Amnistia e umanizzazione delle carceri: l’impegno dei cattolici di Federico Cenci zenit.org, 9 novembre 2016 Tanti palloncini gialli con la scritta in nero "amnistia" hanno colorato la grigia domenica romana nel giorno del Giubileo dei Carcerati. Un corteo partito dal carcere di Regina Coeli è passato anche sotto la finestra del Palazzo Apostolico, da cui a mezzogiorno si è affacciato Papa Francesco per pronunciare l’Angelus. A lui, oltre che allo storico leader radicale Marco Pannella, è stata intitolata questa "Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà". Tra i tanti fedeli presenti in piazza per ascoltare il Pontefice, c’era anche Paola Binetti, parlamentare di Area Popolare. Da politica, ha posto particolare attenzione all’appello di Bergoglio a "un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". Del resto - commenta la Binetti - "che Giubileo della Misericordia sarebbe, se noi non fossimo capaci di gesti di clemenza?". La deputata cattolica ricorda che tutto il pontificato di Francesco, specie in questo Giubileo, è stato "puntellato" da opere concrete di misericordia. Tuttavia la Binetti osserva che "il tema si fa complicato quando il gesto di clemenza interpella l’intero Parlamento e chiede un’amnistia o un indulto, ossia misure concrete atte a restituire una libertà a persone che stanno scontando una pena". Le sue parole fanno eco a quelle del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che commentando a caldo l’appello del Papa, ha sottolineato come "la praticabilità politica di un provvedimento di clemenza è ardua", giacché per approvare l’amnistia occorrono i due terzi del Parlamento. La Binetti non nasconde il suo auspicio che in futuro possano attuarsi le condizioni per votare un provvedimento di tal risma. Ci tiene però a fare delle precisazioni. Spiega che "una delle argomentazioni dietro alle quali vanno trincerandosi gli oppositori dell’amnistia è che l’ultima volta che questo provvedimento è stato attuato (nel 2006 dall’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, ndr), la stragrande maggioranza delle persone che ne ha beneficiato è poi tornata in carcere". Secondo la Binetti, questa diffusa recidività è da attribuire al fatto che "i detenuti non erano stati preparati adeguatamente". Di qui la necessità - prosegue - di far tesoro delle parole del Papa svolgendo in primo luogo "un’opera pedagogica per restituire ai detenuti la propria dignità" e gettare così le basi di una loro responsabilizzazione finalizzata al rispetto delle regole una volta usciti di galera. Ma cosa sta facendo il Parlamento per attuare questa "umanizzazione delle carceri" propedeutica, secondo la Binetti, a un’amnistia o a un indulto? "In questa legislatura - risponde la parlamentare - sono state proposte misure per finanziare il lavoro nelle carceri, per incentivare attività di teatro che ha non solo un valore ludico ma anche di riflessione". Inoltre - aggiunge - "si sta facendo in modo che i detenuti a cui mancano tempi brevi possano beneficiare di permessi per reinserirsi gradatamente nella società". Non è stato calendarizzato, invece, alcun disegno di legge sull’amnistia, provvedimento invocato dai partecipanti alla Marcia di domenica scorsa, a cui ha deciso di dare la propria adesione anche la Binetti. La presenza di cattolici a quella iniziativa, lo sventolare di bandiere con il simbolo dei radicali in Piazza San Pietro sono stati motivo di qualche polemica nei giorni scorsi. Alla diatriba si sottrae però la Binetti, affermando che "è un falso problema". D’altronde - ricorda - l’unico disegno di legge sull’amnistia presentato alla Camera in questa legislatura porta la firma del cattolico Mario Marazziti. Rems, misure di sicurezza e libertà di Michele Passione (Avvocato) Il Manifesto, 9 novembre 2016 Formalmente, sono passati 19 mesi dalla prevista chiusura degli Opg, ma tanti problemi restano ancora sul tavolo. Dopo l’entrata in vigore di una Legge di assoluta civiltà giuridica, che ha già superato con successo un ricorso davanti alla Corte Costituzionale, continua incessante la limitazione della libertà personale di autori di reato (anche per fatti bagatellari) affetti da disturbi psichici, malgrado la legge 81 del 2014 preveda la presa in carico territoriale quale risposta primaria, ed il ricorso alle misure di sicurezza in Rems quale extrema ratio. Com’è noto, le Regioni hanno resistito al mandato legislativo loro assegnato; le nuove residenze sono sorte con grande ritardo, con gravi deficienze organizzative, e sono per lo più già piene. Molte sono le differenze tra le varie strutture, ma si può ragionevolmente affermare che in generale stenti a farsi strada la sicurezza della cura, piuttosto che la cura della sicurezza; a breve, peraltro, verrà meno anche il supporto organizzativo prestato dall’Amministrazione Penitenziaria per l’assolvimento degli obblighi di registrazione, e le Rems verranno gravate da nuovi compiti. Molte, ancora, le differenze interpretative. Così accade (è accaduto di recente in Toscana) che una persona venga "dimenticata" per più di un anno e mezzo, prima in Opg, poi in Rems, malgrado la misura di sicurezza avesse ormai raggiunto il limite massimo, senza che nessuno (Pubblici Ministeri, Magistrati di Sorveglianza, Medici) abbia mai dialogato per porre fine ad una illegittima limitazione della libertà. C’è voluto altro tempo, è servito un Tribunale, quale Giudice dell’Esecuzione (il "Giudice a Berlino"), che accogliendo la richiesta della difesa ha finalmente posto fine ad una "odiosa interpretazione della Legge nei confronti degli internati". Non solo; accade (è accaduto) che un Pubblico Ministero cambi idea, ritenendo a settembre che la misura non fosse scaduta, diversamente da quanto rilevato due mesi prima. Accade che in alcuni Distretti sulle misure di sicurezza si ritenga competente la Magistratura di Sorveglianza, com’è ovvio, mentre in altre si sostenga che la liberazione per cessato decorso del termine spetti al Pubblico Ministero; grazie a questo (insopportabile) ping pong interpretativo si verificano dunque vicende kafkiane come quella citata, che altro non sono che l’espressione evidente di una visione burocratica del problema del disagio psichico, che investe una fetta consistente della popolazione detenuta e internata. Una disattenzione insopportabile. Fino a che resterà in vita il sistema del doppio binario, del folle reo, occorre che comunque la psichiatria sappia formulare prognosi e disegnare progetti di cura e sostegno con una visione diversa dal passato, senza sposare la logica della medicina difensiva, evitando del pari che le funzioni di custodia prevalgano su quelle di cura. È necessario scongiurare che le Rems, figlie di un Dio maggiore (l’Opg), ne ereditino gli aspetti deteriori, non solo fisici (la contenzione, la punizione) e burocratici (con le più diverse traduzioni a macchia di leopardo del regolamento penitenziario), ma soprattutto culturali; un medico resta un medico, come una rosa è una rosa, è una rosa. Sarebbe bene che tutti coloro che hanno cura delle persone, e che le persone hanno in cura, trovassero il modo di parlarsi per la ricerca di soluzioni, perché la Legge 81 ha bisogno del sostegno di tutti gli attori chiamati in causa, siano essi giudici, avvocati, medici, assistenti sociali, etc., affinché la limitazione della libertà personale, per qualunque ragione avvenga, si svolga sempre nel rispetto della Legge. Processo penale, tutto è bloccato. La riforma solo dopo il referendum di Claudia Morelli Italia Oggi, 9 novembre 2016 In Senato non si parlerà di processo penale e di riforma carceraria fino al referendum costituzionale del 4 dicembre. La conferenza dei capigruppo di ieri non ha incluso il provvedimento nei lavori di aula organizzati proprio fino all’inizio di dicembre, deludendo le attese di molti. Senz’altro quella del ministro della giustizia Andrea Orlando ma anche dei senatori e dei deputati Pd (di area Rifare l’Italia) che ieri, con due diversi comunicati, hanno fatto sentire la propria voce augurando che quella di ieri fosse la "volta buona". Ma non lo è stata a causa delle valutazioni di "compatibilità" per Palazzo Chigi, da una parte; per la maggioranza e Ap dall’altra. "Speriamo davvero oggi (ieri, ndr) sia il giorno giusto per avere in Aula la riforma del processo penale. È una riforma fondamentale, ci sono tutte le condizioni per approvarla presto e bene già in questa settimana" avevano dichiarato poco prima dell’inizio della conferenza dei capigruppo i senatori Pd Verducci, Maturani, Borioli, Capacchione, Cardinali, Fissore, Ferrara, Zanoni, Fabbri, Esposito, Silvestro, Tomaselli, Vaccari, Gianluca Rossi, Angioni, Sangalli, richiamando le parole del Pontefice sulla situazione carceraria. E hanno fatto eco i colleghi di area della Camera dei deputati: "Il testo condiviso può far compiere un deciso salto di qualità al nostro sistema giudiziario. Per queste ragioni, tanto più dopo gli impegni assunti dal presidente del Consiglio e dal ministro della giustizia, ci aspettiamo che questa importante riforma, possa essere discussa e votata rapidamente". Ddl penale, il Pd chiede il rinvio "votare dopo il referendum" Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2016 Maggioranza e governo ancora in ordine sparso sulla riforma che dovrebbe modificare prescrizione e intercettazioni. Il capogruppo Zanda vuole la discussione, ma solo dopo la consultazione popolare. Il ministro della Giustizia però chiede di rivedere il calendario. Grasso chiede che il Pd si chiarisca le idee. Il Pd va in conferenza dei capigruppo, al Senato, e chiede il rinvio della riforma penale, l’ennesimo, dopo il referendum costituzionale. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo poche ore, va in tv e chiede di rivalutare quel calendario perché il disegno di legge può essere approvato entro il 4 dicembre. Maggioranza e governo continuano a ballare intorno alla riforma penale, che - fatta e finita - aspetta di essere votata ormai da mesi dall’Aula di Palazzo Madama. Il motivo è sempre lo stesso: la paura di portare in discussione un testo che da una parte può essere stravolto o, peggio, dall’altra può diventare un rischio serio per la sopravvivenza del governo. Da qui le ripetute toccate e fughe di governo e partiti che lo sostengono, con Orlando che da mesi spiega che la legge è pronta per essere votata e dall’altro la maggioranza che - dopo aver chiesto la discussione perfino "immediata" - si è ritrovata prima a far saltare il numero legale in Aula per tre volte in 15 giorni a settembre e poi addirittura a dare la precedenza al ddl cinema. Il risultato è che la legge è stata tenuta nel limbo dal Pd per la reciproca diffidenza dei vari partiti della maggioranza. Così ora è stato il presidente del Senato Piero Grasso a dire al capogruppo Luigi Zanda che il Partito democratico come minimo deve chiarirsi le idee. Da capire se peserà più la voce del governo, qui espressa da Orlando, o i giochi politici della maggioranza. Rinviare a dicembre, per giunta, potrebbe essere ulteriormente rischioso per il fatto che a un certo punto al Senato arriverà anche la legge di bilancio che pretende ritmi serrati e ha limiti temporali obbligati. Peraltro ora il governo non ha più nemmeno l’alibi dell’opposizione dell’Anm. Il presidente Piercamillo Davigo e il ministro guardasigilli Orlando infatti si sono presentati insieme, con un’intervista doppia, a Di Martedì, su La7, per chiedere di votare la riforma sul processo penale il prima possibile. Aver messo la riforma in calendario dopo il referendum, ha detto Davigo, "rende più aleatoria l’approvazione delle nostre richieste inserite con modifiche nel disegno di legge sul diritto penale e questo vale in qualunque modo vada il referendum". "Sono d’accordo - ha aggiunto Orlando - spero si riconsideri la ricalendarizzazione". Il 29 giugno Grasso e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella avevano chiesto di accelerare. Era il 30 giugno 2014 quando Matteo Renzi annunciava in una scenografica conferenza stampa i 12 punti della riforma della giustizia. Dopo oltre due anni la questione resta in alto mare mentre ogni anno decine di migliaia di processi vanno al macero a spese del contribuente. Il pressing dei Giovani Turchi, la resistenza dei centristi - In conferenza dei capigruppo Zanda era andato a chiedere di fissare il voto sulla riforma, ma solo dopo il referendum, il 7 dicembre. Un modo per tenere insieme varie sensibilità (votiamo, sì, ma senza scossoni prima della consultazione popolare, già in bilico di suo). Zanda era stato spinto a chiedere di discutere definitivamente la riforma penale in particolare da una pattuglia di senatori del Pd, della corrente di "Rifare l’Italia", cioè i Giovani Turchi, corrente che esprime lo stesso ministro guardasigilli, Orlando. "È una riforma fondamentale - avevano spiegato in una nota i senatori guidati da Francesco Verducci - Ci sono tutte le condizioni per approvarla presto e bene già in questa settimana". Ma in conferenza dei capigruppo Grasso ha appunto chiesto al Pd di chiarirsi le idee perché la prossima data sarà l’ultima: il presidente del Senato non ha più intenzione di rinviare il voto finale della legge. E d’altra parte a chiedere di far slittare tutto sine die erano stati sempre nella riunione dei presidenti di gruppo Laura Bianconi per Area Popolare e Lucio Barani dei verdiniani di Ala: una fotografia di quanto è delicato questo passaggio per la maggioranza. Tutte divisioni che in questo momento di "campagna referendaria" si punterebbe ad evitare. Appelli e garanzie di Orlando - È così che si spiega come il voto finale non sia ancora arrivato appelli e garanzie del ministro della Giustizia Andrea Orlando che da una parte aveva mediato per far ritirare emendamenti sgraditi ad Area Popolare e dall’altra si era detto convinto e aveva dichiarato più volte che l’accordo era stato raggiunto (l’ultima volta a luglio), chiudendo ad altre richieste dei centristi in senso garantista. Il ddl penale - che contiene tra l’altro riforma della prescrizione e delle intercettazioni - era uscito dalla Camera il 24 marzo 2015, ma già all’epoca il ministro dell’Interno e leader di Ap Angelino Alfano aveva promesso battaglia in Senato. Ma quando, dopo un confronto lungo e serrato, la riforma è arrivata in Aula i senatori di Area Popolare hanno fatto mancare ripetutamente il numero legale. Un segnale di avvertimento più che chiaro. La maggioranza non si fida di se stessa - Il punto è sempre il solito, infatti: la maggioranza è paralizzata da mesi dalla paura, non vuole portare al voto finale la riforma che lo stesso Orlando, in un’intervista al Corriere di qualche settimana fa, ha definito come quella più "pericolosa" per le stesse sorti del governo. I democratici, in particolare, si trovano tra due fuochi. Da una parte, se non viene posta la questione di fiducia e il voto è "libero", possono essere presentati emendamenti che - anche con la complicità di qualche voto segreto - possono passare con sinergie trasversali (M5s-Sel-sinistra Pd). E a quel punto il testo avrebbe tonalità meno garantiste e Area Popolare - o parte di questa - potrebbe rifiutarsi di approvare la versione definitiva. Dall’altra, se venisse posta la questione di fiducia, sarebbe un finale da palpitazioni, perché i verdiniani di Ala hanno da tempo annunciato il voto contrario al provvedimento e anche dentro Ncd e Udc l’impressione è che Alfano a parole assicuri il controllo pieno delle proprie pattuglie di senatori, ma nei fatti il terreno sia più viscido. I numeri al Senato li conoscono tutti, senza Ala non c’è un cuscinetto di sicurezza e non c’è cosa che irrita gli ex berlusconiani di governo come le questioni della giustizia. La fiducia bloccata da Renzi - La riprova era stata proprio a settembre quando Alfano - evidentemente non così sicuro dell’atteggiamento dei suoi - aveva chiesto a Orlando di porre la fiducia e il ministro della Giustizia - refrattario alla fiducia - aveva dato il suo ok. Ma tutto era stato fermato dallo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il capo del governo aveva spiegato quella decisione con ragioni di fair-play istituzionale nei confronti dell’Anm: "Non metto la fiducia su un provvedimento per cui i magistrati potrebbero fare sciopero". Ma nel frattempo è caduto anche quell’alibi poiché Renzi e Orlando hanno incontrato due settimane fa il presidente dell’Anm Davigo a Palazzo Chigi e un eventuale sciopero non pare all’orizzonte. Davigo: "Non si può fare la guerra su tutto" - Davigo ha dato atto del fatto che Orlando si "è comportato diversamente dai suoi predecessori" e che le ragioni dei magistrati sono state ascoltate anche se non interamente accolte. Al presidente dell’Anm ancora non bastano le modifiche della prescrizione "che non dovrebbe decorrere dopo la sentenza di primo grado" ma "non possiamo fare la guerra su tutto". Orlando ha fatto presente che "si fanno le modifiche che consente il quadro politico: all’inizio di questo governo nessuno pensava che avremmo reintrodotto il falso in bilancio, introdotto il reato di auto-riciclaggio e rivisto la prescrizione". Il ministro guardasigilli ha però sottolineato che "se è giusto dare più tempo per fare il processo, non è giusto lasciare che le persone siano sotto processo per tutta la vita". Da parte sua Orlando ha spiegato che il ddl "ha l’obiettivo di diminuire i processi" con una serie di misure deflattive che possano far sì che i magistrati si concentrino sui reati di maggior allarme sociale. Davigo, toccando l’argomento dell’evasione fiscale, ha contestato la necessità di fare norme sul rientro agevolato dei capitali dato che "tra un anno dagli altri Paesi arriveranno tutti i dati" su chi nasconde i soldi all’estero. Il presidente dell’Anm ha poi riproposto l’idea della "premialità forte" anche fino alla "impunità totale" per chi denuncia la corruzione facendo parte del "sistema", dato che questo è uno dei reati meno denunciati in assoluto. Orlando ha difeso la scelta di premiare la collaborazione dei corrotti solo con attenuanti perché sull’impunità assoluta "non sono d’accordo nemmeno i magistrati". Orlando e Davigo: un errore il rinvio sul processo penale Corriere della Sera, 9 novembre 2016 Di fronte allo stop imposto dal Senato alla riforma del processo penale si realizza il "quasi-miracolo" che il ministro della Giustizia e il presidente dell’Associazione magistrati si ritrovano d’accordo nel contestare il rinvio a data da destinarsi, deciso ieri anche per l’ondivaga posizione del Pd. "Spostare l’esame del testo a dopo il referendum significa renderne più aleatoria l’approvazione, comunque esso vada", protesta Piercamilllo Davigo nel confronto a Di martedì ieri sera su La7. In passato ha definito "inutile e dannosa" la riforma, mentre ora ammette: "Dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco", fermo restando che il governo ha promesso di introdurre in un maxiemendamento alcune modifiche proposte dai giudici. Anche per il Guardasigilli Andrea Orlando (foto sotto) il rinvio "è un errore, ma ci sono ancora le condizioni per rimediare". Difficile, se non impossibile. Orlando non dispera e dice: "È un buon motivo per votare Sì". Davigo invece non rivela che cosa farà nell’urna: "L’Anm non s’è schierata e io non mi schiero". Il Pm Gratteri: "È pronta la rivoluzione giudiziaria" di Piero Sansonetti Il Dubbio, 9 novembre 2016 Il compito della magistratura è quello di accertare i reati e perseguirli, o è invece quello di combattere alcune battaglie politiche? Nel luglio del 1948, a Roma, in piazza Esedra, si tenne una gigantesca manifestazione comunista. Avevano sparato a Togliatti, che era in fin di vita, e i militanti del Pci erano furiosi. Sul palco salì per il comizio Edoardo D’Onofrio, dirigente amatissimo, stalinista di ferro, alle spalle 10 anni nelle carcere fasciste. La gente cominciò a gridare: "Edo, dacci il là!". Volevano dire: dai un segnale e noi iniziamo l’insurrezione. D’Onofrio però aveva ricevuto un ordine preciso da Luigi Longo, il vice di Togliatti: "Niente rivoluzione". E allora rispose alla folla, scandendo le parole: "Non è questo il momento storico". La rivoluzione non ci fu, non ci fu la guerra civile (anche se ci furono violenze, scontri morti e arresti). Togliatti si salvò e la democrazia uscì salva e forte. Beh, colpisce il fatto che il Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (che pure non da per niente l’impressione di essere comunista) abbia usato esattamente la stessa espressione: "Ho in testa una rivoluzione sul sistema giudiziario, ma non è ancora il momento storico". Naturalmente Edo d’Onofrio aveva ben chiaro che prima o poi la rivoluzione si sarebbe fatta. Poi invece, qualche anno dopo, nel 1956, ci fu la destalinizzazione, e Togliatti lo emarginò. Chissà come andrà a finire, invece, con Nico Gratteri... Il Procuratore di Catanzaro ha annunciato la rivoluzione (e il suo rinvio) nel corso di una intervista rilasciata a Lucio Musolino del "Fatto Quotidiano". È una intervista che inizia con una frase non nuovissima (per Gratteri) ma sempre abbastanza sorprendente. La trascrivo: "L’articolato di legge che abbiamo elaborato per aggredire maggiormente corruzione e mafie è nei cassetti del Parlamento, ma al momento nessuna forza politica lo ha preso in considerazione". Di che "articolato" si tratta? Gratteri spiega che si tratta di un vero e proprio disegno di legge, che prevede la modifica di circa 850 articoli tra codice penale, codice di procedura penale e ordinamento penitenziario. A occhio croce la riforma riguarda almeno la metà dell’intero impianto legislativo che riguarda il diritto penale, visto che il codice penale e il codice di procedura, sommati, contengono attualmente circa 1.500 articoli, dei quali però non più di 8 o 900 sono quelli davvero importanti. Di conseguenza Gratteri ci dice una cosa molto semplice: la sua commissione ha preparato una riforma radicale della giustizia. Noi non sappiamo bene cosa intenda Gratteri per rivoluzione giudiziaria, né per "momento opportuno". Certo sono espressioni molto preoccupanti, specialmente se pronunciate da un magistrato così potente, così famoso, così importante. Però sappiamo qualcosa sullo Stato di diritto e sulla separazione dei poteri. E allora ci vengono alcune domande, alle quali, magari, qualche autorità potrebbe anche rispondere. La prima domanda è questa: elaborare un articolato di legge non è compito che spetta al potere legislativo? La stessa Costituzione non prevede una separazione netta tra potere legislativo e potere giudiziario? E allora, è cosa normale che un magistrato elabori i disegni di legge? (A me sembra un po’ come se si chiamassero i deputati a fare le sentenze, o almeno a dirigere le indagini preliminari sui delitti). La seconda domanda è più spigolosa. La riassumo così: il compito della magistratura è quello di accertare i reati e perseguirli, o è invece quello di combattere alcune battaglie politiche? Gratteri parla della sua intenzione di "aggredire corruzione e mafie", ma è giusto che un magistrato si ponga l’obiettivo di combattere fenomeni sociali negativi? Non è forse, il compito di aggredire corruzione e mafia, un compito che spetta alla politica - sul piano dell’azione legislativa e culturale - e alla polizia sul piano militare? Non sono domande provocatorie, né sofismi: si tratta di capire quale sia l’orientamento politico e costituzionale prevalente nelle classi dirigenti italiane. Se bisogna gratterizzare la magistratura, e anche il Parlamento, sarà inevitabile porre mano, seriamente, alla Costituzione. Non con la piccola riforma Boschi, ma con un rivolgimento profondo, che cambi la natura dello Stato di diritto e ne riduca fortemente i confini. Vogliamo istituire una repubblica giudiziaria, che sostituisca la Repubblica parlamentare? Discutiamone, se volete, però bisogna avere il coraggio di dire le cose chiare, non basta sperare in quella riforma della "Costituzione materiale" che, in realtà, è già largamente in corso. Corte Ue: trasferimento detenuto lavoratore, lo sconto di pena non è retroattivo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2016 Corte Ue - Sentenza 8 novembre 2016 - Causa C-554/14. All’atto del trasferimento di un detenuto presso un altro Stato Ue, la pena della reclusione non può essere ridotta in considerazione del lavoro già svolto in prigione se la normativa del primo Stato membro non contemplava il beneficio. Lo ha stabilito la Corte Ue, con la sentenza 8 novembre 2016, nella Causa C-554/14, affermando anche che la decisione quadro (2008/909, come modificata dalla decisione 2009/299) che disciplina il trasferimento un condannato nella Ue non ha efficacia diretta ma il giudice è comunque tenuto a dare una interpretazione conforme del diritto nazionale. Nel 2012, un cittadino bulgaro era stato condannato in Danimarca a 15 anni per omicidio e furto aggravato. Durante l’esecuzione della pena, prima del trasferimento in Bulgaria, avvenuto nel settembre 2013, aveva lavorato per circa 20 mesi. La regola generale posta dalla decisione quadro, ricorda la Corte, è che l’esecuzione di una condanna è disciplinata dal diritto dello Stato membro in cui viene eseguita. Ora, il diritto bulgaro prevede che due giorni lavorativi equivalgono a tre giorni di detenzione e, secondo una sentenza interpretativa pronunciata il 12 novembre 2013 dalla Corte suprema di cassazione, tale norma si applica anche nel caso in cui l’attività sia avvenuta presso un Stato terzo. Le autorità danesi, invece, hanno espressamente dichiarato che la legge nazionale non consente di ridurre la pena detentiva a causa del lavoro svolto durante la reclusione. Chiamata in causa la Corte Ue ha affermato oggi che lo Stato membro di esecuzione non può sostituire retroattivamente le proprie norme (in particolare, quelle relative alle riduzioni della pena) a quelle dello Stato membro di emissione per quanto concerne la parte della pena già scontata. Di conseguenza, le autorità bulgare non possono concedere una riduzione della pena sulla parte che ha avuto esecuzione in Danimarca. In definitiva, affermano i giudici, la decisione quadro "osta a una norma nazionale, interpretata in modo tale da autorizzare lo Stato di esecuzione a concedere alla persona condannata una riduzione di pena a motivo del lavoro da essa svolto durante la sua detenzione nello Stato di emissione, quando le autorità competenti di quest’ultimo Stato, conformemente al diritto dello stesso, non hanno concesso una siffatta riduzione di pena". Inoltre, continua la sentenza, benché la decisione quadro non abbia efficacia diretta, il giudice nazionale è chiamato a interpretare il diritto in modo conforme al fine di conseguire il risultato cui la medesima mira. E tale obbligo si estende anche alle giurisdizioni superiori, eventualmente modificando la giurisprudenza consolidata. Spetta dunque al giudice del rinvio garantire la piena efficacia della decisione quadro, disapplicando se necessario, di propria iniziativa, l’interpretazione della Corte suprema se incompatibile con il diritto dell’Unione. Facebook deve vigilare sui link rimossi di Alessandro Longo Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2016 Il Tribunale di Napoli, con una decisione innovativa, spinge in avanti la soglia di tutela delle vittime da bullismo virtuale. Lo fa in relazione al caso di Tiziana C, la 31 enne campana morta suicida dopo la diffusione virale su Facebook di un video hard privato. Facebook, scrivono i giudici nel provvedimento non ancora pubblicato, avrebbe dovuto impedire tutti gli "ulteriori caricamenti" dei link che contenevano il video contestato, non limitandosi alla rimozione di quelli indicati nel ricorso. Si tratta in sostanza di un obbligo di vigilanza "a posteriori", che rende meno neutrale il fornitore di servizi di rete, con la finalità di coinvolgerlo nella tutela effettiva e in tempo reale delle vittime dei reati da social. Il principio è previsto nell’ordinanza con cui il Tribunale civile di Napoli Nord ha parzialmente rigettato il reclamo di Facebook Ireland per il caso di Tiziana, dando quindi ragione in parte alla madre, Teresa Giglio. Il giudice tra l’altro - si legge nell’ ordinanza - fissa in 100 euro la somma dovuta per ogni violazione o inosservanza dell’ordine e per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento a partire dal decimo giorno successivo alla comunicazione dell’ordinanza fino a un massimo di 10mila euro. Dell’ordinanza "finora era noto solo che secondo il giudice Facebook doveva rimuovere gli specifici link indicati nell’ordinanza. Quanto scopriamo ora potendo leggere la sentenza (non ancora pubblica, ndr) è un elemento che pone in capo a Facebook un ulteriore carico di pressioni e responsabilità", spiega Fulvio Sarzana, avvocato penalista esperto di diritto digitale. "Non è proprio un obbligo a una sorveglianza preventiva sui contenuti. Le norme (articolo 17 del decreto legislativo n. 70/2003) vietano infatti imporre questa misura a una piattaforma come Facebook (equiparato a un "hosting provider", cioè un fornitore di spazio web, dall’ordinanza)", aggiunge Sarzana. "Ma l’obbligo di impedire ulteriori caricamenti degli stessi link indicati nell’ordinanza è una via di mezzo tra quella sorveglianza preventiva e la semplice rimozione on demand dei link". L’ordinanza accoglie in parte anche il reclamo di Facebook Ireland quando dispone appunto che non sussiste alcun obbligo per l’hosting provider di controllare preventivamente i contenuti in modo da individuare quelli riguardanti la ragazza vittima della violenza via web. Insomma, quando qualcuno segnala un contenuto illegale, Facebook non è obbligato a cercarlo su tutte le proprie pagine per rimuoverlo. Si deve occupare solo degli specifici link segnalati in questa occasione. Ma - ed è questa la novità dell’ordinanza di Napoli - non si deve accontentare di rimuoverli una tantum; deve invece impedire che gli stessi link tornino online. "È di fatto un obbligo di monitoraggio, mai imposto prima", dice Sarzana. È tutto da valutare l’impatto pratico che questa azione di monitoraggio avrebbe avuto per il caso di Tiziana, dato che i link dove era presente il video erano circa mille prima del suo suicidio. Comunque la vittima, a regole attuali, avrebbe dovuto segnalare a Facebook ogni singolo link. E se il video fosse tornato online con un link diverso da quelli segnalati, Facebook non sarebbe stato costretto a rimuoverlo. La pronuncia dei giudici campani interviene su questo punto in modi incisivo. L’obbligo a monitorare il ritorno online dei link segna una escalation per le responsabilità normative che gravano su una piattaforma web. È una misura, in definitiva, che le spinge a una ulteriore responsabilizzazione verso i contenuti pubblicati dagli utenti. Falso in bilancio ancora vivo di Debora Alberici Italia Oggi, 9 novembre 2016 La legge anticorruzione, n. 69 del 2015, non alleggerisce il reato di falso in bilancio. Infatti, i manager che rappresentano disponibilità o liquidità fittizie, strumentalizzando dati veri, sono comunque penalmente perseguibili. È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 46689 dell’8 novembre 2016, ha respinto, sul punto, il ricorso degli amministratori di una nota cooperativa emiliana. Con oltre cento pagine di motivazioni i Supremi giudici hanno spiegato che "eliminato ogni riferimento a soglie percentuali di rilevanza (chiaro indice di un criterio valutativo agganciato al dato quantitativo), la nuova normativa affida al giudice la valutazione, in concreto, della incidenza della falsa appostazione o della arbitraria preterizione della stessa; dovrà dunque il giudice operare una valutazione di causalità ex ante, vale a dire che dovrà valutare la potenzialità decettiva della informazione falsa contenuta nel bilancio e, in ultima analisi, dovrà esprimere un giudizio prognostico sulla idoneità degli artifizi e raggiri contenuti nel predetto documento contabile, nell’ottica di una potenziale induzione in errore in incertam personam. Tale rilevanza, proprio perché non più ancorata a soglie numeriche predeterminate, ma apprezzata dal giudicante in relazione alle scelte che i destinatari dell’informazione (soci, creditori, potenziali investitori) potrebbero effettuare, connota la falsità di cui agli artt. 2621, 2621 bis 2622 cod. civ. Essa, dunque, deve riguardare dati informativi essenziali, idonei a ingannare e a determinare scelte potenzialmente pregiudizievoli per i destinatari. Ovvio che tale potenzialità ingannatoria ben può derivare, oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, dalla falsa valutazione di un bene che pure è presente nel patrimonio sociale". Non solo. Dopo questi chiarimenti la quinta sezione penale ha inoltre affermato che, pur dopo le modifiche apportate dalla legge n. 69 del 2015, anche in tema di false comunicazioni sociali, il falso valutativo mantiene il suo rilievo penale. Dello stesso parere la Procura generale del Palazzaccio che sul punto ha chiesto il rigetto del ricorso. Commercio di prodotti con segni falsi: confini di tutela e diversità dal reato di ricettazione Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2016 Commercio di prodotti con segni falsi - Requisiti fondamentali del reato - Registrazione del marchio contraffatto - Non necessaria. Il reato di commercio di prodotti con segni falsi (articolo 474 c.p.) tutela la fede pubblica intesa come affidamento della collettività nei marchi e segni distintivi e quindi l’interesse non solo dello specifico consumatore occasionale, ma della generalità dei possibili destinatari dei prodotti. Per la configurazione del suddetto reato, afferma la Suprema Corte, è sufficiente e necessaria l’idoneità della falsificazione a ingenerare confusione, a nulla rilevando che il marchio, se notorio, risulti o meno registrato. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 16 settembre 2016 n. 38664. Commercio di prodotti con segni falsi - Contraffazione grossolana - Sussistenza di reato impossibile - Esclusione. La contraffazione grossolana che sia riconoscibile dall’acquirente in ragione delle modalità di vendita non integra l’ipotesi del reato impossibile (articolo 49 c.p.) ma quello di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (articolo 474 c.p.), in quanto l’attitudine della falsificazione ad ingenerare confusione deve essere valutata non con riferimento al momento dell’acquisto, ma in relazione alla visione degli oggetti nella loro successiva utilizzazione. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 21 luglio 2016 n. 31597. Commercio di prodotti con segni falsi (requisiti) - Reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci - Differenze - Sussistenza del primo reato - Fattispecie relativa alla vendita di borse con marchio "Luis Vuitton". Per la configurazione del reato di cui all’ articolo 474 c.p., che ha per oggetto la tutela della fede pubblica, è richiesta la contraffazione o l’alterazione del marchio e/o segno distintivo della merce, laddove per la configurazione del reato di cui all’articolo 517 c.p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci), che tutela l’ordine economico, è sufficiente che il marchio sia solo imitato, non necessariamente contraffatto e idoneo a trarre in inganno l’acquirente sull’origine, qualità o provenienza del prodotto da un determinato produttore (Nel caso di specie l’imputato si doleva del fatto che il marchio non fosse uguale a quello originale in quanto il logo era composto dalle lettere "X" ed "L" sovrapposte, piuttosto che "V" ed "L" e che la stella fosse a cinque e non a quattro punte. Per la Suprema Corte la contraffazione, ancorché grossolana, era idonea a offendere la fede pubblica ed a integrare il reato di cui all’articolo 474 c.p.). • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 19 maggio 2016 n. 20781. Commercio di prodotti con segni falsi - Reato di ricettazione - Differenze - Elemento psicologico - Rapporto di specialità tra i due reati - Esclusione. Il reato di ricettazione (articolo 648 c.p.) e quello di commercio di prodotti con segni falsi possono concorrere poiché le fattispecie incriminatrici presuppongono condotte diverse tra le quali non è configurabile un rapporto di specialità (articolo 15 c.p.). Le condotte sono ontologicamente e strutturalmente diverse, né l’una presuppone l’altra: infatti, se la detenzione implica per sua natura un’apprensione questa non integra sempre la ricettazione, potendosi verificare un acquisto senza la consapevolezza del carattere contraffatto dei segni (elemento essenziale del reato di ricettazione) con posticipata presa di coscienza e deliberazione di porre in circolazione i relativi prodotti. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 22 aprile 2016 n. 16915. Pisa: detenuti di in sciopero della fame, protestano contro le condizioni del carcere Redattore Sociale, 9 novembre 2016 Due giorni di rifiuti dei pasti per in segno di protesta contro le condizioni del carcere. Nei giorni scorsi, presentato esposto alla Procura della Repubblica da parte dei Radicali. Sciopero della fame per i detenuti del carcere di Pisa nello scorso fine settimana. Molti di loro hanno gettato nella spazzatura sia il pranzo che la cena per due giorni. Una protesta per denunciare le condizioni in cui versa l’istituto penitenziario Don Bosco. Proprio nei giorni scorsi, furono i Radicali a denunciare le condizioni del carcere di Pisa dopo il sopralluogo dell’ex parlamentare Rita Bernardini. Sul tema è stato presentato anche un esposto alla Procura della Repubblica. "Le condizioni di detenzione dei 266 carcerati sono più che disumane e degradanti, sono da denuncia immediata alla Procura della Repubblica, cosa che farò personalmente nelle prossime ore" aveva detto l’esponente radicale Rita Bernardini, che analizzato così le condizioni dell’istituto penitenziario: "Sovraffollamento, sporcizia, mura scrostate e tappezzate con carta di giornale per coprire le schifezze stratificate sulle mura, materassi indecenti, gabinetti a vista così che i detenuti devono defecare e orinare alla presenza dei loro compagni di cella e del personale penitenziario al quale lo Stato consegna nei fatti l’ordine di operare in condizioni di totale illegalità rispetto alla Costituzione e alla normativa vigente". Torino: collaboratore di giustizia tenta il suicidio in cella, è in coma La Repubblica, 9 novembre 2016 Ha tentato il suicidio legandosi con un laccio delle scarpe alle grate della finestra del bagno della sua cella alle Vallette di Torino. Sono gravi le condizioni di un collaboratore di giustizia di 39 anni, ricoverato in ospedale in coma farmacologico grazie all’intervento della polizia penitenziaria che gli ha salvato la vita. "Questo dramma mostra come i problemi sociali e umani permangono nei penitenziari e gli agenti siano lasciati soli a gestire le situazioni di emergenza", è la denuncia di Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. Dal 1992 al 30 giugno 2016 più di 20.260 detenuti hanno tentato il suicidio e quasi 142mila si sono procurati ferite anche gravi. "La situazione nelle carceri resta allarmante", dichiara Capece. "Ancora una volta rimane da sottolineare, senza retorica alcuna, come soltanto l’abnegazione e lo spirito di sacrificio degli agenti di polizia penitenziaria - aggiunge Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria - che in un contesto lavorativo connotato da grave carenza di organico e di mezzi salvano la vita ai ristretti". Parma: nel carcere apre una lavanderia industriale, darà lavoro a 16 detenuti di Ambra Notari Redattore Sociale, 9 novembre 2016 Portato avanti da 5 aziende e dalla Fondazione Cariparma, il progetto "Sprigioniamo il lavoro" darà lavoro a 16 detenuti entro il prossimo anno. Obiettivo, lavorare 14 mila chili di biancheria a settimana per strutture alberghiere e sanitarie. Cavalieri (Garante Parma): "Passaggio storico". Otto detenuti saranno assunti subito, altri 8 entro la fine del 2017: l’occasione è l’avvio di una lavanderia industriale all’interno del penitenziario di Parma nell’ambito del progetto "Sprigioniamo il lavoro". "Un passaggio storico, un momento fondamentale: per il nostro carcere questa è una bellissima novità": non nasconde la sua emozione Roberto Cavalieri, Garante dei detenuti del Comune di Parma. Cinque aziende - Gruppo Gesin Proges; Coop. Sociale Biricca; GSG. srl.; Multiservice Soc. Coop; Bowe 2014 srls - confluiranno in una nuova realtà (Newco) che prenderà in carico la gestione della lavanderia interna al penitenziario. Obiettivo, lavorare 14 mila chili di biancheria a settimana per strutture alberghiere e sanitarie. Determinante il ruolo della Fondazione Cariparma, che sosterrà le spese per i macchinari industriali e l’adeguamento degli impianti energetici a beneficio dell’amministrazione penitenziaria. "Due delle aziende coinvolte sono profit, a significare l’ambizione dell’iniziativa". La Newco non solo risponderà alle direttive della legge Smuraglia, ma si farà carico della copertura dei costi derivati dall’inserimento all’esterno del carcere di 7 detenuti all’anno in tirocinio formativo nelle aziende partner: "naturalmente ci piacerebbe che poi i tirocini si trasformassero in veri e propri eventi formativi", continua Cavalieri. La Newco finanzierà anche una serie di progetti e iniziative a favore dei detenuti anziani e disabili che non possono partecipare alle attività lavorative per motivi di salute ed età avanzata: "Il carcere di Parma è anche un Centro clinico: queste persone sono sempre un po’ dimenticate, ci fa piacere che finalmente si pensi anche a loro". Per la lavanderia all’interno del carcere, 6 dipendenti delle aziende coinvolte cambieranno la loro sede lavorativa e la porteranno all’interno dell’istituto penitenziario: "Anche questa è una bellissima novità, soprattutto a livello di socializzazione: significherà molto per i detenuti, che si troveranno a lavorare gomito a gomito con persone che vengono da fuori". Cosenza: Confagricoltura apre sportello fiscale e patronato nel carcere di Emilio Enzo Quintieri Ristretti Orizzonti, 9 novembre 2016 Buone notizie per i detenuti, i familiari e tutti gli operatori che prestano servizio presso il Carcere di Cosenza. Nei giorni scorsi, infatti, il Direttore della Casa Circondariale "Sergio Cosmai" di Cosenza Filiberto Benevento insieme al Presidente della Confederazione Generale Agricoltura Italiana, Unione Provinciale Agricoltori di Cosenza Fulvia Michela Caligiuri, hanno sottoscritto un Protocollo di Intesa al fin di consentire anche ai detenuti ed alle loro famiglie ed al personale che presta servizio nello stabilimento penitenziario, di poter fruire dei servizi di informazione, assistenza e tutela che la Legge affida agli Istituti di Patronato. La Direzione del Carcere si è impegnata a mettere a disposizione uno spazio all’interno dell’Istituto per costituire uno sportello di assistenza fiscale e patronato, gestito a titolo gratuito dalla Confagricoltura, tramite il quale offrire ai ristretti e al personale in servizio nella struttura, i servizi di assistenza fiscale: Isee, Red, Mod. 730, Unico/Pf, Imu, Tasi, Disoccupazione, Pensioni (invalidità civile, accompagnamento, vecchiaia, reversibilità, assegni sociali, invalidità contributiva, anzianità) - Assegni familiari su disoccupazione, assegni familiari su pensione, domande di maternità, domande di allattamento, infortuni, social card, bonus bebè, bonus riduzioni utenze domestiche, gestione pratiche Inps, Inpdap ed Inail. Inoltre la Direzione ha preso l’impegno di segnalare i detenuti che intendono avvalersi dei servizi offerti, individuando un referente del progetto che seguirà adeguatamente lo svolgimento dell’iniziativa e contribuirà efficacemente alla sua buona riuscita. La Confagricoltura, invece, si è impegnata a gestire lo sportello di assistenza all’interno della struttura penitenziaria, prestare assistenza a titolo gratuito ai detenuti ed al personale in servizio presso la Casa Circondariale che ne facciano richiesta nonché prestare assistenza, sempre a titolo gratuito, alle famiglie dei detenuti, presso la propria sede sita in Via Piave n. 3 a Cosenza. L’iniziativa avrà la durata di 12 mesi, salvo rinnovo, con decorrenza dalla data dell’approvazione del Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Dott.ssa Paola Lucente, come prevede l’Art. 17 della Legge Penitenziaria. A tal riguardo, la Confagricoltura, dovrà comunicare in tempo utile alla Direzione Penitenziaria i nominativi delle persone individuate per l’espletamento delle attività che, parimenti, dovranno essere autorizzati dal Magistrato di Sorveglianza. Soddisfatti per la stipula del Protocollo di Intesa tra l’Amministrazione Penitenziaria e la Confagricoltura è stata espressa dagli esponenti dei Radicali Italiani Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti che oltre a ringraziare il Direttore Benevento ed il Presidente Caligiuri, hanno inteso rivolgere il proprio apprezzamento per Roberto Blasi Nevone che ha seguito la vicenda e che si sta interessando anche di un altro progetto denominato "Officina Corpo e Mente" che prevede l’apertura della Palestra per i detenuti e lo svolgimento di un corso di formazione come "Istruttore di Body Building", titolo riconosciuto dal Comitato Olimpico Nazionale Italiano e che potrà essere speso all’esterno dai detenuti per lavorare nelle strutture sportive una volta espiata la pena, contribuendo alla rieducazione dei condannati ed al loro reinserimento nella società. L’attivazione dello Sportello di Patronato nel Carcere di Cosenza, dichiarano Quintieri e Moretti, è una iniziativa molto importante poiché contribuisce, in maniera concreta, a promuovere e tutelare i diritti dei detenuti. Tante volte, infatti, nell’ambito delle nostre visite ispettive abbiamo riscontrato numerosi casi di detenuti che non sapevano o avevano avuto la possibilità di chiedere l’indennità di disoccupazione, l’assegno o la pensione di invalidità civile, l’accompagnamento o altri benefici, anche perché alcune prestazioni possono essere richieste solo in forma telematica, strumento chiaramente precluso alla popolazione carceraria poiché dietro alle sbarre non ci sono né personal computer né internet. Salerno: detenuti e senzatetto, ecco la Casa della misericordia di Giuseppe Pecorelli Il Mattino, 9 novembre 2016 Ospitalità e incontri con i familiari nella parrocchia di Sant’Eustachio. Nove uomini i primi "inquilini". Si chiama "Domus Misericordiae", cioè "Casa della misericordia", la struttura di accoglienza e ospitalità per detenuti soggetti a misure alternative alla detenzione e per persone senza fissa dimora, inaugurata ieri sera nei locali della parrocchia di Sant’Eustachio, a Brignano. Al taglio del nastro erano presenti l’arcivescovo Luigi Moretti, il sindaco Vincenzo Napoli, l’assessore comunale alle politiche sociali Nino Savastano, il direttore della casa circondariale di Fuorni Stefano Martene, la presidente della Corte d’appello di Salerno Iside Russo, la direttrice dell’Ufficio di esecuzione penale esterna di Salerno Angela Spinazzola e la rappresentante del Tribunale di sorveglianza Maria Siniscalchi. La Domus, che nasce dalla sinergia tra più istituzioni, firmatarie di un protocollo d’intesa, accoglierà nove uomini, che seguiranno, grazie all’impegno dei volontari dell’associazione Migranti senza frontiere, un percorso di reinserimento sociale. La comunità parrocchiale di Brignano ha anche messo a disposizione degli ospiti un appartamento, dove periodicamente potranno incontrare i propri familiari. "È solo l’ultima delle iniziative in favore dei detenuti - spiega don Rosario Petrone, cappellano in carcere e parroco a Sant’Eustachio - un modo per accogliere l’appello di Papa Francesco ad aiutare anche i fratelli che hanno sbagliato. Domenica scorsa, dodici detenuti di Fuorni erano in piazza San Pietro per il Giubileo dei carcerati e hanno ascoltato dal Santo Padre parole di speranza. Non ci sono errori da cui non ci si può rialzare. Tutto questo è stato reso possibile dall’impegno della struttura carceraria, del tribunale di sorveglianza, dei volontari. La Domus è un segno che quest’Anno santo della misericordia lascerà a Salerno". Non è pero l’unica iniziativa in favore dei detenuti, culla Chiesa salernitana ha riconosciuto grande attenzione nel corso del Giubileo. Per volontà dell’arcivescovo Moretti, una delle cinque porte sante diocesane era quella della cappella del carcere, che il prossimo sabato sarà chiusa in una celebrazione presieduta dal vicario generale, monsignor Biagio Napoletano. "Duemila persone, provenienti dalle parrocchie salernitane - continua don Petrone - hanno vissuto il loro Giubileo in carcere nel corso dell’ultimo anno. Hanno voluto condividere con i detenuti la celebrazione della Messa e l’attraversamento della Porta santa. Hanno così capito cosa ci sia davvero dietro al carcere, al di là dei pregiudizi Io spero che non ci si fermi al Giubileo, ma che le comunità parrocchiali continuino ad avere attenzione per questi nostri fratelli. In questo senso, ci aiuterà anche il progetto nazionale di Caritas italiana, che si chiama Liberare la pena e che partirà dal prossimo 1° gennaio. Avrà tre obiettivi: far dipingere a mano ai detenuti i ceri pasquali, che saranno utilizzati nelle diocesi di Salerno-Campagna-Acerno e Nocera Inferiore-Samo; aiutare i detenuti agli arresti domiciliari; sensibilizzare l’opinione pubblica al tema del reinserimento sociale. Anzi, da cappellano, invito tutte le persone di buona volontà a contattarmi per capire insieme quale aiuto dare ai detenuti. Insomma vogliamo far vincere la speranza. Il mio augurio è che presto, in diocesi, nasca un ufficio di pastorale carceraria, per un impegno ancora più assiduo su questo fronte". Cremona: detenuti-chef cucinano i prodotti coltivati da migranti e disabili viverecremona.it, 9 novembre 2016 Nell’azienda agricola della Cooperativa Nazareth a Persico Dosimo, alle porte di Cremona, migranti e disabili psichici coltivano ortaggi biologici che vengono, quindi, trasformati in gustose conserve e salse dai detenuti-chef della casa circondariale cittadina di Cà del Ferro. È un progetto di filiera sociale a ‘km 0’ quello che verrà presentato domenica 13 novembre alle 14.30 a Cremona Fiere nell’ambito della 13esima edizione de il Bontà, Salone delle eccellenze enogastronomiche artigianali e delle attrezzature professionali. Un progetto virtuoso. Cremona Fiere è lieta e orgogliosa di ospitare la presentazione di un progetto così virtuoso all’interno de il Bontà, manifestazione che, dall’11 al 14 novembre, promuove e valorizza i sapori e i saperi della buona tavola italiana. La rassegna propone una selezione di oltre 2mila prodotti di qualità che interpretano al meglio la tradizione e l’avanguardia del Made in Italy in ambito agroalimentare con la presenza di oltre 150 espositori provenienti da 19 regioni italiane e da alcuni Paesi esteri. In contemporanea con il Bontà, Cremona Fiere accoglie Free From, debuttante iniziativa dedicata ai consumatori allergici e intolleranti. Dalla terra alla tavola. Il format "dalla terra alla tavola" fonde il percorso di accompagnamento all’autonomia di minori stranieri e persone con fragilità ribattezzato "Rigenera" con l’attività di formazione e riabilitazione sociale e lavorativa denominata "I Buoni di Cà del Ferro", che si svolge all’interno del laboratorio di trasformazione agroalimentare ricavato di recente nella casa circondariale di Cremona. I detenuti, in una sequenza di corsi della durata complessiva di 120 ore, ottengono attestati su Haccp, antincendio, primo soccorso e sicurezza sul lavoro e, quindi, affrontano esercitazioni pratiche per apprendere come trattare gli ingredienti e come cucinarli sotto la guida di uno chef professionista. Guardare dentro le persone. "L’obiettivo è non solo offrire un nuovo approccio al lavoro e alla socializzazione, ma anche creare concrete opportunità lavorative - spiega Giusy Brignoli, tra i responsabili della Cooperativa Nazareth. I prodotti, sia freschi sia trasformati, sono biologici certificati; inoltre, le persone che lavorano, anche se toccate da uno ‘svantaggiò di tipo sociale o fisico, vengono valorizzate nel loro saper fare liberando creatività ed energie". Precisa, a proposito, la direttrice di Cà del Ferro Maria Gabriella Lusi: "Come operatori penitenziari siamo convinti che il nostro lavoro possa essere efficace se riusciamo a guardare ‘dentrò la persona detenuta e, ad un tempo, a tutto ciò che la circonda. La società è nei nostri primari interessi perché attraverso processi rieducativi miriamo a restituire alla libertà persone non più portate a delinquere… magari perché hanno acquisito una competenza professionale in carcere da spendere dopo la pena, come nel nostro caso; magari perché, con la partecipazione del detenuto, il carcere ha saputo creare con il territorio il ponte di un efficace reinserimento". "Sogno un futuro in questo settore con la mia famiglia". Gli intenti del progetto si riassumono felicemente nelle parole di R.R., uno dei detenuti partecipanti: "Sono convinto che, quando uscirò da qui, sarò già "tre passi in avanti" rispetto ad altri. "Sogno di poter realizzare un progetto in questo settore con la mia famiglia". Non solo: "Ho capito il valore e l’importanza del lavorare in team, imparando a valorizzare ed apprezzare le doti e le qualità dei miei compagni di lavoro, per crescere insieme, producendo cibo di qualità. Dal punto di vista umano questa opportunità mi serve molto per dimostrare a me stesso che non sono la persona descritta nelle sentenze di tribunale, ma che ho un valore, che posso fare cose buone… che ce la posso fare!". Cagliari: piccolo, non puoi vedere papà! Tutta colpa di un ombrello di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 novembre 2016 La denuncia della presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme". Dopo aver fatto un viaggio di tre ore, con un bambino di 15 mesi, per fare un colloquio con il marito ristretto nel carcere sardo di Uta è stata costretta a ritornare indietro senza aver avuto la possibilità di poterlo incontrare. Tutta colpa di un ombrello. A denunciare l’episodio è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme". La presidente ha sottolineato che si era trattato di un malinteso provocato da un’informazione incompleta, dalla abbondante pioggia che era in corso e dalla stanchezza. "La donna, ignara del divieto poiché non aveva ricevuto alcuna limitazione in merito - spiega la Caligaris - aveva superato il primo ingresso con il bambino in carrozzina e l’ombrello aperto per ripararsi. Giunta alla seconda postazione di sicurezza però gli agenti in servizio le hanno fatto notare che non poteva accedere con l’ombrello. La donna ha detto che non era stata informata e ha consegnato l’ombrello ma è stata invitata a riportare l’ombrello nell’ingresso dell’Istituto. A quel punto è nato il diverbio che ha esasperato gli animi". La presidente di Sdr ha spiegato: "La ragione delle norme si è contrapposta a quella di una madre che trovava illogico riportare indietro con un bambino piccolo l’ombrello e ritornare sui suoi passi nuovamente sotto la pioggia. Nel tira e molla, la donna non ha potuto effettuare il colloquio con il marito ed è tornata a casa dopo altre tre ore di viaggio". Maria Grazia Caligaris conclude amaramente: "Troppo spesso la stanchezza, dovuta a turni di lavoro snervanti o a situazioni familiari delicate, porta a mettere da parte il buon senso che invece deve sempre prevalere anche quando le condizioni sono difficili e imprevedibili. L’auspicio è che la vicenda trovi una soluzione positiva senza ulteriori strascichi". Il carcere di Uta è stato aperto nel 2014 con la chiusura del vecchio carcere di "Buoncamino". Con la successiva chiusura della Casa Circondariale di Iglesias, nei primi mesi del 2015, sono stati inviati a Cagliari anche i detenuti di quest’ultimo istituto. La struttura è collocata a circa venti minuti da Cagliari nel territorio del comune di Uta nell’area industriale di Macchiaraddu. La mega struttura - articolata in sezioni separate l’una dall’altra e strutturata su cinque livelli con una capienza regolamentare di quasi 600 detenuti - risulta difficilmente raggiungibile in quanto a tutt’oggi è assente una segnaletica in grado di indicare l’esatta ubicazione del carcere in una zona peraltro destinata a iniziative industriali. Iniziative che sono sotto la lente di ingrandimento della procura di Cagliari. Tonnellate di gessi, scarti di lavorazioni industriali carichi di metalli pesanti e inquinanti, viaggiavano a bordo di camion per essere stoccate nel piazzale sterrato intorno al capannone di una società di trasporti. Decine di grossi cumuli, senza protezione: per la Procura sarebbe un traffico illecito di rifiuti. L’area incriminata riguarda proprio il territorio dove sorge il Villaggio Penitenziario di Uta: se così fosse, i detenuti e la polizia penitenziaria di Uta potrebbero rischiare anche una contaminazione. Roma: "Goliarda Sapienza", premiati i racconti dei detenuti dedicati al perdono Dire, 9 novembre 2016 Dedicata al perdono la VI edizione del premio "Goliarda Sapienza", ieri la premiazione. Maggio, vincitore con il racconto "Cemento Urlante": premio porti la lettura e la scrittura nelle carceri. "Questo premio non diventi un momento autoreferenziale, ma che porti la lettura e la scrittura nelle carceri". A parlare è Michele Maggio, autore del racconto "Cemento Urlante", vincitore della VI edizione del premio "Goliarda Sapienza", la cui cerimonia conclusiva si è svolta ieri a Roma nella rotonda del carcere di Regina Coeli. Il premio, che quest’anno aveva come tema il perdono, è rivolto ai detenuti delle carceri di tutta Italia e promosso dal Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria (Dap), dal ministero della Giustizia, da Siae e Inverso Onlus. Nella rotonda di via della Lungara non c’erano detenuti, ma solo scrittori: alcuni giovanissimi, come i finalisti della sezione Minori e Giovani Adulti, altri più "navigati", come Erri De Luca, Elio Pecora e Mogol, che insieme a molti altri autori hanno partecipato al progetto. I detenuti del carcere romano guardano la scena attraverso le grate, dall’alto dei bracci carcerari che affacciano sullo stanzone: a loro va il saluto dello scrittore Guido Barlozzetti, che sottolinea: "sono anche loro i protagonisti, stasera". Tanta commozione tra i premiati, che oltre a un riconoscimento in denaro hanno visto pubblicati i loro racconti, insieme a quelli dei finalisti, nel libro edito da Rai Eri "Così vicino alla felicità", con prefazione di Dario Edoardo Viganò, prefetto della segreteria per la Comunicazione della Santa Sede. Ogni racconto è introdotto da uno scrittore affermato, molti dei quali hanno anche incontrato e consigliato gli scrittori esordienti. I vincitori per la categoria adulti sono, oltre al già citato Maggio, Stefano Lemma al secondo posto con "L’Orto delle fate" e terzo Salvatore Torre con "Parafrasi di un lutto diversamente elaborato". Per la sezione giovani il primo premio va ad Antonio, autore di "Il biglietto di Rosa Parks", a cui il suo tutor Erri De Luca dedica dal palco una struggente poesia di Nazim Hikmet per portare l’attenzione sulla "mutilazione dell’affettività" in carcere. Medaglie d’oro e argento rispettivamente a "Unknown" con "Perdonate l’emozione" e a Raffaele Amabile con "C’è Anna". Menzioni speciali anche a Fanfarù, Sebastiano Primo, Massimo Armando Raganato e al giovane Valia. Alla premiazione, tra i rappresentanti istituzionali, presenti il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, e quello per la Giustizia minorile, Francesco Cascini, oltre a Pierferdinando Casini che presiede la Commissione Esteri del Senato. Madrina del premio la scrittrice Dacia Maraini, che non è potuta venire. C’erano poi Serena Dandini, che ha condotto la cerimonia, e il presidente della giuria Elio Pecora, che ha detto: "Ero amico di Goliarda e mi sono domandato se avrebbe approvato il premio. Mi dico di sì, e non perché la società’ borghese entra qui dentro a fare una festa, ma perché il mondo si serva del racconto di chi sta dentro - è il senso delle sue parole - dentro queste esperienze c’è la sostanza di vita che tanti miei colleghi possono invidiare". "Da quello che scrivete emerge la vostra storia e quello che avete dentro- ha detto il sottosegretario Ferri - anche nell’attività giudiziaria l’emozione può far emergere la verità". Napoli: ceramiche dei ragazzi di Nisida in esposizione alla Regione Roma, 9 novembre 2016 Il Consiglio regionale della Campania apre le porte alle ceramiche realizzate dai giovani detenuti del carcere minorile di Nisida. Dal primo al 6 dicembre, nell’atrio del grattacielo del Consiglio regionale al Centro direzionale, saranno esposte le opere realizzate dai ragazzi dell’Istituto minorile realizzate nell’ambito del progetto coordinato dalla cooperativa sociale "Nesis - Gli amici di Nisida". "Sarò tra i primi ad acquistare le splendide ceramiche realizzate dai ragazzi di Nisida, sono opere artistiche e possono essere un’idea per i regali di Natale" ha detto il capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, Armando Cesaro, a margine della presentazione della mostra svoltasi nella sala Nassiryia del consiglio regionale. Proprio Cesaro ha voluto fortemente questa iniziativa: "II progetto vede coinvolti una ventina di ragazzi - ha detto ancora- l’obiettivo e insegnare loro un mestiere per dare a tutti un futuro sano". "Sono molto contento di partecipare a questa iniziativa - ha confermato il capogruppo del Pd, Mario Casillo, ringrazio Armando Cesaro. Questo dimostra che, nonostante la distanza politica che ci separa, quando si mettono da parte i colori politici si fanno iniziative importanti per le comunità. Il consiglio regionale lavora per aprire sempre più il palazzo ai cittadini e per essere vicino alle fasce deboli e fragili". Ovviamente fra le persone che hanno preso parte alla presentazione c’era il direttore del carcere minorile di Nisida, Gianluca Guida: "II nostro dovere è lavorare per ricomporre la frattura tra società civile e devianze, non possiamo permettere che i ragazzi siano abbandonati a un destino criminale - ha detto. Da tempo - ha spiegato Guida - l’istituto stava cercando delle cooperative che po tessero anche commercializzare le opere prodotte dai ragazzi. È bello e importante che i ragazzi siano protagonisti della loro azione di recupero. In questa attività sono impegnati attualmente 6 ragazzi, 3 come collaboratori stabili e un dipendente. Parafrasando Kennedy, noi dobbiamo aiutarli ad aiutarsi e ad aiutarci. Purtroppo, questi giovani sono vittime del clima di tensione sociale che viviamo nelle nostre strade e nei quartieri". "E la prima volta che Nesis si trova in un palazzo delle istituzioni - afferma il presidente della cooperativa sociale Nesis Eduardo Gravina. Ringrazio tutto il consiglio regionale. All’interno del carcere di Nisida c’è un gruppo di persone che lavora da 7 anni nel campo della ceramica. L’anno scorso la Fondazione ha costituito la cooperativa per commercializzare le opere. Abbiamo assunto 2 ragazzi ancora detenuti che lavorano di pomeriggio nel laboratorio del carcere. La mattina è dedicata alla funzione sociale e la coop svolge un corso di formazione autofinanziato. Abbiamo la possibilità di metterci in contatto con 6-10 ragazzi e ragazze che cominciano a comprendere cosa è il lavoro e poi imparano l’arte della ceramica artistica. Abbiamo 5 lavoratori dipendenti tutti assunti e stipendiati, tutti con il proprio comparto di lavoro. 11 lavoro può essere il pungolo per uscire dalla malavita". Al termine della conferenza, Gravina ha donato alla presidente del consiglio regionale Rosetta D’Amelie un piatto in ceramica dedicato con il Vesuvio che sarà esposto in consiglio regionale. Civitavecchia (Rm): "Un cielo tra le sbarre", al via il laboratorio di cinema per detenuti civonline.it, 9 novembre 2016 L’associazione culturale Real Dreams di Tuscania, in collaborazione con il nuovo complesso penitenziario di Civitavecchia, il patrocinio del Comune di Civitavecchia e il prezioso sostegno dell’assessorato alla Cultura e Politiche giovanili della Regione Lazio, presenta il progetto "Un cielo tra le sbarre", il laboratorio cinematografico di sceneggiatura, ripresa e montaggio destinato ai detenuti e finalizzato alla realizzazione di un cortometraggio. Il progetto che ha vinto il bando regionale 2016 per la promozione e la valorizzazione del patrimonio audiovisivo del Lazio, permetterà ai partecipanti di confrontarsi con un percorso creativo che va dall’ideazione del cortometraggio alla realizzazione tecnica, con l’utilizzo di strumenti professionali di ripresa e montaggio e il coinvolgimento di attori e registi. Il laboratorio durerà fino a marzo 2017 per un totale di 5 mesi e 100 ore complessive. Gli incontri con i detenuti verranno ripartiti in scrittura e avvicinamento alla recitazione, ripresa video e montaggio, creazione colonne sonore. Per l’associazione culturale Real Dreams che da anni opera nell’organizzazione di eventi culturali e nella realizzazione di corti attraverso laboratori di scrittura e recitazione, il progetto vuole favorire il processo di crescita dei rapporti interpersonali dei detenuti, fornendo stimoli culturali, valorizzando il dialogo e il confronto tra pari con un lavoro di equipe. Per il direttore artistico Pietro Benedetti "la cosa fondamentale del progetto - ha spiegato - è creare il gruppo e riuscire a tirare fuori l’anima di queste persone che per vari motivi sono ora detenuti. Con il lavoro del laboratorio si vuole dargli uno spazio per esprimersi, e con l’uso del linguaggio del cinema dargli una voce e una nuova motivazione". "È importante realizzare per i cittadini detenuti percorsi artistici e di formazione culturale. Imparare l’arte e i mestieri dello spettacolo - dichiara l’assessore alla Cultura e Politiche giovanili Lidia Ravera - può fornire, oltre al sollievo psicologico e alla rottura dell’isolamento e del silenzio, utili sbocchi professionali per il tempo in cui torneranno in libertà o semilibertà. Come Regione Lazio sosteniamo nelle carceri rassegne audiovisive, laboratori cinematografici come "Un cielo tra le sbarre", compagnie teatrali e le officine delle arti e dei mestieri, con la passione di chi crede nella funzione salvifica dell’espressione di se, della narrazione, della creatività". "Il vento non lo puoi fermare", di Elvira Serra. Omicidio stradale, il dolore di chi uccide recensione di Elisabetta Ambrosi Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2016 A volte serve un romanzo per raccontare una realtà che giornali e tv non si curano di descrivere, inchiodati come sono a cliché e stereotipi, specie nel racconto di cronaca. A volte serve un romanzo per svelare qualcosa a cui nessuno di noi pensa, affetti come siamo da vista parziale, troppo ossessionati da alcuni temi, completamente ciechi su altri. Per questo vale la pena di leggere il nuovo romanzo della giornalista Elvira Serra, "Il vento non lo puoi fermare" (Rizzoli), dove lo sguardo dell’autrice si concentra sul dolore di un ragazzo gentile, rispettoso e ipersensibile che per sbaglio uccide con la macchina del padre una giovane donna madre di una bambina. Senza essere né ubriaco né drogato, senza aver violato le regole del codice stradale. Il lavoro di immaginazione che l’autrice fa su ciò che accade al protagonista Elias Portas dopo l’incidente è un piccolo capolavoro psicologico: una progressiva chiusura in se stesso, l’impossibilità di uscire fuori dalla sua stanza per oltre due anni, la vergogna immensa, il senso di colpa spaventoso, lo sforzo di espiazione, la volontà di autopunizione per aver compiuto un gesto per il quale sembra non esistere perdono. Elias perde tutto, tutto ciò che aveva: l’università, il coro, la musica, gli amici, la sua vita. Non è morto come la donna, ma è come se lo fosse. Dovrà passare tantissimo tempo perché il giovane cominci, lentamente a reagire, e solo dopo aver aspettato la sentenza del giudice che lo assolve in pieno. Quante vite spezzate, come quelle di Elias, ci sono negli incidenti stradali, oltre a quelle realmente rimaste sulla strada? Raccontare anche la loro sofferenza significa prendersi il rischio di pesanti accuse di insensibilità (se non di cinismo); accuse di voler mettere sullo stesso piano una persona che non c’è più e una che ancora ha di fronte la vita. Ovviamente non c’è niente di tutto questo nel romanzo di Serra, quanto, appunto, la volontà di accendere i riflettori su una realtà a cui noi mai pensiamo leggendo i trafiletti di cronaca: chi di noi, sapendo che una donna, un bambino, un anziano sono stati uccisi da un’automobile ha mai pensato al conducente? Lo si immagina volentieri rumeno, ubriaco, fuori legge, mentre spesso a uccidere sono uomini e donne normali, italiani, sobri, magari con i bambini legati dietro nei seggiolini, magari con uno smartphone in mano per avvisare qualcuno che stanno tornando, c’è traffico, di mettere sul fuoco la cena. Persone che spesso dopo l’incidente non riescono più a vivere come prima, soffrono di angosce, incubi, smettono per sempre di guidare, cadono in depressione, qualcuno arrivano persino a togliersi la vita. È questa realtà che non vuole ammettere il marito nella donna uccisa nel libro quando Elias trova dopo mesi la forza di presentarsi a casa sua. Perché quello che ti ha distrutto la vita non può essere un ragazzo mite e distrutto, ma - come se l’è sempre immaginato il marito della donna - un figlio di papà arrogante e insensibile al dolore altrui, un egoista cieco e folle che non sa neanche che distruggere una vita significa annientare quella di un’intera famiglia, figli, nonni, zii, tutti i parenti di chi non c’è più. Sarebbe bello se questo libro fosse presentato all’Associazione Familiari e vittime della strada. Che tra l’altro ha ottenuto una grande vittoria il 2 marzo scorso, visto che il nuovo reato di omicidio stradale è uno tra i più duri d’Europa. Si rischiano dagli 8 ai 12 anni di carcere se si uccide con un tasso alcolemico nel sangue alto, fino a 20 anni se il conducente si dà alla fuga. Può essere punito con reclusione da 5 a 10 anni l’automobilista con un tasso alcolemico lieve, oppure che abbia causato l’incidente per condotte di particolare pericolosità. Se una persona muore, però, il colpevole rischia fino a 18 anni di carcere. Ancora: la patente viene sospesa per 15 anni in caso di omicidio e per 5 anni in caso di lesioni personali (basta che la vittima vada al pronto soccorso). Se il conducente è fuggito, però, saranno ben 30 gli anni di revoca della patente. Sono informazioni che ben pochi sanno o vogliono recepire, eppure sono già operative e rischiano - giustamente - di rendere la vita di chi ha ucciso ancora più difficile. Chissà cosa sarebbe accaduto all’Elias del romanzo se l’incidente fosse accaduto oggi. Ma ciò che conta è che, finalmente, si aprano gli occhi anche su cosa succede a chi, involontariamente, ha ucciso. Per conoscere, finalmente, un tassello che mancava e che serve a tutti: a chi soffre per una perdita, a chi quelle perdite le racconta ogni giorno su giornali e tv. Migranti. La Chiesa può accogliere ma serve la Politica. Che latita di Marco Politi Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2016 Sono mille giorni che papa Francesco, a partire dal suo primo pellegrinaggio a Lampedusa, insiste sul tema delle migrazioni. Bergoglio è stato il primo ed è in fondo l’unico leader mondiale ad aver capito sino in fondo il carattere epocale della migrazione di milioni di disperati - uomini e donne, vecchi e ragazzi - che lottano per la sopravvivenza cercando di raggiungere l’emisfero settentrionale: Europa e America del Nord. Credere di affrontare il fenomeno con i muri o nella visione di un’operazione di polizia è illusorio. Ma anche pensare di muoversi soltanto in una mera ottica di buonismo sarebbe ingenuo. Anzi rischia di alimentare nell’opinione pubblica paura, ostilità e xenofobia. Per questo è interessante notare come con il passare del tempo Francesco affini il suo messaggio. Il 2016 è da questo punto di vista un anno importante. Con il viaggio al campo dei rifugiati di Lesbo, compiuto con il patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo, il Papa ha messo in luce la necessità che le iniziative di aiuto siano impostate in chiave ecumenica come testimonianza unitaria di tutti i cristiani. Lo stesso concetto ha espresso durante l’incontro in Svezia con la Federazione luterana mondiale. A Lesbo Francesco ha lanciato un altro messaggio: portandosi a casa nel viaggio di ritorno a Roma tre famiglie siriane musulmane, ha respinto silenziosamente la tesi degli "occidentalisti", spesso atei devoti, che ritengono vada data la precedenza agli immigrati cristiani. Proprio rientrando dalla Svezia, tuttavia, Francesco ha sviluppato un nuovo tema. Ribadito che è sbagliato sbarrare le frontiere, ha insistito sulla "prudenza dei governanti… (sul) calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere ma lo si deve integrare". Questo significa fargli imparare la lingua, la cultura e anche "integrarlo nella cultura" del paese in cui si stabilisce. Il pericolo della non integrazione, ha sottolineato Francesco, è la ghettizzazione dei nuovi arrivati. "Una cultura che non si sviluppa in rapporto con l’altra cultura, questo è pericoloso". Emerge qui un elemento caratteristico del pontefice argentino. Bergoglio ha una testa politica. Distingue tra la dimensione etico-religiosa e le competenze della politica. Bergoglio anzi esorta la Politica ad assumersi le sue responsabilità e a riappropriarsi del suo ruolo di guida. Da non dimenticare, in questo senso, è la sua condanna nell’enciclica verde Laudato sì di una politica sottomessa passivamente alle ragioni della a tecnologia e agli interessi della finanza. Nella globalizzazione contemporanea, idolatrica dell’interesse economico totalmente individuale - quella che Giovanni Paolo II in maniera pregnante chiamava l’"ideologia capitalistica radicale" - il papa argentino vede la supremazia negativa di un "governo del denaro", anzi di un "terrorismo del denaro … (che governa) con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza". La risposta? L’agire della politica con la P maiuscola. "Una maniera esigente di vivere l’impegno cristiano", diceva Paolo VI citato da Francesco nel terzo incontro con i movimenti popolari avvenuto giorni fa in Vaticano. Proprio il carattere epocale delle migrazioni richiede dunque l’elaborazione di politiche che abbiano una visione geopolitica di ampio respiro. Il cardinale di Milano Angelo Scola ha evocato in proposito in Piano Marshall, finanziato dagli Stati Uniti, che nel dopoguerra risollevò i paesi europei occidentali piegati dalla guerra. La Chiesa, ha spiegato in una intervista alla Stampa, agisce da buon Samaritano, accogliendo e aiutando. Altro è il compito della politica. "Serve una sorta di piano Marshall almeno a livello europeo per affrontare il problema, sia nei Paesi di partenza come nei nostri". Scola è uno dei porporati italiani che con maggiore serietà e coerenza ha dedicato la sua attenzione al dialogo con l’Islam, all’integrazione delle culture, al "meticciato" fra le diverse culture che si intrecciano in Occidente nel fenomeno delle migrazioni. Il suo accenno al Piano Marshall indica la necessità di una politica lungimirante, che investa risorse, molte risorse nello crescita economica dei paesi del Terzo mondo in modo da assicurare ai loro abitanti nella terra natale quei livelli degni di vita, che inseguono spostandosi nella parte nord del pianeta. Il Piano Marshall non è solo simbolo di una politica di ampio respiro, ma anche di quel "sano egoismo" di uno Stato che comprende che la propria sicurezza e il proprio benessere non si fondano sull’insicurezza e sulla disperazione dei propri vicini. Gli Stati Uniti aiutando l’Europa occidentale nel dopoguerra difesero il loro interesse (di bloccare la superpotenza sovietica), favorendo il benessere degli europei. E negli anni della guerra fredda gli aiuti dell’Occidente ai paesi in via di sviluppo" - finanziati nella stessa ottica - contribuirono all’impianto di imprese e alla nascita di infrastrutture in molti stati del Terzo mondo. Eguali risorse e progetti mirati sono necessari oggi per un’integrazione degli immigrati all’interno dei paesi occidentali. Limitarsi a rinchiuderli in alloggi ghettizzati con qualche paghetta non risolve, anzi aggrava il problema. Serve Politica insomma. È quello che chiede la Chiesa, ma i politici con una visione sembrano latitare. Migranti. Uno schiaffo a Orbán di Massimo Congiu Il Manifesto, 9 novembre 2016 In Ungheria il parlamento boccia il rifiuto delle quote di migranti. Scontro tra i partiti di destra Dopo il mancato quorum al referendum sulle quote migranti Viktor Orbán si vede bocciare in parlamento la proposta di modifica costituzionale contro il sistema delle quote di accoglienza. All’indomani del voto il premier e i suoi collaboratori avevano commentato con soddisfazione il fatto che la quasi totalità di quanti si erano recati alle urne si fosse espressa a favore del governo e dato poca importanza al mancato raggiungimento del quorum. L’esito della votazione in parlamento è stato accolto con meno fair-play da deputati della maggioranza che nell’occasione avrebbero lanciato accuse di tradimento della patria al partito di estrema destra Jobbik, reo di aver fatto mancare il suo appoggio alla forza politica guida dell’esecutivo. Torniamo indietro di poco più di un mese: una volta noto il risultato del referendum Orbán aveva annunciato davanti ai membri dell’assemblea nazionale il proposito di modificare la Legge fondamentale, ossia la Costituzione voluta proprio dal partito governativo Fidesz ed entrata in vigore il primo gennaio del 2012, per sottrarre l’Ungheria all’obbligo di ospitare migranti sulla base di un meccanismo di quote voluto dall’Unione europea. "Solo a noi ungheresi spetta decidere con chi convivere e se vogliamo convivere con altri" è la posizione del governo e dei suoi sostenitori; da considerare che più volte il premier aveva affermato di non vedere di buon occhio che genti di altra cultura e religione si mescolino ai suoi connazionali. Per Orbán con il referendum, il paese aveva lanciato un segnale chiaro all’Ue, un messaggio di cui Bruxelles avrebbe dovuto tenere conto. La modifica costituzionale si riferiva, per la precisione, ad un divieto di insediamento di massa di cittadini stranieri sul territorio ungherese come affermazione di sovranità nazionale nei confronti dell’Ue. La proposta di emendamento veniva descritta dai rappresentanti dell’esecutivo come un’iniziativa presa nello spirito del referendum che Bruxelles non avrebbe considerato valido nemmeno nel caso il quorum fosse stato raggiunto. "Un gioco pericoloso", aveva definito il presidente del parlamento europeo Martin Schulz la politica di Orbán consistente in una sfida aperta all’Ue sul tema migrazione, a fronte dei neanche 1.300 migranti che l’Ungheria sarebbe chiamata ad accogliere. È comunque chiaro che, al di là dei numeri, il governo ungherese e i suoi sostenitori respingono il principio che il loro paese sia obbligato da poteri esterni a dare accoglienza ai profughi e che tale rifiuto debba essere sanzionato con multe pecuniarie. Così la battaglia di Orbán è andata avanti con la presentazione della proposta di emendamento costituzionale e relativa votazione. Torniamo a oggi: l’esito del voto è in pratica la prima sconfitta patita dal premier in Parlamento dal 2010, anno in cui è approdato al governo dopo otto anni di potere liberalsocialista. Il mancato appoggio di Jobbik era previsto; in cambio del suo sostegno il partito aveva chiesto all’esecutivo la soppressione dei "titoli di insediamento", si parla della possibilità per i cittadini stranieri di acquisire il diritto di vivere in Ungheria comprando buoni speciali del tesoro a un prezzo di 300.000 euro. A tutt’oggi circa 6.000 persone, in maggioranza russi e cinesi, avrebbero beneficiato di questa opportunità costituendo, secondo il presidente di Jobbik Gábor Vona, una minaccia alla sicurezza nazionale. Il Fidesz aveva respinto l’offerta, definita un "ricatto". La proposta è stata votata da 131 deputati, tutti appartenenti al partito di governo. Mancavano due voti per l’approvazione. Una volta reso noto il risultato della votazione, deputati della maggioranza hanno accusato Jobbik di "tradimento della patria", ed esponenti del partito di Vona, anch’esso peraltro contrario alle quote, hanno risposto srotolando uno striscione con scritto "Traditore è chi vende per denaro il diritto di insediamento facendo entrare dei terroristi!". È quindi guerra tra i due partiti di destra che al momento rappresentano i soggetti politici più influenti in Ungheria. Negli ultimi anni Jobbik ha conosciuto una crescita considerevole in termini di consenso popolare e da un po’ di tempo afferma di puntare alle elezioni del 2018 per la conquista del governo. Droghe. Marijuana legale, la svolta possibile degli States di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 novembre 2016 Referendum. In cinque Stati, tra cui la California, si è votato anche sull’uso ludico della cannabis. Chiunque vinca la sfida alla presidenziali, oggi un quarto della popolazione statunitense potrebbe ritrovarsi a vivere sotto l’egida di una saggia legislazione antiproibizionista. Una svolta storica che potrebbe porre una pietra tombale sulla decennale "war on drugs". Ieri infatti le urne si sono aperte anche per il voto su alcuni referendum: dalla pena di morte all’eutanasia, dal salario minimo legale alla carbon tax, fino ai controlli sulla vendita di armi. Ma su tutti spicca quello riguardante la legalizzazione della marijuana. In particolare, in cinque stati americani - Arizona, California, Maine, Massachusetts e Nevada - gli elettori sono stati chiamati ad esprimersi sul consumo legale della cannabis a scopo ricreativo. E in altri quattro - Montana, Arkansas, Florida e North Dakota - il quesito riguardava la normativa che regola l’uso della cannabis terapeutica. Secondo gli ultimi sondaggi, in California il 58% degli elettori sarebbe a favore della proposta di iniziativa popolare denominata "Proposition 64", mentre il 34% si è dichiarato contrario a questo disegno di legge che rende legale l’uso della marijuana dai 21 anni in su, e ne fa un prodotto di commercio non più affidato al mercato nero, con tanto di tasse sulle vendite e sulla coltivazione, liberalizzazione degli spot pubblicitari e consenso alla vendita a domicilio. Nello stesso Stato, una misura simile era stata respinta appena sei anni fa, ma da allora si è approfondito il dibattito pubblico su una legislazione inefficace alla lotta contro le narcomafie che invece ha finito col colpire aspramente solo alcune sacche di minoranze etniche e di marginalità sociale, aumentando il problema del sovraffollamento carcerario. E così, da questa mattina, dopo Colorado, Washington Dc, Alaska e Oregon che nel 2014 aprirono per primi allo spinello legalizzato, potrebbero essere diventati nove gli States che faranno da apripista alla nuova era antiproibizionista americana. Turchia. co-presidente dell’Hdp Demirtas in isolamento, confiscati libri e vestiti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 novembre 2016 È detenuto in una prigione nota in passato per abusi e torture. Tensione tra Ue e Ankara sui visti: Bruxelles minaccia ma Erdogan contrattacca. "Non c’è dubbio che la sola via è restare vicini e allargare la lotta comune contro il fascismo". Tre fogli di carta, un messaggio scritto a penna: è il testo che il co-presidente del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), Selahattin Demirtas, è riuscito a inviare fuori dal carcere di massima sicurezza di Edirne, in cui è detenuto da sabato. "Il fatto che, insieme ai nostri parlamentari, siamo stati presi in ostaggio come risultato di un colpo di Stato civile non è un mero attacco contro di noi come individui. È un nuovo passo compiuto da chi ha implementato varie misure per consolidare il potere di un uomo solo. Anche se siamo tra quattro mura, continueremo a essere parte della lotta fuori". Demirtas prova a restare vicino alla base, profondamente scossa dall’ondata di arresti contro i deputati Hdp. Lo fa in condizioni pessime: costretto in una cella isolamento, ieri si è visto confiscare vestiti e libri. Con sé ha solo un letto e una coperta. La prigione di Edirne, del tipo F (ovvero destinata a prigionieri politici, membri di organizzazioni considerate terroriste e ergastolani), negli anni Ottanta divenne sinonimo di abusi e torture. Sulle mura della prigione, raccontava ieri l’agenzia kurda Anf English, ci sono scritte che esaltano l’identità turca e che accompagnano gli abusi contro i detenuti: isolamento come forma punitiva, pestaggi, confisca di oggetti personali, luci accese tutto il giorno. A poca distanza, nella stessa città, c’è il centro di detenzione per migranti, ribattezzata "la prigione della vergogna" e oggetto di rapporti di Human Rights Watch, finanziata in parte con i soldi dell’Unione Europea. Impossibile non vedere l’enorme contraddizione, l’ipocrisia europea che esplode ancora un volta lungo una frontiera. Esplode anche dentro il carcere di Edirne che, insieme alle altre di tipo F, è stata oggetto nel 2006 di un rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che parlò di condizioni potenzialmente degradanti e disumane. Lì dentro c’è il leader di un partito che conta 48 deputati in parlamento. Ieri l’Hdp ha tenuto il primo meeting privo di 12 parlamentari, a cui hanno preso parte gli ambasciatori di Belgio, Austria e Lussemburgo e il rappresentante della Ue. Ma lo scontro tra Bruxelles e Ankara si giocava su altri tavoli: ieri il presidente della Commissione Europea Juncker ha mandato un ultimatum al presidente Erdogan. Senza nominare direttamente l’Hdp, Juncker ha messo in dubbio la liberalizzazione dei visti che Ankara chiede come parte integrante del "pacchetto-migranti": "[La Turchia] si allontana ogni giorno di più dall’Europa - ha detto da Bruges - Bisogna che le autorità turche ci dicano se vogliono davvero avvicinarsi. Tutto quello che fanno mi porta a pensare che non vogliono rispettare gli standard europei". Si palesa anche il possibile congelamento degli infiniti negoziati sull’ingresso della Turchia in Europa. Oggi la Commissione dovrebbe pubblicare un rapporto nel quale definirà la situazione dei diritti umani deteriorata rispetto al 2015, un giorno dopo le preoccupazioni espresse dall’Alto rappresentante Ue agli affari esteri Mogherini. A Lady Pesc risponde il Ministero degli Esteri turco che in un comunicato bolla come "inaccettabili" le critiche di un’istituzione, la Ue, che "ha perso credibilità agli occhi del popolo turco". Un balletto che va avanti da anni e che permette ad Ankara di agire con la massima impunità mentre sbeffeggia quegli alleati che ne coprono le nefandezze. In casa è l’Europa, fuori sono gli Stati Uniti. Al di là della frontiera, nel nord della Siria, i kurdi siriani delle Ypg - insieme ai combattenti arabi, circassi e turkmeni delle Forze Democratiche Siriane - proseguono nell’avanzata su Raqqa. Altri 5 villaggi sono stati liberati dall’Isis e il fronte si è avvicinato di 14 km alla "capitale" dello Stato Islamico. Il tutto con il beneplacito di Washington che copre l’offensiva dal cielo, ma che con l’altra mano promette Raqqa alla Turchia. Ankara da parte sua non aiuta di certo l’operazione. Ieri le Ypg hanno denunciato due tentativi di infiltrare gruppi di miliziani anti-kurdi dentro Rojava, dal confine turco verso le comunità di Doda e Kobane. Israele. Ragazzino palestinese condannato a 12 anni di carcere, accoltellò coetaneo di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 novembre 2016 Gerusalemme. Ahmad Manasra,14 anni, un anno fa, nella colonia israeliana di Pisgat Zeev, ferì a coltellate un coetaneo ebreo. Israele celebra come una sua vittoria il voto contrario dell’Interpol all’ammissione della Palestina. Sono scesi in strada a centinaia ieri gli studenti di Gaza city, per protestare contro la condanna a 12 anni di carcere che i giudici israeliani hanno inflitto due giorni fa al 14enne Ahmad Manasra, per il ferimento di due israeliani, uno dei quali, un ragazzo, in modo grave. Manasra un anno fa partecipo’, nella colonia israeliana di Pisgat Zeev, nella zona araba di Gerusalemme est, a un attacco con coltelli assieme a suo cugino poi ucciso dagli spari di un passante. Lui rimase ferito e un filmato lo mostrò a terra con intorno alcuni israeliani che ne invocavano la morte. In altro video, diffuso qualche tempo dopo, il ragazzo palestinese appare in lacrime e impaurito mentre viene sottoposto a un duro interrogatorio. Da parte israeliana non si è mai fatto mistero di voler infliggere a Manasra una punizione "esemplare". La sua famiglia dovrà inoltre risarcire il ragazzo aggredito e ferito con 180 mila shekel, oltre 40 mila euro. L’avvocatessa della difesa Lea Tzemel ha descritto la condanna a 12 anni di carcere al 14enne palestinese come "inconcepibile". I giudici, ha spiegato, "hanno totalmente ignorato 50 anni di occupazione militare" dei territori palestinesi, ossia lo sfondo in cui avvenne il ferimento del ragazzo israeliano. Uno sfondo che il governo Netanyahu sembra negare, come se non esistesse. E prova anche a limitare lo spazio di manovra a chi vuole rilanciare il negoziato israelo-palestinese con una formula diversa da quella bilaterale, totalmente fallimentare, che assieme agli Stati Uniti ha imposto nei passati 23 anni. Israele ha confermato il suo secco "no" alla proposta francese di una Conferenza internazionale per riavviare entro la fine dell’anno le trattative. A differenza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) che invece ieri ha ribadito il suo appoggio all’iniziativa. Parigi invierà gli inviti per l’incontro il mese prossimo nonostante il rifiuto israeliano. Netanyahu comunque sa di non essere isolato, anzi, e adesso vuole che il nuovo presidente americano faccia in modo da bloccare una presunta intenzione di Barack Obama di dare appoggio all’iniziativa francese. Il premier israeliano ieri ha avuto modo di celebrare il voto con cui l’assemblea dell’Interpol ha respinto la richiesta della Palestina di entrare nell’organizzazione come Stato membro. Il portavoce del ministero degli affari esteri e quello della polizia israeliana, in un comunicato congiunto, hanno denunciato quello che descrivono come "il tentativo dei palestinesi di politicizzare un’organizzazione professionale". La spina nel fianco di Netanyahu resta l’Unesco. Dopo la recente risoluzione che ha ribadito lo status di Israele come potenza occupante a Gerusalemme Est, la delegazione palestinese all’Unesco chiede ora la restituzione dei Rotoli del Mar Morto scoperti nelle grotte di Qumran. Sono stati trovati in terre occupate (Cisgiordania) e pertanto, ha spiegato la delegazione, rientrano nel retaggio storico dei palestinesi. Gran Bretagna. Due detenuti fuggono dal carcere grazie al drone di Enrico Franceschini La Repubblica, 9 novembre 2016 Due pericolosi malviventi hanno organizzato una moderna "Fuga da Alcatraz" dalla prigione di Pentonville, nel cuore della capitale britannica, facendo cadere dal dispositivo volante nel cortile del penitenziario una lama rotante taglia diamanti, con cui hanno segato le sbarre della cella. Il quartiere è in allarme. È caccia agli evasi Come in un film. Come in una moderna "Fuga da Alcatraz". Ma è accaduto nel cuore di Londra. Due pericolosi detenuti sono riusciti a evadere dal carcere di Pentonville, una delle più lugubri prigioni della capitale, situata su Caledonian road, una strada vicina alla grande stazione ferroviaria e della metropolitana di King’s Cross e all’adiacente stazione di St. Pancreas, da dove parte l’Eurostar per Parigi. Dunque una delle zone più frequentate della metropoli, a metà strada fra i quartieri alla moda di Camden e Islington. E non è soltanto l’ubicazione del carcere a fare sensazione, bensì anche il piano spericolato e ad alta tecnologia usato dai due carcerati per scappare. Matthew Barker, 28 anni, condannato per tentato omicidio, e James Whitlock, 31 anni, che scontava una pena per furto con scasso, per entrambi soltanto i più recenti di una lunga serie di reati, sono evasi nella notte tra domenica e lunedì. Qualche giorno prima, secondo la ricostruzione dei giornali, un drone aveva lasciato cadere una lama rotante taglia diamanti nel cortile della prigione durante l’ora d’aria. Uno dei due detenuti, o un loro complice, l’ha raccolta e l’ha nascosta nella cella che Matthew e James condividevano al quinto piano dell’edificio. Approfittando di circostanze esterne per coprire il rumore, i due hanno segato le sbarre della finestra della cella, lasciandole poi al proprio posto fino al momento stabilito per l’evasione. La notte della fuga hanno arrotolato e legato una all’altra le lenzuola, in modo da formare una fune abbastanza solida, quindi hanno nascosto cuscini e vestiti sotto le coperte per dare l’impressione di essere a letto. Usciti dalla finestra, hanno utilizzato un tubo esterno per arrampicarsi su un cornicione che hanno percorso per alcune decine di metri per poi saltare sul tetto della cappella del carcere, che si trova lungo il perimetro della prigione. A quel punto, quando dovevano essere circa le 11 di sera, si sono calati lungo il muro esterno, alto più di tre metri, dopo avere legato la fune fatta di lenzuola a un comignolo. Un piano elaborato, che richiedeva collaboratori al di fuori del carcere: qualcuno era perciò probabilmente lì fuori ad aspettarli con un’auto, per portarli lontano. Ma anche questa al momento è soltanto un’ipotesi. La polizia ha diffuso l’identikit dei due fuggitivi, avvertendo la popolazione che si tratta di individui pericolosi e consigliando di evitarli. Nella zona della prigione si è diffuso il panico nel timore che gli evasi siano rimasti nei paraggi e possano cercare un temporaneo rifugio in qualche abitazione. Ieri sera, tutto intorno a Pentonville, genitori apprensivi hanno invitato i figli a rientrare a casa presto e hanno sprangato le porte a doppia mandata. Intanto le forze dell’ordine hanno iniziato la caccia a Barker e Whitlock, i due detenuti fuggiti da una galera nel centro di Londra come se fosse l’isola di Alcatraz. Segando le sbarre con una "lima" recapitata da un drone. La prima evasione di questo tipo al mondo. Gran Bretagna. Sistema penitenziario in difficoltà, a Bedford scoppia la rivolta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 novembre 2016 Nel carcere di Bedford una rivolta durata sei ore, sedata con l’intervento delle granate stordenti. Circa duecento detenuti del penitenziario, stufi della situazione degradante dell’istituto, nella notte di domenica si sono impossessati di coltelli, hanno chiuso le guardie nei loro uffici e appiccato diversi incendi. I funzionari hanno detto che sono riusciti a riportare sotto controllo la situazione con l’aiuto degli agenti antisommossa, i vigili del fuoco e paramedici con un’operazione che è durata più di sei ore. Ma c’era da aspettarselo. Diversi mesi fa il nuovo ispettore capo Peter Clarke, dopo aver ispezionato il carcere, ha denunciato che i detenuti vivono in spazi angusti, pavimenti deteriorati, scarafaggi ovunque, bagni sporchi e a vista di chiunque. Gli stessi detenuti hanno denunciato che è più facile avere la droga che ottenere vestiti e lenzuola pulite. Inoltre, da tempo l’istituto di pena vivrebbe in uno stato di sovraffollamento che porta a gravi problemi. Il Guardian ha denunciato che dal febbraio del 2014 ad oggi, il numero di tossicodipendenti del carcere è aumentato dal 4% al 14%. Situazioni che riguardano molto da vicino anche l’Italia. L’Istituto penitenziario di Bedford, poco più di un anno e mezzo fa, fu al centro di un vero e proprio scandalo quando gli agenti scoprirono che ogni notte arrivavano in carcere droga, cellulari e coltelli grazie all’uso di un drone. Una strategia "replicata" nello scorso agosto a beneficio di alcuni detenuti del carcere di Pentonville. Al livello generale, il sistema penitenziario inglese presenta delle problematiche che potrebbero aggravarsi se passasse la riforma carceraria promossa dalla scorsa presidenza di Cameron. Il piano dichiarato dal governo inglese era quello di chiudere le piccole prigioni locali e travasare i carcerati in macro centri detentivi, più ampi e quindi decisamente più economici da mandare avanti. Per Frances Crook, direttore di Howard League, Onlus impegnata nella difesa dei minori in carcere, la riforma diventerebbe un’inutile spreco di soldi pubblici e che non aiuterebbe in alcun modo la riduzione della criminalità. Della stessa posizione Juliet Lyon, presidente di Prison Reform Trust, la Onlus di riferimento per chi nelle prigioni ci lavora. Chiudere istituti carcerari e ridurre il numero del personale carcerario può offrire immediati vantaggi economici in linea con la spending review, ma "sarebbe un gigantesco errore se il ministro della Giustizia sprecasse i soldi dei cittadini costruendo edifici titanici invece di investire in comunità preventive o progetti sociali". Basti pensare che in Inghilterra - come in Italia - il 60% dei condannati o commette nuovi reati dopo essere stato rilasciato, o ne ha già commessi prima di essere nuovamente arrestato. Altro problema riguarda le carceri femminile. Secondo uno report redatto dal ministero della Giustizia inglese, il 50 per cento delle detenute hanno subito almeno una volta un abuso fisico, emotivo o sessuale. Nel report governativo viene spiegato anche il perché: nei penitenziari femminili ci sono troppe assunzioni maschili. Stati Uniti: in Nebraska torna la pena di morte, in California marijuana legalizzata Ansa, 9 novembre 2016 Gli elettori hanno votato a favore del ripristino della pena capitale nello Stato, dove il boia non colpisce dal 1997. Marijuana legalizzata per scopo ricreativo anche in Massachusetts. La pena di morte torna in Nebraska. Gli elettori hanno votato a favore del ripristino della pena capitale nello Stato, dove il boia non colpisce dal 1997, respingendo la decisione dello scorso anno di sospenderla. Gli elettori di Massachusetts e California dal canto loro hanno dato il via libera alla legalizzazione della marijuana per uso ricreativo. Brasile: dentro alle carceri omicidi aumentati del 60%, già 88 delitti da inizio anno Reuters, 9 novembre 2016 Dallo scorso gennaio si contano già 88 delitti nei penitenziari degli Stati di Acre, Ceará, Mato Grosso do Sul, Piauí e Roraima. Gli omicidi commessi all’interno delle carceri brasiliane sono aumentati del 60% quest’anno rispetto al 2015: lo sostiene uno studio effettuato dal quotidiano O Globo. In base ai dati, dallo scorso gennaio si contano già 88 delitti nei penitenziari degli Stati di Acre, Ceará, Mato Grosso do Sul, Piauí e Roraima, gli stessi caratterizzati delle più recenti crisi del sistema penitenziario. Le regioni analizzate sono tutte nel nord e nord-est del Paese, dove è avvenuta anche la maggioranza delle rivolte di detenuti. Cambogia. Esponente partito opposizione condannato a 7 anni per un post su Facebook di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 novembre 2016 In Cambogia è sufficiente un post, per nulla violento e molto spiritoso, per essere condannati a sette anni di carcere. La sentenza è stata comminata, lunedì 7 novembre, ai danni di Hong Sok Hour, esponente del Partito del riscatto nazionale cambogiano, all’opposizione. Il Partito del popolo cambogiano è impegnato in una campagna di pubbliche relazioni per convincere la comunità internazionale, in particolare i paesi donatori, che nel paese sono rispettare le regole della democrazia, tanto più che c’è un partito di opposizione. Peccato che contemporaneamente il partito al potere non risparmi gli sforzi per ridurre al silenzio oppositori, attivisti ed esponenti dei movimento per i diritti umani. Così è capitato che il senatore Hong Sok Hour venisse arrestato nell’agosto 2015 (nella foto di The Phnom Penh Post) per aver pubblicato su Facebook un divertente video su un inesistente accordo tra Cambogia e Vietnam per la risoluzione di dispute sui confini. Il potere giudiziario non ha mostrato altrettanto spirito: dopo un anno e tre mesi di detenzione preventiva, Hong Sok Hour è stato giudicato colpevole di diffusione di false informazioni e istigazione. In barba alla costituzione del paese e degli obblighi assunti dalla Cambogia all’atto della ratifica del Patto internazionale sui diritti civili e politici, per quel video Hong Sok Hour ha preso sette anni di carcere. Questo è il clima in Cambogia, quando deve ancora iniziare la campagna per le elezioni generali del 2018. E non è finita qui: mentre Hong Sok Hour veniva condannato, un portavoce del governo annunciava che l’ufficio locale dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite in Cambogia è "illegale".