno ragione, altri che hanno torto, in tanti soprattutto gliene chiederebbero conto, ma difficilmente affermazioni del genere cadrebbero nel silenzio generale. E invece, purtroppo, è ciò che è accaduto all’articolo di Repubblica di sabato che in prima pagina spiegava, dopo le assoluzioni di Roberto Cota e Ignazio Marino, che in Italia esiste un "cortocircuito" tra informazione e indagini giudiziarie. Ohibò. "Da quasi un quarto di secolo c’è un cortocircuito che condiziona la vita del paese - scrive il vicedirettore di Repubblica Gianluca Di Feo. Protagonisti ne sono la politica, la magistratura e i media, tutti in qualche modo responsabili di avere malinteso il proprio ruolo, influenzandosi l’un l’altro in un meccanismo dagli effetti perversi". Il senso è che politici e amministratori dovrebbero essere giudicati sul piano politico per i loro errori e invece vengono spesso delegittimati sul piano morale-giudiziario da inchieste infondate, gonfiate dalla stampa pigra e compiacente. "In molte occasioni anche noi giornalisti dobbiamo riconoscere di avere rinunciato a una funzione critica nei riguardi delle iniziative dei pubblici ministeri, prestandoci ad amplificare l’eco di procedimenti dalle basi dubbie, senza dedicarci all’approfondimento dei fatti e della rilevanza penale - conclude Repubblica. E soprattutto senza svolgere la nostra attività di controllo nei confronti del potere, di tutti i poteri". Tutto perfetto e niente di nuovo, cose che da queste parti vengono scritte da quando, per usare un eufemismo, non andavano proprio di moda. Ciò che non torna è la trasformazione di quello che dovrebbe essere un mea culpa in un j’accuse o in una diluizione collettiva di responsabilità specifiche. Gli "effetti perversi" del "cortocircuito" mediatico-giudiziario post Tangentopoli sono visibili almeno dal novembre 1994, con la scoop proprio di Di Feo, allora pubblicato in prima pagina sul Corriere della Sera, sull’indagine del pool di Milano per corruzione a carico di Silvio Berlusconi, mentre l’allora premier presiedeva a Napoli un’assemblea internazionale. Il primo governo Berlusconi cadde il mese successivo e l’assoluzione arrivò sette anni dopo. Una vicenda simile ci fu alla fine del secondo governo Prodi, caduto dopo l’inchiesta ai danni del ministro Mastella, anch’essa svanita nel nulla. Per oltre vent’anni i giornaloni, Repubblica in testa, sono stati il megafono delle procure, hanno fatto da cassa di risonanza a decine di inchieste fragilissime, hanno pubblicato paginate di intercettazioni spesso incomprensibili e soprattutto irrilevanti, hanno inventato la figura del "citato". Si sono intrufolati nelle camere da letto dei politici, hanno provocato crisi internazionali per intercettazioni inventate Berlusconi-Merkel), hanno chiesto le dimissioni di governatori per intercettazioni inesistenti (Crocetta). Il circo mediatico- giudiziario non ha risparmiato nessuno, è diventato un metodo, applicato anche fuori dai confini della politica, alle imprese (Eni, Finmeccanica e Fastweb per citarne alcune) e alla ricerca scientifica (Capua). Con una truffa semantica le inchieste giornalistiche sono diventate la riproposizione di inchieste giudiziarie e di accuse dei pm, trasformando le redazioni in entità a metà tra la buca delle lettere e l’ufficio stampa delle procure. Da un ventennio i giornaloni parlano dell’autonomia della magistratura senza preoccuparsi della propria autonomia dalla magistratura. È importante quindi che la riflessione di Repubblica non cada nel vuoto, perché la stampa può interrompere questo "cortocircuito". È parte della soluzione perché finora è stata parte del problema. Amnistia e indulto: sciopero della fame dei Radicali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 ottobre 2016 Mobilitazioni in vista della marcia del 6 novembre dedicata a Marco Pannella e a Papa Francesco. Rita Bernardini, Irene Testa, Maurizio Bolognetti ed altri dirigenti ed esponenti radicali sono in sciopero della fame dalla mattinata di ieri. Mentre manca oramai meno di un mese per la marcia per l’amnistia di domenica 6 novembre dedicata a Marco Pannella e Papa Francesco, si annunciano nuove forme di mobilitazioni. Oltre lo sciopero della fame fra cittadini, arrivano adesioni per il digiuno anche da parte di numerosi ristretti nelle carceri italiane. Lo sciopero della fame dei detenuti e cittadini comuni si concentrerà il 5 e il 6 novembre, ovvero il giorno prima e il giorno stesso della marcia. L’obiettivo dello sciopero è quello sia di richiamare l’attenzione sui quattro disegni di legge per amnistia e indulto impantanati ormai da tempo in commissione Giustizia al Senato della Repubblica presieduta dal senatore di Area popolare (Ncd-Udc) Nino D’Ascola, sia per la riforma immediata dell’ordinamento penitenziario in discussione al Senato per l’effettività rieducativa della pena. Rita Bernardini ritiene che tale riforma debba riguardare tutti i detenuti, nessuno escluso. La riforma in discussione è stata di fatto snaturata nel tempo, per questo gli esponenti radicali hanno iniziato lo sciopero della fame. Andiamo nel dettaglio. Il ddl Orlando inizialmente prevedeva l’eliminazione delle esclusioni assolute all’accesso dei benefici penitenziari per determinate categorie di reato. In pratica, in nessun caso, per nessun reato, doveva essere ammissibile una esclusione definitiva dai percorsi di reinserimento in società. La delega parlava espressamente anche di ergastolo e, dunque, apriva le porte al superamento dell’ergastolo ostativo in presenza di determinate condizioni (sicuro ravvedimento; condotte risarcitorie nei confronti delle vittime; assenza di collegamento con sodalizi criminosi). Al primo approdo alla Camera la presidentessa della commissione giustizia Donatella Ferranti ha introdotto una specificazione, che tale apertura non si applica agli ergastoli per reati di particolare gravità, di mafia e terrorismo. Eppure anche le relazioni dei tavoli degli Stati generali per l’esecuzione penale si erano chiuse con una proposta ben specifica, aprendo delle ipotesi di giustizia riparativa (risarcimento alle vittime o condotte che dimostrino il recupero sociale) nei confronti di tutti i reati, compresi quelli ostativi. Con queste mobilitazioni - in particolar modo lo sciopero della fame indetto ieri - i radicali chiedono conto al Ministro della Giustizia Orlando di mettere in pratica gli esiti degli Stati Generali dell’esecuzione penale. Unioni civili, reati in arrivo di Claudia Morelli Italia Oggi, 11 ottobre 2016 Anche il codice penale si deve adeguare al riconoscimento delle unioni civili nell’ordinamento nazionale, operato con la legge 76/2016, in modo che il compagno unito civilmente abbia una disciplina omologa a quella del "coniuge" e del "prossimo congiunto" sia sotto il profilo delle tutele (come attenuanti o scriminanti del reato) sia sotto il profilo incriminatorio. A questo adeguamento è dedicato uno dei tre schemi di decreto legislativo approvati dal consiglio dei ministri del 4 ottobre scorso per l’attuazione della nuova disciplina, che come gli altri è già stato presentato in parlamento in vista dei prescritti pareri. Il testo è molto scarno (appena 4 articoli) e per comprendere tutta la portata dell’intervento occorre rifarsi alla relazione illustrativa, che spiega innanzitutto che un intervento ad hoc in campo penale, affidato con delega al governo, è necessitato dalla tassatività/determinatezza della legge penale. Lo schema di decreto non modifica ogni fattispecie previste dal codice penale ma opera da una parte ricomprendendo "la parte di una unione civile tra persone dello stesso sesso" nella categoria del "prossimo congiunto agli effetti della legge penale" definita nell’articolo 307 cp; e dall’altra introducendo nel codice penale un nuovo articolo (574-ter) che equipara "agli effetti della legge penale" il termine matrimonio all’ unione civile tra persone dello stesso sesso e la qualità di coniuge (prevista a volte come elemento costitutivo o come circostanza aggravante del reato) a quella di parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Infine lo schema estende a quest’ultima, qualora convivente, la non punibilità per fatti contro il patrimonio commessi a danno di congiunti (articolo 649). Da questo intervento di portata generale ne consegue l’applicabilità alla persona unita civilmente con compagno dello stesso sesso a) del Titolo XI del codice penale - Delitti contro la famiglia - e di ogni altra norma incriminatrice che consideri la qualità di coniuge come elemento costitutivo o circostanza aggravante; b) delle norme che hanno riguardo al prossimo congiunto; c) delle norme di tutela del sistema penale della "prossimità parentale", sotto forma di non punibilità o attenuante della pena. A titolo esemplificativo, per la prima categoria, possiamo citare i reati di bigamia (articolo 556), violazione dell’obbligo di assistenza familiare (articolo 570), maltrattamenti (articolo 572). O la circostanza aggravante che opera nei delitti di omicidio, di lesioni personali, di abbandono di persone minori o incapaci, di tratta di persone ecc. Per la seconda, per esempio, può farsi riferimento l’articolo 323 (abuso d’ufficio); e per la terzo l’articolo 384 (casi di non punibilità per i reati contro l’amministrazione della giustizia), la circostanza attenuante nella procurata evasione (articolo 386) etc. Sotto il profilo processuale, eccezion fatta per la modifica dell’articolo 199 del codice di procedura penale in punto di facoltà del testimone che abbia appreso fatti in occasione della coabitazione scaturente da una unione civile, la delega non impone modifiche in relazione alle cause di incompatibilità o di astensione del giudice. Ma sul punto la relazione avvisa che, non operando nel campo processuale, il limite della tassatività una interpretazione estensiva è possibile. Di conseguenza le disposizioni contenute negli articoli 35 e 36 del cpp devono essere "ragionevolmente" lette nel senso che la incompatibilità o il dovere di astensione si intendono estesi al giudice che sia partner di una unione civile tra persone dello stesso sesso. Gli etilometri-beffa: solo la metà funziona per gli alcol test di Vincenzo Borgomeo La Repubblica, 11 ottobre 2016 Fermi per revisione. Serve una legge che faccia passare i controlli da annuali a biennali. La metà dei 1.000 etilometri in dotazione alla Polizia Stradale sono inutilizzabili: fermi in attesa di revisione. È questa la denuncia dell’Asaps, associazione amici polizia stradale. L’allarme è chiaro: la carenza di alcoltest utilizzabili dagli agenti mina alla base l’impegno per combattere il fenomeno dell’ubriachezza alla guida. Un problema enorme per la sicurezza stradale, anche se i veri numeri del fenomeno - caso unico in Europa - in Italia non li conosciamo: "Nel 2015 - spiegano all’Asaps - non è stato possibile sapere con certezza il numero di incidenti alcol-correlati perché l’Istat ha eliminato già da tempo questo importante resoconto. Numeri ufficiali non ve ne sono. Ci sono però i dati del nostro Osservatorio sulla Pirateria stradale che dà un indicazione pari a oltre il 23% degli episodi mortali registrati nei primi 8 mesi del 2016". Le scuse più folli per sfuggire ai controlli - È partita quindi una corsa contro il tempo: serve una legge che trasformi l’obbligo di revisione degli etilometri da annuale a biennale (almeno) e la possibilità di affidare ai privati le revisioni di questi macchine che altrimenti possono avere il "via" a tornare in servizio solo da due uffici ministeriali, uno a Roma e uno a Milano, ovviamente pochi per tenere il ritmo di questo nuovo lavoro. "Nuovo" perché incredibilmente solo da poco in Italia abbiamo iniziato ad avere un serio contrasto alla piaga degli automobilisti ubriachi. E questo ha comportato una completa riorganizzazione del sofisticato apparato di controllo su strada. "Dal 1 gennaio al 30 settembre 2016 - ci ha spiegato Giuseppe Bisogno, capo della Stradale - solo la Polizia di Stato ha fatto 1,9 milioni di controlli con l’etilometro e sono state rilevate circa 15 mila infrazioni. Impegno forte che richiede sempre maggior sforzo, da parte di tutti. Anche di chi deve mettere gli agenti in condizione di lavorare al meglio". Secondo l’associazione che ha lanciato l’allarme infatti ci sarebbero Polizie Locali da mesi con pochissimi strumenti di controllo e interi territori sprovvisti o con un numero assai limitato di etilometri, al punto da dover chiedere aiuto ad altri organi di polizia. E in centinaia di casi alcoltest del centro Italia sono stati revisionato presso il Centro Prove di Milano, con Tir pieni di strumentazioni inviati in tutta fretta dalla Capitale verso la Lombardia, proprio per non fermare i controlli sulle strade italiane all’inizio dell’estate. Il problema è che gli etilometri devono finire ogni anno obbligatoriamente su sofisticati banchi-prova, per superare esami specifici e ad altissima tecnologia, come indicato dal Decreto Ministeriale 22 maggio 1990, n° 196. E se non si interviene al più presto la carenza di strumenti di controllo rischia di compromettere la sicurezza stradale. La Polizia spinge forte sulla strategia dei maggiori controlli, soprattutto con l’ausilio dell’elettronica e dei nuovi dispositivi, ma senza etilometri diventa difficile fare prevenzione. Ed evitare, tanto per capirci, che ci siano pirati della strada che si mettono al volante in condizioni psico-fisiche disastrose, come quelle del camionista ubriaco che sulla tangenziale di Torino ha distrutto un’intera famiglia. Mancata notifica, nullo l’appello di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2016 Processo d’appello colpito da nullità - come tale insanabile - se anche solo uno dei codifensori non ha ricevuto la notifica dell’avviso di deposito della sentenza di primo grado. La Terza sezione penale della Cassazione - sentenza 42736/16 depositata ieri - rafforza le garanzie difensive procedurali, nel solco peraltro di una chiara giurisprudenza costituzionale. Il caso era stato sollevato dal codifensore di un sospetto trafficante di stupefacenti, condannato dal Gup di Roma a otto anni di carcere. Il legale difensore dell’imputato, non avendo ricevuto la notifica dell’avviso di deposito della sentenza - ritualmente arrivata invece al collega - aveva eccepito la questione in Corte d’appello, dove però era stata rigettata sull’erroneo presupposto che si trattasse di un’istanza di rimessione in termini e che dunque fosse decorso il termine di 10 giorni previsto dal codice di procedura (articolo 175). Da qui la riproposizione della questione in sede di legittimità, con la richiesta di annullamento del processo che, nel frattempo, aveva confermato il verdetto - e la quantificazione della pena - del primo grado. Per la Terza il ricorso del coimputato è fondato e colpisce la sentenza impugnata con la sanzione della nullità. L’omessa notifica all’imputato dell’avviso di deposito della sentenza di primo grado, spiega l’estensore, comporta una nullità di regime intermedio che, se ritualmente eccepita, non può essere sanata nemmeno dalla proposizione dell’appello da parte del difensore. A portare a questa conclusione è la stessa sentenza della Corte Costituzionale n° 317/2009, che argomenta come in un’ ipotesi di questo tipo non decorrono per l’imputato i termini per la proposizione dell’appello con conseguente nullità del decreto di citazione in appello e della sentenza emessa all’esito del rinvio a giudizio. Secondo la Cassazione, gli stessi principi possono essere trasposti al caso in esame in cui l’omessa notifica non riguardi l’imputato ma il difensore o il codifensore. Per la Terza, però, è necessario prima rompere il principio della "unitarietà dell’impugnazione spettante all’imputato e al difensore dello stesso", principio già peraltro messo in discussione dalle sentenze di legittimità successive alla sua affermazione (2613/2005) e allineate alla decisione 317/09 della Consulta. Pertanto, afferma l’estensore "il gravame proposto da uno dei difensori non "consuma" l’autonoma facoltà di impugnazione dell’imputato e del codifensore, che resta inalterata ove non sia stata tempestivamente esercitata e tale mancato esercizio non abbia fatto seguito a modalità procedurali tali da garantire la conoscenza effettiva del provvedimento". Nel caso in esame l’eccezione di nullità era stata tempestivamente e ritualmente proposta nella fase preliminare del giudizio di appello, ma era stata erroneamente dichiarata inammissibile in quanto tardiva. Da qui l’annullamento della sentenza d’appello, con la trasmissione degli atti per la rinnovazione del giudizio. Il virus "trojan" non sostituisce il sequestro di Andrea Monti Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2016 Tribunale di Modena - Ordinanza 28 settembre 2016. L’ordinanza del tribunale di Modena che limita l’utilizzo dei virus investigativi "trojan" stabilisce quattro principi. Il primo: è impossibile applicare l’articolo 132 dlgs 196/03 (data-retention) per ottenere da operatori di telecomunicazioni i contenuti di comunicazioni elettroniche. Il secondo: quando è necessario acquisire all’indagine i contenuti di un computer si deve usare il sequestro. Il terzo: il pm non può usare "captatori informatici" se non per indagini su criminalità organizzata e terrorismo. Il quarto: gli articoli 266 e seguenti del codice di procedura penale (intercettazioni) si applicano anche quando i captatori siano utilizzati per acquisire i contenuti veicolati da un flusso di comunicazioni, come da giurisprudenza della Cassazione (Sez. IV n. 16556/09) che riconduce l’uso dei captatori fra le prove atipiche. Nulla da dire sulla (in)applicabilità dell’art.132 dlgs 196/03 (privacy) se non che la norma in questione è di dubbia cittadinanza nel nostro ordinamento. Il Considerando numero 13 della direttiva sulla protezione dei dati personali recita, infatti, testualmente: "Le attività previste dai titoli V e VI del trattato sull’Unione europea attinenti... alle attività dello Stato in materia di diritto penale non rientrano nel campo d’applicazione del diritto comunitario" e la Corte di giustizia europea ha annullato la direttiva 24/2006, "madre" della norma in questione. Gli altri punti, invece, vanno approfonditi partendo, innanzi tutto, dal funzionamento dei captatori. Se il captatore è usato come una microspia ambientale è palese che sia una "semplice" modalità di intercettazione e allora si applicano le norme esistenti. Se invece lo strumento serve per individuare e copiare file memorizzati in un computer, allora ci troveremmo di fronte a una perquisizione telematica e non - come invece ritiene il giudice modenese - a un atto che in dibattimento è qualificabile come prova atipica. Dunque un pm potrebbe, sì, utilizzare il captatore, magari anche al di fuori dei casi indicati dalla Cassazione, ma pur sempre rispettando gli obblighi di informazione preventiva a tutela dell’indagato. Certo, così la perquisizione telematica sarebbe praticamente impossibile e in ogni caso poco praticabile, ma il diritto di difesa non può cedere di fronte a scorciatoie investigative imboccate per l’assenza di strumenti giuridici per l’acquisizione rapida di informazioni custodite all’estero o percorse perché, pur esistendo questi strumenti, è scarsa l’effettiva possibilità di utilizzarli. Nel caso specifico, sarebbe interessante sapere se il captatore sia stato spedito al destinatario o se sia stato installato sul server ospitato nella rete aziendale in uso all’indagato. Come sarebbe utile sapere se il malware abbia semplicemente copiato email già memorizzate in locale o se, invece, abbia carpito le credenziali di accesso per poi accedere direttamente al server di posta. La circostanza è rilevante perché nel primo caso l’attività sarebbe iniziata e finita in Italia, mentre nel secondo caso, no. Il fornitore di servizi di posta, infatti, è Google, cioè un soggetto di diritto extracomunitario, i cui server non sono localizzati in Italia. Se, dunque, il captatore fosse stato utilizzato per scaricare i messaggi direttamente dall’estero, saremmo di fronte a un atto di indagine compiuto al di fuori della giurisdizione italiana, senza passare per gli accordi internazionali di cooperazione giudiziaria. Patteggiamento e prescrizione del reato: Rassegna di massime Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2016 Processo penale - Prescrizione penale - Diritto di rinuncia - Valido esercizio del diritto di rinuncia - Richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato (patteggiamento) - Diversità strutturale - Incompatibilità. Nell’ipotesi di patteggiamento, la rinuncia alla prescrizione non può logicamente essere proiettata verso un’assoluzione posto che il necessario epilogo processuale di tale rito alternativo è univocamente un risultato sanzionatorio. Esiste dunque un’antinomia logico-concettuale tra richiesta di patteggiamento e rinuncia alla prescrizione: la prima, infatti, lascia di per sé dubitare che l’imputato (o indagato) abbia piena consapevolezza della sopravvenuta prescrizione del reato in quanto sarebbe paradossale avanzare una richiesta di applicazione della pena anziché far valere una causa estintiva del reato per cui si proceda. In base all’insegnamento delle SSUU, il paradigma procedimentale assegna priorità alla verifica dell’insussistenza delle cause di non punibilità ex articolo 129 c.p.p., che il giudice deve compiere indipendentemente dalla "piattaforma negoziale" ed esclusivamente sulla base degli atti del fascicolo del PM. Solo in caso di negativa delibazione circa la sussistenza dell’avvenuta prescrizione del reato, il giudice procedente può valutare la legittimità della richiesta delle parti. • Corte cassazione, sezioni unite, sentenza 6 maggio 2016 n. 18953. Processo penale - Prescrizione penale - Diritto di rinuncia della prescrizone - Forma espressa - Diritto personalissimo dell’imputato. Il legislatore ha previsto che la rinuncia alla prescrizione penale da parte dell’imputato debba essere sempre effettuata in forma espressa in quanto atto dismissivo di un diritto già maturato - ossia quello di far valere l’estinzione del reato per il decorso del termine prescrizionale - volto ad esercitare un vero e proprio "diritto al processo" (e alla prova) nell’ambito dell’inalienabile diritto di difesa ex articolo 24 Cost. verosimilmente finalizzato al conseguimento per l’imputato di una assoluzione nel merito. Dunque, la gravità degli effetti della rinuncia alla prescrizione è da cogliere nella possibilità - sempre concreta - che il processo si concluda invece con una condanna in luogo dell’auspicata assoluzione. Infatti, per questo suo carattere di aleatorietà, la rinuncia alla prescrizione penale viene fatto rientrare tra i diritti personalissimi che possono essere esercitati dall’interessato solo personalmente, o al più con il ministero di un procuratore speciale, ma non anche dal difensore. • Corte cassazione, sezioni unite, sentenza 6 maggio 2016 n. 18953. Processo penale - Estinzione (cause di) - Prescrizione - rinuncia - Atto formale - Equipollenti - Possibilità - Esclusione. La rinuncia alla prescrizione richiede una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti; che, pertanto, non si può desumere implicitamente dalla mera proposizione del ricorso per cassazione. (Fattispecie nella quale l’imputato, senza espressa rinuncia alla prescrizione, aveva proposto ricorso per cassazione contro la declaratoria di estinzione del reato pronunciata dal G.i.p. cui era stato richiesto decreto penale di condanna). • Corte cassazione, sezione Unite, sentenza 3 dicembre 2010 n. 43055. Procedimenti speciali - Accordo concernente ipotesi di reato già prescritto - Rinuncia alla prescrizione. In tema di patteggiamento, nel caso in cui la scelta pattizia volta all`applicazione della pena su richiesta ricada anche su una ipotesi di reato la cui prescrizione sia maturata anteriormente alla scelta stessa, deve ravvisarsi da parte dell`imputato una dichiarazione legale tipica di rinuncia alla prescrizione, non più revocabile. • Corte cassazione, sezione quinta, sentenza 10 dicembre 1999 n. 14109. L’avvocatura è più forte. Ed è più forte anche Orlando di Piero Sansonetti Il Dubbio, 11 ottobre 2016 Il ministro della Giustizia, l’altro giorno, ha detto delle cose importanti, a conclusione del congresso dell’avvocatura. Magari, dette vent’anni fa potevano anche sembrare frasi banali. Ma oggi sostenere che la "presunzione di innocenza" è un caposaldo della nostra Costituzione e dunque deve essere considerata da tutti un principio intoccabile, beh è quasi una affermazione rivoluzionaria. E per un ministro, e per un esponente di alto livello della politica italiana, occorre una buona dose di coraggio per ribadirla ad alta voce e anche con una certa forza polemica. Orlando in questo modo si è tirato addosso quantomeno la non-simpatia dell’Anm e del gotha del giornalismo italiano (cioè del giornalismo giudiziario, che oggi è diventato il punto più alto della piramide gerarchica nel giornalismo italiano). Anche perché Orlando, dopo aver proclamato la presunzione di innocenza, ha anche rivendicato il diritto da parte della politica di criticare l’Anm e di non sottostare ai suoi diktat, ha confermato la volontà di riformare il processo (nonostante gli alt ripetutamente lanciati da Davigo) e ha speso parole molto critiche verso la gogna mediatica, cioè verso i giornali. Quasi quasi sembrava un sovversivo. Adesso, evidentemente, bisognerà vedere come andrà a finire la battaglia sulla riforma del processo. Non sarà semplice farla passare, se è vero che nessuno dei governi dell’ultimo ventennio è mai riuscito a mettere mano a nessuna riforma della giustizia. Però è evidente che qualcosa si sta muovendo, e che il ministro della Giustizia ha deciso di spendere il suo peso in una battaglia, che ormai è apertissima, tra due modi di vedere la "modernità", l’etica, "l’organizzazione della civiltà", che sono molto distanti tra loro. C’è una parte, ancora largamente maggioritaria, dell’intellettualità e del mondo dei mass media (e dell’opinione pubblica) che ritiene lo Stato di Diritto un alleato della "colpa" e dunque un nemico della giustizia, e dell’equità, e dello sviluppo. Qualcosa da tenere sotto controllo. E si pone su una posizione di contrasto nettissimo (seppure mai dichiarato) con i principi essenziali affermati nella prima parte della nostra Costituzione. Su questo fronte ci sono forze potenti: pezzi vasti della magistratura, giornali, Tv, web, anche settori non secondari del potere economico. Dall’altra parte c’è un mondo ancora piuttosto esile - al quale fa riferimento il ministro Orlando - il quale ritiene che la modernità si basi sui diritti e non sulle pene. Sulla libertà e non sulla repressione. In questo "piccolo mondo modenro", un ruolo fondamentale spetta all’avvocatura. E se l’avvocatura non getta la sua forza in questa battaglia, è una battaglia persa. Per questa ragione il congresso dell’avvocatura, che si è svolto alla fine della settimana scorsa a Rimini, è stato molto importante. Perché ha segnato una svolta - come il Dubbio ha scritto più volte nei giorni scorsi - e ha definito un nuovo modello di avvocatura, fondato sull’"unità di intenti". Uso questa formula, e non la semplice parola "unità", perché la parola "unità" ha un significato "totalizzante" che certo non si adatta alla complessità dell’avvocatura italiana. Non è un copro unico, non è un unico pensiero, non ha una sola sensibilità: l’avvocatura è per sua stessa natura molto pluralista e molto libera, e non accetta briglie né fortini. Il congresso di Rimini non si è posto l’obiettivo di ridurre il pluralismo ma quello di realizzare l’unità su alcuni grandi principi e alcune grandi battaglie. E su questo terreno ha compiuto un notevole passo avanti. Anche definendo alcuni punti sui quali condurre le lotte che interessano la categoria degli avvocati, il suo assestamento e il suo sviluppo. Per citarne alcune, quella per l’equo compenso, per i consigli giudiziari, per i diritti delle avvocate in gravidanza. Che possono sembrare obiettivi corporativi ma sono esattamente il contrario: si collocano dentro una battaglia - che è esattamente il contrario del corporativismo ? e cioè quella per chiedere che siano i principi e i diritti - e non la spontaneità e la furia libera del mercato - a regolare i rapporti tra la professione dell’avvocato e la società. La professione dell’avvocato ha una funzione sociale, decisiva per la definizione di una civiltà moderna, che non può rispondere alle incertezze e alla satrapia del mercato. Questo non vuol dire essere contro alla libertà del mercato - dentro l’avvocatura vivono a buon diritto le più diverse posizioni politiche: da quelle liberiste a quelle cristianosociali, a quelle socialiste, a quelle keynesiane - vuol dire immaginare una società - e uno Stato - che pone al vertice il diritto e non gli interessi delle categorie o della finanza. Il mercato può regolare l’economia: non può regolare o pretendere la limitazione dei diritti, o subordinarli alle variabili dell’economia. Si spiega così la saldatura tra le battaglie per l’equo compenso, o per i diritti delle avvocate in gravidanza, con le battaglie per cosiddetta "adr" (la negoziazione assistita e le mediazioni che possono sostituire in molti casi i processi, esaltando il ruolo sociale e civile dell’avvocato), con la battaglia garantista e di difesa della Costituzione. Il congresso di Rimini, che è stato il risultato anche di un lavoro molto impegnativo soprattutto del Cnf e dell’Agorà (l’organismo che riunisce i rappresentanti di tutti gli ordini) è il congresso - possiamo dire - di una avvocatura istituzionale, che rivendica il suo ruolo, che difende il sistema ordinistico, che afferma il valore sociale di questo sistema, e che restituisce al dibattito pubblico una forza più convinta di se stessa, e quindi probabilmente in grado di mettere un peso più forte nel dibattito pubblico. L’impressione è che anche il ministro Orlando abbia avvertito questa novità. E si sia sentito più libero nelle sue posizioni. Perché una cosa è affrontare una battaglia, o una discussione, quando il partito dei Pm è l’unico interlocutore, e una cosa ben diversa è sapere che c’è in campo un’altra forza, e cioè l’avvocatura, in grado di riequilibrare la competizione. Assolti in massa! Di chi la colpa? di Paolo Pillitteri L’Opinione, 11 ottobre 2016 Si fa presto a dire "È colpa dei giudici!" o "È colpa dei politici corrotti!". No, anzi, "È colpa del circo mediatico giudiziario" (sul quale scrisse il primo libro nei terribili anni Novanta il nostro direttore). Troppo facile e troppo comodo, e forse anche inutile, trattare delle decine e decine di politici assolti, dopo i lunghi, lunghissimi chilometri di calvario degli avvisi di garanzia, liquidando la questione con colpe distribuite di qua e di là. Intendiamoci, sono tutti responsabili, chi più chi meno, quelli citati poco sopra e di certo la magistratura, in ispecie l’accusa, ne ha fatte di cotte e di crude se pensiamo a Ignazio Marino, a Roberto Cota, a Vasco Errani, a Vincenzo De Luca e persino a Gianni Alemanno; e ce ne sono tanti, troppo altri, vistisi decapitati nelle carriere sulle quali la vergogna della gogna per un’inchiesta è stata pervicacemente e insistentemente addensata da giornali e televisioni, il famoso circo mediatico. Ma il problema non va visto dalla sua coda, ma dalla sua testa, ovviamente non per mettere nello stesso calderone i politici colpevoli e quelli innocenti, i bravi e i cattivi, il bene e il male. Ma, semmai, per tentare un’analisi meno paranoica e più equilibrata, per stabilire se non una graduatoria, almeno una scaletta ragionata. Il tema vero - la "testa" - è quello dell’uso politico della giustizia e il sotto tema riguarda il ruolo della politica non soltanto rispetto alla magistratura ma allo stesso Paese, e comunque ai propri rispettivi elettori; e l’intreccio delle due questioni produce i risultati che abbiamo visto, almeno dallo scoppio di Tangentopoli, oltre quindici anni fa. Ebbene, in questo lungo lasso di tempo che cosa hanno fatto i politici, i governi (di un segno o dell’altro), le promesse di riforme della giustizia e le stesse "riformette" di Renzi-Orlando, e che effetti hanno prodotto sul sistema, quali i risultati raggiunti? Chiedetelo a Marino ed a Cota, direbbe qualcuno, e non a torto. Noi lo chiediamo, tanto per non fare nomi, al ministro della Giustizia Andrea Orlando; sì proprio a lui che l’altro giorno ha dichiarato testualmente e ipocritamente: "La giustizia spesso è usata nella battaglia politica". Bella scoperta, soprattutto sia dal ministro del settore, sia da un membro di quel partito postcomunista che ha sperimentato su larga scala e sui politici degli anni Novanta, da Bettino Craxi a Giulio Andreotti a Silvio Berlusconi, l’uso della giustizia per eliminare i nemici politici democratici che non sarebbero mai stati sconfitti politicamente (elettoralmente) da un partito che aveva cambiato il nome comunista non prima, ma dopo il crollo di quel comunismo nella vergogna e nella condanna universale dopo averlo, prima, omaggiato e obbedito. "Vai avanti Di Pietro!" lo gridava Gianfranco Funari, ma dietro c’era la grancassa della macchina potente dell’ex comunismo che, non va mai dimenticato, aveva nel suo Dna la regola principe del leninismo: l’importante è distruggere i nemici di classe non importa con quali mezzi. Noi sappiamo quali furono allora, ai tempi di Stalin, ma sappiamo e conosciamo anche il mezzo principale di oggi per distruggere quelli della Prima Repubblica, l’uso politico della giustizia, arte nella quale, diciamocelo, sono stati, e in parte lo sono ancora, insuperabili. Intendiamoci, ai campioni di giustizialismo come loro se ne aggiunsero di quelli dell’altra sponda - della destra e della Lega - cosicché il rosso si fondeva spesso col nero (ma non come nelle maglie del Milan perché si vedeva pure il verde sebbene non delle mutande) nel tirare monetine davanti al Raphael e nell’usare sempre, dico sempre, le accuse delle procure o del pool per distruggere il nemico. Certo: i mass media ci hanno dato dentro, i Pm pure e non pochi politici erano colpevoli: ma non tutti, come invece si urlava nelle piazze e in televisione. Il "tutti a casa" ha funzionato. Salvo, nel tempo, rovesciarsi come un guanto e continuando a fare danni fino a oggi, col risultato che la politica non c’è più, latita, è assente e al suo posto trionfa l’antipolitica nel suo mix di giacobinismo selettivo e populismo d’accatto di cui il grillismo è vessillifero. Rimedi: far ritornare la politica, rivendicarne il ruolo primario erga omnes, restaurarne la dignità e nobiltà. Non c’è altra strada. Il resto sono chiacchiere e promesse tipo il Ponte sullo Stretto, se non peggio. Abruzzo: elezione Garante dei detenuti, il candidato Braghini propone un "ballottaggio" abruzzoweb.it, 11 ottobre 2016 Dopo oltre un anno di rinvii, sull’elezione del Garante dei detenuti della Regione Abruzzo iniziano a farsi sentire anche gli altri candidati, oltre alla radicale Rita Bernardini che sembrava dovesse essere la favorita ma che l’Assemblea ancora non riesce ad eleggere. L’avvocato di Avezzano (L’Aquila) Salvatore Braghini, che ha presentato la propria candidatura insieme a Gianmarco Cifaldi, Rosita Del Coco, Antonio Di Biase e Fiammetta Trisi, ricordando come la radicale sia ineleggibile a causa delle due condanne penali che ha riportato, propone al Consiglio regionale di procedere attraverso una sorta di ballottaggio per sbloccare l’impasse. Per Braghini, che punta l’indice contro lo stallo che "di recente, ha fatto saltare i nervi a colei che, evidentemente, ritenendosi garante in pectore, ha potuto strigliare D’Alfonso accusandolo di aver "giocherellato a lungo facendosi beffa non solo della mia persona ma, quel che è più grave, di Marco Pannella" (virgolettato da Il Centro del 27.09.2016), la paralisi dell’Assemblea è dovuta al fatto "che l’ufficio del garante è ostaggio di una prenotazione frutto di un accordo politico (tra D’Alfonso e Pannella) che finora ha paralizzato il Consiglio". "La nomina del garante regionale dei detenuti sta rivelando sempre più che l’ufficio del garante è stato concepito più in funzione della persona da nominare che non per la sua intrinseca utilità", aggiunge. "Tutto è li a dimostrarlo. Basti pensare - afferma Braghini - che dal marzo 2015 ad oggi, ossia in un arco temporale di un anno e mezzo, la maggioranza in Consiglio regionale (che ha rieditato un bando sul Garante, invero, già espletato), dopo aver votato senza raggiungere il quorum sul nome della Bernardini non riesce più neanche a votare per tale nomina, reiterando sterilmente all’ordine del giorno di ogni seduta l’agognata elezione". Per Braghini "l’opinione pubblica deve sapere che ciò è tanto più grave se si riflette su questi 4 punti: 1) le 8 carceri abruzzesi registrano problematiche di varia natura che reclamano una figura istituzionale che stia vicino ai detenuti e agli internati; 2) l’aspirante Rita Bernardini, nell’audizione all’assemblea dei capigruppo del 15 marzo 2016 ha dichiarato: "Procedano anche verso la scelta di altri candidati, se la disponibilità data dovesse creare problemi all’elezione del Garante dei detenuti" (si veda comunicato Acra del 15.03.2016); 3) l’assemblea dei capigruppo ha ascoltato nella conferenza del 22 marzo 2016 altri 5 candidati indicati da maggioranza e opposizione; 4) come ricordato nell’intervento dell’avv. Antonio Di Biase apparso su Il Centro del 2 ottobre scorso "la Bernardini non potrà mai ricoprire il ruolo di Garante dei detenuti per un impedimento oggettivo e insuperabile rappresentato dall’esistenza di due condanne penali a suo carico che la rendono ineleggibile a causa della legge Severino". Da Braghini, quindi, la proposta: "Espletata la prima votazione si considerano i primi tre candidati che hanno riportato più voti, con l’impegno a votare nella successiva votazione uno dei tre. Se non si raggiungesse il quorum si procederà all’ennesima votazione, impegnandosi a votare i primi due candidati con più voti. Difficilmente ci sarebbe uno stallo, ma se non si conseguisse ancora il quorum si dovrebbe procedere ad oltranza". Un modo che, spiega l’avvocato, "presuppone l’integrale riappropriazione da parte del Consiglio regionale della delicata scelta, consentendosi a ciascun consigliere di votare senza condizionamenti di appartenenza ma soltanto sulla base della propria convinzione, avendo a disposizione i curricula e la relazione dei capigruppo che hanno ascoltato le intenzioni programmatiche di ben 6 candidati". "Mutatis mutandis, fu questo il modo in cui fu eletto nel 1270 papa Gregorio X, quando gli abitanti di Viterbo, allora sede papale, stanchi di anni di indecisioni dei cardinali, li chiusero a chiave nella sala grande del palazzo papale e ne scoperchiarono parte del tetto. Non dovremo arrivare a tanto, spero! Perciò, faccio i miei auguri ad ogni consigliere, cui, in questo memento è giusto pretendere, soprattutto da parte dei detenuti abruzzesi, autonomia di giudizio e senso di responsabilità", conclude Braghini. Lombardia: Commissione carceri in sopralluogo alle Rems di Castiglione delle Stiviere Adnkronos, 11 ottobre 2016 "A distanza di un anno dalla nostra ultima visita all’allora ospedale psichiatrico giudiziario, abbiamo trovato una situazione ottimale". Lo ha detto il presidente della commissione speciale per la situazione carceraria in Lombardia, Fabio Fanetti (Lista Maroni), al termine della visita effettuata alle Rems di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La struttura mantovana è organizzata in moduli da 20 posti ciascuno. Le attività previste per la riabilitazione vanno dai programmi psico terapici ai laboratori, dalla palestra alla scuola, dalla biblioteca al giardinaggio. Al momento, ospita 158 pazienti di cui 34 provenienti dal Piemonte, regione che ha garantito di riportarli entro i propri confini prima della fine dell’anno. "In questa struttura - osserva Fanetti - con il superamento degli Opg diventata sede di 6 delle 8 residenze per le misure di sicurezza della Lombardia (Rems), stanno operando bene. Esistono certo ancora alcune criticità, ma sono sicuro che verranno superate con la piena applicazione della nuova legge regionale in materia socio sanitaria". Viterbo: negato un lettore cd a un detenuto. La Cassazione: "non è suo diritto" tusciaweb.eu, 11 ottobre 2016 Linea dura della Cassazione sull’acquisto di lettori cd per chi è recluso in carcere. La Suprema Corte si è espressa su un caso viterbese destinato a far discutere. La direzione del carcere avrebbe impedito a un detenuto 34enne di comprare un lettore musicale da tenere in cella. Lui ha presentato ben due reclami: uno al tribunale di sorveglianza di Viterbo, che lo ha dichiarato inammissibile, l’altro a Roma, che ha mandato gli atti in Cassazione. Per i supremi giudici, non c’è nemmeno da starne a parlare: ricorso inammissibile. Soprattutto perché "l’acquisto di un lettore cd non è un diritto soggettivo del detenuto". Che dovrà anche pagare le spese processuali, più mille euro alla cassa delle ammende. Lecce: i detenuti diventano sommelier, in carcere si impara a degustare il vino La Repubblica, 11 ottobre 2016 Per la prima volta in Italia si attiva un corso del genere. "Il vino oltre ogni barriera" è il titolo dell’iniziativa che inizierà il 12 ottobre: in cattedra anche alcuni agenti della polizia con la passione per l’enologia. C’è chi in carcere impara a lavorare il legno e chi decora la ceramica, che acquisisce competenze da operatore ecologico e chi da cuoco o pizzaiolo ma finora nessuno in Italia aveva imparato a degustare i vini. Accadrà nell’istituto penitenziario di Borgo San Nicola a Lecce, nell’ambito del progetto "Il vino oltre ogni barriera" che inizierà il 12 ottobre. I detenuti, sia uomini che donne, diventeranno alunni di esperti sommelier, i quali, una volta a settimana, parleranno loro di coltivazione della vite, vendemmia e tecniche di vinificazione, poi dei vitigni pugliesi analizzandoli uno ad uno, delle modalità giuste per conservare il vino e per servirlo, di principi e tecniche di abbinamento. Un percorso che punta all’arricchimento personale dei detenuti più che alla creazione di un bagaglio materiale di competenze da utilizzare ai fini di un successivo reinserimento lavorativo, come avviene nei corsi più tradizionali effettuati nelle carceri italiane. Un esperimento innovativo, voluto dalla direttrice della casa circondariale Rita Russo e resa possibile grazie alla collaborazione della delegazione leccese dell’Associazione Italiana sommelier, che metterà a disposizione i propri docenti per le lezioni frontali. In cattedra saliranno anche alcuni poliziotti in servizio presso la Questura salentina, esperti sommelier che opereranno in collaborazione con la cantina Feudi di Guagnano. "Era da un po’ di anni, afferma l’amministratore Gianvito Rizzo - che ci balenava in testa l’idea di consentire anche agli ospiti di un carcere di imparare a degustare i grandi vini del nostro territorio e a conoscerne la storia. Poi, forse per pudore intellettuale o perché molte volte non si sa nemmeno da dove iniziare, la cosa è rimasta sospesa. Poi la direttrice del carcere di Lecce ha aperto le porte a quello che forse è il primo corso per sommelier rivolto a detenuti, uomini e donne, realizzato in Italia. Siamo convinti che questa esperienza sarà straordinaria ed unica, non solo per questi studenti speciali ma anche per tutti noi". Larino (Cb): i detenuti espongono alla 274esima edizione della Fiera d’Ottobre Ristretti Orizzonti, 11 ottobre 2016 Si è svolta anche quest’anno, dal 5 al 9 ottobre la consueta fiera d’ottobre a Larino, manifestazione che vede coinvolte imprese locali e non nella esposizione di prodotti di artigianato alimentare e manifatturiero. I detenuti della Casa Circondariale e di Reclusione di Larino sono stati presenti alla manifestazione organizzata dal Comune di Larino con un proprio stand. Lo stand messo a disposizione dall’ente fiera è stato allestito con le opere realizzate nei laboratori interni. Un’iniziativa fortemente voluta dalla Direzione del carcere non nuova ad idee di questo genere. Nel caso specifico è il carcere che è andato incontro alla società esterna decidendo di esporre i propri manufatti, altre volte è il carcere che ha aperto le sue porte alla società esterna con manifestazioni dalla forte valenza educativa quali le ormai consuete cene sociali, eventi di natura religiosa quali gruppi di preghiera, eventi musicali. Opere di pregio ma anche tante idee divertenti, dalle cassettiere per gli animali domestici, agli alberi di Natale stilizzati, alle panche su legno multistrato, cantinette da appendere al muro, e ancora quadri retrò, lavori su ceramica, attrezzature da giardino. Progetti nuovi e originali nati sfruttando il legno di riciclo per creare realizzazioni uniche o su misura. L’esposizione in fiera delle opere dei detenuti si è connotata di una doppia valenza, rieducativa e conoscitiva. Attraverso la realizzazione di opere provenienti dalla sede carceraria si è potuto creare un sottile filo di raccordo con la società esterna che viene resa edotta delle attività che si svolgono all’interno. Grande l’empatia dimostrata e enorme l’apprezzamento delle autorità ma anche della gente comune, incuriosita dagli oggetti esposti ed ammirata dall’iniziativa proposta. È mediante iniziative di questo genere che si realizza appieno la finalità rieducativa della pena. La pena come tempo non sospeso, ma finalizzato all’acquisizione di competenze, la pena in funzione della rimozione degli ostacoli che impediscono una costruttiva partecipazione sociale, la pena in funzione di supporto alla crescita individuale e sociale. Questo il messaggio che hanno voluto inviare i detenuti mandando fuori la loro opera manuale. Comunicare alla società esterna che non siamo un mondo a sè che anche qui dentro è possibile lavorare e operare processi di cambiamento di se stessi che andranno a vantaggio dell’intera collettività. Il Funzionario G.P. Dott.ssa Brigida Finelli Lecce: laboratori, teatro e letture insieme a mamma e papà detenuti di Angela Natale Quotidiano di Puglia, 11 ottobre 2016 "Giallo, rosso e blu. I bambini colorano Borgo San Nicola". E non solo metaforicamente. Anche i figli dei detenuti potranno partecipare, giocosamente, e insieme ai loro genitori, alla ristrutturazione di alcune sale del carcere di Lecce a loro dedicate. È l’ultimo miracolo di inclusione sociale firmato dall’associazione "Fermenti lattici", vincitrice del bando nazionale della Compagnia San Paolo, Fondazione con il Sud e Cariplo a sostegno di partenariati territoriali e progetti innovativi nei servizi di educazione. Dieci progetti selezionati, ma le organizzazioni no profit che vi hanno partecipato erano numerosissime. Unica in Puglia, Fermenti Lattici, l’ha spuntata forte di un’idea costruita attorno al disagio dei bambini sino ai sei anni che, loro malgrado, sono costretti ad abbracciare i loro padri in carcere. La sfida: rendere il carcere - asociale per definizione - il luogo dell’incontro e dell’accoglienza. E dell’umanità. Basti dire che a Borgo San Nicola non c’è una sala d’attesa, e volte passano anche tre quarti d’ora prima che un bambino, confuso tra decine di altri bambini e familiari in attesa, possa incontrare il proprio padre. Ebbene, il progetto premiato dal bando nazionale e al quale partecipano come partner attivi anche Casa Circondariale "Borgo San Nicola" di Lecce, Principio attivo Teatro, Factory, Io ci provo; e come sostenitori Comune di Lecce, Garante dei diritti dei Minori della Regione Puglia, Istituto Olivetti di Lecce - partirà proprio da qui. Dalla creazione di uno spazio mirato che li protegga dal caos - mediamente sono tra i 250 e 300 i figli dei detenuti nel carcere leccese - e migliori sin dai primi minuti qualitativamente il tempo che trascorrono insieme ai genitori. Ma sono diverse le idee, soprattutto ricreative e formative, pronte a diventare realtà, come spiega Antonietta Rosato, presidente di "Fermenti Lattici, ideatrice del progetto insieme alla sua socia Cecilia Maffei: "Allestiremo una biblioteca, un apposito luogo per giocare, dove bambini e genitori potranno trascorrere insieme il tempo della visita e, contemporaneamente metteremo in campo diverse programmi, come il teatro, la cura di un orto, un laboratorio di musica, perché lavorare sulla qualità del tempo significa lavorare anche sulla qualità della relazione". Oltre ai laboratori rivolti a genitori e figli insieme, sono previste attività rivolte esclusivamente ai loro padri e alle loro madri: "Sarà costituito un gruppo di genitori che avrà il compito di occuparsi della gestione della biblioteca. Questo per noi è molto importante - sottolinea Rosato - ai fini della sostenibilità del progetto anche dopo la sua chiusura formale". Il progetto, che durerà due anni, potrà contare su un contributo di 66mila euro. Complessivamente le tre fondazioni fautrici dell’iniziativa hanno stanziato un milione di euro. Il programma partirà ufficialmente a novembre e sarà seguito da un tutor che fa capo agli organizzatori. L’associazione Fermenti Lattici - nata con Principi Attivi - è una realtà che opera dal 2008 nel Salento nell’ambito di attività dedicate alla cultura per l’infanzia attraverso laboratori, festival ed eventi per bambini e ragazzi con un’attenzione particolare destinata alla promozione della lettura e della pre-lettura, delle arti, dell’ecologia, della progettazione partecipata e dell’inclusione sociale. Napoli: Artecinema entra nel carcere. "Alla scoperta dei film delle origini" di Stella Cervasio La Repubblica, 11 ottobre 2016 Come la sequenza di un film concepito 36 mila anni fa, dove gli animali sembrano muoversi grazie ai rilievi delle pareti su cui sono disegnati. Artecinema torna per il secondo anno in un penitenziario e impressiona con un video sull’alba dell’arte. I documentari sull’arte ieri dietro le sbarre a Secondigliano, per portare bellezza, integrazione, riflessione. Settanta detenuti hanno assistito ieri mattina alla proiezione di "Les génies de la grotte Chauvet" dove si mostrano i graffiti del sito della preistoria che ha suscitato anche l’interesse di un regista come Werner Herzog: 36 mila anni fa due mani - forse un adulto e una giovane donna, per nulla dilettanti ed anzi raffinati ritrattisti - lasciarono il loro segno nella grotta scoperta il 18 dicembre 1994 a Vallon-Pont-d’Arc, nell’Ardèche in Francia. La caverna, battezzata come il suo scopritore, lo speleologo e fotografo Jean-Marie Chauvet, incisa dal corso del fiume, attraversa la montagna per mezzo chilometro ed è ricoperta di pitture parietali risalenti all’uomo di Cro-Magnon, del Paleolitico superiore. Ai detenuti è stato proposto il video dal regista Christian Tran, che ha risposto poi alle loro domande, sulla ricostruzione fedele della grotta che per motivi di conservazione non è visitabile. Il cantiere, durato due anni, era diretto da un grande dell’arte contemporanea spagnola: Miquel Barcelò. Sulle pareti soltanto raffigurazioni di animali: bisonti, mammut rossi, gufi, rinoceronti, leoni, orsi, cervi, cavalli, iene, renne ed enormi felini scuri, che fanno ipotizzare che fosse un luogo di culto. Su un altare era appoggiato un teschio d’orso. Grande l’attenzione dedicata dagli ospiti della sala proiezioni - provenienti dalle sezioni dell’Alta Sicurezza e dei "sex offenders" di Secondigliano (1.100 detenuti) - ai contenuti. La prima domanda, che ha rotto il ghiaccio, ingenua ma concreta, sul costo del cantiere. Da uno stringente legame con il presente sulla riproduzione della grotta, la più grande "copia" artistica del passato, seguita da quella di Lascaux, si è passati alle osservazioni critiche: nel documentario si stabiliva un confronto con l’arte di Mirò, uno dei partecipanti ha citato la Tauromachia di Picasso, facendo riferimento alle 26 incisioni del padre del Cubismo realizzate nel 1957. L’osservazione pertinente viene accolta con favore dal regista, che ha presentato l’incontro con Laura Trisorio, fondatrice di Artecinema e Pier Paolo Forte presidente della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee che ha organizzato con la rassegna, il regista Iwan Schumacher e gli artisti Marisa Albanese e Francesco Vaccaro, accolti dalla vicedirettrice del carcere, Giulia Leone. "È la prima volta che faccio questa esperienza - spiega Tran - Ho accettato senza alcun pregiudizio. È stato un momento intenso e impressionante. Avevamo qualcosa da scambiare. I detenuti che hanno mostrato vero interesse per il film e i quesiti che pone. Le domande hanno rivelato curiosità e intelligenza. Sarebbe bello fare il bis con un altro mio film". Roma: irruzione di Forza Nuova alla mostra "Caesar", la condanna dei promotori fnsi.it, 11 ottobre 2016 Un gruppo di aderenti a Forza Nuova ha fatto irruzione al Maxxi durante l’esposizione della mostra "Nome in codice Caesar: detenuti siriani vittime di tortura" accusando i promotori "di inquinare la mente del popolo con palesi bugie". La condanna di Amnesty International Italia, Articolo 21, Focsiv, Fnsi, Unimed e Un ponte per. Sabato 8 ottobre, verso le 11.30, un gruppo di aderenti a Forza Nuova è penetrato nello spazio espositivo del museo Maxxi dove tantissimi romani hanno visitato la mostra "Nome in codice Caesar: detenuti siriani vittime di tortura", patrocinata da Amnesty International Italia, Articolo 21, Focsiv, Fnsi, Unimed e Un ponte per. Davanti alle bacheche dove sono esposte le immagini dei seviziati, gli aderenti a Forza Nuova hanno inneggiato al presidente siriano Assad e a quello russo Putin, accusando i promotori della mostra di simpatie per il gruppo armato che si è auto-denominato Stato Islamico (Daesh). Per gli operatori umanitari di Focsiv e Un ponte per è un’accusa particolarmente grave, visto l’impegno pluridecennale che sul territorio in Siria ed Iraq portano avanti a fianco delle popolazioni civili che di Daesh sono le prime vittime. Premesso che la storia di tutti i promotori testimonia che l’unica "simpatia" è quella per i diritti umani, la libertà e la giustizia, questa irruzione ha rinsaldato la comune determinazione a far circolare quanto più possibile questa mostra in tutta Italia. "Denunciamo con forza questo gesto e chiediamo a chi ha a cuore quegli stessi valori di fare altrettanto", concludono i promotori della mostra. Dura anche la replica del segretario generale del Maxxi, Pietro Barrera: "Questa sguaiata provocazione di Fn, che fortunatamente non ha provocato danni, conferma quanto sia importante il nostro impegno per la difesa dei diritti umani ovunque essi vengano calpestati". Terremoto. Su Amatrice i fari di Anac e Corte Conti di Giuseppe Latour e Mauro Salerno Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2016 Un "upgrade" del modello Expo, un banco di prova per la capacità di mettere al riparo da scandali e fenomeni di infiltrazione le operazioni post-emergenze e i grandi eventi. Dopo la definizione dei blocchi sulla ricostruzione, ha preso forma anche il capitolo dedicato alla trasparenza negli appalti del decreto terremoto che questa mattina approda in Consiglio dei ministri. E che, nelle sue linee generali, conferma tutte le novità trapelate negli ultimi giorni.? Il decreto assegna i primi 200 milioni per avviare la ricostruzione: 100 per nuovi impegni e 100 di copertura. L’area del "cratere", dove sarà concentrata la parte principale dei contributi, resta limitata a 60?Comuni. Per le Pmi ci saranno aiuti fino a 30mila euro per la ripresa delle attività, a tasso zero da rimborsare in 10 anni, e fino a 600mila euro per nuove imprese, da rimborsare in otto anni, sempre a tasso zero. Mentre il termine per gli adempimenti tributari e contributivi sarà congelato fino alla fine dell’anno. Cambierà certamente, invece, la norma sui livelli di sicurezza antisismica da rispettare nella ricostruzione privata. L’idea iniziale della ricostruzione "leggera", attraverso uno "sconto" sui parametri tecnico-strutturali ha trovato forti obiezioni e sarà rivista. Tornando al capitolo legalità, anche sugli appalti di Amatrice, come a Milano 2015, torneranno ad accendersi i fari dell’Anticorruzione. A disciplinare i controlli sarà un protocollo firmato dal presidente Anac Raffaele Cantone, dal commissario Errani e da Invitalia. All’Agenzia per l’attrazione degli investimenti controllata dall’Economia viene affidato il ruolo di centrale unica di appalto per gli interventi di ricostruzione. Mentre alla Corte dei conti toccherà il compito di monitorare in via preventiva, sulla falsa riga delle verifiche attribuite a Cantone, gli atti del commissario. Uno degli articoli più dettagliati è dedicato al rafforzamento delle white list. Sugli elenchi di imprese certificate il Governo ha prodotto il massimo sforzo, inventandosi l’Anagrafe antimafia degli operatori. Sarà obbligatoria, senza possibilità di cavarsela con la sola iscrizione. Sarà valida sia per i lavori pubblici che per quelli privati. E, soprattutto, coinvolgerà tutta la filiera della ricostruzione. Gli operatori economici per accedere alla lista dovranno superare le verifiche antimafia. A gestire la procedura sarà una Struttura di missione costituita presso il Viminale. Con un’avvertenza: chi risulta già iscritto a un elenco tenuto da una prefettura accederà di diritto. L’obiettivo non è solo quello di garantire la massima efficacia dei controlli, ma anche quello di renderli il più possibile rapidi in modo da evitare gli effetti-imbuto che hanno intasato per mesi l’avvio della ricostruzione in Abruzzo e soprattutto in Emilia Romagna. L’elenco delle categorie di lavori coinvolti nella tagliola delle white list, rispetto al passato recente, è parecchio allargato. Gli elenchi classici prevedono nove categorie che corrispondono ad altrettante attività a rischio. Per gli interventi post-sisma in Emilia Romagna ne sono state aggiunte sette. Il decreto del Governo, invece, adotta una formulazione nuova e prevede che tutto quello riguarda la ricostruzione dovrà passare dall’Anagrafe. Finiscono cosi sotto la lente momenti finora poco considerati: dall’urbanizzazione fino allo smaltimento dei rifiuti. Anche i privati dovranno fare le gare per scegliere le imprese cui affidare i lavori, invitando alle procedure almeno tre operatori, tra quelli iscritti alle white list. Il "verbale" di gara dovrà essere allegato alla domanda di contributo. Tutti i contratti di appalto e di subappalto, inclusi quelli privati, saranno soggetti agli obblighi di tracciabilità finanziaria. Il decreto prevede poi la possibilità che per gli interventi di costruzione e ripristino di depuratori e fogne il commissario possa avvalersi di società in house delle amministrazioni centrali dello Stato, replicando il "modello Sogesid" inaugurato con il Dl Sblocca-Italia. L’ultimo punto riguarda l’affidamento degli incarichi di progettazione. Potranno ottenerli soltanto i professionisti, in possesso di un Durc regolare, iscritti a uno speciale albo predisposto dal commissario. Il vincolo opera sia in campo pubblico che privato. Diritti umani. Terre des Hommes: bambine a rischio violenza e pedopornografia di Irene Mossa Il Manifesto, 11 ottobre 2016 Si è aperta ieri la V edizione della campagna "Indifesa" di Terre des Hommes, associazione internazionale che sostiene l’infanzia in difficoltà. "Il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini". Con questa frase del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, ricordata dal presidente del Senato Pietro Grasso, si è aperta ieri la V edizione della campagna "Indifesa" di Terre des Hommes, associazione internazionale che sostiene l’infanzia in difficoltà. Un’iniziativa nata per accendere i riflettori sulla condizione delle donne e dei diritti a loro negati, con la presentazione di un dossier sull’argomento, alla vigilia della Quinta Giornata Mondiale delle bambine e delle ragazze. Se infatti i minori sono ovunque vittime di abusi, questa realtà è ancora più drammatica per le bambine, doppiamente penalizzate e più esposte alla violenza. I dati presentati nel dossier di Terre des Hommes delineano le dimensioni di un’emergenza sociale gravissima. Nel 2015 in Italia sono stati 5080 i minori ad aver subito reati di violenza, con un incremento del 3% rispetto al 2011. E con una netta prevalenza femminile: il 60% delle vittime sono ragazze, che sono l’87% delle vittime di violenza sessuale e il 91% dei minori entrati nel giro della pornografia minorile. Proprio la pornografia minorile presenta l’aumento più drammatico, del 543%, ed è uno dei settori di sfruttamento con la più ampia richiesta sul mercato. "I numeri sono impressionanti e non lasciano spazio a dubbi: la prevenzione della violenza sui minori deve essere una priorità delle istituzioni e richiede l’impegno di tutti, perché i ragazzi crescano con una visione sana delle relazioni di coppia, nel rispetto dell’altro", spiega Raffaele Salinari, presidente di Tdh Italia. Tra i nemici più feroci delle bambine e ragazze ci sono infatti i loro coetanei: 817 sono i ragazzi condannati per violenze sessuali. "Molti di loro considerano l’altro, specie se è una donna, non come un essere umano con cui entrare in relazione, ma come un oggetto da utilizzare", sottolinea Salinari. "Per molti adolescenti la violenza è la prima risposta ai conflitti della loro età". Ad aggravare la situazione c’è il web, percepito dal 60% dei ragazzi come un mondo solo virtuale, pur essendo invece un luogo fin troppo reale, dove fenomeni come il cyberbullismo hanno spesso conseguenze tragiche. Se la violenza colpisce ancora troppe bambine in Italia, è il rischio più frequente, se non inevitabile, a cui sono esposte le ragazze in situazioni di miseria e di guerra. Matrimoni forzati e precoci, mutilazioni genitali, sfruttamento lavorativo e sessuale: a queste violenze sono condannate moltissime donne, prive della possibilità di studiare, crearsi un’autonomia e scegliere della propria vita. In Paesi in guerra, migliaia di ragazze sono ridotte a schiave sessuali dei combattenti, come accade in Iraq e Siria alle donne considerate "prede di guerra" dai miliziani dell’Isis, o in Nigeria dalle milizie di Boko Haram. E tra le donne migranti che arrivano in Europa, quasi tutte hanno subito abusi sessuali durante il tragitto e necessitano di un aiuto psicologico. A tutte queste donne Terre des Hommes cerca di dare un aiuto con i suoi progetti e oggi, in occasione della Giornata Mondiale delle bambine del’Onu, ricorda questa battaglia chiedendo a tutti di indossare l’arancione, colore simbolo di questa iniziativa, "perché rappresenta la parità di genere", e postando su Facebook una frase con l’hashtag #orangerevolution. Guerra. Per la pace marciare non basta di Luciana Castellina Il Manifesto, 11 ottobre 2016 Perugia-Assisi. Le scadenze rituali sono tutt’altro che superflue. Ma l’impegno pacifista non è una scelta morale. Si costruisce attraverso scelte politiche. Quando viene convocata una marcia Perugia-Assisi raramente resisto al richiamo della foresta. Quest’anno, con la guerra dappertutto, più che mai. E perciò, nonostante la stampella, ci sono andata: per il convegno promosso dai sindacati, dall’Arci e qualche altra associazione il sabato, e, almeno per la partenza, al solito magnifico Frontone, del corteo coordinato da Flavio Lotti, la domenica mattina. Io credo che le scadenze in qualche modo rituali non siano superflue, aiutano la memoria e questa serve. (Le donne, per esempio, hanno imparato a fare buon uso del vecchio 8 marzo). Ho detto richiamo della foresta perché, come i più vecchiotti fra i lettori de il manifesto si ricorderanno, fummo in passato parte decisiva di quel movimento pacifista. Un movimento che si sviluppò in Europa negli anni 80 per protestare contro le nuove installazioni nucleari sui nostri territori e per reclamare "un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali". Fu allora che riscoprimmo questa marcia ideata molto tempo prima da Capitini e la reinventammo assieme ai tantissimi del nord e del sud del nostro continente con i quali avevamo via via stretto legami profondi. E che assunsero le due città umbre come luogo simbolico e unificante di pellegrinaggio. Poi venne l’Iraq, e fummo 250.000. Cosa è cambiato da allora? Anche domenica i partecipanti sono stati tanti. A sfilare le scolaresche di più di 100 scuole che hanno risposto all’appello della Tavola della pace, molti gli immigrati recenti che hanno voluto unirsi al corteo. Numerosi anche i gonfaloni dei comuni. Presenti le associazioni promotrici, ovviamente. Ma è un fatto, evidente nella marcia e ormai chiaro da anni nella dimensione quotidiana: il corpo militante delle organizzazioni sociali, dei partiti e dei movimenti che pure esistono sembrano non mobilitarsi più di tanto per la pace. È da tempo, oramai, che la lotta per la pace non morde come dovrebbe. La debolezza non è solo organizzativa, ma anche politica. Anche qui a Perugia nelle parole d’ordine, negli striscioni, nei discorsi importanti che sono stati tenuti alla partenza, soprattutto dai prelati (per la prima volta ha preso la parola anche un cardinale), è prevalso, mi pare, soprattutto un discorso morale. Necessario e anzi prezioso. E però è risultata incerta l’indicazione di una proposta politica, del come rimuovere le cause delle emergenze con cui ci dobbiamo confrontare, così come una denuncia precisa delle responsabilità, antiche e recenti, di quello che accade. Sottolineo questa debolezza non per sminuire il significato di questa Marcia, ma solo per ricordare che il nuovo pacifismo nato negli anni ‘80 aveva invocato anch’esso il ripudio della guerra, ma aveva anche avuto l’ambizione di suggerire un’altra idea dell’Europa (fuori dai blocchi, dicevamo), un’altra politica estera, un modo diverso di affrontare i problemi internazionali, non più ricorrendo al medioevale metodo delle armi, ma alla comprensione delle ragioni dell’altro. I patti - dicevamo - si debbono fare con il nemico, non con l’amico. Per questo non possono essere patti militari. Purtroppo in questi anni è accaduto il contrario: la Nato si è ingigantita e ha preteso di rappresentare l’Europa. A Perugia è stato detto forte l’essenziale: la condanna della tuttora massiccia esportazione da parte dell’Italia e dell’Europa di armi verso i paesi dove si aprono conflitti che grazie ad esse crescono paurosamente di livello; il No all’invio di eserciti e di bombardieri, ancorché chiamati "umanitari". Se l’Isis si è scatenato è dovuto anche a questo massiccio invio. So bene che oggi è sempre più difficile individuare amici e nemici nel groviglio che si è determinato - basti pensare alla Siria (paese che non a caso non è stato mai evocato se non per parlare dei migranti che da lì provengono). E però proprio in questo momento, in cui si riaffaccia il rischio di una spedizione militare in Libia, è urgente ripetere a voce alta che sebbene Gheddafi fosse un dittatore l’intervento militare occidentale in quel paese ha prodotto il peggio e guai a ripeterlo, quale che sia la scusa. E che sarebbe doverosa da parte di chi ha portato ai disastri dell’Afghanistan e dell’Iraq una autocritica pubblica, anche in parlamento. La debolezza del nostro discorso (e dunque la scarsa mobilitazione che ne consegue) sta comunque nel fatto che è difficile oggi una risposta politica all’interrogativo: come aiutare i popoli vittime di guerre, di dittature, di fame? È proprio questa che è emersa soprattutto nell’assai interessante convegno del sabato, durante il quale - oltreché per descrivere la loro condizione - hanno preso la parola anche per chiederci di aiutarli i rappresentanti dei sindacati indipendenti dell’Algeria, della Tunisia (il premio Nobel per la pace del 2015, Hassine Abassi), dell’Egitto e della Libia (quella di Bengasi), prima donna capo di un sindacato, una bella grinta e si capisce, visto il pezzo di paese da cui proviene e le condizioni incredibili in cui lì deve operare un/a sindacalista. Chiara la risposta di quanto occorre fare sul piano economico: cambiare drasticamente le politiche economiche del nord che hanno distrutto le economie del sud. E allora occorre però contestare il liberismo stesso, che ha ispirato tutti i Trattati Mediterranei (dall’Accordo di Barcellona in poi), fondati sulla liberalizzazione degli scambi che, quando i partner sono enormemente disuguali, accresce la disuguaglianza anziché ridurla. L’Europa avrebbe dovuto invece avere il coraggio, e la lungimiranza, di proporre un compromesso fra nord e sud, analogo a quello che nel dopoguerra si stabilì fra movimento operaio e capitalismo e che, pur con tante ombre, ha però garantito diritti per gli uni e stabilità per l’altro. Fu, questa, la proposta avanzata almeno trent’anni fa da Samir Amin e da Giorgio Ruffolo; e cadde nel vuoto. Meno evidente è cosa si possa fare su altri piani : aiuto alla società civile, per contribuire alla crescita di partecipazione politica, anche per rendere chiaro che un parlamento di per sé non garantisce democrazia? Sì, certo. Ma proprio per questo non bastano assistenza e carità, serve politica. Proprio quella che oggi sembra latitante. Cosicché le generose iniziative che, a partire dai Forum sociali del Maghreb, si sono continuate ad assumere non sono riuscite a suscitare la collaborazione che avrebbero dovuto ottenere. Insomma: la pace è un bene primario, ma se oggi l’indifferenza cresce, è perché, anche su questo, c’è un vuoto di iniziativa politica. E perciò di impegno. È, anche questo, un aspetto della crisi della democrazia che stiamo vivendo. Anche a casa nostra. Guerra. I (presunti) meriti dei buoni e il diverso peso dei morti di Paolo Mieli Corriere della Sera, 11 ottobre 2016 I bombardamenti delle città fanno parte della drammatica "liberazione" da qaedisti e jihadisti. Le situazioni sono diverse, ma il giudizio varia troppo a seconda che protagonisti siano Assad, Putin o Obama. Alle solite. L’emozione mediatica per l’uccisione, domenica, da parte di un palestinese di due cittadini di Gerusalemme (una donna e un poliziotto) è stata pressoché nulla. Come se ci si fosse trovati al cospetto di un non evento. Eppure si trattava di un accadimento doloroso ma simile a tanti altri che di trepidazione ne hanno provocata molta. Davide Frattini, su queste pagine, ha opportunamente messo in risalto che l’uccisore non era un palestinese qualsiasi, bensì un aderente al gruppo fondamentalista Murabitun, formazione che, nell’intento di "proteggere" la moschea di Al Aqsa, incita a sparare nel mucchio. Un po’ quel che accade sempre più spesso in Europa e negli Stati Uniti dove ultras islamisti muovono all’attacco di cittadini inermi, colpevoli solo di trovarsi lì per caso. Solo che se questi cittadini sono ebrei, la pietà generale si fa più tenue. Invece di ebrei, stavolta avremmo potuto scrivere "israeliani", mettendo l’accaduto - per le vie subliminali - sul conto di Benjamin Netanyahu. Ma la verità è che da anni ad entrare nel mirino degli jihadisti sono ormai quasi esclusivamente degli ebrei per nessun motivo riconducibili al primo ministro israeliano. E - come fu evidente nel gennaio 2015 quando Amedy Coulibaly ne uccise quattro all’ipermercato kosher di Parigi nelle stesse ore in cui i fratelli Kouachi compivano la strage nella redazione di "Charlie Hebdo" - l’allarme e lo struggimento per le loro morti è meno evidente di quello suscitato dalle uccisioni di altre persone. È importante far caso a tali "differenze" dal momento che questi momenti di turbamento - peraltro sporadici, discontinui e a corrente alternata - ci impediscono di formulare giudizi destinati a reggere ad alcuni fondamentali test di coerenza. Restiamo sul terreno della commozione ma trasferendoci su un altro versante della grande crisi mediorientale e guardiamo ai bombardamenti su Aleppo (Siria) e Sirte (Libia). Sono casi diversi, molto diversi, soprattutto per la quantità di morti. Ma in entrambe le situazioni si tratta di momenti drammatici nel corso della "liberazione" di città, o di quartieri delle stesse, da qaedisti e jihadisti. A compiere questo complicato genere di operazione sono, sul fronte di Damasco, i "cattivi" di Putin e di Assad (avversati dalle Nazioni Unite), e, su quello di Tripoli, i droni "buoni" e gli aerei di Obama che (apprezzati dalle Nazioni Unite) intervengono in aiuto di Fayez al-Sarraj. Questa ormai introiettata divisione tra buoni e cattivi comporta che, per quel che riguarda la Siria, le orribili stragi di Aleppo (bombe su convogli umanitari, su ospedali, uccisioni di bambini, tutto presumibilmente per responsabilità dei russo-siriani) sono giustamente stigmatizzate, ma se gli americani "per errore" infrangono per primi la tregua di settembre bombardando là dove non avrebbero dovuto, il coro dell’indignazione generale resta silente. Non si alza neanche un voce per chiedere dettagli su come sia stato possibile che - in un frangente così delicato, laddove si era trovato dopo mesi e mesi un accordo tenuto insieme da un filo di seta per far giungere un soccorso medico e alimentare alla popolazione di Aleppo ormai a rischio di estinzione - come sia stato possibile, dicevamo, che sia stato commesso una "svista" del genere. Per carità, un errore è un errore, ma è strano che su quello sbaglio degli aerei statunitensi nessuno abbia chiesto di saperne di più e ci si sia accontentati di scuse peraltro assai generiche. Tutto ciò, ripetiamolo, senza cercare in alcun modo attenuanti al raccapriccio provocatoci dalle nefandezze perpetrate dai carnefici siriani. Stesso discorso si può fare a proposito del ginepraio libico. Sottolineiamo ancora una volta che non si può mettere sullo stesso piano la realtà di Sirte e quella molto più complessa di Aleppo. Però anche contro Sirte è in atto da tempo (per la precisione da maggio) un’offensiva liberatrice a suon di bombe. Anche lì, come ad Aleppo, si annuncia che la sconfitta degli islamisti armati è prossima. Anzi dovrebbe già essere avvenuta alla fine di agosto, data fissata da Obama come termine ultimo per l’intervento militare americano. Intervento che invece è proseguito nell’indifferenza di tutti. Quando, sempre in agosto, fu conquistata Ouagadougou, si disse da parte di Sarraj che gli armati dell’Isis erano ridotti allo stremo e non potevano più ricevere aiuti dall’esterno. Adesso, trascorsi due mesi da quelle dichiarazioni, si continua a dire che la liberazione di Sirte è imminente ma non si ritiene di offrire qualche dettaglio in più su perché non si sia riuscito a rispettare il termine di fine agosto. Al più viene offerta qualche generica informazione su imprevisti tunnel sotterranei di cui disporrebbero gli uomini di Daesh, su rifornimenti che inaspettatamente sono riusciti a filtrare dall’esterno e poco altro. Pochissimo altro. È curiosa, nei giudizi del campo democratico, questa inversione dei ruoli rispetto ai tempi della guerra fredda. Adesso gli americani sono messi lì a recitare la parte dei "buoni", i russi quella dei "cattivi" (e pensare che nel caso dell’ex capo del Kgb Vladimir Putin si tratta degli stessi russi di allora, con qualche anno in più!). Ma la pervicacia con cui ci si ostina a vedere soltanto le colpe dei cattivi e i meriti dei buoni è la stessa dei tempi antichi. Bizzarrie della storia. Forse sarebbe il caso di lasciar perdere questa riedizione dei tic comportamentali della guerra fredda (sia pure a parti invertite) e di cominciare a dirci qualche verità. La prima è che probabilmente anche sotto i bombardamenti di Sirte muoiono dei civili e un giorno si scoprirà che tra le vittime ci sono stati anche dei bambini, degli infermi, delle donne non militanti, degli anziani. Di sicuro non saranno stati uccisi deliberatamente come accade ad Aleppo (e questa è una bella differenza!) ma nel contempo sarà arduo sostenere che quelle morti erano assolutamente imprevedibili. Dovremmo completare il ragionamento dicendo chiaro che bombe fatte cadere dagli aerei su quartieri abitati, producono morti tra loro non dissimili, quale che sia la nazionalità del pilota alla guida degli aerei da cui sono state sganciate. E, visto che ci siamo, possiamo cominciare a dircene anche un’altra di verità: la guerra contro l’Isis è diversa da tutte le altre, non prevede trattative dal momento che il mondo a cui apparteniamo non saprebbe con chi trattare e, nel caso lo individuasse, non avrebbe niente da concedergli. Il califfato di al Bagdadi sta riducendo via via la sua estensione territoriale ma nessuno di noi sa quando e di che tipo sarà l’ultima fase di questo conflitto. E neanche cosa ne sarà delle terre "liberate". Purtroppo. E per restare all’oggi, c’è di che rammaricarsi perché quando si è costretti a combattere fino all’ultima stanza, dell’ultimo appartamento, nell’ultimo edificio in mano agli jihadisti di Sirte o dei qaedisti di Aleppo ( e in futuro di altri centri abitati) la guerra è destinata a riservarci ogni giorno nuove sorprese. Tutte sgradevoli. Guerra. Afghanistan, occupazione duratura di Manlio Dinucci Il Manifesto, 11 ottobre 2016 Il quindicesimo anniversario dell’11 settembre ha occupato per giorni le prime pagine. Blackout mediatico, invece, sul quindicesimo anniversario della guerra in Afghanistan, iniziata il 7 ottobre 2001 con l’operazione "Libertà duratura". Motivazione ufficiale: la caccia a Osama bin Laden, organizzatore degli attacchi dell’11 settembre, nascosto in una caverna afghana sotto protezione dei talebani. In realtà, si saprà in seguito, il piano dell’operazione era già sul tavolo del presidente Bush prima dell’11 settembre. Quali fossero i suoi obiettivi strategici emergeva chiaramente dal rapporto Quadrennial Defense Review, diffuso dal Pentagono il 30 settembre 2001, una settimana prima dell’inizio della guerra in Afghanistan. Sul manifesto del 10 ottobre 2001 ne pubblicammo le parti essenziali, che oggi possiamo rileggere alla luce degli avvenimenti successivi: "Gli Stati uniti, che come potenza globale hanno importanti interessi geopolitici in tutto il mondo, devono precludere ad altri il dominio di aree cruciali, particolarmente l’Europa, l’Asia nordorientale, il litorale dell’Asia orientale, il Medio Oriente e l’Asia sudoccidentale. L’Asia, in particolare, sta emergendo come una regione suscettibile di competizione militare su larga scala. Esiste la possibilità che emerga nella regione un rivale militare con una formidabile base di risorse. Le nostre forze armate devono mantenere la capacità di imporre la volontà degli Stati uniti a qualsiasi avversario, inclusi stati ed entità non-statali, così da cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati". È qui scritto a chiare lettere quali sono le reali ragioni della guerra in Afghanistan. Nel periodo precedente l’11 settembre 2001, vi sono in Asia forti segnali di riavvicinamento tra Cina e Russia, che si concretizzano quando, il 17 luglio 2001, viene firmato il "Trattato di buon vicinato e amichevole cooperazione", definito "pietra miliare" nelle relazioni tra i due paesi. Washington considera il riavvicinamento tra Cina e Russia una sfida agli interessi statunitensi in Asia, nel momento critico in cui gli Usa cercano di occupare il vuoto che la digregazione dell’Urss ha lasciato in Asia centrale, area di primaria importanza sia per la sua posizione geostrategica rispetto a Russia e Cina, sia per le limitrofe riserve di petrolio e gas naturale del Caspio. Posizione chiave per il controllo di quest’area è quella afghana. Ciò spiega l’enorme spiegamento di forze Usa/Nato in Afghanistan, per una guerra che - secondo una stima per difetto del Watson Institute (Brown University, Usa) - ha finora provocato oltre 170 mila morti e 180 mila feriti gravi e una spesa ufficiale, solo da parte Usa, di circa 830 miliardi di dollari (oltre 40 volte il pil dell’Afghanistan) più altre enormi spese non registrate. Comprese le operazioni militari in Iraq, Libia, Siria e altri paesi, la spesa ufficiale Usa, limitatamente alle sole operazioni militari, ammonta nel 2001-2016 a circa 3700 miliardi di dollari e comporta impegni futuri (soprattutto come assistenza ai veterani) che la portano a circa 4800 miliardi. All’operazione Nato sotto comando Usa in Afghanistan, ridenominata "Sostegno Risoluto", continua a partecipare l’Italia con un contingente schierato nelle aree di Kabul ed Herat. Ufficiali italiani sono dislocati a Tampa (Florida) presso il Comando Usa dell’intera operazione e in Bahrein quale personale di collegamento con le forze Usa. Nel quadro della stessa strategia, l’Italia è impegnata in 27 "missioni" in 19 paesi. Guerra. I sauditi uccidono in Yemen la Pinotti fa affari con Ryad di Stefano Pasta Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2016 Il ministro della Difesa avrebbe firmato nuovi contratti militari con l’alleato "per la stabilità nella regione" che però colpisce molto spesso ospedali e mercati. Mentre il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni andava a Istanbul per "ribadire con forza la solidarietà dell’Italia al governo turco", Roberta Pinotti era ricevuta alla corte di Ryad. A meno di un anno dalla visita di Renzi, la ministra della Difesa ha incontrato lunedì 3 l’omologo (e vice-principe ereditario) Mohammed bin Salman bin Abdulaziz, mentre martedì è stata la volta di re Salman. Per Tactical Report, sito specializzato in sicurezza in Medio Oriente, si sarebbe parlato di "contratti navali". "Hanno discusso - scrive l’agenzia di stampa saudita - delle relazioni bilaterali e dei modi per incrementarle, specialmente nel campo della difesa". Non a caso nella delegazione era presente il direttore nazionale degli Armamenti, generale Carlo Magrassi. Per Francesco Vignarca della Rete Disarmo, che da tempo denuncia la vendita di bombe made in Italy agli sceicchi, "l’evidente riserbo su questa visita e sui contratti navali è motivo di forte preoccupazione, soprattutto in considerazione delle attività militari saudite nello Yemen". Dal marzo 2015, l’Arabia guida una coalizione sunnita contro il gruppo armato sciita degli Houthi, senza alcuna legittimazione da parte Onu. Il ministero della Difesa ribadisce che "l’Italia guarda con grande interesse al ruolo dell’Arabia Saudita per la stabilità della regione". "Durante il meeting - spiega una nota - si è parlato dello sviluppo della cooperazione bilaterale con un focus particolare sui settori della formazione e dell’addestramento militare". Forse i piloti andrebbero addestrati a non colpire scuole, mercati e moschee: secondo l’Onu, più del 60% delle vittime civili (oltre 3.800 morti) è stato causato dai bombardamenti sauditi, fatto condannato anche da Ban Ki-moon. Ad agosto, nella provincia di Hajja era stata distrutta una struttura di Medici Senza Frontiere, uccidendo 11 persone: non era la prima volta che veniva preso di mira un ospedale dell’ong. Intanto, a fine settembre, a seguito delle pressioni dell’Arabia, il Consiglio dell’Onu per i diritti umani non ha accolto la proposta di una commissione indipendente d’inchiesta sulle violazioni del diritto umanitario in Yemen. L’Ue era favorevole, ma poi ha cambiato idea senza fornire motivazioni. La legge 185 del 1990 vieta l’esportazione di armi verso "paesi in stato di conflitto armato": "Il Parlamento - è l’appello di Amnesty International, Rete Disarmo e l’Osservatorio Opal - esiga urgenti spiegazioni riguardo a questa visita della ministra". Pinotti ha risposto "che la Difesa non si occupa dell’export di armi, è una questione che dipende dal Ministero degli Esteri". Replica Vignarca: "La Difesa è comunque coinvolta, perché grazie agli accordi militari che l’Italia può stipulare con vari paesi, la procedura di autorizzazione può essere in qualche modo bypassata, come aveva denunciato da parlamentare Sergio Mattarella". Del resto, a giugno la ministra ha firmato un accordo con il Qatar per la fornitura di armi per 5 miliardi. Chiede chiarimenti anche la magistratura di Brescia: è notizia della scorsa settimana che il procuratore aggiunto Fabio Salomone ha avviato un’indagine sugli ordigni venduti ai sauditi e usati per bombardare in Yemen, assemblati in Sardegna nello stabilimento della multinazionale tedesca Rvm, la cui filiale italiana ha sede a Ghedi (Bs). L’ipotesi di reato? Violazione della 185. Guerra. Dopo il massacro, Yemen in piazza contro Usa e Saud di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 ottobre 2016 Ennesimo massacro e gli Houthi abbandonano il fantomatico dialogo. Missili contro un cacciatorpediniere statunitense. Washington dice di voler prendere le distanze da Riyadh ma non mette in dubbio l’alleanza. I 25 km della Perugia-Assisi sono stati teatro di tante lotte. Anche quella al commercio di armi: "L’Italia deve spiegare perché, nonostante la legge 185 metta dei paletti alla vendita di armi, l’abbiamo triplicata", dice al manifesto Don Ciotti, fondatore di Libera. Stessa richiesta da padre Alex Zanotelli: "La nostra ministra della Difesa è appena stata in Arabia Saudita a trattare per armi che vendiamo contro la legge 185". Armi usate a man bassa in Yemen. Ora la questione non è più solo politica, ma anche giudiziaria: la procura di Brescia ha aperto un’inchiesta sull’esportazione di munizioni dalla Sardegna a Riyadh. L’ipotesi di reato è proprio la violazione della legge 185/1990, tra le più restrittive al mondo, che vieta la vendita di armi a paesi in conflitto. Nel caso di Riyadh, secondo il pm Salamone, il divieto di export è aggirato perché a produrre quelle bombe è la multinazionale tedesca Rvm. In ogni caso l’Italia ha venduto nel 2015 258 milioni in armi a Riyadh. E potrebbero crescere dopo la visita della ministra Pinotti che con i vertici sauditi avrebbe discusso della cessione di tecnologie navali militari. Domenica marciavano anche gli yemeniti: in migliaia hanno protestato davanti al quartier generale dell’Onu a Sanàa contro l’ultimo massacro di Riyadh, 155 vittime nel raid di sabato su una commemorazione funebre. L’ennesima strage (che la coalizione a guida saudita nega di aver commesso, ma su cui ha aperto un’inchiesta) solleva un noto vaso di Pandora: ad un anno e mezzo dall’inizio di "Tempesta Decisiva", dopo 10mila morti, 3 milioni di sfollati, 14 milioni di civili malnutriti e epidemie di colera, collassa il castello di carte della rete di alleanze saudita. È già crollato l’ultimo tentativo dell’Onu di mettere a tacere le armi (sabato, poche ore prima della strage, le Nazioni Unite si dicevano vicine ad una tregua di 72 ore): il movimento Houthi si è tirato indietro ponendo come ovvia condizione che Riyadh interrompa subito i raid. Il suo leader, Abdel-Malek al-Houthi, ha fatto appello ai capi tribali perché si mobilitino: al funerale colpito sabato (si commemorava il padre del "ministro" degli Interni degli Houthi) erano presenti influenti membri delle tribù locali, che vedono nel raid il superamento di una linea considerata invalicabile. Oltreoceano lievita il ruolo degli Stati Uniti: secondo la Reuters, che ha visionato documenti ufficiali, da mesi consiglieri governativi Usa avvertono la Casa Bianca del serio pericolo di essere accusati di complicità in crimini di guerra per il sostegno all’Arabia Saudita. Fin da marzo 2015, quando l’attacco cominciò, Washington ha fornito a Riyadh supporto logistico e di intelligence e dato il via libera ad agosto alla vendita di 1,15 miliardi in armi (che si aggiungono ai 110 sotto l’amministrazione Obama). E ieri è arrivato il primo attacco diretto: due missili sono caduti in acqua vicino al cacciatorpediniere statunitense Mason nello stretto di Bab al-Mandeb, tra i target della guerra perché via di transito delle petroliere dal Golfo all’Europa. Gli Houthi negano la propria responsabilità. Domenica un altro missile aveva colpito la base militare saudita Re Fahd a Taif, dove si trovano anche i soldati Usa che assistono la coalizione anti-Houthi. Nessun danno, ma mai un missile aveva penetrato così in profondità il territorio saudita, arrivando a cadere a 520 km dal confine. Gli Stati Uniti hanno ribadito le dichiarazioni che da qualche tempo palesano l’intenzione di prendere le distanze da Riyadh: "Siamo profondamente disturbati dal raid - ha detto il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Ned Price. Alla luce di questo e altri recenti incidenti abbiamo avviato una revisione del nostro già ridotto supporto alla coalizione a guida saudita. La cooperazione Usa con l’Arabia Saudita non è un assegno in bianco". Ma sul terreno la strategica alleanza con i sauditi non è in discussione. Dietro sta l’intera strategia mediorientale, il conflitto in Siria e la cosiddetta guerra dei droni contro al Qaeda nella Penisola Arabica che da anni Washington combatte in Yemen dipingendola come modello della lotta al terrorismo. La realtà è diversa: l’intervento dell’Arabia Saudita ha permesso la repentina crescita dei qaedisti che oggi controllano intere città nelle province orientali. Venezuela: detenuti lasciati morire di fame nel carcere di San Juan de los Morros di Marta Proietti Il Giornale, 11 ottobre 2016 Un carcerato è riuscito a girare un video e a diffonderlo: "Tutti devono sapere cosa sta succedendo qui". Detenuti lasciati morire di fame e malattie nel carcere di San Juan de los Morros, nella regione Guarico, in Venezuela. Un video, girato all’interno della prigione, mostra le condizioni critiche dei carcerati. La mancanza di cibo e di cure mediche li sta consumando giorno dopo giorno. Sono gli stessi prigionieri a mostrare il loro stato di salute. Come riporta il Mirror, il filmato è stato girato da Franklin Paul Hernandez Quezad. Uno degli uomini dice alla telecamera: "Guardatemi, guardate in che stato ci troviamo, abbiamo bisogno di medicine per sopravvivere". Un altro detenuto seduto su una sorta di sedia a rotelle chiede aiuto: "Siamo tutti esseri umani e abbiamo bisogno di una seconda possibilità". E un terzo ribadisce: "Per favore, non lasciateci morire qui, aiutateci. Noi non vogliamo morire". La persona che fa le riprese dice: "I mezzi di comunicazione hanno bisogno di sapere cosa sta accadendo qui". Il video ha provocato indignazione tra i parenti dei detenuti che hanno chiesto alle autorità di intervenire.