La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia aderisce alla Giornata contro l’ergastolo Ristretti Orizzonti, 10 ottobre 2016 La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia aderisce alla Giornata "Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita", promossa dalla redazione di Ristretti Orizzonti, che si svolgerà il 20 gennaio 2017 nella Casa di reclusione di Padova. Una Giornata di dialogo con ergastolani, detenuti con lunghe pene, e con i loro figli, mogli, genitori, fratelli, sorelle a cui il Volontariato tutto, con la sua presenza attenta e sensibile negli Istituti di pena e poi sul territorio, a contatto con tanti famigliari delle persone detenute, può dare un apporto fondamentale, così come quell’apporto intende darlo anche alla battaglia per l’abolizione dell’ergastolo, che richiede un grande lavoro di sensibilizzazione della società e il coraggio di non nascondersi più dietro la formula: "i tempi non sono maturi". La Conferenza darà anche il suo contributo alla creazione dell’Osservatorio su pene lunghe, ergastolo, circuiti di Alta Sicurezza, 41bis, tutti temi sui quali tante associazioni lavorano con impegno da anni. Giustizia e politica, ora va tracciato un nuovo confine di Cesare Mirabelli Il Messaggero, 10 ottobre 2016 C’è da riflettere, quando iniziative penali promosse dalle Procure hanno un avvio clamoroso. Quando queste iniziative determinano effetti irreversibili nelle istituzioni o nelle attività economiche e nella vita sociale, ma si concludono con assoluzioni che ne mostrano la vistosa infondatezza. Ci si può rallegrare che ci sia un giudice imparziale e che il processo consenta di valutare la effettiva consistenza dell’accusa e di assolvere chi è innocente. Ma c’è anche da chiedersi se il processo ingiustamente subito non sia già una pena, e se la persona, oltre a sopportare i costi della difesa in giudizio, non rimanga ferita, anche nella vita di relazione, da un’accusa resa pubblica e che si riveli infondata. Alle conseguenze personali che subisce chi è sottoposto al processo, se ne aggiungono altre, più vistose e rilevanti per il corretto funzionamento delle istituzioni, quando l’iniziativa penale delle Procure è resa pubblica ed è naturalmente amplificata dai mezzi di comunicazione. Gli effetti sono irreversibili, se l’iniziativa penale determina o suscita le dimissioni dalla carica, mentre successivamente l’assoluzione escluderà l’esistenza di un reato. Così si finisce con incidere sulla rappresentanza elettiva e in definitiva sul funzionamento della democrazia. Si potrebbe dire che questo è un effetto indiretto e non voluto dell’azione penale, e che semmai a dover operare sono i casi di sospensione dalla carica in attesa del giudizio, previsti dalla legge Severino. Tuttavia è innegabile l’effetto politico di una iniziativa penale, sia pure destinata a fallire. E questo apre all’uso della scorciatoia giudiziaria nella lotta politica, tanto più se basta una denuncia, un rapporto della polizia giudiziaria o una campagna di stampa, per portare inevitabilmente al processo senza il filtro di un preventivo approfondimento critico che consenta la sollecita valutazione della fondatezza o meno della notizia di reato. Entra in gioco il ruolo delle Procure nel valutare le accuse prima di promuovere l’azione penale, richiamata dal vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, e la prudenza che deve caratterizzare l’attività del pubblico ministero, se la sua azione deve essere efficace e condurre non solamente a celebrare processi bensì a ottenere condanne. È facile prevedere una obiezione: la costituzione prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. È vero: l’articolo 112 prescrive incisivamente che "il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale". Ma questo non rappresenta un paravento costituzionale per promuovere sempre e comunque, con atteggiamento accusatorio, un processo. Nel senso voluto dall’assemblea costituente significa che il pubblico ministero, contrariamente a quanto avveniva nel precedente ordinamento, non può archiviare gli atti senza chiedere la verifica del giudice, ad evitare il rischio di una sua omissione strumentale. E la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, quando la notizia di reato si rivela scarsamente consistente, non è una manifestazione di debolezza o di incuria nelle indagini, bensì di professionalità e senso di giustizia. Non significa, quindi, lasciar correre e non perseguire i reati, ma rendere efficace la persecuzione dei reati, evitando di disperdere risorse in azioni destinate a non portare ad alcuna condanna penale. È anche vero che occorre fare attenzione alla formula della assoluzione. Se il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, l’abbaglio del pubblico ministero riguarda lo stesso fatto materiale oggetto dell’accusa. Se il fatto non costituisce reato, l’errore è nella sua qualificazione come penalmente perseguibile, mentre può essere un fatto per il quale vi può essere una responsabilità amministrativa o politica. Ma in questo caso la supplenza della giurisdizione penale, che agisce per l’inerzia di altre istituzioni, manifesterebbe una distorsione nello svolgimento della diverse competenze. Ciò non significa che vi siano altre situazioni, nelle quali non è in gioco la rappresentanza elettiva, ma la nomina a funzioni pubbliche politico-amministrative, come nel caso dell’assessore Muraro. L’esistenza di quello che in altri tempi si sarebbe chiamato un "carico pendente", un procedimento penale in corso, tanto più se per reati che arrecano danno alla stessa amministrazione, può sconsigliare se non addirittura precludere la assunzione o il mantenimento della carica per la quale non vi è stata una investitura popolare. Sullo sfondo rimangono i tempi lunghi della giustizia. La ragionevole durata dei processi, che pure la costituzione prevede e che va valutata tenendo anche conto degli interessi istituzionali in gioco, imporrebbe un rapido accertamento della esistenza o meno di responsabilità penali quando le attese, e le incertezze che ne derivano, determinano effetti così negativi. "Legittimo criticare anche i magistrati, ma non scordiamo i politici condannati" di Liana Milella La Repubblica, 10 ottobre 2016 Intervista a Edmondo Bruti Liberati: "Più attenti tutti alla presunzione di innocenza, ma guardiamo quanti processi in questi anni si sono chiusi con le condanne". Dopo le parole di Legnini ecco, in replica, quelle dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. Dice Legnini: i pm dovrebbero essere più accurati nell’indagare a difesa dell’imputato anche quando di mezzo ci sono i politici. Lei vede trascuratezza? "La rigorosa valutazione degli elementi pro e contro le ipotesi di accusa è dovere fondamentale del pm. Facile a dirsi, ma nel concreto questa è la grande difficoltà e responsabilità del pm. Di recente il presidente Mattarella ha rivolto a tutti i magistrati questo fondamentale monito: "Umiltà, come costante attenzione alle conseguenze del proprio agire professionale, apertura al dubbio sui propri convincimenti e disponibilità a confrontarsi con le critiche legittime ai modi con cui si amministra giustizia". È proprio certo che la magistratura, nell’ansia di fare indagini sulla corruzione, non sia passata sopra questo principio? "Non entro, ovviamente, nei casi specifici, ma ricordo che alla magistratura, e in particolare al pm, nella fase iniziale delle indagini si richiede il difficile compito si distinguere tra fatti di corruzione e di abusi, che costituiscono reati da perseguire con il massimo rigore, e fatti di malcostume, la cui sanzione spetta alla stessa politica e, ancor prima, alla società civile". Fatto sta che molte indagini sulla politica finiscono con assoluzioni. "Credo si debba distinguere. Vi sono state indagini su fatti specifici, come quella che ha riguardato il sindaco Marino, in cui si è sviluppata la fisiologica dialettica tra pm e giudicante. L’insegnamento che se ne deve trarre è quello di una maggiore attenzione da parte di tutti alla presunzione d’innocenza. Ma non dimentichiamo le moltissimi indagini su gravi fatti di corruzione nella politica che si sono concluse e si concludono con sentenze di condanna definitive. Un punto è fondamentale in generale, ma in queste indagini in particolare: la celerità con cui le procure riescono a concludere le indagini e a portare i risultati alla valutazione del giudice. Dotare di maggiori mezzi e personale la giustizia è un dovere di civiltà giuridica, ma questo, mi rendo conto, è un altro discorso…". Che dire delle tante Rimborsopoli? Sicuro che in alcuni casi, come per le mutande verdi di Cota, non ci si sia accaniti sui politici? "Su fenomeni generali come la cosiddetta Rimborsopoli nei gruppi politici regionali alcune procure hanno ravvisato reati, altre no, e finora tutti i giudici che si sono pronunciati non hanno accolto le ipotesi di accusa. La valutazione su quel meccanismo di rimborsi resta rimessa alla politica, ma forse una regolamentazione più precisa (ad esempio sulla biancheria intima cromaticamente connotata...), sarebbe nell’interesse stesso di rappresentanti politici che usano finanziamenti pubblici". Legnini accusa la stampa, colpevole di provocare il circuito per cui, al primo avviso di garanzia, il politico è considerato colpevole. "Il ruolo della libera stampa e del giornalismo d’inchiesta è fondamentale in una democrazia. Non direi poi che la stampa è per principio colpevolista nei confronti dei politici. Oggi vedo un clima più rispettoso ma non sono dello scorso millennio le vergognose campagne contro magistrati che avevano il solo torto di fare indagini scomode sui potenti. Ma anche la stampa dovrebbe dare il suo contributo nel distinguere responsabilità penale e responsabilità politica. Nelle democrazie mature la sanzione dell’opinione pubblica per fatti che non hanno rilievo penale può essere molto forte: pensiamo a quanto accade oggi negli Usa al candidato Trump". All’opposto non è che la politica fa quadrato e si auto assolve? "Non sta alla magistratura dettare ricette alla politica, ma è certo che molte tensioni tra magistratura e politica verrebbero meno se il meccanismo della responsabilità politica operasse adeguatamente". Non sono indicativi i comportamenti dei parlamentari che nelle giunte per le autorizzazioni di Camera e Senato fanno di tutto per conquistare uno scudo? "Credo che, con la sola doverosa eccezione dell’autorizzazione per l’arresto, ogni forma di immunità e di preventive autorizzazioni non giovi a un corretto rapporto tra magistratura e politica". "Il Csm faccia mea culpa, non accusi i pm" di Conchita Sannino La Repubblica, 10 ottobre 2016 Intervista a Luigi De Magistris. Lui che fu pm d’assalto e fustigatore di politici, non cambia linea ora che fa il sindaco. "Ho rispetto del vicepresidente Legnini, ma non condivido il suo ragionamento. Il problema non sono i pm. E la politica dovrebbe assumersi l’onere delle sue scelte, al di là delle assoluzioni". De Magistris, perché Legnini sbaglia? "Io dico che invitare, da parte sua, a un "giudizio prognostico più rigoroso" può far passare il messaggio che se tutto si è concluso con un proscioglimento significa che c’è stata una pubblica accusa inadeguata o strumentale. Ci saranno pure magistrati che sbagliano, come medici avvocati o giornalisti. Ma se davvero sta a cuore il buon funzionamento della giustizia, forse l’organo di autogoverno potrebbe toccare anche livelli meno usurati e un po’ più scomodi". Lei si riferisce alla questione morale? "Quale organo, se non il Csm, dovrebbe sentire questo rovello? Affrontiamo il tema del Csm, delle correnti interne e della questione morale all’interno della magistratura". Qui c’è rumore di sassi che volano. Lei fu, caso unico, sollevato dalle funzioni di pm. "La mia storia rappresenta una delle pagine più vergognose del Csm. Per questo, potrei non essere tenero con la categoria, invece continuo a pensare che chi sostiene l’accusa debba fare il suo mestiere fino in fondo. Ma nel mio caso, si puntò alla distruzione di un pm che, non protetto da correnti, aveva deciso di rimanere in Calabria e di contrastare fenomeni corruttivi che intrecciavano affari, massonerie, forze dell’ordine, con interessi che arrivavano fin dentro la magistratura. Il procuratore de Raho, a Reggio, ha mostrato questi fili". Lei davvero rifarebbe tutto? "Per un attimo sperai di aver commesso qualcosa di grave: avrebbe giustificato la mia sofferenza. Non era così". Ora è dall’altro lato: la selezione di classe dirigente continua a essere regolata da inchieste più o meno solide. "C’è un atteggiamento schizofrenico. Il formalismo giudiziario viene usato a sua volta dai Palazzi: cosa che fanno spesso i grillini e che ora gli si sta ritorcendo contro. Non è che se uno riceve un avviso di garanzia è necessariamente da espellere. Così come la politica dovrebbe avere griglie ben più alte di un’assoluzione: si può uscire indenni da un processo ma non essere pulito". La politica non è di fatto sottomessa alle iniziative giudiziarie? "Il problema c’è. L’Italia diventerà democraticamente più forte quando entrambi i campi rafforzeranno la propria autonomia: la magistratura liberandosi anche dei lacci interni, la politica riguadagnando credibilità". "I giudici non sono imparziali". Cade l’organo d’appello dei medici di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 10 ottobre 2016 La Consulta: due membri dipendono dal ministero che li ha nominati. La microstoria di un dentista libanese cambia un pezzo di vita lavorativa di 350 mila medici e odontoiatri, 400 mila infermieri, 80 mila farmacisti, 35 mila tecnici di radiologia, 30 mila veterinari e 18 mila ostetrici italiani, perché innesca una sentenza della Corte costituzionale che rivoluziona la giustizia disciplinare e amministrativa dei camici bianchi, sancendo che il loro "giudice" speciale, per come è composto dal 1946, non è indipendente e imparziale in quanto due dei suoi membri, essendo designati dal ministero della Salute, sono di fatto la controparte del sanitario giudicato. La Consulta, con la sentenza 215 del 7 ottobre redatta dal giudice costituzionale Augusto Barbera, cancella infatti - come incompatibile con l’equo processo - quello che sino a ieri era il "giudice" d’appello dei camici bianchi rispetto alle decisioni degli Ordini territoriali dei Medici in materia di sanzioni disciplinari e di tenuta degli Albi, e cioè la "Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie". In Corte costituzionale si era approdati perché il 15 gennaio 2015 la II sezione civile della Cassazione - ribaltando un precedente orientamento e valorizzando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo - aveva ritenuto di sottoporre alla Consulta la questione posta da un dentista libanese (patrocinato dal professor Bruno Nascimbene), che l’Ordine provinciale dei Medici di Milano aveva rifiutato di iscrivere all’Albo a motivo del mancato riconoscimento della trasponibilità della sua laurea in Siria. A mettere in dubbio indipendenza e imparzialità della Commissione, osserva ora la Corte costituzionale, è che i due membri designati dal ministero della Salute (un dirigente amministrativo e uno di seconda fascia) continuino, durante lo svolgimento delle loro funzioni giurisdizionali, a rimanere incardinati come status economico e giuridico presso il ministero, che è controparte del camice bianco da essi giudicato nel processo. Addirittura i due restano soggetti disciplinarmente all’autorità governativa che li designa nella Commissione, sicché possono esserne teoricamente rimossi, e dunque non godono (loro) e non assicurano (a chi giudicano) la garanzia di essere giudici inamovibili. Inoltre l’assenza di criteri sulle competenze per selezionarli, e il fatto che la conferma o meno del mandato dipenda dall’autorità governativa, producono una eccessiva discrezionalità. E ora che succede? Non è facile prevederlo. Intanto c’è da capire la sorte di tutti i procedimenti pendenti che, sinora congelati in attesa della Consulta, non potranno certo riprendere davanti a una Commissione la cui composizione è stata dichiarata incostituzionale. Poi forse occorrerà un intervento urgente del governo per uscire dall’impasse e ridisegnare l’assetto generale. Compito che in realtà sarebbe dovuto essere già realizzato dal legislatore, come rimarca la sentenza della Corte costituzionale su due occasioni perse: nel 2010, quando una legge delega sul riordino degli enti avrebbe dovuto riguardare anche la Commissione, e nel 2012, quando uno dei tanti "decreti-sviluppo" del Paese escluse la Commissione da quel riordino. Senza dimenticare che, come segnala ancora la Consulta, in base ai medesimi princìpi la stessa sorte demolitoria da adesso pende, anche nelle altre categorie professionali, su tutti quegli analoghi organi di giurisdizione speciale che ancora abbiano composizioni viziate nella indipendenza e imparzialità di quote di loro componenti. Marijuana a chilometro zero. Il nuovo business dei clan è "made in Italy" di Gabriele Martini La Stampa, 10 ottobre 2016 Nel 2016 i sequestri di piante sono triplicati rispetto all’anno scorso. Le cosche fanno crescere le piante sul territorio che controllano. L’oro verde dei clan cresce tra le masserie diroccate dell’entroterra palermitano, sulle pendici dell’Aspromonte, nascosto tra i campi di pomodori del Foggiano e sulle colline a sud di Napoli. La produzione di cannabis è diventata un business milionario per i narcos italiani. Nel 2016 i sequestri di piante sono più che triplicati rispetto allo scorso anno. Nell’intero 2015 gli arbusti di marijuana scoperti dalle forze di polizia sono stati 139mila, nei primi 9 mesi di quest’anno siamo a quota 405mila con un picco a settembre. Secondo i dati della Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’Interno, la provincia che detiene il primato è Trapani: oltre 26mila piante sequestrate da gennaio ad agosto. Seguono Napoli, Siracusa, Reggio Calabria e Catanzaro. Le coltivazioni sorgono in aree remote. La beffa per lo Stato è doppia: spesso l’erba delle mafie cresce sui terreni demaniali e a spese della collettività. "È così - rivelano i finanzieri -. I criminali disboscano aree per renderle coltivabili e, a volte, si allacciano abusivamente al servizio idrico pubblico". Il ciclo produttivo - La semina è a inizio aprile. Dopo due mesi le infiorescenze cariche di Thc (il principio attivo della cannabis) sono pronte per il primo raccolto. Servono una ventina di giorni per essiccare la marijuana, poi il prodotto è pronto per lo spaccio. Da ogni pianta si può ricavare mezzo chilo di droga. Il prezzo finale per il consumatore varia tra i cinque e i dieci euro al grammo. Solo il valore delle piantagioni sequestrate quest’anno si aggira sul miliardo di euro. Ma per ogni campo di marijuana scoperto dalle forze dell’ordine, almeno altri dieci sfuggono ai controlli. La Direzione Nazionale Antimafia, nell’ultima relazione annuale al Parlamento, stima che il quantitativo sequestrato di cannabis sia di almeno 10/20 volte inferiore a quello consumato. L’inchiesta "Monte Reale", conclusa martedì scorso con 16 persone arrestate nel Palermitano, ha svelato come i boss di San Giuseppe Jato avessero investito nella marijuana per sopperire alla crisi di liquidità. "La piantiamo sotto le prugne", assicuravano gli agronomi di Cosa nostra intercettati al telefono. Al Sud, in questa stagione, si va avanti al ritmo di quasi un blitz al giorno. Sicilia, Calabria, Sardegna e Puglia: il 29 settembre i carabinieri scoprivano centinaia di piante di cannabis tra i vigneti a Cerignola. Poca cosa rispetto alle 180mila sequestrate tre giorni prima nelle campagne foggiane, dove i narcos locali avevano destinato sei ettari alla coltivazione di cannabis. Una guerra hi-tech - Domenico Tavone, tenente colonnello della Finanza, comanda il Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia, che va a caccia di piantagioni di cannabis in territorio calabrese. "Per scovare la marijuana monitoriamo il contesto, individuiamo le aree a rischio, mappiamo il territorio. Ma l’attività più importante è l’esplorazione dal cielo". Già, perché nella "Colombia italiana" la guerra ai signori della droga si combatte con strumenti ad alta tecnologia. "Il telerilevamento aereo registra le radiazioni elettromagnetiche del terreno e ci permette di individuare le piantagioni anche se sono protette da arbusti più alti", spiega Tavone. L’Albania - Dietro il boom della marijuana autoprodotta dalla criminalità organizzata c’è anche l’intensificarsi della lotta alla droga da parte delle autorità albanesi. Tirana ha chiesto aiuto al governo italiano, che ha messo a disposizione conoscenze e mezzi. Anche le rotte dei gommoni che attraversano l’Adriatico sono diventate meno sicure. Così, accanto all’importazione, le mafie hanno deciso di mettersi in proprio. ‘ndrangheta, camorra, Cosa Nostra, criminalità organizzata pugliese, bande sarde. Nel grande business della cannabis a chilometro zero ognuno vuole la sua fetta di torta. Per i cyberbulli minorenni pagano scuole e famiglie di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2016 A prescindere dall’esito del disegno di legge in esame al Senato (atto Senato 1261-b), è soprattutto sul fronte civile che si combatte la battaglia contro il cosiddetto cyberbullismo. Infatti in molti casi le vittime - spesso minorenni - e le loro famiglie, quando gli autori degli atti vessatori sono facilmente identificabili, preferiscono battere la strada dei risarcimenti in sede civile, piuttosto che affrontare le incognite di un processo penale. E i giudici stanno rafforzando le tutele, chiamando a rispondere dei danni le scuole e i genitori. I limiti del penale - Con il termine cyberbullismo si intendono gli atti reiterati e vessatori commessi, spesso da minorenni contro altri minorenni, attraverso internet, in grado di ingenerare nella vittima un forte disagio e nei casi più gravi anche gesti di autolesionismo. In genere, la condotta si manifesta con la diffusione in rete di video e post offensivi, che si diffondono in modo "virale", come si dice in gergo. Oggi il cyberbullismo, in sé, non è reato. La legge colpisce le singole condotte che di volta in volta integrano il reato di diffamazione aggravata (articolo 595, comma 3, codice penale), trattamento illecito dei dati personali (articolo 167, Dlgs 196/2003), violenza privata (articolo 610 codice penale) o lesioni (articoli 581 e 582 codice penale), percosse, fino al reato di stalking (articolo 612-bis codice penale). Ma ci sono casi in cui gli atti commessi dai "cyberbulli" - per quanto gravi, tanto da provocare anche atti di autolesionismo o isolamento totale - non integrano una fattispecie di reato. A volte identificare i cyberbulli è complesso: l’autore può cambiare in continuazione indirizzo Ip, tornando online subito dopo l’oscuramento tramite il sequestro preventivo. Può collegarsi tramite reti Tor o proxy prima di arrivare al gestore italiano, usando un Ip riconducibile a un dominio estero, in modo da essere difficilmente identificabile. Inoltre, per alcuni reati, come la diffamazione online, sono gli stessi internet service provider a non collaborare: la diffamazione in America non è reato, ma un illecito civile, e non esiste la condizione di reciprocità alla base dell’assistenza giudiziaria tra Procure. In tutti questi casi, la strada del processo penale è sbarrata. C’è infine una questione economica: un processo penale contro un minorenne non permette di ottenere subito il risarcimento del danno. La liquidazione a carico dei genitori, se solvibili, avverrà comunque in un separato giudizio civile. Il fronte civile - Spesso le vittime scelgono di seguire da subito la strada del processo civile, cercando di ottenere in questo modo una affermazione di responsabilità, non solo nei confronti dei genitori, ma anche delle scuole coinvolte. La strada anche in questo caso non è semplice, ma i giudici negli ultimi anni sono diventati più severi nel riconoscere le responsabilità degli insegnanti. La Cassazione ha inaugurato una definizione ampia per gli "autori degli atti": tutti coloro che hanno preso parte all’episodio di bullismo o cyberbullismo, a prescindere dal ruolo svolto, hanno una responsabilità solidale (sentenza 20192 del 25 settembre 2014). La scuola risponde a titolo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Per non pagare, gli insegnanti e i dirigenti devono dimostrare di aver svolto con diligenza gli obblighi di vigilanza e sorveglianza. Ma qual è l’impegno minimo chiesto alla scuola? Occorre vigilare sugli studenti e dimostrare di essersi attivati dalle prime segnalazioni di episodi di bullismo. Per alcuni giudici, la vigilanza degli insegnanti deve essere costante durante la ricreazione, i cambi di classe e gli spostamenti sul bus. Le censure dei tribunali quasi mai investono gli aspetti educativi del fenomeno, rimessi in larga parte ai genitori. Ma gli insegnanti devono attivarsi, impedendo ad esempio la registrazione di filmati in orario scolastico o avvisando il dirigente in caso di segnalazioni dei genitori. I genitori invece rispondono per gli episodi commessi dai figli minori a titolo di culpa in educando (articolo 2048 del codice civile). Sono esonerati da responsabilità solo se dimostrano di non aver potuto impedire il fatto. Ma nei casi più gravi per i giudici l’inadeguatezza dell’educazione impartita ai figli emerge dagli stessi episodi di bullismo, che per le loro modalità esecutive dimostrano maturità ed educazione carenti. Il tribunale di Alessandria (sentenza 439 del 16 maggio 2016), nel caso di un filmato girato da un gruppo di studenti e poi diffuso in rete, ha riconosciuto la responsabilità anche dei genitori del minore che non ha effettuato materialmente il video, ma che non si è dissociato dall’azione. Cyberbullismo. Le pronunce dei giudici di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2016 Sono sempre più spesso le scuole e le famiglie dei cyberbulli minorenni a pagare per i loro atti vessatori. Ecco le principali sentenze dei giudici che definiscono il raggio delle responsabilità. La vigilanza "esigibile" a scuola - Nei casi di bullismo durante l’orario scolastico, l’istituto per escludere la propria responsabilità contrattuale deve dimostrare di aver adempiuto ai propri doveri di educazione e vigilanza alla luce del parametro della diligenza esigibile, che si concretizza ad esempio attraverso la supervisione dei ragazzi durante la ricreazione, sul bus (prevedendo la figura del "bus manager") e durante gli spostamenti da una classe all’altra. È esclusa invece la responsabilità in base all’articolo 2048 del Codice civile in quanto la tragica decisione di una allieva di 13 anni di togliersi la vita in conseguenza del linguaggio volgare e canzonatorio di un compagno di scuola non è un fatto prevedibile. Tribunale di Milano, sentenza 5654 del 5 maggio 2016. L’educazione inadeguata dei genitori - Rispondono i genitori in base all’articolo 2048 del Codice civile per la condotta dei figli che durante una gita scolastica legano, imbavagliano e costringono un compagno di classe a bestemmiare, filmando e diffondendo tale condotta. L’inadeguatezza dell’educazione impartita al minore, in assenza di prova contraria, si evince dalle modalità del fatto, essendo emerso in modo chiaro un grado di maturità ed educazione carente, conseguente al mancato adempimento dei doveri imposti ai genitori dall’articolo 147 del Codice civile. La condotta di chi divulga il video è equiparata a chi è presente e non si dissocia evitando la diffusione del filmato. Tribunale di Alessandria, sentenza 439 del 16 maggio 2016. In giudizio il Governo - Del danno patito da un allievo per difetto di vigilanza durante l’orario scolastico risponde, in base all’articolo 28 della Costituzione a ll’articolo 2049 del Codice civile, il ministero dell’Istruzione. Infatti, anche se l’attribuzione agli istituti scolastici e ai circoli didattici di personalità giuridica (decisa dal Dpr 275/99) ha conferito loro autonomia gestionale e amministrativa, non li ha privati della qualità di organi dello Stato. Devono quindi riferirsi al ministero gli atti posti in essere dal personale e legittimato passivo è il ministero e non l’Istituto. Inoltre, non basta l’attribuzione di soprannomi ironici per dar luogo a episodi di bullismo, la responsabilità deve essere provata. Tribunale di Caltanissetta, sentenza 458 del 15 luglio 2015. Il "disagio di convivenza" in classe - Il minore ha diritto a rinvenire un clima armonioso all’interno della scuola, che deve essere garantito da insegnanti e dirigenti scolastici, in modo che siano scongiurati episodi di bullismo. I giudici indicano la strada anche per la dimostrazione del danno subito da parte della vittima. Oltre ai testimoni, è importante il ruolo dei consulenti tecnici, di parte e d’ufficio, in grado di dimostrare il disagio subito, che può dar luogo anche a un risarcimento a titolo di danno morale liquidato in via equitativa, rappresentato dal disagio di convivenza nell’habitat formativo scolastico. Tribunale di Napoli, sentenza 11630 del 13 settembre 2015. Non rispondono i genitori dello "spettatore" - Non rispondono in base all’articolo 2048 del Codice civile i genitori del minore che nella condotta di bullismo abbia evidenziato un ruolo scarsamente attivo, quasi succube della prepotenza dei capi del gruppo, trattandosi se non di un mero spettatore, certamente non di un teppista per convinzione, che si inserisce nel gruppo per sentirsi e mettersi all’altezza di chi fa più paura. Il minimale apporto consapevole del minore al fatto illecito suggerisce infatti che i genitori non siano venuti meno ad alcun dovere genitoriale. La partecipazione, seppur defilata, è invece sufficiente per far scattare la responsabilità del minore. Tribunale di Pisa, sentenza 391 del 15 marzo 2016. Responsabilità solidale degli autori - A fronte di un episodio illecito di bullismo (che include insulti reiterati, scritte oscene o di minaccia sui muri di casa, isolamento in ambiente scolastico e altro) che abbia prodotto un danno nei confronti di uno studente, tutti quelli che vi hanno preso parte, sia che abbiano avuto all’interno dell’episodio un ruolo di primo piano o soltanto un ruolo secondario, sono solidalmente responsabili. Il danneggiato può rivolgersi alternativamente verso più persone per chiedere il risarcimento dell’intero danno subito, non essendo egli onerato di dover provare la misura delle rispettive responsabilità. Corte di cassazione, sentenza 20192 del 25 settembre 2014. Cyberbullismo. Al Garante della privacy il potere di cancellare i post lesivi entro 24 ore di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2016 Potrebbe presto essere legge il Ddl per contrastare e prevenire il bullismo e il cyberbullismo: già approvato dal Senato e dalla Camera, il testo è ora a Palazzo Madama in attesa di iniziare la terza lettura. Il Ddl ha l’intento di rafforzare le funzioni del Garante per la privacy, investito del compito di oscurare entro 24 ore dal momento in cui riceve l’istanza i contenuti pubblicati nel web, come video e fotografie, ritenuti illeciti. L’intervento in realtà è articolato in due fasi. In prima battuta l’interessato dovrà contattare direttamente il social network, il gestore di messaggeria istantanea (ad esempio WhatsApp) o il sito internet. Soltanto in caso di mancata rimozione, sarà chiamato a provvedere tempestivamente il Garante. La tutela, originariamente prevista soltanto per i minorenni, nell’ultima versione licenziata dalla Camera è stata estesa anche ai maggiorenni, sollevando non poche reazioni contrarie. La riforma, encomiabile negli obiettivi, rischia infatti di diventare l’ennesima presa di posizione su un problema che richiede, invece, soluzioni pratiche. Questo perché è difficile immaginare che il Garante della privacy possa intervenire operativamente in tutti i casi segnalati, anche dagli adulti. Il termine di 24 ore sembra essere soltanto indicativo e destinato a non reggere ai primi test pratici. Le nuove norme rafforzano anche il ruolo dei social network e dei gestori dei siti in generale,che dovrebbero dotarsi di specifiche procedure per ricevere le istanze da parte degli utenti. L’estensione del meccanismo anche ai maggiorenni rischia di portare a ripetere quel che è accaduto in tema di diritto all’oblio. A distanza di oltre due anni dalla sentenza della Corte di giustizia europea che ha sancito il diritto degli utenti a essere dimenticati dalla rete (pronuncia del 13 maggio 2014 nella causa C-131/12), i provider si sono dimostrati scarsamente collaborativi, rimettendo di fatto la rimozione dei contenuti all’iniziativa privata (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 gennaio scorso). Le nuove norme introducono inoltre una definizione di cyberbullismo, punito con la reclusione fino a sei anni, prevedendo un’estensione del reato di stalking che assorbirebbe anche le fattispecie di sostituzione di persona e trattamento illecito dei dati personali. Il Ddl merita di essere sottolineato per almeno tre buone ragioni. In primo luogo introduce la figura del referente scolastico, che dovrà essere scelto in ogni istituto tra i docenti e che avrà il compito di organizzare iniziative di prevenzione e contrasto al bullismo e al cyberbullismo. Inoltre, sono previsti stanziamenti per finanziare progetti e azioni per contrastare il fenomeno. Infine, le nuove norme prevedono anche l’elaborazione di piani programmatici con i servizi sociali territoriali volti a sostenere i minori vittime di bullismo nonché a rieducare gli autori dei fatti illeciti. Tutte strategie che si muovono nella direzione della prevenzione e presuppongono una formazione specifica sui temi della privacy e del diritto dell’informatica. La questione che resta centrale sarà quella dell’attuazione della riforma, che è soprattutto un problema di mezzi e di personale adeguatamente formato. Professione rumorosa: scatta l’illecito penale se il rumore è "intollerabile" di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 24 agosto 2016 n. 35422. a Cassazione con la sentenza n. 35422 del 24 agosto 2016 chiarisce che sul tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: a) l’illecito amministrativo di cui all’articolo 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995 n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; b) il reato di cui al comma 1 dell’articolo 659 del Cp, qualora il mestiere o l’attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; c) il reato di cui al comma 2 dell’articolo 659 del Cp, qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni dell’ autorità che regolano l’esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995. I rumori provocati nell’esercizio di una professione rumorosa - Il tema affrontato riguarda la disciplina applicabile ai rumori provocati nell’esercizio di una professione o di un mestiere rumoroso, laddove non è sempre immediatamente chiaro se il fatto debba intendersi depenalizzato, in ragione dell’applicazione del solo illecito sanzionato amministrativamente previsto dall’articolo 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995 n. 447, ovvero se debbano trovare applicazione le ipotesi penalmente rilevanti di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 659 del Cp. La Corte ribadisce l’orientamento prevalente in forza del quale, con riferimento ad attività o mestieri rumorosi: qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei valori limite di emissione di rumori fissati in base ai criteri delineati dalla legge quadro sull’inquinamento acustico 26 ottobre 1995 n. 447 (articolo 3, comma 1, lettera a): detti limiti devono essere fissati ai sensi della legge 8 luglio 1986 n. 349, e successive modificazioni, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro della salute e sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano) è configurabile solo l’illecito amministrativo previsto dall’articolo 10 della legge n. 447 del 1995; deve applicarsi, invece, l’illecito di cui all’articolo 659, comma 2, del Cp nel caso in cui la condotta rumorosa si sia concretata nel superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti ovvero nella violazione di altre disposizioni di legge o prescrizione dell’autorità che regolano l’esercizio dell’attività e del mestiere; è configurabile, infine, l’illecito di cui all’articolo 659, comma 1, del Cpnel caso in cui l’attività e il mestiere producano rumori eccedenti la normale tollerabilità e idonei a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale i rumori siano prodotti, quindi anche nel caso in cui l’abuso si concretizzi in un uso smodato dei mezzi tipici di esercizio dell’attività o del mestiere rumoroso (tra le tante, di recente, sezione III, 21 gennaio 2015, Giuffrè). Cota e Marino, l’irritante ribalta degli assolti di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 10 ottobre 2016 C’è qualcosa di irritante nella sicumera con cui i politici assolti per gli scontrini tornano alla ribalta. Hanno subìto un danno: questo va riconosciuto. Ma il loro comportamento, se non rappresenta un reato, resta censurabile. Contrordine compagni: verdi non erano le mutande, ma i pantaloni comprati dal "governatore" del Piemonte Cota con i soldi dei piemontesi. E l’ex sindaco Marino, reduce dai successi romani, ora pontifica sulla tv pubblica con la voce chioccia annunciando o minacciando ritorni. C’è qualcosa di irritante nella sicumera con cui i politici assolti per gli scontrini tornano alla ribalta. Hanno subìto un danno: questo va riconosciuto. Ma il loro comportamento, se non rappresenta un reato, resta censurabile. Cota ha fatto shopping in America con denaro pubblico, come ha ammesso anche nella tracotante intervista di sabato scorso alla Stampa. E Marino offriva la cena di santo Stefano al ristorante con la carta di credito del Comune confermando di avere un rapporto complicato con le note spese. C’è di peggio? È vero. E il peggio è che Marino è stato un pessimo sindaco di Roma; altrimenti i romani non avrebbero plebiscitato con oltre il 67% una candidata inesperta come purtroppo si è confermata Virginia Raggi. Così come Cota non è stato un buon presidente del Piemonte. Va ricordato che dovette lasciare il suo posto non per gli scontrini, ma perché la magistratura accertò che la lista Pensionati per Cota, determinante per la sua vittoria, era stata presentata con firme false. Il problema non sono soltanto figure che sarebbero pure marginali, se non fosse per i danni combinati. È che dieci anni di polemiche - non sempre populiste, anzi spesso documentate - contro la casta sono serviti a poco. I politici non hanno capito, o fingono di non capire, che quando si ha il privilegio di assegnarsi da sé il proprio stipendio e di disporre del denaro dei contribuenti occorrono cura, prudenza, pudore; a maggior ragione nel tempo in cui il Paese bruciava un milione di posti di lavoro e il 25% di produzione industriale; e in cui si apprende che il vitalizio di Cesare Previti e di altri condannati in via definitiva tornerà a confortarli non appena avranno la riabilitazione. Salerno: cerca di impiccarsi in cella, grave un detenuto 23enne ottopagine.it, 10 ottobre 2016 Il detenuto è ricoverato in coma al Ruggi di Salerno. Codice rosso al Ruggi per il giovane detenuto giunto al Pronto Soccorso questa mattina in condizioni disperate. Il ragazzo aveva provato ad impiccarsi nella propria cella, con il personale delle guardia carcerarie che, accortosi del tentativo, ha dato subito l’allarme. Soccorso da una unità rianimativa della Croce Bianca alla Casa Circondariale di Fuorni, le condizioni del detenuto sono apparse da subito preoccupanti, con il ragazzo che era già in coma. Incubato e stabilizzato è stato trasferito con urgenza all’ospedale di Salerno del Ruggi, dove è stato ricoverato in rianimazione con le condizioni che sono gravi. Saluzzo (Cn): raccolti 515 euro dai detenuti, sono per i terremotati del centro Italia targatocn.it, 10 ottobre 2016 Il denaro è stato affidato al delegato carceri dell’Interregionale Piemonte e Valle d’Aosta della società San Vincenzo de Paoli. "Spesso la solidarietà mi è stata insegnata proprio dai carcerati che, nonostante tutto, hanno attenzioni particolari verso chi è meno fortunato nella vita". Sono le parole di Giorgio Borge, delegato carceri dell’Interregionale Piemonte e Valle d’Aosta della Società di San Vincenzo dè Paoli, che da 26 anni varca i cancelli dei penitenziari per dedicare un po’ del suo tempo libero ai detenuti. È nelle sue mani che è stata affidata la somma raccolta, che è stata devoluta in favore delle popolazioni terremotate del centro Italia. "In tanti casi - prosegue - mi è capitato di vedere delle persone recluse che si occupano in modo ammirevole di altri detenuti economicamente in difficoltà, che non hanno nulla, magari provenienti dalla libertà e frastornati dall’impatto con il mondo della galera". Sono 80 gli ospiti delle due sezioni di Alta Sorveglianza della carcere di Saluzzo. In molti stanno scontando pene per reati di associazione mafiosa, tra di loro ci sono anche alcuni ergastolani che si trovano ristretti in carcere per reati particolarmente gravi che ostacolano la concessione dei benefici previsti dalla legge, come permessi premio, assegnazione di lavoro all’esterno, o misure alternative alla detenzione. "Queste persone - osserva Borge - non hanno nessuna speranza di reinserimento o di progetto futuro". Tuttavia, proprio da questo ambiente apparentemente così ostile, è partita l’idea di una raccolta fondi da devolvere ai terremotati. Le porte del penitenziario non hanno fermato condivisione, partecipazione e vicinanza. L’eco di quanto accade nel mondo arriva dentro al carcere attraverso la televisione ed i giornali e viene visto e commentato con gli occhi e la testa "di chi vorrebbe in qualche modo essere parte integrante della società, ma è ben consapevole che gli anni di galera da scontare sono un macigno insormontabile e permette loro di farsi apprezzare solo in poche situazioni". La colletta effettuata è forse anche un messaggio per dire alla comunità esterna: "nonostante tutto ci siamo anche noi!". È questo davvero un bel gesto, che merita di essere condiviso perché ci parla del cuore dell’uomo. Il detenuto non necessita soltanto di aiuti materiali, ma anche di attenzione umana, di amicizia, di aiuto a redimersi, a ritrovare se stesso e un giusto ruolo nella società. Per questo gli assistenti volontari penitenziari della San Vincenzo dè Paoli sono attivi in quasi tutte le regioni italiane ed operano in molte carceri, portando ovunque sostegno morale e materiale. Sondrio: scritte sul muro del carcere, l’autore è un ex detenuto La Provincia di Sondrio, 10 ottobre 2016 La Digos ha dato un nome all’autore delle scritte apparse martedì notte in via Mazzini. "Non siete soli, Sondrio brucia", così recitava la scritta in verde lasciata nottetempo da una mano ignota sul muro di cinta della casa circondariale di Sondrio, in via Mazzini. Più che una minaccia al capoluogo, nelle intenzioni dell’autore, quel messaggio vergato in tutta fretta doveva essere una sorta di attestato di solidarietà nei confronti di chi - dietro le sbarre - aveva intrapreso lo sciopero della fame, in segno di protesta per la presunta violazione di alcuni diritti dei detenuti. Per quella scritta è stato denunciato a piede libero un cittadino di 33 anni che risulta disoccupato e senza nemmeno una fissa dimora. L’uomo, avrebbe alle spalle diversi precedenti penali, e proprio per questo, fino ad un mese fa, era ospite della struttura carceraria cittadina. A lui gli agenti della Digos sono arrivati dopo aver visionato ore e ore di filmati delle telecamere di videosorveglianza pubblica e privata posizionate in alcuni punti strategici della città. In pochi giorni - i fatti risalgono alla notte del 4 ottobre - gli agenti sono così riusciti a identificare l’autore del danneggiamento aggravato (questo il reato che gli verrà contestato) ora è denunciato a piede libero all’autorità giudiziaria. Roma: da detenuti a maestri birrai, ecco come nascono "semi di libertà" di Chiara Samorì Corriere della Sera, 10 ottobre 2016 In Italia il 68,5% degli ex detenuti, prima o poi, torna a commettere reati. Una percentuale che scende drasticamente se si è avuta la possibilità di lavorare mentre si scontava la condanna. A dimostrazione, che se si ha la seconda chance di guardare oltre le sbarre, poi difficilmente è sprecata. Una convinzione che, nel 2012 ha spinto Paolo Strano a fondare l’associazione non profit "Semi di Libertà" - insieme ad altre tre persone - per realizzare il progetto "Birra Vale la Pena" grazie al quale nove detenuti del carcere di Rebibbia sono stati formati alla professione di mastro birraio. Una felicità che, però, ben presto ha dovuto fare i conti con la burocrazia. Nel marzo del 2015 il birrificio, installato nell’Istituto Agrario "Sereni" di Roma e concesso in comodato d’uso alla Onlus, è stato sospeso perché l’impianto di depurazione del laboratorio usato per la produzione - dopo alcuni controlli - doveva essere adeguato. Una doccia gelata che però non ha scoraggiato. "Stiamo vivendo un momento di grossa difficoltà - racconta Strano - non possiamo formare altri detenuti e i ricavi, tolte le spese per le materie prime e per affittare i laboratori in cui produrre la birra, sono troppo bassi. Il mio obiettivo però è superiore a tutto e vado con il cuore oltre l’ostacolo". "Nel 2011 per la prima volta sono entrato in un carcere - ricorda Strano - prestavo servizio come fisioterapista insieme agli altri tre soci e il mondo che abbiamo scoperto ci ha scioccato: sovraffollamento, tensioni, dolore. Non potevamo cambiare le cose come dei Don Chisciotte ma la voglia di aiutare era irrefrenabile. L’unica cosa che potevamo fare era evitare che gli scarcerati tornassero in quell’inferno dando loro un’opportunità lavorativa". Da qui l’idea del birrificio. "La birra crea interesse - spiega Strano - era ed è un settore economico in crescita e così avremmo potuto anche trovare risorse economiche". Così, nel 2012, partecipano a un bando e il progetto viene co-finanziato dal ministero dell’Istruzione, che finanzia l’Istituto Agrario "Sereni" per l’acquisto e l’installazione del birrificio, mentre il ministero della Giustizia sovvenziona i corsi di formazione. "Così - racconta - i primi nove detenuti in regime di semi libertà cominciarono i tirocini con agronomi e mastri birrai". L’iniziativa ha coinvolto gli alunni anche in un percorso pedagogico di consumo alcolico responsabile, educazione alla legalità, ai valori dell’accoglienza e dell’inclusione sociale. "In più - precisa Strano - l’etichettatura delle bottiglie era realizzata in team con i ragazzi diversamente abili dell’Istituto". Il progetto vince premi nazionali ed è riconosciuto all’estero per il carattere innovativo. Poi la notizia, un fulmine a ciel sereno, che interrompe quella filiera della birra e della legalità messa in piedi con sacrificio. "Purtroppo sono riuscito ad assumere un solo detenuto - spiega Strano - Patrick è il mio orgoglio e si occupa degli aspetti commerciali del brand, mentre da marzo 2015 il nostro mastro birraio produce la birra nei laboratori che affittiamo; per far fronte ai costi abbiamo escogitato anche un sistema di vendita diretta con le cargo bike". Quando tutto sembrava bloccato arriva la buona notizia: si è appena aperto il cantiere per l’adeguamento. "Il completamento dei lavori è previsto per il 18 dicembre - spiega l’ingegnere Marco Simoncini, dirigente della Città metropolitana di Roma Capitale - e, salvo imprevisti, il nuovo impianto di depurazione sarà pronto dopo le festività natalizie". La voglia di ripartire è tanta. "Mi piacerebbe riaprire prima della ripresa del nuovo anno - ha detto Patrizia Marini, dirigente scolastica dell’Istituto Sereni - perché i ragazzi hanno voglia di continuare il progetto. A fine novembre, insieme al Miur, ci sederemo intorno a un tavolo con la Onlus per riscrivere anche la convenzione che, nel frattempo, è scaduta". Paolo Strano non sta nella pelle e sogna il momento in cui riavvierà l’impianto convinto che "il progetto è nato sotto una buona stella e, ieri come oggi, supererà tutti gli ostacoli". Taranto: Cgil "personale del carcere al collasso" tarantosera.it, 10 ottobre 2016 "Nel carcere di Taranto il personale è al collasso. Vi è il rischio concreto di non poter più garantire i servizi minimi e i diritti dei lavoratori e dei detenuti". L’allarme viene lanciato dalla Cgil. "Facendo seguito all’assemblea del personale comparto ministeri svoltasi presso la casa circondariale di Taranto il 4 ottobre scorso in cui si è evidenziato che le problematiche già evidenziate in passato non solo sono rimaste persistenti e irrisolte, ma al contrario si sono aggravatesi legge in una nota dell’organizzazione sindacale- rileva come alla data odierna il PRAP di Bari si è formalmente preso carico dei problemi, senza però porre in essere atti concreti tali da attenuare le criticità evidenziate. I lavoratori lamentano, ognuno nella sfera della propria specificità lavorativa, la difficoltà di adempiere con puntualità allo svolgimento delle mansioni riconducibili al proprio profilo professionale. In generale, è emerso un clima di generale sconforto e delusione nei confronti di un sistema che anziché considerarli quali risorse da impiegare per il raggiungimento di un obiettivo comune, li considera piuttosto quali unità cui poter affidare sempre ulteriori carichi di lavoro, senza considerare la necessità di garantire servizi efficienti e di qualità. Ciò determina anche una inaccettabile limitazione nel le modalità di fruizione dei diritti dei lavoratori (ferie, permessi) che non possono essere garantiti a causa della elevata scopertura di personale a fronte delle notevolissime incombenze. Nell’ambito dell’area educativa vi è una grave situazione di carenza di personale, destinata ad aggravarsi in considerazione del prossimo pensionamento di un funzionario giuridico pedagogico nel prossimo mese di novembre - aggiunge la Cgil - nello specifico sono previste 8 unità di personale in pianta organica, ma in realtà sono presenti solo 6 unità (di cui una parzialmente distaccata presso altro istituto ed un’altra, come detto, in pensione da novembre) con un operatore amministrativo a sostegno. A ciò va aggiunta la considerazione che tale pianta è stata calibrata per una popolazione di 300 detenuti, a fronte degli attuali 470 presenti all’interno dell’Istituto. Tale semplice considerazione dimostra la estrema difficoltà di svolgere una attività di rilevo costituzionale come quella tesa alla rieducazione del detenuto. Milano: a Bollate un’altra "stella" per "InGalera", il ristorante dentro il carcere di Roberta Rampini Il Giorno, 10 ottobre 2016 Prestigioso riconoscimento per il ristorante aperto il 26 ottobre 2015 nel carcere di Bollate. Prestigioso riconoscimento per il ristorante "InGalera" aperto il 26 ottobre 2015 nel carcere di Bollate. Nei giorni scorsi il ristorante è stato insignito del premio Capitani dell’Anno Milano 2016. Il riconoscimento è stato assegnato dalla Giuria per "l’alto valore sociale dell’iniziativa". Questa la motivazione del prestigioso premio nato a Bologna 21 anni fa da un’idea del giornalista ed editore Fabio Raffaelli: "InGalera è un ristorante ma soprattutto un progetto che ha saputo abbattere il muro di pregiudizi legati alla capacità dei detenuti di sapersi riscattare. Seguiti da uno chef e un maître professionisti, i detenuti imparano o hanno già imparato a lavorare i cibi e sanno sorprendere i clienti con ricette esclusive e ben fatte. Il ristorante nasce per offrire ai carcerati, regolarmente assunti, la possibilità di riappropriarsi o apprendere la cultura del lavoro, un percorso di formazione professionale e responsabilizzazione, mettendoli in rapporto con il mercato, il mondo del lavoro e la società civile". A ritirare il premio, Silvia Polleri, presidente della cooperativa di catering Abc La Sapienza a Tavola, che dal 2004 lavora con i detenuti nel settore della ristorazione e ideatrice del progetto. "Un premio è la concretizzazione della gioia e della convinzione di chi ci ha scelto, è un riconoscimento alla fatica, all’impegno per raggiungere un obiettivo - dichiara la Polleri - simbolicamente io rappresento la tenacia ed il coraggio delle molte persone che insieme, liberi e reclusi, hanno voluto la realizzazione di questo progetto, condivido con tutti questo onore". Si tratta dunque dell’ennesimo riconoscimento per il ristorante sociale che offre un’opportunità concreta di reinserimento sociale ai detenuti e rappresenta una finestra sul carcere per chi sta fuori. Nei mesi scorsi del ristorante ne aveva parlato anche il New York Times con un reportage dell’inviato Jim Yardley che aveva definito Silvia Polleri "visionaria" e riconosciuto che si trattava di "un trionfo vertiginoso". Una scommessa vinta all’interno del carcere all’avanguardia per il trattamento dei detenuti, dove ogni sera è tutto esaurito. Cagliari: giovedì incontro "Prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane senza processo" cagliaripad.it, 10 ottobre 2016 L’associazione Sardegna Palestina organizza l’evento "Prigionieri Palestinesi nelle carceri israeliane senza processo". Tra i relatori Paola Cuccureddu, Amnesty International Ugo Giannangeli, Scuola dei diritti umani di Como. Sono previste delle letture di Monica Zuncheddu. "La detenzione amministrativa - questa l’introduzione all’evento - è una procedura utilizzata dall’esercito israeliano di occupazione per trattenere in carcere a tempo indeterminato i cittadini palestinesi, senza che venga formalizzata un’accusa, senza nessuna indicazione sui capi di imputazione e senza processo. L’esercito israeliano - continua la presentazione - può detenere i palestinesi per un periodo massimo di sei mesi, rinnovabile all’infinito. Attualmente, dei circa 7000 prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, 700 si trovano in regime di detenzione amministrativa". Introduce e coordina l’incontro Francesco Bachis. L’appuntamento è quindi per giovedi 13 ottobre, alle ore 17:30 in Aula Magna, Di.S.S.I. (ex Scienze Politiche), Viale S. Ignazio 78, Cagliari. Genova: "Destini incrociati", lampi di libertà con il progetto di teatro-carcere di Erica Manna La Repubblica, 10 ottobre 2016 È qui, dove prima c’era un deposito, che i confini tra il dentro e il fuori hanno iniziato a saltare: con i detenuti che, accanto agli operai dell’impresa edile, iniziarono a buttare giù il primo muro, quando l’idea di costruire da zero un teatro di legno sembrava una favola folle. Adesso il teatro c’è, è il primo in Europa nato all’interno di una casa circondariale: ed è proprio questo il luogo scelto per fare da perno e collettore delle esperienze in 40 carceri e 14 regioni italiane. Si chiama "Destini incrociati", il progetto nazionale di teatro in carcere che dà il nome alla rassegna che dal 14 al 16 ottobre arriverà al Teatro dell’Arca, a Marassi, organizzato da Teatro Necessario onlus e dal Teatro dell’Ortica, che lavora con le detenute di Pontedecimo. Ma i quaranta eventi in tre giorni tra spettacoli, incontri, proiezioni ed esposizioni dei manufatti realizzati dai detenuti non resteranno confinati: invaderanno tutta la città, da Palazzo Tursi al Museo biblioteca dell’Attore, dal foyer della Corte al Ducale, dal teatro della Tosse al Verdi. Proprio per abbattere i confini, per far vivere questo che "è il teatro della città - sottolinea Maria Milano, direttore della casa circondariale di Marassi - è un contatto con l’esterno, un luogo dove è in atto una rivoluzione culturale per una vera rieducazione". In un continuo dialogo tra dentro e fuori, la rassegna inizia venerdì 14 ottobre alle 10.30 a Palazzo Tursi, con il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore e il professor Michele Miravalle dell’Università di Torino. In scena, intanto, si alterneranno parole e video, spettacoli e proiezioni: ci saranno i briganti per ideali, per rabbia, per necessità, raccontati prendendo spunto da "I masnadieri" di Schiller, in "Uomo si nasce" dell’associazione Addentro-Sangue giusto della casa di reclusione di Civitavecchia, sabato 15 ottobre alle 12 al teatro dell’Arca. Ci saranno, per la prima volta insieme sul palco, le detenute di Pontedecimo con i bambini, i genitori e gli insegnanti della primaria Anna Frank di Serra Riccò e della secondaria di primo grado Don Milani di Genova, con gli attori del teatro dell’Ortica. "Della luce e dell’ombra", spettacolo ideato e diretto da Anna Solaro (al teatro Verdi di Sestri Ponente sabato 15 ottobre alle 21) che nasce dalla lettura condivisa di un romanzo di Goliarda Sapienza, "L’università di Rebibbia". E racconta la storia dell’autrice, attrice e scrittrice di buona famiglia, che si trovò a scontare una condanna per furto nel carcere di Rebibbia. Partendo dalle parole del libro, le detenute hanno iniziato a raccontare il loro modo di vivere il buio e il sole. E poi i bambini hanno provato a rivelare anche le loro luci e le loro ombre. Salvatore Striano, autore del libro "La Tempesta di Sasà", in cui racconta il suo percorso da detenuto a Rebibbia a uomo libero e attore (prima per Matteo Garrone in "Gomorra", poi per i fratelli Taviani in "Cesare non deve morire"), interpreterà "Monologo tratto dalla Tempesta di William Shakespeare tradotta da Eduardo De Filippo", sabato 15 alle 18.30 al Teatro dell’Arca. Indaga il reclutamento islamista nelle carceri italiane attraverso la voce del giovane Nadil "Naufragio con spettatore", cortometraggio di Fabio Cavalli, venerdì 14 alle 20.30 all’Arca. E ancora: "Amunì", domenica 16 alle 15 alla Claque, storia di fratelli, adulti, che riflettono sulla paternità. Gli incontri sono a ingresso libero, gli spettacoli hanno un costo di 5 euro: per entrare bisogna prenotare entro il 10 ottobre con una email a segreteria@teatrortica.it. Il dopo-terremoto sommerso di parole di Ilvo Diamanti La Repubblica, 10 ottobre 2016 La terra ha tremato in modo violento. Un’altra volta. E ci siamo trovati di nuovo dentro un incubo. Ho percepito in diretta la lunga scossa di terremoto, che ha sconvolto alcune zone dell’Italia Centrale. In questo periodo, da molti anni, mi trasferisco a Urbania. Al confine con Urbino - e anch’essa città ducale. Così, nella notte fra martedì 23 e mercoledì 24 agosto ho sentito muri e pavimento muoversi, le lampade oscillare e molti oggetti battere e scivolare. Ho cercato subito sui siti una notizia, un’informazione. Ma avevo capito. Troppo facile immaginare cosa fosse successo. Il problema era "dove". E con quali effetti. Pochi istanti e la mia attesa veniva - per così dire - soddisfatta. La terra aveva tremato. In modo violento. Un’altra volta. Al crocevia fra le Marche, il Lazio e l’Umbria. Così ci siamo trovati, di nuovo, dentro un incubo. Assolutamente reale. Un altro terremoto che ha travolto molte località, molti borghi, molte abitazioni e, insieme, molte vite. Era già avvenuto altre volte, non tanti anni fa, non lontano da qui. E purtroppo avverrà ancora. In qualche altro paese, in qualche altra città. D’altronde, come si sente dire spesso, in questi giorni, si tratta di un evento prevedibile. Anche se non proprio in quei luoghi e in quei giorni. Perché il nostro è uno "Stato di emergenza". Permanente. Noi, per abbassare il rischio, dovremmo praticare la prevenzione, in modo sistematico. Nella realizzazione del patrimonio immobiliare. Nella gestione del territorio. E qualcosa si è fatto, si fa. Ma in misura assolutamente inadeguata. Non intendo, qui, riprendere il dibattito sui motivi della nostra amnesia permanente, su questi problemi. Ma mi disturba assistere a un palinsesto già scritto. Delineato e sperimentato tante volte. Lo spettacolo del disastro e della tragedia. Lo spettacolo del dolore e dei soccorsi. Della solidarietà e della generosità. Del sostegno istituzionale, espresso da presidenti e uomini di governo in visita ai luoghi colpiti dal sisma. Questa narrazione, scritta, descritta e sceneggiata tante volte: mi disturba. Anche perché, sui media, questa tragedia reale, tremenda, prende il posto di altre tragedie private, sceneggiate e replicate altre volte. Tante volte. Troppe volte. Omicidi e violenze familiari, tra coniugi, genitori e figli. Tra vicini, conoscenti e sconosciuti. Femminicidi. Li abbiamo visti e li vediamo, trasmessi da tanti anni. D’altronde, da noi i processi e le indagini non finiscono mai. Così, gli stessi spazi mediali oggi sono occupati dalle storie del terremoto e del dopo-terremoto. Riproposte, sugli schermi televisivi, di giorno in giorno, meglio ancora, di pomeriggio in pomeriggio. Poi, di sera, fino a notte inoltrata. La vita e la morte, assolutamente in diretta. I bambini deceduti e quelli salvati. Le polemiche sulle responsabilità dello Stato, dei Comuni e dei privati. Sulle risorse impiegate per gli stranieri e gli immigrati, invece che per aiutare i nostri cittadini. Mi disturba il reality show che si svolge intorno al dolore. E solleva rumore, anche quando ci sarebbe bisogno di silenzio. Mi rendo conto, però, che è inevitabile. Come, purtroppo, il ripetersi delle tragedie che devastano il nostro territorio. Però, se i terremoti sono imprevedibili e, in Italia, non finiscono mai, proviamo, almeno, a non rassegnarci alla riduzione mediale del dopo-terremoto, sepolto da fiumi di parole. Per rispetto. Nei confronti delle comunità e delle persone colpite dal sisma. E verso noi stessi. Migranti. Asilo ai profughi, tribunali bloccati dai ricorsi di Gigi Di Fiore Il Mattino, 10 ottobre 2016 Effetto migranti sulla giustizia. Aumentano gli arrivi in Italia, aumentano le richieste di asilo per avere il riconoscimento di rifugiato politico. Più domande alle commissioni. E quindi più bocciature, che mettono in difficoltà gli uffici giudiziari in tutt’Italia. Il presidente del tribunale di Napoli, Ettore Ferrara denuncia; "La prima sezione civile si e trovata ad affrontare un notevole aumento di lavoro per i ricorsi che deve decidere un giudice monocratico, sulle domande di asilo respinte. In un anno - insiste Ferrara - abbiamo avuto un incremento da 800 a 4500 ricorsi". Anche Milano, Roma e Venezia è emergenza. Un’altra conseguenza, finora di scarsa attenzione, dell’aumento di sbarchi e arrivi in Italia di gente in fuga dalla Siria, dall’Etiopia, dalla Libia. Aumentano le richieste di asilo, per avere il riconoscimento di rifugiato politico. Più sbarchi significano più domande alle commissioni che devono decidere, istituite nelle Prefetture. E ci sono molte più bocciature, soprattutto per carenza di documentazione presentata, che stanno mettendo in difficoltà gli uffici giudiziari in tutt’Italia. "La prima sezione civile si è trovata ad affrontare un notevole aumento di lavoro per i ricorsi che deve decidere un giudice monocratico, sulle domande di asilo respinte - denuncia il presidente del tribunale di Napoli, Ettore Ferrara In appena un anno, abbiamo dovuto registrare un incremento da 800 ricorsi agli attuali 4.500. Una cifra enorme". Un incremento del 500 per cento dal 2015 al 2016, conia spada di Damocle dei tempi strettì concessi dalla procedura: il giudice deve decidere entro sei mesi dall’arrivo del ricorso. Una corsa contro il tempo, che mette la giustizia civile ancora più in affanno. Il 21 giugno scorso, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annunciava una "profonda riforma del processo civile per la trattazione dei ricorsi sulla protezione internazionale e i giudizi in materia di immigrazione". Un’intenzione, presa d’atto dell’allarme segnalato dai tribunali in tutt’ Italia, che il ministro confermava due mesi fa al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen. Una questione non secondaria, se i tempi di decisione sulle richieste di domande d’asilo significano più giorni di ospitalità in strutture pubbliche dei migranti che aspettano l’esito delle loro domande. In Italia, fino a maggio di quest’anno sono stati presentati ben 15.008 ricorsi contro il rifiuto delle commissioni prefettizie. Gli uffici giudiziari più intasati sono, manco a dirlo, Napoli al primo posto e poi Milano, Roma e Venezia. In questo stesso periodo, ci sono state solo 985 sentenze di primo grado, una ogni 15 ricorsi. C’è un tappo, con effetti sul sistema sull’accoglienza, sulle aspettative degli immigrati, sull’incertezza della loro vita. Il ministro Orlando ha una sua interpretazione: la difficoltà nasce dai numeri in aumento degli immigrati e dal conseguente incremento dei ricorsi sulle decisioni negative delle commissioni territoriali prefettizie. Le cifre ufficiali sono in possesso del ministero dell’Interno: da gennaio a ottobre del 2014, le richieste d’asilo esaminate sono state 27.393. Nello stesso periodo dell’anno successivo, 2015, sono aumentare a 46.490. E i cosiddetti "dinieghi", vale a dire il no alle domande? Nel 2014 sono stati 9564, l’anno dopo erano già 23.905. Cifre che fanno pensare a molti migranti che partono in cerca di un lavoro e di un futuro migliore, non perseguitati da guerre e regimi politici. In caso di conferma dei "dinieghi" dal giudice di primo grado, l’interessato ha ancora la strada dell’ appello in secondo grado. Anche in questo caso, la decisione ha sei mesi di tempo e alcuni avvocati, in proprio o con organizzazioni, si stanno specializzando in queste procedure. Il giurista Fulvio Vassallo registra un "aumento impressionante di dinieghi da parte dei giudici di primo grado". Nella casistica, le domande del 2015 sono presentate da cittadini di Pakistan, Gambia, Senegal e Bangladesh. Per sveltire e per evitare intasamenti negli uffici giudiziali, l’ipotesi di riforma del ministero della Giustizia prevede l’abolizione dell’udienza e della convocazione dell’immigrato per l’audizione, con l’abolizione dell’appello dopo il "diniego" di primo grado. Ipotesi che hanno già provocato le proteste di alcuni avvocati, nonostante gran parte delle richieste di assistenza d’ufficio agli Ordini forensi provengano proprio da immigrati. Solo a Milano, hanno denunciato gli avvocati, nel 2016 le richieste di assistenza legale per i profughi a spese dello Stato sono state 1.432 su 2.996. La Confederazione dei giudici di pace, con la presidente avvocato Stefania Trincanato, pensa ad una soluzione con l’abolizione delle commissioni territoriali, per trasferire la competenza proprio ai giudici onorali di pace. Ma, come sempre, in assenza di modifiche della procedura per legge, è già la giurisprudenza ad attuare una riforma di fatto. Il 14 giugno scorso, il tribunale di Milano ha stabilito che si possa fare a meno di convocare in audizione l’immigrato, già sentito dalla commissione prefettizia territoriale. E, otto giorni prima, la sesta sezione della Cassazione aveva già stabilito che "non sussiste l’obbligo del giudice di disporre l’audizione del richiedente asilo". Un modo per sveltire i tempi. Miranti. Sarkozy chiude le porte. "Basta ricongiungimenti familiari" di Leonardo Martinelli La Stampa, 10 ottobre 2016 In questa costruzione, rossa e avanguardista, in genere si esibiscono le rock star. Ieri allo Zénith di Parigi si è esibito Nicolas Sarkozy. Sono venuti ad ascoltarlo in più di 6mila: il suo popolo, uomini e donne (tante donne), vecchi e giovani (moltissimi giovani), tanti bianchi e praticamente nessun immigrato, neanche di nuova generazione. Mancano cinque settimane al primo turno delle primarie della destra (per scegliere il candidato alle presidenziali del 2017, che ha tutte le chances di ritrovarsi al secondo turno con Marine Le Pen). E lui ha organizzato il suo primo grande meeting all’americana, per parlare di "declassamento" della Francia e dei francesi, sociale e non solo, presentandosi come "portavoce della maggioranza silenziosa". Mentre i sondaggi lo danno ancora a distanza - breve - dietro Alain Juppé. Anne-Sophie ha 42 anni e viene dalla periferia bene di Parigi: "Ma io mica sono ricca: faccio la portinaia". Ripensa a quando Sarkozy è stato presidente, dal 2007 al 2012: "Ci fu quella grossa crisi economica, a livello internazionale. Fu dura anche per me, ma mi sono salvata, solo grazie a lui". Non importa se Nicolas attinse a piene mani al bilancio pubblico, lasciando a François Hollande una pesante eredità. "Oggi i francesi - tuona lui dal palco - sanno che i loro figli vivranno peggio di loro. E già in tanti hanno più difficoltà dei genitori". Dei suoi guai giudiziari, ovviamente, neanche una parola. E dire che nei prossimi giorni verrà forse rinviato a giudizio per lo scandalo delle spese gonfiate nella campagna elettorale del 2012. E anche a causa di meeting come questo. "Non è mai stato condannato. Juppé, invece, sì. E per un po’ di tempo è stato addirittura dichiarato ineleggibile - sottolinea Pascale, 59 anni, impiegata in un’amministrazione comunale nello Champagne. Contro di lui c’è l’accanimento della giustizia. E dei giornalisti, che comunque in Francia sono dei maiali e basta". Ieri Sarkozy ha insistito sul referendum che vuole indire, se diventerà presidente, per eliminare il ricongiungimento familiare, la possibilità per un immigrato legale di farsi raggiungere dai familiari. "Giusto - commenta Pascale - visto che in Francia ci sono persone che hanno un lavoro e che vivono per strada in un’auto. Dobbiamo prima pensare a loro". Mai e poi mai, dal palco dello Zénith, Sarkò ha citato il rivale numero uno, ma ha ammesso: "Porto con me la parola della destra repubblicana, non della sinistra". Sì, girano voci che tanti elettori della gauche vogliano partecipare alle primarie di destra per votare Juppé e sbarrare la strada a Nicolas. "Che pena - dice Edgar, 21 anni, operaio nei lavori stradali: Juppé è ormai il candidato della sinistra". Daniel, 68 anni, stilista di moda in pensione, non ha ancora deciso fra i due, anche se "Juppé è la saggezza e Sarkozy la fermezza, e ho l’impressione che oggi ci sia più bisogno di fermezza". Se Juppé finirà al secondo turno contro Marine Le Pen, Anne-Sophie andrà comunque a votare "e lo farò a malincuore. Ma sì, voterò per la Le Pen". Guerra. Bombe italiane da Cagliari allo Yemen di Nello Scavo Avvenire, 10 ottobre 2016 "Partono in volo da Cagliari le bombe sganciate in Yemen". Con questo titolo il primo novembre scorso, Avvenire pubblicava il primo di una serie di approfondimenti sull’esportazione di munizioni fabbricate in Italia e destinate alla coalizione saudita, che sta bersagliando l’estremità meridionale della penisola araba. Ora la procura di Brescia ha avviato un’indagine. L’ipotesi di reato è quella di violazione della legge che vieta l’esportazione di armi verso Paesi in guerra. Il divieto sarebbe stato aggirato (in ipotesi) perché la produzione, formalmente, è tedesca (la multinazionale Rvm) e non italiana, anche se lo stabilimento si trova in Sardegna. Il procuratore aggiunto Fabio Salamone, oltre alle notizie di stampa, ha acquisito documenti e informazioni riguardo almeno 5mila ordigni assemblati in Sardegna nello stabilimento della multinazionale tedesca Rvm, la cui filiale italiana ha sede a Ghedi, in provincia di Brescia, e destinati ai caccia della missione araba avviata oltre un anno fa contro i ribelli sciiti Houthi. Al momento non ci sono indagati, ma nei prossimi giorni potrebbero venire convocate alcune persone informate sui fatti. Da quanto trapela, il pm Salamone avrebbe acquisito atti ufficiali del governo tedesco sui contratti di Rwm, mentre sarebbero state documentate almeno sei spedizioni da Domusnovas (in provincia di Carbonia-Iglesias) dove ha sede lo stabilimento di Rwm Italia. Alcune consegne sono state recapitate attraverso voli cargo operati da una compagnia dell’Azerbaijan. "La Rete italiana per il Disarmo esprime soddisfazione permetterà di fare luce su un caso problematico di commercio di internazionale di armi, emblematico anche di molti altri accordi simili", si legge in una nota dell’organismo che si mette "a piena disposizione dei magistrati, come già fatto in questi ultimi mesi, per fornire dati e informazioni utili all’inchiesta". A differenza di quanto avviene con le forniture ad altri Paesi della Nato, le operazioni militari nello Yemen procedono senza alcun mandato internazionale, tanto che il segretario generale dell’Onu il 22 settembre è tornato "a condannare i molteplici attacchi aerei della coalizione guidata dall’Arabia Saudita". Parole pronunciate da Ban Ki-moon dopo che il giorno prima nella città portuale di Hudaydah un raid aveva sterminato intere famiglie. L’apertura dell’indagine "è un passo fondamentale", commenta Giorgio Beretta, dell’Osservatorio sulle armi Opal di Brescia. "Abbiamo fornito alla procura - aggiunge - una dettagliata documentazione anche con foto di diversi ordigni italiani sganciati dai caccia sauditi e caduti su aree popolate da civili in Yemen. È assolutamente necessario che si indaghi sulle responsabilità, anche da parte degli organi dell’esecutivo, delle continue forniture di bombe aeree ai sauditi in un contesto di gravi violazioni del diritto umanitario". Per i sauditi, i risultati emersi nell’inchiesta sono "di gran lunga esagerati". Una smentita solo a metà. Perché alcuni obiettivi, provano a spiegare i vertici di Riad, "in passato potevano essere scuole o edifici pubblici ma sono diventati nel tempo dei centri operativi o basi logistiche delle milizie ribelli". Dietro le quinte, il duello tra Riad che sostiene militarmente il governo lealista e Teheran che appoggia politicamente i ribelli houti. L’export di armi da guerra italiane è triplicato, con un giro d’affari passato dai 2,9 miliardi di euro del 2014 agli 8,2 miliardi nel 2015. Nei giorni scorsi il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, si è recata a Riad per incontrare i vertici sauditi. Nella delegazione italiana era presente anche il generale di Squadra Aerea Carlo Magrassi, segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli armamenti. La stampa saudita ha accennato alla trattativa per la cessione di tecnologie militari navali. "Durante il colloquio - si legge in una nota della Difesa - è emersa l’esigenza comune di assicurare la stabilità alle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa allo scopo di garantire alle popolazioni di queste regioni pace e sicurezza e favorire lo sviluppo economico e sociale". Ma a chi parla di incontro finalizzato alla vendita di sistemi d’arma, il ministero risponde minacciando querela. "Non ci pare un comportamento responsabile né corretto a livello istituzionale quello della ministra Pinotti che minaccia querele a chi chiede legittimamente un chiarimento sui suoi incontri in Arabia Saudita e sul coinvolgimento dell’Italia nella vendita di armi a Riad", ha detto il deputato di Possibile, Pippo Civati, che al ministro dice: "Venga in Parlamento a chiarire". Guerra. L’omertà sui misfatti dei nostri alleati di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 10 ottobre 2016 Il realismo politico, unito alla paura comporta uno sgradevole ma inevitabile effetto collaterale: la cancellazione di ogni interesse per la salvaguardia dei diritti umani fondamentali ovunque nel mondo. Sono stati bravi i responsabili del museo Maxxi di Roma a presentare in questi giorni una mostra, "Nome in codice: Caesar", che documenta i crimini contro l’umanità compiuti nelle carceri siriane del nostro alleato Assad, sostenuto dal nostro alleato Putin. Però, una volta viste quelle immagini orrende, scordatevele: lo impongono gli imperativi del realismo politico che consigliano l’omertà sulle nefandezze dei nostri alleati contro il nemico principale, l’Isis. Non pensate troppo alla guerra di sterminio che l’alleato Assad ha scatenato contro il suo popolo, uccidendo circa 200 mila siriani, civili, donne, bambini, non affiliati allo Stato islamico. Fate come i caschi blu dell’Onu quando c’era la mattanza a Srebrenica o quando un mare di sangue macchiava il Ruanda: giratevi dall’altra parte per non guardare, altrimenti si attenta alla saldezza della lotta comune contro il nemico principale. Non sottolineate troppo, per dire, che il piccolo Aylan era in fuga con la sua famiglia curda sia dai tagliagole Isis che dagli aguzzini del nostro alleato Assad. Non fate caso ai soliti portatori di cattive notizie che vogliono ricordare le terrificanti prigioni sotterranee di Assad sotto i monumenti di Palmira. Ora finalmente liberata: Palmira, per fortuna. Ma non i siriani torturati, per sfortuna. Il realismo politico, unito alla paura (il nemico principale arriva sin qui, la tirannia di Assad si ferma lì e riguarda i siriani, non noi), comporta infatti uno sgradevole ma inevitabile effetto collaterale: la cancellazione di ogni interesse per la salvaguardia dei diritti umani fondamentali ovunque nel mondo. Fino a poco tempo fa si parlava dell’universalità di quei diritti, oggi invece è meglio lasciar perdere, e possiamo eccepire sulla democraticità dell’Egitto solo se a essere colpito è un nostro connazionale torturato a morte, sulla cui sorte non sapremo mai la verità. Del resto, non è che quando sei in guerra puoi metterti a sottilizzare sui tuoi alleati, non è che nella lotta contro Hitler si potesse fare attenzione ai Gulag di Stalin. Solo che a noi piace mettere in pace la coscienza e declamare col nodo in gola "mai più Auschwitz", "mai più Srebrenica", "mai più Ruanda". Ha scritto Lorenzo Cremonesi sul Corriere che ad Aleppo "vengono metodicamente attaccati" dal nostro alleato "ospedali, cliniche di fortuna, scuole, strutture comunitarie, abitazioni civili, condotte idriche, depositi di cibo". "Mai più Aleppo"? Non sia mai. Svizzera. Detenuto per violenza domestica si impicca nel carcere di Basilea swissinfo.ch, 10 ottobre 2016 Un 40enne cittadino kosovaro si è suicidato oggi nella prigione di Waaghof, la struttura di Basilea che ospita i detenuti in carcere preventivo. Il corpo senza vita dell’uomo è stato trovato dopo pranzo. Sono ancora da chiarire le cause della morte di un detenuto in carcerazione preventiva nel penitenziario Waaghof a Basilea. Come riferisce la polizia cantonale di Basilea Città in una nota diramata sabato sera, il 40enne kosovaro è stato rinvenuto esanime da un agente di custodia dopo il pranzo. Il personale medico e sanitario giunto sul posto non ha potuto far altro che constatare il decesso dell’uomo. Il 40enne si trovava in carcerazione preventiva da una settimana a causa di minacce in ambito di reati legati alla violenza domestica. L’istituto di medicina legale e la polizia giudiziaria basilesi si occuperanno delle indagini volte a chiarire le cause della morte dell’uomo. Non vi sono tuttavia indicazioni che lasciano presagire che la morte del detenuto sia stata provocata dall’intervento di terze persone. Iran. In carcere per un romanzo nel cassetto. Teheran arresta la scrittrice Ebrahimi di Francesca Paci La Stampa, 10 ottobre 2016 Nel suo computer la storia di una ragazza ribelle alla lapidazione. Due anni fa la Guardia rivoluzionaria iraniana irrompe senza mandato in casa dello studente 30enne Arash Sadeghi e di sua moglie Golrokh Ebrahimi Iraee: arresta lui, già detenuto in passato, e sequestra computer, taccuini, cd. Lei viene interrogata per 20 giorni, durante i quali sente le urla del marito torturato nella stanza accanto, poi esce in attesa del verdetto. Martedì si fanno vive le autorità giudiziarie: Golrokh è condannata a 6 anni di carcere per il racconto mai pubblicato che i pasdaran hanno trovato nel suo pc. Non dunque per l’attivismo in favore di Narges Mohammadi e le migliaia di prigionieri politici di Tehran come il marito, che da giugno sconta 15 anni in una cella del famigerato Evin, ma per la sua fantasia. Ce ne vuole d’immaginazione: invece della lapidazione, finisce al bando chi la denuncia. Cosa ha scritto Golrokh Ebrahimi per scatenare negli ayatollah una reazione che Amnesty International definisce "grottesca". Giudicato "offensivo dell’islam", il virtuale libro galeotto narra la storia di una giovane iraniana che guarda in tv il film "The Stoning of Soraya M", la vera storia di una connazionale uccisa a pietrate, e si indigna fino a bruciare una copia del Corano. Materia che scotta nell’Iran campione di violazioni dei diritti umani, dove il codice penale ha recentemente riconfermato la lapidazione perché ritenuta "effettiva nel prevenire i crimini e proteggere la moralità". "Non hanno neppure presentato un mandato di comparizione, mi hanno chiamato dal cellulare del mio amico Navid Kamran dopo averlo arrestato e mi hanno detto di consegnarmi" ha raccontato Golrokh al canale in farsi di Voice of America subito dopo la telefonata con la sentenza di 6 anni, 5 per offese all’islam e uno per propaganda anti-governativa. Attivisti iraniani a lei vicini non sanno dire se la ragazza si trovi già a Evin perché sin dall’inizio le informazioni sul suo caso sono state poche e frammentarie, dei due avvocati difensori che avrebbero dovuto seguire il processo iniziato nel 2014 una è stata costretta a ritirarsi per le minacce ricevute e l’altra è stata estromessa. Una delle udienze si è svolta mentre Golrokh Ebrahimi era in ospedale per un intervento chirurgico. "Golrokh Ebrahimi deve scontare questi anni per aver scritto una storia mai pubblicata, viene punita per la sua immaginazione" afferma Philip Luther, responsabile per la sezione Medioriente e Nord Africa di Amnesty International. Se la presidenza del riformista Rohuani con il suo record di almeno 2.277 esecuzioni a morte ha frustrato le speranze di chi sognava un altro Iran, l’intera regione assiste a un durissimo giro di vite contro gli intellettuali, non solo gli attivisti politici ma anche gli scrittori come il PEN Award Ahme Nàgy, condannato a 2 anni carcere in Egitto per il romanzo "Vita, istruzione per l’uso" (Il Sirente) in cui parla di sesso e droga.