Il suicidio di un ergastolano ci ricorda l’orrore delle pene senza speranza Il Mattino di Padova, 8 novembre 2016 Per noi di Ristretti Orizzonti, che da anni pubblichiamo informazioni su quelli che nel linguaggio burocratico delle carceri si chiamano "eventi critici", parlare di suicidi fa parte del nostro "mestiere" di pazienti raccoglitori di notizie, anche di quelle che nessuno ti dà facilmente come tutto ciò che riguarda i suicidi, tentati e riusciti. Ma quando una persona si toglie la vita a pochi passi da te, allora è tutta un’altra storia. È successo alcuni giorni fa nella Casa di reclusione di Padova, si chiamava Said ed era condannato all’ergastolo. Questo suicidio dovrebbe ricordarci quanto le pene lunghe e l’ergastolo uccidano lentamente qualsiasi barlume di vita nelle persone. In questi giorni l’interesse per le carceri è alto, con il Giubileo dei detenuti e la Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà indetta dai radicali, cerchiamo che resti alto sempre ricordando alle Istituzioni che vorremmo diventare anche noi un Paese civile, con pene che non distruggano ogni speranza, e con la possibilità per tutti i detenuti di avere cura dei propri affetti, che forse è una delle poche forme vere di prevenzione dei suicidi. Said, che non ha voluto morire un po’ per volta In un risveglio di una domenica come tante, in carcere dove le giornate hanno tutte lo stesso peso, ancora imbambolati di sonno, nei corridoi gira voce che stanotte si è impiccato un detenuto, dopo pochi minuti si scopre anche il nome, Said, un ragazzo egiziano che noi tutti conoscevamo perché lavorava al casellario dove vengono smistati gli oggetti personali dei detenuti. Ancora increduli, io e i miei compagni ci guardavamo in faccia per capire perché. Alla tv se ne sentono tante di notizie che dei detenuti provano a togliersi la vita, ed è sempre un colpo preso da vicino per chi vive il carcere sulla propria pelle, quando invece la notizia ci colpisce da più vicino ancora e si conosce il detenuto di persona l’effetto è travolgente ed angosciante. Questa mattina come ogni domenica si è celebrata la messa all’interno dell’istituto, ma non era la solita messa, era una giornata in memoria di tante persone andate via da questo mondo in questa settimana. Quando è stato nominato Said da un altro compagno detenuto, che ha voluto ricordarlo tenendo in mano una sua foto e descrivendo a chi non lo conosceva che persona buona era quel ragazzo sempre timido e taciturno, è stato un momento davvero straziante. Avevo il volto di Said impresso nella mente, e mi domandavo perché avesse preso questa decisione di farla finita. Il perché poi l’ho compreso, credo, Said non aveva proprio nessuno che lo aspettava fuori di qui, durante i permessi di cui usufruiva rimaneva in compagnia dei volontari nella struttura dei Piccoli passi che ospita i detenuti. Penso che per Said lì fuori, senza qualcuno che ti ama veramente, questo posto era diventato uguale a tutti gli altri e forse ha pensato che non valeva la pena pagare un debito senza alcun familiare che ti aspetti e ti aiuti a ricostruire quello che rimane degli affetti dopo tanti interminabili anni di galera. Una persona condannata all’ergastolo dice spesso che una condanna così ti fa morire tutti i giorni, lui ha preferito farlo una volta e basta, morendo in carcere definitivamente e restituendo per intero il debito che aveva verso l’istituzione, quell’istituzione che invece gli aveva dato una condanna che lo avrebbe fatto morire lentamente. Ma all’azione materiale di farsi la corda e stringersela al collo ci ha pensato lui stesso, un pensiero che forse cresce piano piano nel corso della detenzione col passare degli anni, dopo aver perso tutto dalla vita. Quello che mi spaventa realmente è che lui era una persona che non dimostrava di poter arrivare a tal punto, di solito chi arriva a questi estremi ha dei precedenti squilibri, dei disagi, lui sembrava l’opposto, sempre per i fatti suoi, invadente solo nel suo silenzio che alla fine ha spiazzato tutti. Ancora non posso crederci: un ragazzo pieno di educazione, sorridente a suo modo e con molto altro di bello, è stato bravo a nascondere il suo diabolico piano di togliersi la vita, stavolta ha vinto lui non l’istituzione che non è riuscita a fermalo prima. Ma tanto chi se ne fregherà di queste persone, se si toglieranno la vita o meno, in diranno "uno in meno", ed uno in meno a cui pagare il fitto di una casa sbarrata che doveva farlo morire ugualmente, ma giorno dopo giorno. Mi sento di dire a queste persone che la morte di tutti noi detenuti messi insieme non vi libererà dal vostro odio, quello vi accompagnerà sempre. Said era un bravo ragazzo per quanto mi riguarda, non conoscevo i suoi reati e neanche il suo passato, quello che conta è che non era più la persona di quando ha commesso i suoi gravi reati. È facile giudicare una persona senza conoscerla, dovevate guardare il suo sguardo da agnello smarrito e poi forse fareste altre valutazioni, ormai è troppo tardi, ha preferito oltrepassare il mondo e provare a ricominciare da capo a ricostruirsi i suoi affetti vicino ai suoi cari lassù. Raffaele Delle Chiaie Preso dal mio dolore non ho capito il suo Una mattina mi sento svegliare dal mio compagno di cella che mi dice: è morto Said, quello che lavora con te in magazzino, ieri sera si è attaccato un laccio attorno al collo e si è tolto la vita. Ci ho messo un po’ di tempo a metabolizzare ciò che avevo sentito. Said, quel ragazzo introverso schivo e riservato si era tolto la vita! Mentre ero assorto a pensare a ogni volta che ho avuto la fortuna di incontrarlo al passeggio e di scambiarci qualche parola, ho cercato di capire se in quei momenti magari mi avesse mandato dei segnali di richiesta di aiuto che io non ho saputo cogliere. E allora come in un flashback l’ho visto accanto a me quando mi raccontava delle difficoltà di costruirsi delle relazioni sociali che stava vivendo fuori, nonostante la fortuna di aver raggiunto da oltre due anni la possibilità di uscire con i permessi premio. Sì perché sarà anche un premio ottenere dei permessi dopo diciassette anni di carcere e con un ergastolo da scontare, ma forse la gente non sa che sono anche maledettamente dolorosi i permessi, perché ti mettono davanti tutte le tue responsabilità… e soprattutto il fallimento di una vita sociale che per forza di cose non esiste più dopo anni di carcere o addirittura la distruzione della tua famiglia che nel tempo si è sgretolata. Se non hai il giusto sostegno pensi di non poter più recuperare, soprattutto quando hai una pena che non finisce mai come l’ergastolo. Allora mi sono ricordato che mi aveva raccontato che aveva in corso la "revisione" per trasformare l’ergastolo in trent’anni di pena e che aveva messo tutte le aspettative in quell’udienza. Said credeva fin troppo nelle istituzioni, "si accontentava" di poter scontare "solo" trent’anni di carcere, che sono comunque un’eternità, sono quasi l’intera mia esistenza. Forse voleva solo avere la possibilità di tornare un giorno dai suoi cari, nella terra dove era nato e sapeva che con una pena come l’ergastolo questo non sarebbe mai più potuto accadere. Ora sarebbe facile dire "è colpa del sistema", mentre invece dico "è colpa anche nostra", perché a volte basterebbe solo ascoltare le persone e anch’io forse in quei passeggi avrei potuto cercare di conoscerlo meglio e dirgli che c’è sempre una speranza anche quando ti sembra il contrario e prepararlo alla risposta negativa che sarebbe potuta arrivare. Quindi ti chiedo scusa Said per quando sono stato distratto nelle nostre passeggiate pomeridiane al sole. Scusa di non essere riuscito a diventare un punto di riferimento con cui confrontarti nei momenti di maggior sconforto. Non condivido quel tuo gesto ma lo rispetto. Spero solo che le persone capiscano che molto spesso un permesso premio o una misura alternativa non significano non scontare la pena, ma solo farlo in modo diverso, affinché le persone quando escono fuori non si trovino un deserto affettivo e sociale intorno a loro. Luigi Guida Amnistia: favorevoli e contrari dopo l’appello di Papa Francesco di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2016 L’appello di Papa Francesco per "un atto di clemenza" nei confronti dei carcerati ha rinvigorito il dibattito sull’amnistia, per la quale occorre il voto dei due terzi del Parlamento. Le parole del Pontefice sono state pronunciate al termine della marcia del partito radicale per l’amnistia, la prima, ha ricordato il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova, senza "Marco Pannella, ma nel ricordo di Marco Pannella". A distanza "di oltre due secoli dall’illuminismo lombardo, che ha messo la qualità della vita nelle carceri al centro della discussione sulla qualità delle istituzioni - ha sottolineato Della Vedova - oggi possiamo continuare a dire che la civiltà giuridica e lo stato di diritto di un Paese si misurano anche dalla qualità della vita e i diritti delle persone che si trovano negli istituti di detenzione". I detenuti sono 54.912 - Secondo i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 ottobre, sono 54.912 i detenuti presenti nei 192 istituti di pena italiani, a fronte di una capienza complessiva di 50.062 posti. Gli stranieri detenuti sono 18.578, mentre le donne sono 2.300. Quelli in attesa di giudizio sono 9.826. Gli istituti più sovraffollati sono in Lombardia, nelle cui 18 carceri sono presenti 7.856 ospiti a fronte di una capienza di 6.120. Seguono Campania (6.919 detenuti per 6.112 posti) e Lazio (6.064 per 5.238 posti). Unione camere penali: ora la politica risponda - Dopo le parole di Papa Francesco contro l’ergastolo e la pena di morte, per l’Unione Camere Penali "è ora compito della politica rispondere con altrettanta inequivoca chiarezza alla richiesta di un provvedimento urgente di clemenza che viene da posizioni politiche trasversali, dall’associazionismo laico e religioso, da parlamentari, sindaci e governatori. Che la politica abbia il coraggio di dire no a un provvedimento che non solo è un necessario e indispensabile atto di clemenza, ma anche, e soprattutto, l’unico strumento che possa porre fine a una situazione di manifesta illegalità". Orlando: la praticabilità politica è ardua - Amnistia? Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervistato da Avvenire, ha sottolineato che "la praticabilità politica di un provvedimento di clemenza è ardua: per l’amnistia occorrono i due terzi del Parlamento. Ciò detto, quando lo si è fatto in passato, la deflazione è durata poco. Servono interventi strutturali ed è ciò che stiamo facendo" Andrea Orlando. Quella sull’abolizione dell’ergastolo, ha sottolineato il Guardasigilli, è "una discussione aperta" ma sino a quando "mafie e gruppi terroristici non saranno debellati" è "difficile pensare a un suo superamento". Ferri: Giubileo detenuti diventi occasione per riflettere sulla riforma - Per il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri il Giubileo dei detenuti è "l’occasione per riflettere sulle condizioni di chi si trova in carcere. L’impegno messo in campo da questo Governo mira a potenziare la dimensione della funzione rieducativa della pena, affinché quest’ultima non sia espiazione senza possibilità di riscatto. I detenuti devono scontare la loro pena, come prevede la legge, ma vanno assicurate loro condizioni dignitose e volte a riabilitarli, sotto tutti i punti di vista. Spazi adeguati e funzionali per lo svolgimento di attività lavorative e di formazione all’interno delle carceri rappresentano solo uno degli esempi di un sistema penitenziario al passo con i tempi e uno dei presupposti per un nuovo inizio nella società". Binetti (Ap): ripartire dalla riforma delle riforme - Per Paola Binetti (Area popolare) "non si può chiedere perdono se non si è disposti a perdonare e Papa Francesco lo ha sottolineato con forza, mentre sollecitava tutti noi a perdonare anche con gli strumenti propri della politica, per esempio umanizzando la vita delle carceri e non avendo paura di pronunciare la parola indulto". Per Binetti "senza la speranza di poter cambiare vita, di poter correggere certi comportamenti sbagliati, senza dubitare di poter diventare migliori, la democrazia non ha spazio né futuro. E forse occorre ripartire proprio da qui, con la riforma delle riforme, quella che parte dal cuore di tutti gli uomini, di quelli che chiedono perdono e di quelli che offrono perdono". Magi (Ri): amnistia obiettivo urgente del Paese - "Siamo convinti che l’amnistia resti l’obiettivo urgente per il nostro Paese perché lo Stato e le istituzioni italiane rientrino nella legalità, sia costituzionale che rispetto agli standard internazionali", ha sottolineato Riccardo Magi, segretario di Radicali Italiani, al termine della marcia. Satta (Upc): amnistia e potenziamento misure alternative - "Pensiamo alle modalità e ai tempi, ma un gesto di clemenza come richiesto dal Papa sarebbe davvero opportuno", ha affermato Antonio Satta, segretario dell’Unione Popolare Cristiana (Upc). "Certo, un’amnistia è un atto che va limitato a pochi reati, che non hanno un grosso impatto sulla nostra sicurezza. Ma comunque è una strada da percorrere assieme alle misure alternative al carcere, ancora più efficaci di un gesto di clemenza limitato nel tempo. Insomma, non possiamo seguire la logica: chiudi e butta la chiave". De Petris-Scotto: giusta e necessaria un’amnistia - Per i capigruppo di Sinistra italiana di Camera e Senato, Arturo Scotto e Loredana De Petris, è "giusto e necessario un provvedimento di amnistia. La situazione carceraria è sempre più difficile e le nostre carceri sono una delle vergogne del nostro Paese". Per loro è ora "necessario che la politica risponda ed il Parlamento prenda una iniziativa in tal senso". Centinaio (Lega): al paese non serve l’amnistia - Pollice verso di Gian Marco Centinaio, capogruppo della Lega Nord al Senato. "È drammatico che il ministro della giustizia abbia subito accolto la richiesta del Papa abbracciando l’idea dell’amnistia e promettendo lavoro ai detenuti. È il segno che non ha alcuna idea della realtà. Orlando deve porsi delle priorità: accogliere e approvare la nostra proposta sulla legittima difesa che il suo partito blocca in parlamento, difendendo così le vittime dei reati e non i delinquenti e accorciare finalmente i tempi della giustizia". La battaglia per l’amnistia, un quadro tra luci e ombre di Salvo Toscano livesicilia.it, 8 novembre 2016 Per un giorno, la situazione dei detenuti nelle carceri italiane ha ottenuto l’attenzione dei media nazionali. L’occasione è stata quella del Giubileo dei carcerati e dell’appello di Papa Francesco per "un atto di clemenza" nei confronti dei detenuti. Proprio mentre a Roma sfilava la manifestazione di Radicali, Unione delle Camere penali e Nessuno tocchi Caino - tra gli altri presente anche l’ex governatore Totò Cuffaro - che chiedeva appunto l’amnistia, con un corteo che da Regina Coeli ha raggiunto piazza San Pietro per l’Angelus. Durante il quale Bergoglio ha fatto appello alle autorità civili invitandole a prendere in considerazione "la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". Un appello analogo a quello rivolto al Parlamento italiano nel novembre 2002 da Giovanni Paolo II. Ma l’amnistia, spiegavano i partecipanti al corteo romano di ieri, non è solo un atto di clemenza e ha a che fare, in Italia, con "l’affermazione e il ripristino della legalità". Che non sempre il sistema carcerario italiano riesce a garantire. Sebbene negli ultimi anni i progressi non siano mancati. Anche in Sicilia. Lo conferma Pino Apprendi, presidente in Sicilia dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale. "La situazione nelle carceri siciliane è sicuramente migliorata negli ultimi anni. La popolazione carceraria è di 5.900 reclusi a fronte di una disponibilità di oltre seimila posti. Ma continuano a macchia di leopardo i problemi di sovraffollamento. E non solo quelli". In pratica ci sono ancora singoli istituti penitenziari siciliani dove il sovraffollamento resta un problema. Secondo il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, sommando i dati di ogni carcere che fa segnare presenze in eccesso, si arriva a 591 detenuti in eccesso. Le strutture con la più alta percentuale di affollamento sono Catania Bicocca, Agrigento, Caltanissetta, Augusta, Giarre. Tra le maggiori criticità, Antigone segnala la situazione del carcere di Agrigento: "Ci sono problemi legati alla struttura, piove dentro. C’è sovraffollamento. E poi non c’è un direttore stabile", segnala Apprendi. Problemi noti all’amministrazione penitenziaria. Tanto che Santi Consolo, direttore del Dap, al riguardo dichiara a Livesicilia: "Nella mia prossima visita in Sicilia mi riservo personalmente di fare delle verifiche" sulla struttura agrigentina. Dal canto suo, però, Consolo sottolinea come "la situazione della Sicilia è molto migliorata. C’è molta progettualità in atto e stiamo attivando due nuovi padiglioni detentivi, uno a Trapani e uno a Siracusa, in tutto 400 posti". Altra novità in dirittura d’arrivo, annuncia Consolo, riguarda la struttura a custodia attenuata per donne madri che sarà attiva a breve a Barcellona Pozzo di Gotto". Insomma, non mancano le note positive. Accanto ai problemi. "In generale riscontriamo una carenza di personale. Per esempio di psicologi. Quelli di prima accoglienza sono molto importanti per chi ha per la prima volta l’impatto con il carcere - osserva Apprendi -. E mancano educatori e in alcune strutture on ci sono mediatori culturali a sufficienza, il che può creare grossi problemi visto che 1.400 detenuti in Sicilia sono extracomunitari". Sotto organico anche il personale di polizia penitenziaria, che secondo i dati del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria a settembre era di 3.868 unità contro le 4.770 previste. Il tema principale resta quello di rendere le carceri un luogo di rieducazione che possa effettivamente permettere il recupero del detenuto. In questa prospettiva centrale è il ruolo del lavoro: "Abbiamo 300 progetti già approvati con offerte di lavoro ai detenuti. E il governo si sta attivando per finanziare con altri 40 milioni all’anno il compenso per il lavoro dei detenuti", spiega Consolo. Che sottolinea anche la riuscita delle iniziative legate al Giubileo: "Abbiamo portato a San Pietro 800 detenuti e c’erano anche ergastolani, tutti in permesso. Dietro tutto questo c’è un grande lavoro e un’assunzione di rischio. Oggi a Roma stiamo consegnando i premi letterari per detenuti scrittori intitolati a Goliarda Sapienza, con madrina Dacia Maraini. Mercoledì a Roma sarà portato in scena un musical. "Il figliol prodigo", realizzato da detenuti del carcere di Opera. Queste iniziative permettono di comunicare con la società rendendo liberi nello spirito". L’amnistia permetterebbe di alleggerire il numero dei reclusi, che in Italia sono più di 50mila, circa un terzo in attesa di giudizio. "L’amnistia servirebbe eccome, e va detto che quando si decide in questo senso la percentuale di recidiva è bassissima", osserva Apprendi. In generale, Antigone e le altre associazioni impegnate sul tema chiedono un maggiore ricorso alle misure alternative al carcere. "Da tecnico non posso pronunciarmi sull’opportunità politica di un’amnistia. Io posso però dire che è bene creare tutte le condizioni che facilitano l’uscita dal carcere attraverso un percorso riabilitativo che passa dal lavoro", osserva Consolo. Ecco perché ritengo inattuali e irrealistici l’amnistia e l’indulto di Walter Verini* Il Dubbio, 8 novembre 2016 Devo una risposta a Emanuele Macaluso, che ringrazio per l’attenzione che ha dedicato a un intervento con il quale motivavo la mia adesione alla Marcia dei radicali di domenica scorsa. Macaluso mi chiede un chiarimento sui motivi per cui ritenevo e ritengo inattuale e irrealistica, in questo momento, la prospettiva di un provvedimento come amnistia o indulto. E mi chiede quali siano i "diversi motivi" (se siano "reali, seri o invece pretestuosi") che avevo genericamente addotto a supporto della mia affermazione che, come Emanuele correttamente riporta, era completata dalla frase "non perché non sia giusto e coraggioso parlarne e battersi per questo obiettivo". Provo a indicarne alcuni, che vedo. Il primo è che non ritengo che, in questo Parlamento, vi siano i numeri sufficienti per far passare un provvedimento del genere. Molti, anche sensibili al tema, temono che sia impopolare, che faccia perdere consensi. Sono preoccupazioni trasversali agli schieramenti politici. Non le condivido, ma ci sono, le tocco con mano. Ovviamente non mi riferisco a forze che hanno un’idea oscurantista della pena, forze che sollecitano e suscitano paure e insicurezze anche quando queste non ci sono o non sono percepite, chiamando a risposte semplificate e rozzamente securitarie. Mi riferisco a forze democratiche, non animate da populismi di bassa lega. Del resto fa riflettere il fatto che siano stati poche decine i parlamentari che hanno dato la propria adesione all’appuntamento dei Radicali. Aggiungo: non sono molti neppure gli organi di informazione, gli opinionisti, le forze sociali, gli intellettuali, le grandi personalità (a parte il Pontefice) che alzano la propria voce per aiutare la società e la politica a maturare un approccio più civile e coraggioso a questi temi. Anche per questo le adesioni concrete ad una proposta del genere rimangono largamente minoritarie. C’è un altro motivo che mi porta a ritenere doveroso usare realismo e consapevolezza dei rapporti di forza. Riguarda proprio le persone detenute. Mi capita frequentemente di visitare carceri, parlare con loro. In queste occasioni (prima ancora della voce parlano gli occhi) arriva sempre la domanda: "Quando farete l’amnistia"? La mia risposta è la stessa che ho scritto pubblicamente. Riterrei poco responsabile nascondere le difficoltà, gli ostacoli che stanno davanti a questi provvedimenti. La delusione che seguirebbe ad una illusione (non ad una speranza, beninteso) sarebbe gravissima e crudele. Anche per questo penso sia giusto guardare in faccia la realtà. C’è poi, a mio giudizio, un altro motivo. Lo stesso papa Francesco, dopo l’Angelus di domenica, ha auspicato, rivolgendosi alle istituzioni di tutto il mondo, un atto di clemenza "verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". È un auspicio nobile e condivisibile. Che presuppone, tuttavia, possibilità reali di re-inserimento sociale (o neo-inserimento se pensiamo a tanti detenuti extracomunitari, passati quasi direttamente dal rischio di morte su un barcone, alla piccola criminalità e di qui alla reclusione). Anche qui penso sia d’obbligo fare i conti con il principio di realtà e in questo senso, allo stato, non sarebbe semplice un inserimento sociale serio per qualche migliaio di persone. La verità è che il sistema Italia non è pronto per questo. Rischieremmo corto circuiti, qualche recidiva di troppo, con l’effetto possibile di fare arretrare battaglie di civiltà come quella legata alla condizione delle carceri. Che fare, allora? Rinunciare? Limitarsi a testimonianze a favore di un obiettivo che lo stesso ministro Orlando ha definito "arduo"? Certamente no. La mia opinione è che si debba continuare lungo la strada intrapresa in questi anni, grazie anche al messaggio alle Camere di Giorgio Napolitano. Continuare nella drastica riduzione di forme incivili di custodia cautelare; irrobustire le esperienze di pene alternative al carcere e di messa alla prova; continuare nella depenalizzazione e nella decarcerizzazione per reati tenui e di non grave allarme sociale. In questo senso auspico davvero una rapidissima approvazione al Senato della riforma del processo penale, che contiene anche parti fondamentali legate alla giustizia riparativa, alla esecuzione della pena, alla condizione penitenziaria. Certo, in questo quadro c’è la questione fondamentale: la condizione delle carceri italiane. È noto, abbiamo fatto passi in avanti importanti. Oggi non c’è quella terribile condizione di sovraffollamento che prima ancora delle sanzioni europee le comminava alla nostra coscienza. Ma la svolta decisiva si raggiunge con una esecuzione della pena che sia davvero quella voluta dalla Costituzione, basata su un tempo da passare in carcere in condizioni civili e umane e soprattutto fondata sulla speranza e la possibilità concreta di un recupero e di un reinserimento sociale per chi ha sbagliato e pagato il proprio debito con la società. E allora lavoro, tanto lavoro in carcere e, ove possibile, all’esterno. Tanta formazione e tanta scuola dietro le sbarre. Tante esperienze di attività culturali, musicali, teatrali e di socializzazione, Tanta mediazione culturale e tanto volontariato. E tanta attenzione alle esigenze della Polizia penitenziaria, che svolge un ruolo davvero importante e delicato. Investire in umanità nelle carceri significa investire in sicurezza: chi esce da una giusta pena con un mestiere in mano, con una speranza concreta, difficilmente - si sa - torna a delinquere. Anche queste cose non sono obiettivi facili. Le iniziative dei radicali contenevano anche questi, così come le parole del Papa all’Omelia, che ho ascoltato lì con emozione. *capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera L’appello del Pontefice per tutelare la dignità del Paese e della giustizia di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 8 novembre 2016 Sono stati più di mille i detenuti che hanno assistito domenica scorsa alla celebrazione eucaristica presieduta da Papa Francesco, nella Basilica di San Pietro, in occasione del Giubileo dei Carcerati. Con loro il ministro della Giustizia, i sottosegretari, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, tutti accompagnati da alti funzionari del ministero. Il Santo Padre ha fatto riferimento, nel corso della cerimonia, alla Speranza, alla Misericordia e ha affermato, rivolto ai detenuti: "Ipocrita chi vede per voi solo il carcere". Ma il passaggio più significativo, da un punto di vista istituzionale, è stato il pensiero della Chiesa declamato da un giovane, in lingua portoghese: "Guida o Padre, i progetti dei politici: lo Spirito di carità li orienti a servire la dignità di ogni persona". Parole queste da ricordare quando il Papa, dopo la messa, si è affacciato alla finestra, per l’Angelus, e ha esplicitamente chiesto un atto di clemenza per i detenuti. Nella piazza gremita erano giunti, intanto, coloro che avevano partecipato alla marcia per l’Amnistia organizzata dai Radicali, lungo il percorso da Regina Coeli a Piazza San Pietro. Migliaia di persone, parlamentari, le rappresentanze di Regioni e Comuni, associazioni e moltissimi avvocati delle Camere penali. "La dignità di ogni persona", non solo quella dei detenuti, è questo il principio a cui fare riferimento quando si pensa all’amnistia e all’indulto. Istituti emergenziali previsti dal nostro Ordinamento per superare momenti di difficoltà che non consentono un’attività conforme alla Legge. L’amnistia estingue il reato e viene concessa per quelli di minore pericolosità sociale. Consente di "liberare" i palazzi di giustizia da una mole di fascicoli enorme, la maggior parte dei quali sarebbero in ogni caso destinati alla prescrizione. Fascicoli che, con la loro pendenza, impediscono ad altri, più recenti, di essere trattati, con l’inevitabile conseguenza che anche questi ultimi saranno, per la maggior parte, destinati a non giungere a sentenza definitiva. Al fine di evitare tale situazione, in alcune Procure della Repubblica, si sono adottati provvedimenti interni che, di fatto, bloccano le indagini per alcuni delitti a favore di altri ritenuti più importanti. In alcuni Tribunali i processi destinati alla prescrizione, vengono rinviati a nuovo ruolo, in attesa che maturi il termine per dichiarare estinto il reato. Oggi, dunque, sono i magistrati a decidere quali condotte perseguire e quali no. Ciò avviene, inoltre, solo in una parte del Paese, con un’evidente disparità di trattamento e contro il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Dinanzi a tale situazione, la dignità degli operatori della giustizia e di coloro che per diverse ragioni sono costretti ad avere a che fare con essa, è quotidianamente calpestata. Magistrati e avvocati, che credono davvero nella loro professione, sono costretti ogni giorno ad assistere e, a volte, a partecipare, a paradossali eventi che di giudiziario hanno ben poco. Insieme a loro incredule persone offese, testimoni, indagati e imputati, disorientati dall’andamento lento del procedimento a cui sono interessati. L’indulto estingue la pena e consente di far uscire dal carcere quelle persone che devono scontare una condanna, o un residuo di essa, dell’entità stabilita dalla norma. L’Italia ha recentemente subìto l’onta di una sentenza "pilota" della Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo per le condizioni di (in) vivibilità delle nostre carceri. Sono stati adottati provvedimenti (anche temporanei sconti di pena, es. liberazione anticipata speciale), che hanno momentaneamente risolto, solo in alcuni istituti e solo in merito al sovraffollamento, quanto indicato dalla sentenza. Oggi permane l’assenza di quei rimedi "strutturali" richiesti dal Consiglio d’Europa, si sta tornando nuovamente a un numero di presenze negli istituti molto al di sopra di quello tollerabile ed il Consiglio d’ Europa ha nuovamente censurato il nostro Paese. Tali condizioni di detenzione, non solo compromettono e logorano la dignità dei detenuti (che contrariamente alla libertà è un bene di cui neanche lo Stato può disporre), ma la stessa dignità di coloro che, all’interno dell’Amministrazione penitenziaria, vorrebbero svolgere il loro lavoro secondo i principi costituzionali e le norme dell’Ordinamento Penitenziario. La dignità di quei magistrati di Sorveglianza (pochi invero), che entrano nelle carceri e sono costretti a vedere raccapriccianti miserie e trattamenti disumani e degradanti. L’appello del Papa è, dunque, un richiamo ai politici per tutelare la dignità stessa del Paese dinanzi ad una giustizia affaticata, che scoraggia sempre di più coloro che ancora credono nel suo irrinunciabile valore. Il ministro Orlando, al quale va comunque riconosciuta la volontà di un radicale cambiamento, ha affermato, che "la praticabilità di un atto di clemenza è ardua" in quanto non vi sono le condizioni politiche. Purtroppo è vero, la politica spesso ha poco a che fare con la dignità. *Responsabile "Osservatorio Carcere" Unione Camere penali Marcia per l’amnistia. Penalisti: non una passeggiata, ma un impegno politico Askanews, 8 novembre 2016 "L’altro ieri si è tenuta la Marcia per l`Amnistia. Non è stata una passeggiata, ma un impegno politico. E non sarà una passeggiata convincere i due terzi del parlamento a votare un provvedimento di clemenza. Ma ci sono ragioni che ci fanno sperare nella possibilità di un percorso virtuoso". Lo afferma in una nota la Giunta dell’Unione camere penali. "Vedere assieme i Radicali promotori e la politica trasversale dei 40 deputati, l`Anci e i cappellani delle tante carceri italiane, giornalisti e accademici, la forza dei laici e la speranza dei religiosi, i tanti avvocati dell`Unione venire da tutte le Camere Penali italiane, ci fa credere che sia ancora possibile trasformare la cultura della legalità e delle garanzie in azione politica", aggiunge la nota. "Coniugare l`idea di clemenza con quella del ripristino della legalità. Crediamo che non sia impossibile convincere che un carcere giusto e dignitoso è un interesse dell`intera collettività e che una pena che non sia solo repressione e punizione, ma rieducazione operata in una condizione di rispetto della dignità del condannato, serva indubbiamente a ridurre la recidiva e, dunque, ad aumentare la sicurezza. Ha detto il ministro Orlando, rispondendo alla richiesta di una legge di amnistia e di indulto, che in passato simili provvedimenti hanno avuto effetto temporaneo", prosegue. "Ma la carcerizzazione, signor ministro, non è un accidente naturale che dipende dalle immutabili leggi della fisica. L`uso del carcere dipende dalle leggi del Parlamento e dalle interpretazioni e dalle applicazioni che di esse fa la magistratura. Ridurre il ricorso alla custodia cautelare potrebbe evitare che il 40% dei detenuti sia costituito da imputati in attesa di giudizio. Una attuazione rapida ed effettiva delle linee di delega per la riforma dell`ordinamento penitenziario e delle nuove idee che sono uscite dai tavoli dell`esecuzione penale renderebbe fruibile un numero maggiore di misure alternative", sottolinea la nota. "Una riduzione del numero dei detenuti consentirebbe di indirizzare risorse verso un miglioramento delle strutture. Non sarà una passeggiata, ma crediamo che sia possibile. Perché, come sa il ministro della Giustizia, ripristinare la legalità della detenzione, far sì che chi ora vive la detenzione, come da anni denunciamo, in maniera indegna di un paese civile, sia sottratto a questa umiliante condizione, è un fine che si giustifica in sé e che dovrebbe convincere Governo e Parlamento della urgenza e della inevitabilità di questa scelta. "Clemenza per i detenuti": Mattarella risponda all’appello di Papa Francesco di Franco Corleone L’Espresso, 8 novembre 2016 Durante l’Angelus nella giornata del Giubileo dei carcerati, Papa Bergoglio ha lanciato un Appello ai responsabili di tutti gli Sati perché venga dato un segno di clemenza per i detenuti meritevoli. In Italia dopo le condanne per trattamenti crudeli e degradanti da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo dovute al sovraffollamento carcerario, il numero dei detenuti sta aumentando di nuovo in misura preoccupante. La cifra sfiora le 55.000 unità e supera di cinquemila unità la capienza regolamentare. È una situazione che colpisce la dignità delle persone e compromette il rispetto del principio dell’art. 27 della Costituzione sul senso della pena detentiva. La legge delega che accoglie le proposte degli Stati Generali sul carcere voluti dal ministro della Giustizia Orlando è bloccata in Senato. Che fare? Sarebbe bello che il Presidente Mattarella rispondesse alle parole del Papa con un atto concreto per riportare la vita delle carceri a condizioni accettabili. L’art. 87 della Costituzione assegna al Presidente della Repubblica il potere di grazia e sarebbe tempo che questa prerogativa venisse esercitata almeno per liberare i detenuti malati, le detenute con bambini e gli ergastolani che hanno scontato più di trent’anni di detenzione. Ma il Presidente della Repubblica può anche commutare le pene: 35.000 sono i condannati definitivi e di questi oltre il venti per cento hanno un residuo pena inferiore ai tre anni. Un atto di commutazione della pena per queste persone potrebbe dare respiro alle prigioni in attesa della riforma. Ci vuole coraggio? Certo, ma la giustizia merita una soluzione all’altezza della intollerabilità della situazione. Da Md timide aperture sul carcere duro: "ripensare finalità e presupposti del 41bis" di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 8 novembre 2016 Concluso a Bologna il congresso di Magistratura democratica. Apertura sul nuovo ordinamento penitenziario e riflessione sul 41bis. Niente spaccatura al vertice. Tutela dei diritti individuali e collettivi nel nome dei valori costituzionali, riaffermazione delle garanzie contro atti giudiziari e di polizia lesivi delle libertà fondamentali, Csm più trasparente, collegialità nella gestione degli uffici: questo il catalogo dei principali impegni che Magistratura democratica (Md) si è assunta nella mozione finale approvata all’unanimità al termine del suo congresso, domenica a Bologna. Il vento della politica soffia in un’altra direzione, ma le toghe di sinistra non hanno paura di sembrare fuori moda quando denunciano l’aumento delle diseguaglianze "in nome delle ragioni di bilancio elevate a priorità" e la demolizione della legislazione sul lavoro "riportata all’epoca pre-Statuto". La giurisdizione vissuta dalla parte dei più deboli significa puntare il dito contro "i processi di criminalizzazione e imprigionamento delle ‘povertà colpevolì" di fronte invece alle difficoltà di colpire i "fenomeni sistemici di criminalità organizzata e corruzione". Un’attenzione particolare, come da tradizione per Md, è stata dedicata al pianeta-carcere, oggetto di un documento specifico in cui si chiede al parlamento di approvare la legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario, tema su cui c’è comunanza di vedute con il ministro Andrea Orlando. La prigione "deve cessare di essere quel luogo oscuro in cui confinare le insicurezze collettive" e l’esecuzione delle pene deve essere realmente improntata alla rieducazione: serve dare "un nuovo volto alle misure alternative" e fare "ricorso alle nuove forme di giustizia riparativa", in base alle quali sanare le ferite delle vittime è più importante che punire i rei. E occorre ripensare anche "finalità e presupposti" dei regimi differenziali come il 41 bis. Ma non di sola Italia si è parlato. Dal congresso bolognese si è levato un grido d’allarme sulla Turchia, dove la repressione colpisce anche i magistrati progressisti, la cui associazione Yarsav è stata sciolta con decreto governativo. Il suo presidente, Murat Arslan, è agli arresti, così come decine di suoi colleghi. Contro la "deriva totalitaria" in corso nel Paese del Sultano Erdogan, la corrente di sinistra di giudici e pm chiede "che le istituzioni europee rompano l’assordante silenzio tenuto sinora sulla tragica demolizione dei principi di separazione dei poteri e di indipendenza della magistratura", e chiama alla mobilitazione. La Md uscita dalle giornate congressuali sembra aver trovato un equilibrio fra la riaffermazione della propria identità e l’investimento in Area, la coalizione con il Movimento per la giustizia, l’altra corrente progressista. Le rotture che alcuni paventavano alla vigilia non si sono verificate, e la conclusione delle assise è stata unitaria. Dall’elezione del consiglio nazionale, il parlamentino dell’associazione, è venuta un’indicazione sulla nuova leadership: a condurre il gruppo saranno quasi sicuramente Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, i più votati. Edizioni Paoline: un "Banco editoriale" per donare libri ai detenuti delle carceri italiane agensir.it, 8 novembre 2016 Dopo il successo delle precedenti edizioni (quasi 10mila libri raccolti), la casa editrice Paoline organizza anche quest’anno l’iniziativa solidale del Banco Editoriale, che si svolgerà in tutte le Librerie Paoline del territorio nazionale dal 4 novembre 2016 (paoline.it/elenco-librerie.html). Si tratta di un’iniziativa che s’ispira al più famoso "Banco Alimentare" e che consiste nell’acquisto di libri che vengono poi donati ad associazioni di volontariato o a sostegno di realtà disagiate. Entrando nelle librerie Paoline, si potranno acquistare libri da lasciare in libreria, che saranno poi donati ai carcerati degli istituti di pena delle città dove si trovano le librerie. La casa editrice s’impegna a donare già da subito 500 volumi. Inoltre, i clienti delle librerie potranno godere di uno sconto sui libri acquistati e donati. Il Banco Editoriale si svolgerà nel mese di novembre, in considerazione del fatto che proprio a novembre si celebre il Giubileo dei carcerati (6 novembre) e si conclude ufficialmente l’Anno Giubilare (20 novembre). Volutamente provocatorio lo slogan dell’iniziativa "Le buone evasioni": indicano il libro, cibo della mente e del cuore che, donato a chi è in carcere, può essere un modo per indicare orizzonti di libertà e di dignità che vanno al di là dei confini di una cella. Oltre che un segno di solidarietà, per le Paoline quest’iniziativa rappresenta un contributo alla riflessione concreta sulle condizioni di vita in una di quelle "periferie esistenziali" su cui papa Francesco ha più volte esortato a porre attenzione e cura. La riforma del processo penale torna in aula al Senato di Claudia Morelli Italia Oggi, 8 novembre 2016 La decisione oggi all’ordine del giorno della conferenza dei capigruppo. La riforma del processo penale dovrebbe tornare in aula al Senato. La certezza si avrà oggi al termine della riunione della conferenza dei capigruppo, mentre è in queste ore che si stanno definendo le modifiche al testo in modo da, per un verso, dare seguito alle aperture del premier Matteo Renzi all’Associazione nazionale magistrati nell’incontro del 28 ottobre scorso; ma dall’altra fare in modo che la maggioranza non entri in sofferenza sul solito tema della giustizia a meno di un mese dal referendum. Certamente ci sta lavorando il Pd, mentre ieri ambienti di Ap hanno escluso lo sblocco del provvedimento. I temi sul tappeto riguardano l’ordinamento giudiziario con riferimento ai compiti e responsabilità dei pm in merito alla iscrizione nel registro degli indagati ed all’esercizio dell’azione penale, che secondo il testo attuale del disegno di legge deve avvenire entro tre mesi dalla chiusura delle indagine pena l’avocazione del procuratore generale. "Ci vorrà un forte accordo politico all’interno della maggioranza per cambiare il testo", riferisce il relatore Giuseppe Cucca (Pd), per il quale però alcune richieste di Anm sono frutto di un equivoco. "Sulla iscrizione nel registro degli indagati, il nuovo testo non sposta il quadro attuale né introduce modifiche significative"; altra faccenda quella dei tre mesi, che rimarranno quelli ma si sta lavorando ad una modifica in modo che l’avocazione da parte della procura generale avvenga con una motivazione esplicita forte. Poi ci sarebbero gli altri emendamenti "tecnici": quello sulla sinteticità degli atti anche nel penale e quello che mira a garantire l’anonimato di traduttori e interpreti impegnati in alcuni processi, spesso minacciati a causa della loro attività. Ma sul punto si sono fatti sentire gli avvocati, che ritengono la proposta non adeguata ai diritti di difesa. Nessuno stralcio poi delle norme sull’ordinamento penitenziario, fermamente volute dal ministro della giustizia Andrea Orlando che sabato scorso al congresso di Magistratura democratica aveva invitato i magistrati a sostenere la riforma carceraria anche per recuperare il gap di disuguaglianza sociale. Obiettivo oggi rafforzato dall’appello di domenica di papa Francesco che ha invocato il rispetto della dignità all’interno del carcere, chiedendo un provvedimento di clemenza per i meritevoli. E mentre Piercamillo Davigo è tornato ieri sul tema della disciplina delle impugnazioni che a suo avviso andrebbe rivista, le correnti MI e Area litigano sull’apertura dei consigli giudiziari agli avvocati con diritto di voto, che il cdc di Anm aveva esplicitamente escluso. Io ti prescrivo, in nome della legge di Giovanni Tizian L’Espresso, 8 novembre 2016 Così la ex Cirielli, voluta da Berlusconi per i suoi processi, si è trasformata nel più grande condono penale quotidiano. Lasciando impuniti migliaia di procedimenti. Dal caso Stamina a Denis Verdini. Dai disastri ambientali all’enorme buco nero della malasanità. "In nome della Legge ti prescrivo il reato". Una formula molto in voga nella aule dei tribunali italiani. È stata pronunciata spesso nei processi in cui le parti offese erano vittime della malasanità o della pubblica amministrazione. Perché se è vero che a godere dell’accorciamento della prescrizione dopo l’introduzione della legge ex Cirielli sono stati Silvio Berlusconi e il suo cerchio magico, è altrettanto vero che la norma ad personam del 2005 ha avuto un effetto a cascata in centinaia di altri casi. Il che vuol dire centinaia di vittime in carne e ossa, che hanno assistito alla morte del processo in diretta. E, dunque, alla fine di ogni speranza di vedersi riconosciuto il danno subito. Dal caso Stamina, prescritto a Torino per la truffa alla Regione, ai disastri ambientali del petrolchimico e dell’amianto, fino all’enorme buco nero dei processi sulla malasanità. La prescrizione post riforma si è così trasformata nel più grande condono penale quotidiano di migliaia di procedimenti e ci sono persino processi in corso la cui prossima udienza fissata è già oltre i termini, in cui la prescrizione è già scritta e annunciata. Ad esempio in Calabria, a Vibo Valentia. A marzo 2017 si prescriverà uno dei filoni processuali sul caso di Federica Monteleone (nel principale sono state condannate definitivamente sette persone), morta in ospedale dopo un black out elettrico durante un semplice intervento di asportazione dell’appendice. Gli otto imputati, accusati di calunnia e falsa testimonianza, erano stati rinviati a giudizio il 13 novembre 2012. Ma tra slittamenti e giudici cambiati, il primo grado deve ancora finire. Prossima udienza il 30 marzo prossimo. Quando, cioè, andrà tutto prescritto. Nel caso di Monteleone, uccisa da un mix di incuria e malasanità, la prescrizione è sopraggiunta anche per l’ex procuratore di Vibo, Alfredo Laudonio. Accusato di non aver fatto mettere sotto sequestro la sala operatoria e di aver tardato a informare dell’accaduto il pm di turno. In questo modo, secondo la Corte di Cassazione, Laudonio ha aiutato a eludere le investigazioni e di fatto ha consentito che l’impianto elettrico, non a norma, fosse riparato. Sempre all’ospedale di Vibo l’anno successivo c’è stata una seconda interruzione di corrente. Per questa vicenda furono rinviate a giudizio tre persone poi salvate, anche loro, il 20 ottobre scorso, dal periodo giudiziario che scorre. E ancora a Vibo è andato in fumo, pochi giorni fa, il processo bis per l’alluvione del 3 luglio 2006 che causò tre morti e danni per oltre 100 milioni di euro, con la messa in ginocchio di un intero tessuto economico. Spostandoci più a Nord, a Bologna, è stato appena dichiarato prescritto il reato contestato nel processo di appello per il caso di Daniela Lanzoni. Morta a 54 anni il 27 settembre 2007 al Policlinico Sant’Orsola, due giorni dopo l’asportazione di un rene sano. Un errore fatto sulla base di una diagnosi sbagliata, dalla confusione nata dall’attribuzione di un referto e di una Tac appartenenti ad un’altra donna, con lo stesso cognome ma più anziana di 32 anni. In primo grado erano stati condannati a un anno per omicidio colposo il tecnico radiologo Stefano Chiari e l’ex primario di Urologia Giuseppe Severini. Non solo, i parenti di Lanzoni erano stati risarciti e il Sant’Orsola era parte civile. Quello di Bologna è solo l’ultimo processo chiuso per prescrizione. Per di più in secondo grado dove, dicono i dati del ministero della Giustizia, durante il 2015 sono collassati 22.504 procedimenti (erano poco più di 12 mila nel 2005). In tutto, rilevano le statistiche di via Arenula, lo scorso anno 125 mila processi sono stati cancellati, oltre 31 mila sono morti già in primo grado. L’anno precedente in questa fase del giudizio erano stati 23.704. "Difficilmente arriviamo a sentenze di condanna", spiega all’Espresso Francesco Lauri, avvocato e presidente dell’Osservatorio Sanità. Lauri cita un caso di cui si è occupato: "Una signora è rimasta paralizzata dopo l’operazione per un’ernia discale. Il processo penale contro un neurochirurgo di Bari è iniziato senza intoppi, ma dopo sei anni non era ancora terminato. Così è andato tutto in prescrizione". Piccoli casi, forse, ma sommati creano una percezione collettiva di ingiustizia. Le vittime sempre più sole e i cittadini sempre più distanti dalle istituzioni. "Il terreno penale non è il più adatto per ottenere giustizia dopo un errore medico, l’accusa di omicidio colposo si prescrive rapidamente e più del 50 per cento dei casi si chiudono", conclude Lauri. Ecco un altro esempio: in Liguria, ad Albissola, Valentina, una studentessa diciannovenne, morì per un aneurisma cerebrale nel dicembre 2005 all’ospedale di Pietra Ligure. Per quella morte due medici dell’ospedale di Savona furono condannati in primo grado per omicidio colposo. In sostanza non avevano eseguito esami che avrebbero potuto salvare la vita di Valentina. In appello, nove anni dopo, i giudici di Genova hanno pronunciato la fatidica formula "non luogo a procedere per intervenuta prescrizione". Cambiando categoria di delitto il risultato è lo stesso. Soprattutto quando a finire sul banco degli imputati sono i corrotti o presunti tali. A fine settembre la procura generale di Napoli ha chiesto ai giudici di appello di dichiarare la prescrizione per Silvio Berlusconi per il reato di corruzione nei confronti dell’ex senatore Sergio De Gregorio. La vicenda è relativa alla compravendita degli eletti a Palazzo Madama, la cosiddetta "operazione Libertà", per far cadere il governo Prodi. Berlusconi, condannato in primo grado, si è salvato grazie alla prescrizione, accorciata da una legge varata dal suo governo. Così come è accaduto in Emilia per un politico locale di Forza Italia, Giovanni Bernini, un tempo vicinissimo all’ex ministro Pietro Lunardi. Imputato nel maxi processo alla ‘ndrangheta emiliana per corruzione elettorale, il giudice ha dichiarato prescritto il reato, pur ammettendo la compravendita di voti con uomini del clan. Corruzione, abuso d’ufficio, omicidio e lesioni colpose, bancarotte e falsi in bilancio, disastri ambientali sono i reati più a rischio. Conseguenze dell’arcinota legge ex Cirielli, partorita nel 2005 dal governo Berlusconi all’apice del suo splendore. Venduta ai cittadini come riforma del garantismo d’avanguardia, in realtà assai utile all’ex premier e agli amici con grossi guai giudiziari sulle spalle. Per questo è stata inclusa nel novero delle cosiddette leggi ad personam. Gli effetti, del resto, si sarebbero visti da lì a poco: la più grande emergenza all’epoca era il processo Mills, l’avvocato inglese colpevole di essersi fatto corrompere con 600 mila dollari per favorire l’imputato Berlusconi in due processi (tangenti alla Guardia di Finanza e fondi neri Fininvest - All Iberian). Nel 2010 la Cassazione stabilisce che quella tangente passata di mano più di dieci anni prima non era più perseguibile. Non che non ci sia stato passaggio di quattrini, attenzione. Ma il tempo trascorso ha superato la soglia di estinzione del reato, che la Cirielli ha modulato sulla pena massima prevista dai singoli reati. Abbassandola sensibilmente: prima di questa norma, infatti, la corruzione, a seconda del tipo, si prescriveva in dieci o quindici anni. Dopo, il limite temporale è sceso tra i sei e i dieci anni. Ora la nuova riforma del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ferma al Senato, punta a ristabilire un equilibrio tra il diritto di ogni cittadino a non essere perseguito a vita e la necessità di non vanificare anni di indagini e sofferenze delle vittime. Così, in sintesi, la prescrizione per la corruzione è aumentata di un quarto, e alla fine di ogni grado di giudizio i termini vengono sospesi per diciotto mesi, che fino alla Cassazione vuol dire tre anni in più per sperare in una sentenza di condanna o di assoluzione nel merito. Intanto della ex Cirielli agli sgoccioli ne ha beneficiato anche l’ex banchiere Denis Verdini, il deputato del centrodestra che sostiene il governo Renzi. Da poco è stato prosciolto dall’accusa di corruzione. Prescritto, in nome della Legge. Ma il perdono è solo per i potenti di Michele Ainis L’Espresso, 8 novembre 2016 Colletti bianchi, colli neri. I primi la sfangano con l’aiuto dello Stato; i secondi nuotano nel fango, per colpa dello Stato. A immergere lo sguardo nel gran mare dei condoni, salta subito agli occhi questa disparità di trattamento: indulgenza per i ricchi, intransigenza per i poveri. Eppure un tempo la legge non faceva distinzioni, somministrava a tutti le dolcezze del perdono. Poi c’è stata una novella, una scelta dirimente. E il perdono di Stato è diventato pressoché impossibile per i reati comuni, quelli commessi dalla gente comune. Come il furto di legna, su cui il giovane Marx scrisse nel 1842 una pagina indignata, e che cinquant’anni dopo fu amnistiato dal nostro giovane regno. Ecco, l’amnistia. Viene dal greco amnestia, che vuol dire oblio, assenza di ricordi. Sarà per questo che è sempre stata in auge alle nostre latitudini, sarà perché la memoria non rientra fra le qualità degli italiani. O forse sarà l’antico vicinato con i papi, prodighi d’indulgenze plenarie. Ma sta di fatto che la prima amnistia della nostra storia nazionale reca la stessa data dell’unificazione: 17 marzo 1861. E sta di fatto inoltre che pure la repubblica esordì con un’amnistia generalizzata: quella firmata da Togliatti il 22 giugno 1946. Si dirà: ma quelle furono amnistie politiche, strumenti di pacificazione dopo una guerra o una sommossa. Ricadono in un genere che risale all’esperienza greca, come l’amnistia decretata da Trasibulo dopo aver purgato la Grecia dai suoi trenta tiranni, o quella che propose Cicerone per sedare gli effetti delle guerre tra Cesare e Antonio. Insomma, l’amnistia soccorre i prigionieri politici, non i poveri cristi. Sicuro A sfogliare l’album dei reati condonati attraverso un provvedimento di clemenza, s’incontra per esempio il mancato pagamento dell’imposta sul consumo di vino (1921). La "coltivazione di tabacco nell’isola di Sicilia" (1867). Le infrazioni alla legge sulla requisizione dei quadrupedi (amnistie del 1890 e del 1891). Il taglio degli ulivi e l’abbattimento dei gelsi, nonché l’"esportazione interprovinciale degli animali bovini" (1920). O infine il tormentone che ci ha perseguitati con ben 6 provvedimenti di clemenza, dal 1871 al 1951: il matrimonio dei militari "contratto senza la prescritta superiore autorizzazione". Del resto persino il fascismo non lesinò agli italiani il loro perdono quotidiano: in vent’anni gli indulti, le amnistie, le sospensioni della pena furono in tutto 51. Alla faccia dei grilli parlanti come Jeremy Bentham, il filosofo inglese, che predicava di fare buone leggi invece di creare "una verga magica che abbia il potere di annientarle". Poi, nel 1992, la svolta. Sull’onda del giustizialismo innescato dalle inchieste di Mani pulite, il Parlamento rese impraticabile la clemenza di Stato, correggendo l’articolo 79 della Carta: da allora serve la maggioranza dei due terzi. Significa che ormai è più facile cambiare la Costituzione (dove basta la maggioranza assoluta) che cambiare la fedina penale. Morale della favola: nell’ultimo quarto di secolo abbiamo registrato un solo provvedimento generale di clemenza (l’indulto del 2006), quando nei 150 anni precedenti ne erano stati concessi 333, oltre un paio l’anno. Insomma, per castigare l’abuso abbiamo finito per vietare l’uso. Però questo divieto non s’abbatte su una popolazione di banchieri. Secondo l’associazione Antigone, al giugno 2016 i laureati erano appena 514 su 54.072 reclusi nelle carceri italiane. I due terzi di costoro sono immigrati e tossicodipendenti. C’è poi un 10% di sbandati, alcolizzati, homeless. E lì dentro pesa perfino la questione meridionale: 9847 campani, 7011 siciliani, ma soltanto 90 trentini. È a quest’umanità dolente che si rivolge la faccia feroce dello Stato, mentre agli altri sorride con i condoni fiscali, edilizi, presidenziali. E oltretutto ai primi è stata ormai sottratta anche la speranza della clemenza individuale, dopo quella collettiva. Un effetto della sentenza costituzionale n. 200 del 2006, che decise il conflitto sulla titolarità del potere di grazia, sollevato dal presidente Ciampi. Risultato: dal 1948 al 2006 vennero concesse 42.251 grazie; negli anni successivi le grazie presidenziali si contano sulle dita delle mani. Dalla grazia alla disgrazia. Consulta. Giuseppe Frigo lascia, restano 14 giudici a decidere sull’Italicum di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 novembre 2016 L’avvocato di 81 anni era stato indicato dal centrodestra, ha deciso di lasciare per motivi di salute. Ieri i colleghi hanno accettato e ratificato la sua scelta, dandone comunicazione al Quirinale e ai presidenti delle due Camere. Ha deciso di lasciare dopo il compimento dell’ottavo anno di attività nel palazzo della Consulta. Gliene restava ancora uno, ma l’ottantunenne giudice costituzionale Giuseppe Frigo ha deciso di uscire in anticipo presentando le dimissioni per motivi di salute. Ieri i colleghi hanno accettato e ratificato la sua scelta, dandone comunicazione al Quirinale e ai presidenti delle due Camere. "Sono stato costretto dai medici che mi dicevano che questo impegno lavorativo, a 600 chilometri di distanza dalla mia residenza, era diventato troppo pesante, non compatibile con le mie condizioni", spiega l’avvocato dai grandi baffi a manubrio, divenuto noto alle cronache quando sul finire degli anni Novanta rappresentò nelle inchieste e nei processi l’industriale bresciano Giuseppe Soffiantini, rapito da una banda di sequestratori sardi e liberato dopo otto mesi di prigionia. Da giurista aveva collaborato alla stesura del codice di procedura penale, ed è stato presidente dell’Unione delle camere penali. Nel 2008 fu indicato come candidato alla Consulta dal Popolo della libertà, dopo la bocciatura del collega Gaetano Pecorella, riuscendo a raccogliere i consensi anche dal centro e dalla sinistra del Parlamento in seduta comune. La rinuncia di Frigo libera un posto di nomina parlamentare che teoricamente spetterebbe al centro-destra, ma nelle ultime occasioni deputati e senatori non hanno dato prova di grande coesione e unità d’intenti. Dunque è difficilmente prevedibile chi andrà a occupare il suo posto, e - soprattutto - quando ciò accadrà. In teoria le due Camere dovrebbero procedere celermente, per restituire alla Corte costituzionale la pienezza dei quindici componenti, ristabilita nemmeno un anno fa con l’elezione degli ultimi tre giudici di nomina parlamentare dopo mesi di attese, "fumate nere", veti incrociati e burrascose trattative. Adesso si dovrà ricominciare daccapo, in un clima politico tutt’altro che tranquillo e alla vigilia di scadenze importanti. Che quasi certamente la Corte affronterà priva di un componente. Dunque con 14 membri, il che significa che in caso di parità il voto del presidente Paolo Grossi varrà doppio e risulterà decisivo. Nell’immediato futuro la Consulta deve decidere su una parte importante della riforma della pubblica amministrazione, riguardante le nomine degli incarichi dirigenziali; ma ciò a cui il mondo politico-istituzionale guarda con più attenzione è il giudizio che incombe sulla riforma elettorale voluta da Renzi e dalla sua maggioranza. Il destino dell’Italicum doveva essere deciso il 4 ottobre scorso, ma poi la Corte ha scelto di rinviare discussione e sentenza a dopo la scadenza referendaria del 4 dicembre. Se il governo, come promesso dall’accordo annunciato nel Pd, dovesse mettere mano alla legge elettorale, finirebbe per cambiare anche i termini dell’attesa decisione. Se invece la "riforma della riforma" non arrivasse in tempi brevi, sarà inevitabile il pronunciamento della Consulta. Con tutte le conseguenze, anche extra-giuridiche, che si possono immaginare. Il rinvio era stato suggerito, oltre che dai motivi tecnici legati alla non completa interlocuzione su tutti i ricorsi, dall’esigenza di tenere un organismo di garanzia come la Corte costituzionale fuori dalla competizione a favore o contro il governo. Ma dopo il referendum, soprattutto se non saranno introdotte modifiche, non si potrà attendere oltre. Tuttavia il verdetto sull’Italicum non dovrebbe porre problemi di divisione netta, addirittura a metà, tra i giudici costituzionali, in modo che il voto del presidente debba pesare più degli altri. Il precedente giudizio sulla legge elettorale chiamata Porcellum ha stabilito il principio del necessario bilanciamento tra premi di maggioranza in nome della governabilità e rispetto della rappresentanza del voto dei cittadini, dal quale la Consulta non potrà prescindere. E l’assenza di Frigo, un penalista che peraltro ha sempre mostrato indipendenza di giudizio rispetto alla parte politica che l’ha indicato come giudice costituzionale, non dovrebbe incidere sul risultato finale. Nella depenalizzazione risarcimenti a doppia uscita di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 46688/2016. Strade separate per le depenalizzazioni in materia di conseguenze civilistiche del reato. Se per l’illecito che diventa amministrativo (dlgs 8/2106, articolo 9) il giudice dell’impugnazione deve sempre decidere sui diritti della parte offesa, perché lo prevede la legge, nella trasformazione del reato in illecito civilistico (dlgs 7/2016) il magistrato deve invece solo rinviare la decisione al giudice civile, titolare tra l’altro anche del nuovo potere sanzionatorio verso l’autore dell’illecito ex penale. A tracciare la definitiva separazione tra le due depenalizzazioni di inizio anno - almeno sotto questo profilo - sono le Sezioni Unite (sentenza 46688/16, depositata ieri) che, con una motivazione lunga e articolata - e in armonia con la recente pronuncia della Consulta 12/2016 - segnano i confini tra i due decreti legislativi definiti in questa sede "gemelli diversi". Il relatore parte da un dato normativo indiscutibile, la non estensibilità analogica della norma speciale dell’articolo 9 (che impone al giudice che "amministrativizza" il fatto depenalizzato di decidere su diritti della parte offesa) al dlgs "gemello" che trasforma gli ex reati in illeciti civilistici azionabili dalla parte lesa. La Corte ribadisce che, per quanto riguarda la tutela della vittima del reato, il giudice deve confermare le statuizioni "ex penali" solo se la sentenza è già in fase esecutiva. Se invece la decisione non è ancora definitiva, il magistrato che gestisce l’impugnazione per (dichiarare) la depenalizzazione, dovrà limitarsi a rimettere la determinazione e la liquidazione del danno dell’"ex-reato" al magistrato civile. Quanto alla compatibilità di questa decisione - che inevitabilmente va a differire i tempi del risarcimento alla vittima - con la Costituzione e con le norme europee, le Sezioni Unite richiamano la decisione 12/2016 della Consulta - che giudica la separazione dell’azione civile dal processo penale "non menomante" né escludente la tutela giurisdizionale - e argomentano, poi, che la Direttiva europea 2012/29/Ue non prevede l’obbligo del "viaggio a braccetto" tra azione civile e penale se la vittima del reato, come è previsto in Italia, può ottenere un ulteriore decisione giurisdizionale (civilistica). Unico limite di economia processuale, in questo complicato contesto, è dato dalla circostanza che la condanna per il reato depenalizzato (e reso illecito civile) sia già passato in fase esecutiva: in tal caso il giudice dell’esecuzione dovrà revocare solo gli effetti penali della condanna lasciando però "ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili". Questioni giurisdizionali del mandato di arresto europeo. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2016 Rapporti giurisdizionali con Autorità straniere - Mandato d’arresto europeo - Consegna per l’estero - Persona minorenne all’epoca dei fatti - Convalida dell’arresto e adozione di misure cautelari - Competenza - Presidente della corte di appello. In tema di mandato di arresto europeo, spetta al presidente della corte di appello la competenza funzionale - e dunque anche nell’ipotesi di persona ancora minorenne all’epoca dei fatti - alla convalida dell’arresto di polizia giudiziaria e, ove richieste, alla emissione di misure cautelari di cui all’articolo 13 della legge 22 aprile 2005 n. 69, spettando alla sezione per i minorenni della corte d’appello (cui gli atti devono essere trasmessi dal presidente della corte, esaurita la fase cautelare) il solo giudizio sulla sussistenza delle condizioni per la consegna. • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 1 giugno 2016 n. 23259. Rapporti giurisdizionali con Autorità straniere - Richiesta di mandato d’arresto europeo - Rigetto - Abnormità - Condizioni - Fattispecie. È abnorme il provvedimento di rigetto della richiesta di emissione del mandato di arresto europeo, che, pur essendo in astratto una manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e determini la stasi del procedimento con l’impossibilità di proseguirlo. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto abnorme il provvedimento con cui il GIP aveva rigettato una richiesta di emissione di mandato d’arresto relativo alla esecuzione degli arresti domiciliari, ritenendo erroneamente, da una parte, sostanzialmente preclusa la emissione del m.a.e. per la misura cautelare indicata in base a una non corretta interpretazione del Vademecum stilato dal Ministero della Giustizia, e, dall’altra, che la emissione fosse comunque condizionata alla previa dichiarazione di latitanza del consegnando). • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 29 febbraio 2016 n. 8209. Giurisdizione - Mandato di arresto europeo. In tema di mandato di arresto europeo, per la sussistenza del requisito della doppia punibilità di cui all’articolo 7 della legge 69/2005, è necessario che l’ordinamento italiano contempli come reato, al momento della decisione sulla domanda dello Stato di emissione, il fatto per il quale la consegna è richiesta. (Fattispecie relativa a una consegna richiesta per il reato di guida senza patente, depenalizzato ai sensi del Dlgs 15 gennaio 2016 n. 8, nella quale la Suprema corte ha ritenuto che è venuta meno la condizione della doppia punibilità della violazione). • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 9 febbraio 2016 n. 5749. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato d’arresto europeo - Consegna per l’estero - M.a.e. processuale - Cittadino italiano o residente nello Stato - Subordinazione della consegna alla condizione prevista dall’articolo 19, lett. c) - Necessità. In tema di mandato d’arresto europeo, se la persona richiesta in consegna ai fini di un’azione penale è cittadino italiano o residente nello Stato, la Corte d’appello è tenuta a dare esecuzione al m.a.e., ma deve condizionare la consegna, ai sensi dell’articolo 19, lett. c), della legge 69/2005, al reinvio della persona nel territorio dello Stato per scontarvi la pena o la misura di sicurezza eventualmente irrogate, salvo che non vi sia un’espressa diversa richiesta dell’interessato. • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 4 febbraio 2016 n. 4756. Giurisdizione - Mandato di arresto europeo. È abnorme il provvedimento di rigetto della richiesta di emissione del mandato di arresto europeo, che, pur essendo in astratto una manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e determini la stasi del procedimento con l’impossibilità di proseguirlo. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto abnorme il provvedimento con cui il g.i.p. aveva rigettato una richiesta di emissione di mandato d’arresto relativo alla esecuzione degli arresti domiciliari, ritenendo erroneamente, da una parte, sostanzialmente preclusa la emissione del m.a.e. per la misura cautelare indicata in base a una non corretta interpretazione del vademecum stilato dal Ministero della giustizia, e, dall’altra, che la emissione fosse comunque condizionata alla previa dichiarazione di latitanza del consegnando). • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 12 gennaio 2016 n. 8209. Giurisdizione - Mandato di arresto europeo - Principio di specialità - Violazione - Persona consegnata - Procedimento penale - Misura privativa della libertà - Autorità dello stato estero. In materia di mandato d’arresto Europeo, la violazione del principio di specialità, che preclude la sottoposizione della persona consegnata a procedimento penale o a misura privativa della libertà personale per un fatto anteriore alla consegna e diverso da quello per il quale la stessa è stata concessa, non può essere fatta valere dopo che le autorità dello Stato estero hanno prestato assenso all’estensione della consegna per i fatti ulteriori, in quanto per effetto di questa vicenda è venuta meno l’attualità del vizio. • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 24 marzo 2015 n. 12514. Giudice della Commissione Tributaria Provinciale a giudizio dalla toga locale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2016 l giudice della commissione tributaria provinciale, condannato per corruzione in atti giudiziari e concussione può essere giudicato dai magistrati locali. La Cassazione (sentenza 46616), chiarisce che l’articolo 11 del codice di procedura penale, teso a garantire l’imparzialità del magistrato che deve giudicare un collega si applica solo ai giudici ordinari e non a quelli speciali come i tributari. La sesta sezione penale respinge il ricorso con il quale il giudice "infedele" contestava sia la confisca per equivalente - disposta sui beni per un valore superiore ai danni e sull’abitazione acquistata molto tempo prima dei fatti contesati - sia la competenza del tribunale che lo aveva giudicato. I reati che avevano portato alla condanna e all’applicazione della misura cautelare erano stati tutti commessi nell’esercizio delle funzioni di giudice della commissione provinciale. Per questo ad avviso del ricorrente, non avrebbe potuto essere giudicato da un collegio dello stesso distretto nel quale aveva svolto la sua attività. La Suprema corte, nel respingere il ricorso, chiarisce l’ambito di operatività dell’articolo 1 1 del codice di rito. La norma, facendo riferimento alla nozione di "ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’Appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto", evoca, anche letteralmente, l’esercizio delle funzioni giudiziarie ordinarie. La disciplina - sottolinea la Suprema corte - è tesa ad evitare il rischio di danni all’immagine di imparzialità, che può essere compromessa in misura obiettivamente percepibile, quando la funzione giurisdizionale è esercitata da colleghi, anche dal punto di vista delle funzioni, vicini a coloro che sono parti nel processo. Un problema che non si pone quando i destinatari della norma sono soggetti privi di qualunque legame con i titolari del potere di decidere (ius dicendi). I giudici tributari nell’esercizio delle loro funzioni, qualunque sia la loro provenienza professionale, sono estranei all’ordine giudiziario, tanto da essere sottoposti a un diverso organo di governo autonomo. Per questa ragione non è estensibile anche ai giudici tributari il principio dell’applicabilità dell’articolo 11 ai magistrati onorari che hanno un incarico stabile. In tal caso i dubbi su un esercizio non imparziale sono giustificati dal radicamento nel territorio di riferimento che comporta, ovviamente, una normale frequentazione tra magistrati dello stesso distretto. Per la Suprema corte é giusto anche l’ammontare della confisca sui beni e sulla casa. La misura per equivalente si può, infatti, indirizzare su immobili acquistati in epoca molto precedente ai fatti illeciti, per sopperire all’impossibilità di sequestrare i beni che costituiscono il "prezzo" o il "profitto" del reato. Roma: Issam, il chierichetto musulmano del Papa arrivato dal carcere di Busto Arsizio di Andrea Gualtieri La Repubblica, 8 novembre 2016 Domenica al giubileo dei carcerati è stato scelto per assistere Francesco nella fase di vestizione, entrare in processione e prendere posto ai piedi dell’altare: "Credo nel dialogo e nel rispetto. Ho chiesto al il Santo padre di pregare per me, per la mia famiglia, per noi detenuti. Lui mi ha detto di fare altrettanto". Paura che il suo gesto venga frainteso non ne ha: "No, cosa c’è di difficile da capire?". Issam è stato il primo musulmano a rivestire la veste dei ministranti accanto al Papa in una funzione solenne nella basilica di San Pietro. E lo ha fatto con grande naturalezza: "Se i pontefici vengono a pregare nelle moschee perché non dovrei farlo io in Vaticano? Io resto musulmano ma insieme possiamo pregare gli uni per gli altri, per la pace, per il mondo. E io domenica ho fatto questo". Domenica era il giorno del giubileo dei carcerati. E Issam è un detenuto della casa di pena di Busto Arsizio. Otto di loro sono stati scelti per svolgere il servizio liturgico, insieme ad altri provenienti dalle carceri di Brescia e dell’Ucciardone di Palermo. Hanno assistito Francesco nella fase di vestizione poi sono entrati in processione e hanno preso posto ai piedi dell’altare. "Quando dal Vaticano mi hanno chiesto di individuare i detenuti per questo compito - racconta don Silvano, il cappellano di Busto Arsizio - ho segnalato che c’era un ragazzo musulmano che aveva dato la sua disponibilità e mi hanno risposto che gli avrebbero affidato un gesto importante". Alla fine, è stato incaricato di lavare le mani di Bergoglio in sacrestia ed è stato l’unico a restare da solo con lui prima della messa. "Perché ho voluto farlo? Per far capire che noi musulmani siamo diversi da quello che qualcuno vuole far credere: noi siamo per la pace". L’unica cosa che Issam ha chiesto, è stata di portare con sé nel viaggio dal carcere il proprio tappeto per la preghiera. Lo ha usato prima di raggiungere San Pietro. E di nuovo nel pomeriggio: "Io resto musulmano - rivendica - ma credo nel dialogo e nel rispetto". Quando lo ha detto al Papa, lui lo ha abbracciato e baciato. "Gli ho chiesto di pregare per me, per la mia famiglia, per noi carcerati. Francesco mi ha detto di fare altrettanto". Come dono, a nome di tutti i detenuti di Busto Arsizio, ha portato la chiave di San Pietro in cioccolato realizzata dalla pasticceria del carcere. Avrebbe voluto raccontargli la sua storia ma non c’è stato il tempo. Perché i 34 anni di Issam sono densi di vicende tumultuose come il mar Mediterraneo che ha solcato dalla Libia su un barcone, in mezzo ad altri profughi. Sono passati vent’anni da allora. Il ragazzino, arrivato dal Marocco per raggiungere i fratelli che si erano laureati e in Italia avevano trovato un lavoro, si è perso nella droga, nell’alcol. "Sembra strano da dire ma il carcere mi ha salvato - racconta -. Sono stato arrestato sei anni fa per un cumulo di reati e me ne restano altri quattro da scontare. Dietro le sbarre ho rafforzato la fede musulmana che avevo sin da piccolo e questo mi ha cambiato: ora studio, non mi drogo, non bevo e ho trovato la pace interiore". E dire che lo avevano scambiato persino per un terrorista: "È successo due anni fa: era morta mia madre e in carcere mi hanno chiesto di recitare una preghiera durante la cerimonia per la fine del Ramadan. Quando ho finito, tutti hanno alzato le mani al cielo. Chi ci osservava ha pensato che io volessi sobillare la gente: ovviamente non era così". Tanto che domenica Issam era vicino al Papa: "Le sue parole mi hanno tolto il fiato. Ha pregato per noi detenuti. Abbiamo sentito di non essere più gli ultimi, gli esclusi". Roma: Giubileo del carcerato, al convegno nazionale anche l’esempio di Technè forli24ore.it, 8 novembre 2016 Technè ha portato la propria testimonianza raccontando l’esperienza dei laboratori e percorsi avviati in città. "Dalle esperienze alle politiche: misure innovative per lo sviluppo delle attività formative e lavorative durante l’esecuzione penale": questo il titolo dell’incontro tenutosi il 4 novembre a Roma, presso il centro Salesiano Sacro Cuore. Ad intervenire una delegazione forlivese guidata da Lia Benvenuti, direttore generale di Technè, agenzia di proprietà del Comune di Forlì che si occupa di realizzare attività e laboratori nel carcere della città. La partecipazione è stata occasione per portare la grande esperienza maturata sul territorio forlivese come testimonianza a livello nazionale, un esempio luminoso che ha colpito tutti i partecipanti al convegno realizzato in occasione del Giubileo del carcerato. In occasione di tale convegno, il direttore di Technè ha avuto il privilegio di intervistare pubblicamente Mauro Palma sul significato del lavoro per il detenuto e su quanto possa questo essere significativo ai fini di una rieducazione alla legalità ed un efficace reingresso nella società. "Tre i punti su cui dover intervenire nelle carceri italiane - sottolinea Mauro Palma - in primis la promozione del lavoro quale strumento di riabilitazione e rieducazione per il detenuto, in secondo luogo la certificazione delle competenze acquisite in carcere, ovvero l’importanza che le abilità acquisite durante il lavoro dentro vengano riconosciute e formalizzate in prospettiva di un’occupazione fuori. Inoltre - continua Palma - è fondamentale stimolare la responsabilità sociale delle imprese affinché possano sempre più offrire commesse ai laboratori interni alle carceri per raggiungere l’obiettivo che tutti gli oltre 54000 detenuti delle carceri italiane possano lavorare e avere una concreta chance di riscatto passando attraverso il lavoro". Tre sono i laboratori produttivi dentro il carcere di Forlì: il laboratorio di assemblaggio Altremani, che in oltre 10 anni di attività ha assunto quasi 60 detenuti, il laboratorio di cartiera Manolibera, che produce pregiata carta artigianale fatta a mano ed il laboratorio di dismissione di apparecchiature elettriche ed elettroniche (quest’ultimo esterno al carcere) con detenuti che escono quotidianamente per raggiungerne la sede. Oggi nelle carceri italiane sono detenute 54.072 persone. Secondo i dati del Ministero della Giustizia i carcerati che scontano una condanna definitiva sono 35.234. Gli altri sono in attesa di sentenza e 9.120 di loro non hanno subito nemmeno il primo giudizio. Ed è proprio verso questi ultimi che Papa Francesco ha dedicato il suo messaggio per la Giornata della Pace, invocando "attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio", ricordando la finalità rieducativa della sanzione penale" e chiedendo agli Stati di valutare "la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria". Roma: Giubileo dei detenuti, in Vaticano anche le carceri reggine Arghillà e "G. Panzera" strill.it, 8 novembre 2016 "Domenica 6 novembre, per il "Giubileo dei detenuti" voluto da Papa Francesco, i carcerati sono arrivati in Vaticano dalle prigioni di tutta Italia. Alla presenza dei vertici apicali del Ministero della Giustizia, presente anche il Ministro Andrea Orlando, prima della celebrazione eucaristica presieduta da Papa Francesco, si sono susseguite alcune toccanti testimonianze di detenuti e dei loro familiari. Daniel, romano, ha raccontato di essere entrato in carcere a 17 anni: "Lì però ho sperimentato la misericordia di chi mi ha aiutato e ho imparato anch’io ad aiutare gli altri". Elisabetta, invece, ha parlato subito prima dell’uomo che ha ucciso suo figlio. E insieme hanno raccontato di come siano riusciti ad abbracciarsi e di come la vita dell’ergastolano sia cambiata dopo il perdono ricevuto. Alla messa in San Pietro ha partecipato anche il Garante comunale dei diritti dei detenuti, Agostino Siviglia, che ha pure aderito alla marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà, come del resto hanno fatto, con due rispettive delibere consiliari, sia il Comune che la Città Metropolitana di Reggio Calabria. Le due carceri reggine (Arghillà e "G. Panzera"), erano presenti con una delegazione di ben diciotto detenuti fra cui tre donne, accompagnati dal personale di polizia penitenziaria ed educativo dei due istituti penitenziari. "È stata davvero un’esperienza emozionante", ha affermato Siviglia, e speriamo che le parole di Papa Francesco, tanto tenere quanto ferme nel proposito, non restino inascoltate da chi di dovere". "Ogni volta che entro in un carcere mi domando: perché loro e non io", ha esordito Papa Francesco nella sua omelia. E poi ha lanciato tre appelli alle autorità civili: per "un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento", ma anche "in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri" e per "una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva" ma aperta "alla prospettiva di reinserire il reo nella società". "Non spetta a me concedere la vostra liberazione", ha detto il Papa, ma la Chiesa non può rinunciare di "suscitare in voi il desiderio della vera libertà". E ai carcerati ha raccomandato: "Nessuno di voi si rinchiuda nel passato: certo la storia passata anche se lo volessimo, non può essere riscritta. Ma non cadiamo nella tentazione di pensare di non poter essere perdonati". All’esterno della Basilica intanto si svolgeva la marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà dedicata a Marco Pannella ed allo stesso Papa Francesco. "Speriamo che ora possa concretizzarsi un gesto di clemenza da parte del Parlamento, invocato da più parti ormai da diversi anni", ha osservato Siviglia, "senza con ciò considerare l’amnistia una resa da parte dello Stato, ma al contrario un atto autorevole di "credibilità politica". Sant’Angelo (Av): la terra trema anche in carcere, cosa succede e come ci si prepara di Lara Tomasetta orticalab.it, 8 novembre 2016 La terra trema e continua a tremare. Oggi dobbiamo fare i conti con le strutture, pubbliche e private, che dovrebbero garantire l’incolumità di tutti, anche dei detenuti. Per questo motivo abbiamo sentito il Brigadiere Alessandro D’Aloiso della Casa Circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi, già nostro cicerone per una completa visita della struttura, che ci ha spiegato in che modo viene gestita l’emergenza. La terra ha tremato. Violente scosse hanno colpito il centro Italia e oggi dobbiamo fare i conti con le strutture, pubbliche e private, che dovrebbero garantire la nostra incolumità. Un’incolumità che va assicurata sempre e a tutti, anche a coloro i quali hanno dovuto rinunciare alla libertà. Parliamo appunto dei detenuti, ci siamo chiesti quale organizzazione sia prevista per le carceri in caso di eventi simili. Abbiamo incontrato per questo motivo il Brigadiere Alessandro D’Aloiso della Casa Circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi, già nostro cicerone per una completa visita della struttura, che oggi ci ha illustrato quali sono le procedure seguite da questo istituto in caso di terremoti o altre calamità. Brigadiere possiamo parlare di un iter procedurale da seguire per affrontare questi fenomeni naturali "Non è possibile entrare nei dettagli delle procedure poiché il piano è globale per tutti gli eventi che mettono in pericolo l’incolumità dei carcerati ed è necessario mantenere una riservatezza per motivi di sicurezza. Quello che è possibile dire è che ogni istituto è tenuto ad avere un piano di base per quanto riguarda le emergenze; essendo oggetto di ordine pubblico si fa un confronto con la Prefettura per avere anche un parere dal personale esterno e creare un buon documento. Questo piano viene portato a conoscenza del personale del carcere a seconda dei compiti che ognuno deve ricoprire. Una volta fatta la stesura base, i vari aggiornamenti vengono inseriti di volta in volta". Anche se ogni istituto prepara un suo documento organizzativo, immaginiamo esista un principio di base cui attenersi... "Il principio base è salvaguardare la vita umana, vengono "trasgredite" tutte quelle norme di sicurezza che normalmente sono in uso in un penitenziario. A Sant’Angelo durante l’anno vengono eseguite delle prove di evacuazione: proviamo in una "condizione-tipo" ad aprire tutte le celle e vediamo quanto tempo impiegano le persone a raggiungere i luoghi di sicurezza. Lo si fa sia per i detenuti sia per il personale, in base alle linee guida dell’amministrazione penitenziaria. Mi sono trovato in più occasioni a vivere un terremoto all’interno di un carcere e in quei secondi c’è sicuramente un momento di panico: le strutture più moderne sono fatte in maniera intelligente, con delle fasce di flessibilità nella struttura, come a Reggio Emilia e a Modena dove non ho registrato danni ingenti. La stessa Sant’Angelo dei Lombardi, costruita post terremoto, è una struttura dove sono state applicate le norme antisismiche, ovviamente qui più che altrove". E per le strutture più datate… "Nelle strutture vecchie, come quella di Fermo, l’edificio è stato evacuato totalmente. In quei casi bisogna tenere conto di non allontanare troppo i detenuti dalla propria zona, per il principio di territorialità della pena, però in queste situazioni ci si deve confrontare con le realtà. Da quello che ho captato i forti disagi che potevano prospettarsi non ci sono stati. Di solito una volta fatta l’evacuazione si procede con la verifica degli stabili e se non ci sono criticità particolari si ritorna alla vita normale, ovviamente si aspettano anche le scosse di assestamento". E per Sant’Angelo quali misure sono state adottate? "Già dal 2008, preoccupati comunque dal fatto che questa è una zona sismica, abbiamo pianificato come operare. Stiamo nelle misure standard, sappiamo chi attiverà la vigilanza armata attorno all’istituto per contrastare eventuali fughe ed è stata organizzata la squadra di emergenze per i primi soccorsi. Abbiamo anche delle scorte alimentari per le situazioni critiche: stock di acqua e di alimenti a lunga conservazione che possono essere utili in quei giorni, o coperte e beni di prima necessità per essere autonomi e non gravare sugli altri organi. Di recente abbiamo affrontato il tema del pericolo fuga con il Capo Dipartimento, ma l’assunto - ripeto - è la salvaguardia della vita umana, il pericolo di evasioni purtroppo passa in secondo piano. Fare una cernita in quei momenti è impossibile. Di giorno il problema è in parte ridotto: i detenuti a media e bassa pericolosità sono in sorveglianza dinamica, ovvero in "regime aperto" ed è dunque molto più semplice raggiungere le aree di sicurezza. Abbiamo fatto alcune prove e abbiamo visto che se l’agente è svelto in tre minuti si mettono tutti fuori. Sono prove che facciamo periodicamente". Lei che ha vissuto diverse esperienze anche fuori regione, si è mai trovato in situazioni problematiche? "Qualcuno già fragile di nervi ha ceduto in queste situazioni. Molte volte ho pensato a come reagirei io se fossi chiuso. Prima della sentenza Torreggiani del 2013 che condannava l’Italia per le dimensioni delle celle, non c’era la sorveglianza dinamica e i detenuti erano tutti chiusi. All’epoca non c’erano tutte queste prove di evacuazione, non si era abituati all’emergenza. Oggi molto è cambiato, se si sa già che procedura seguire ci si salva la vita. Devo dire che manifestazioni di panico vero e proprio non ne ho viste. Più di una volta sono rimasto meravigliato della calma di come si è operato". Roma: Sappe; vetri infranti e termosifoni sradicati, danni a Regina Coeli Askanews, 8 novembre 2016 Vetri spaccati, termosifoni sradicati dal muro della sezione detentiva, mura imbrattate. Sono le conseguenze della sconsiderata violenza che una parte dei detenuti ristretti nel carcere romano di Regina Coeli ha posto in essere nella struttura detentiva durante le manifestazioni di sostegno alla marcia per l’amnistia. Lo denuncia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Un primo provvisorio bilancio quantifica in oltre diecimila euro i danni provocati dalla follia di diversi detenuti ristretti nella seconda sezione detentiva del carcere di Regina Coeli", commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe. "La protesta era nata con le consuete grida di sostegno a un provvedimento di clemenza e con la battitura, sulle inferriate delle celle, delle pentole, dei coperchi e di ogni altro oggetto utile a fare rumore. Non a caso, la marcia di ieri a sostegno dell’amnistia ha suscitato l’attenzione anche del Santo Padre Francesco, che ha chiesto clemenza per i detenuti più idonei. Poi, però, c’è stato chi, tra i detenuti del carcere di Regina Coeli, ha colto ieri l’occasione per distruggere tutto quel che poteva e i danni sono stati ingenti. Una protesta folle, assurda e ingiustificata. I detenuti erano tutto liberi e, forti di questo, si sono sentiti liberi di far tutto ciò". Il Sappe aggiunge: "un eventuale provvedimento di clemenza è esclusiva competenza del Parlamento: sempre, però, lo Stato deve garantire certezza della pena, che vuole anche dire che chi è ristretto in un carcere non deve mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza interna. Ma chiedere a chi è detenuto in un carcere sostegno a queste iniziative, anche attraverso la battitura delle inferriate, è da irresponsabili se poi questi sono i risultati". Il primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria informa che "analoghe rumorose proteste, seppur non con le conseguenze violente e disastrose di Regina Coeli a Roma, sono state poste in essere in molte altre carceri regionali e nazionali". Cagliari: Caligaris (Sdr); diverbio su un ombrello, moglie del detenuto perde il colloquio La Nuova Sardegna, 8 novembre 2016 Maria Grazia Caligaris presidente dell’associazione che segue la vita all’interno degli istituti di pena sardi denuncia l’ennesima difficoltà di un parente nell’accesso a una struttura difficile da raggiungere. "Un diverbio sorto in seguito al mancato deposito di un ombrello ha impedito alla moglie di un detenuto della Casa Circondariale di Cagliari-Uta di poter effettuare il colloquio con il proprio familiare, dopo aver affrontato un viaggio di tre ore con un bambino di 15 mesi". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme": "È evidente - sottolinea - che si è trattato di un malinteso provocato da un’informazione incompleta, dalla abbondante pioggia odierna e dalla stanchezza. La donna, ignara del divieto poiché non aveva ricevuto alcuna limitazione in merito, aveva superato con il bambino in carrozzina e l’ombrello aperto per ripararsi, il primo ingresso. Giunta alla seconda postazione di sicurezza però gli agenti in servizio le hanno fatto notare che non poteva accedere con l’ombrello. La donna ha detto che non era stata informata e ha consegnato l’ombrello ma è stata invitata a riportare l’ombrello nell’ingresso dell’Istituto. A quel punto è nato il diverbio che ha esasperato gli animi". "La ragione delle norme si è contrapposta a quella di una madre che trovava illogico riportare indietro con un bambino piccolo l’ombrello e ritornare sui suoi passi nuovamente sotto la pioggia. Nel tira e molla, la donna non ha potuto effettuare il colloquio con il marito ed è tornata a casa dopo altre tre ore di viaggio. Troppo spesso la stanchezza, dovuta a turni di lavoro snervanti o a situazioni familiari delicate, porta a mettere da parte il buon senso che invece - conclude Caligaris - deve sempre prevalere anche quando le condizioni sono difficili e imprevedibili. L’auspicio è che la vicenda trovi una soluzione positiva senza ulteriori strascichi". Roma: "Il figliol prodigo", il musical dei detenuti di Opera voluto da Papa Francesco di Nicole Cavazzuti Il Messaggero, 8 novembre 2016 È stato lo stesso Papa Francesco a suggerire il tema del musical "Il Figliol Prodigo", spettacolo che vede protagonisti 14 detenuti della sezione Alta Sicurezza del carcere di Milano Opera in arrivo a Roma l’8 novembre al Teatro Carcere di Rebibbia (solo per i detenuti) e il 9 al Teatro della Conciliazione (ingresso aperto a tutti, gratuito, con donazione libera). Lo show, promosso da Regione Lombardia, Ministero della Giustizia e Organizzazione Giubilare, è prodotto dal Laboratorio del Musical, un progetto di volontariato ideato da Isabella Biffi, in arte Isabeau, cantautrice e regista che, da quasi dieci anni, realizza musical con protagonisti i detenuti del carcere di Milano Opera in collaborazione con il direttore del carcere Giacinto Siciliano e con l’Associazione Culturale Eventi di Valore. Facciamo un passo indietro. Isabella Biffi, che legame c’è tra Papa Francesco e Il Figliol Prodigo "Avevamo appena terminato di portare in scena il musical L’amore Vincerà e stavamo quindi ragionando su quale potesse essere il nuovo progetto. I detenuti, visto che il 6 novembre si celebrava il Giubileo del Carcerato, hanno proposto di chiedere a Papa Francesco di potersi esibire in Vaticano per condividere la propria gioia e dimostrare come il teatro possa contribuire al miglioramento della società". E il Papa ha risposto "Sì! Ci ha invitati al Teatro della Conciliazione. È stata una grande sorpresa, nonché un’immensa gioia". Perché proprio Il Figliol Prodigo "L’idea di portare in scena questa parabola nasce da una frase della sua lettera. Tutti noi facciamo sbagli nella vita, perché siamo peccatori. E tutti noi chiediamo perdono di questi sbagli e facciamo un cammino di reinserimento". È vero che anche Papa Francesco sarà tra il pubblico "Non lo escludiamo. Sarebbe un grande onore. Ma non c’è nulla di certo". Perché ha fondato il Laboratorio del Musical "Per restituire al carcere la funzione di recupero degli individui, utilizzando l’arte per veicolare messaggi positivi. L’arte in generale è uno strumento fortissimo per innescare nell’uomo la voglia di cambiamento. E visto che è più facile esprimersi attraverso le recitazione che attraverso danza, canto e pittura, ho deciso di dedicarmi al teatro". Quali effetti ha riscontrato nei detenuti che aderiscono al Laboratorio del Musical "Tutti hanno intrapreso un percorso interiore di grande rinnovamento. Rispetto a dieci anni fa, sono persone diverse, con una positività e una luce interiore che prima non avevano". Avellino: Ariano e Sant’Angelo, la street art entra nelle carceri tusinatinitaly.it, 8 novembre 2016 "Non me la racconti giusta" è una di quelle frasi che esprimono diffidenza, è una frase a volte leggera ma che nasce dalla mancanza di fiducia o dal pregiudizio, "raccontare" inoltre, presume il desiderio di saperne di più. Il tentativo di superare un pregiudizio, insieme alla volontà di raccontarlo, sono i presupposti di "Non me la racconti giusta". Il progetto nasce dalla collaborazione tra due artisti, Collettivo Fx e Nemòs, il magazine di arte e cultura contemporanea ziguline e Antonio Sena, fotografo e videomaker. Attraverso un intervento artistico, la realizzazione di un video-racconto e il coinvolgimento attivo di un gruppo di detenuti, il progetto si propone di riflettere e di far riflettere sulla dimensione "carcere" attraverso la street art. Ed è così che, dal 7 all’11 novembre, vedremo i due artisti a lavoro insieme ai detenuti della Casa circondariale di Ariano Irpino. L’arte in questo caso però, rappresenta solo un mezzo per ridiscutere il ruolo del carcere oggi, per capire dov’è collocato nella nostra società e se la sua funzione è rieducativa o meramente punitiva. L’idea stessa dell’iniziativa, infatti, nasce dall’esigenza di discutere una tematica spesso sottovalutata dall’opinione pubblica e gestita con fatica dalle istituzioni. Il rapporto con gli altri, la natura, il lavoro e la cultura sono gli spunti che Collettivo Fx e Nemòs forniranno ai partecipanti per innescare la discussione e coinvolgerli attivamente. Oltre alla fase progettuale gli artisti avranno anche il compito di porre le basi per la realizzazione pratica dell’opera, attraverso lo studio delle tecniche di tracciamento e riempimento, la definizione di linee, figure e perimetri, lo studio dei volumi e la definizione dei dettagli. "Non me la racconti giusta" rappresenta il primo appuntamento di un ideale percorso in più istituti carcerari e si pone l’obiettivo di coinvolgere altre città per creare una rete di interventi e inviare il messaggio in modo più chiaro e forte. Un secondo intervento, infatti, farà tappa nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi dal 21 al 25 novembre 2016. In seguito, gli interventi saranno accompagnati da un’opera all’esterno, a simboleggiare il detenuto fuori e dentro la dimensione carceraria, e mirata a ricordare che si commettono errori ma che il pregiudizio non da nessun apporto positivo alla risoluzione dei problemi che riguardano la nostra società. Lavoro manuale, coinvolgimento in un’iniziativa culturale e la creazione di un progetto continuativo sono le basi sulle quali si fonda questa iniziativa. La settimana dei lavori si concluderà con la Giornata della creatività organizzata dall’Associazione D.n.a. e i volontari che hanno portato avanti corsi di musica, arte e altre attività nel corso dell’ultimo anno. Partner e sostenitori - "Non me la racconti giusta" è stato permesso grazie alla disponibilità della Casa circondariale di Ariano Irpino e al Ministero della Giustizia. Un ringraziamento speciale va a: Eternal Brico, Damedia, Associazione D.n.a., Pignata in Bellavista, Lamerì PubArt. Chi siamo - Collettivo Fx - Collettivo Fx si dedica da numerosi anni a progetti di coinvolgimento sociale, alla valorizzazione della memoria collettiva e alla denuncia di problematiche che riguardano la nostra società. Ha già esperienza con progetti all’interno del carcere con corsi di disegno con i detenuti della Casa Circondariale di Reggio Emilia e nel 2016 con la realizzazione di un murales all’interno della Casa circondariale di Ragusa. Nemòs - Artista attivo da diversi anni nell’arte di strada e con laboratori artistici dedicati a bambini e ragazzi. La denuncia sociale e un ritratto delle ansie e le paure che caratterizzano la nostra società sono al centro del suo lavoro. Nemòs ha già avuto esperienze all’interno delle carceri con corsi di disegno in collaborazione con i detenuti. ziguline - Magazine di arte e cultura contemporanea, attivo dal 2007, documenta l’arte, la musica, la fotografia e altri argomenti di carattere culturale. Sviluppa, inoltre, progetti di arte pubblica e fotografia in collaborazione con altre realtà dislocate sul territorio nazionale. Antonio Sena - Fotografo per Esse Studio, fotoreporter per ziguline, direttore artistico del festival di arte urbana Bag Out 16 e membro del Collettivo Boca. Viaggia i tutta Europa per documentare eventi e iniziative legate all’arte urbana. Maria Caro - Direttore editoriale del magazine ziguline ed esperta di comunicazione. Lavora da anni nel campo del giornalismo, della comunicazione e dei media, è coinvolta in vari progetti di arte urbana sul territorio campano e fa parte del progetto Collettivo Boca. Migranti. Nel Centro dove curano i profughi torturati di Carlo Lania Il Manifesto, 8 novembre 2016 In fuga dalla Libia. A Roma l’Ong Medu assiste uomini e donne vittime di violenze fisiche e psicologiche. Per loro vivere significa stare sempre in allerta, perché il pericolo potrebbe arrivare in qualunque momento. Ci sono quelli ai quali basta il rumore di un ascensore che si chiude per far tornare alla mente il suono, terribile, della porta della cella libica in cui sono rimasti segregati per mesi. Oppure c’è chi sobbalza solo a sentire suonare una sirena. Ad altri ancora un locale affollato porta automaticamente il ricordo dello stanzone in cui sono stati tenuti prigionieri insieme ad altre decine di uomini e donne, uno ammassato all’altro senza un bagno, senza acqua né cibo. E poi c’è la memoria delle bastonate, delle violenze, degli stupri. Nel linguaggio asettico della medicina tutto ciò viene definito come disturbo da stress post-traumatico complesso. Chi si prende cura di loro, cercando di rimarginare cicatrici spesso troppo profonde per riuscire perfino a parlarne, preferisce invece parlare di "ferite che non si vedono", eufemismo gentile per definire i traumi conseguenti alle torture subite dalla stragrande maggioranza dei migranti durante il loro viaggio verso l’Europa. "All’inizio non riescono neanche a raccontare la loro storia, perché la sofferenza che provano è troppo forte" spiega Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medici per i diritti umani (Medu), Ong che ha aperto il Centro Psyché per la "cura, ricerca, testimonianza contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti". "Il primo passo, forse il più difficile è riuscire a conquistare la loro fiducia, creare un’alleanza terapeutica che li porti lentamente ad aprirsi e confidarsi", prosegue Barbieri. L’ambulatorio dove si curano le vittime della tortura è situato in due locali con una grande vetrina che si trovano al Pigneto, zona sud di Roma. Medu ha deciso di aprirlo un anno fa, quando dai dati che arrivavano dall’unità di strada che ogni giorno assiste i migranti nelle vie della capitale l’Ong si è accorta che più del 90% portava addosso - sul corpo e nello spirito - i segni delle torture subite prevalentemente in Libia. In questi mesi sono state 52, tra le quali 3 donne, le persone prese in carico dall’ambulatorio, età media 26 anni e appartenenti a venti nazionalità diverse la maggior parte proveniente però da Gambia, Nigeria, Mali ed Eritrea, ma anche afghani, pakisani e perfino due cinesi. Persone indirizzate all’Ong, oltre che dall’unità di strada, anche da Cas e Sprar (i Centri di assistenza straordinaria e il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati), oppure da altre Ong. Ad accoglierli ci sono due medici, due psicologi e sette mediatori culturali, decisivi questi ultimi per dar vita a un rapporto con persone che, per le esperienze vissute, difficilmente si fidano ancora di un estraneo. "I sintomi che presentano sono diversi", prosegue Barbieri. "C’è chi non riesce più a dormire perché ogni volta che chiude gli occhi rivede le violenze subite, oppure chi evita di fare cose che possano fargli rivivere il suo trauma. Per queste persone vedere un uomo in divisa è un problema, perché proprio agenti in uniforme hanno abusato di loro. Un altro sintomo comune è la visione negativa del mondo, un mancanza di fiducia nel futuro accompagnata spesso da sensi di colpa, come se quanto hanno vissuto fosse colpa loro. E poi c’è il trauma delle violenze sessuali, subite dalle donne ma anche dagli uomini, anche se è più difficile che questi ultimi ne parlino". Il grande numero di migranti arrivati in Europa in questi anni - più di un milione nel 2015, 170 mila solo in Italia quest’anno - ha spinto la comunità scientifica a cercare nuovi e più adeguati interventi terapeutici, ma anche a formare personale specializzato. Nel numero di ottobre la rivista Nature riporta ricerche in corso in corso in Europa il cui scopo è capire i disturbi psichici dei migranti anche in un’ottica di maggiore integrazione. Uno studio condotto dall’università di Costanza, in Germania, ha rilevato che "più della metà" di quanti sono arrivati nel paese negli ultimi anni "mostra segni di disturbi mentali, e un quarto di loro soffre di Ptsd (disturbo post traumatico, ndr), ansia o depressione, che non potranno migliorare senza un aiuto". Un problema enorme, quindi, reso più importante proprio dai grandi numeri con cui abbiamo a che fare e difficile da risolvere se alla terapia psicologica o farmacologica non si accompagna un lavoro di integrazione. Per questo al centro Psiche di Medu non ci si limita al solo (si fa per dire) aiuto medico, ma si cerca di convincere il migrante a frequentare un corso di italiano, praticare uno sport o un corso professionale che possa insegnargli un mestiere. Qui lo chiamano "spinta di riattivazione", convincere cioè il paziente a uscire dal mondo in cui è rinchiuso per ricominciare a vivere. Un percorso lungo, che può durare mesi se non anni. "In questa campo non c’è un’arma vincente", conclude Barbieri. "È una strada in salita in cui si possono solo sommare gli sforzi adattandoli alle esigenze di chi si affida a noi". Croazia. Condanna della Corte dei diritti dell’uomo in materia di detenzione carceraria euregion.net, 8 novembre 2016 La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha pronunciato contro la Croazia una sentenza in materia di rispetto degli standard per la detenzione carceraria. Nella pronuncia contro il Paese, la Corte ha ricordato che devono essere garantiti almeno tre metri quadri per ogni detenuto nella cella, con valutazioni che dovranno tuttavia considerare anche lo stato della stessa, la libertà del movimento del detenuto al di fuori della stanza, la possibilità di partecipare alle attività carcerarie. Gran Bretagna: un pestaggio da detenuti ogni 90 minuti, obbligo telecamera sulle divise blitzquotidiano.it, 8 novembre 2016 Come deterrente agli episodi di violenza nelle carceri gli agenti della polizia penitenziaria inglese e del Galles, indosseranno una telecamera da divisa. Le aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, sono ormai in media uno ogni 90 minuti e Liz Truss, ministro della Giustizia inglese, ha annunciato che ogni agente indosserà una telecamera nel tentativo di fermare la violenza nelle carceri. E aggiunge che il dispositivo, della grandezza di un pacchetto di sigarette, dovrebbe scoraggiare i detenuti alle aggressioni poiché il filmato sarebbe la prova schiacciante. La telecamera, scrive il Mail Online garantirebbe inoltre, una diminuzione di denunce da parte degli indagati e un comportamento adeguato da parte degli agenti. In soli sei anni, i risarcimenti a detenuti e agenti, hanno raggiunto un totale di quasi 100 milioni di sterline. Sono state pagate somme enormi a detenuti che hanno affermato di essere stati feriti e ad agenti aggrediti. Nel 2016, a marzo, sono stati pagati 19 milioni di sterline, il doppio dei 9.8 del 2010-11. Da un libro bianco che illustra le riforme di punta, emerge che le aggressioni contro gli agenti di polizia penitenziaria, sono in aumento e in numero più alto mai registrato. In un discorso, la Truss ha affermato che "è il momento di invertire la tendenza" e tra le misure chiave ci sono 2.500 nuovi agenti e un extra di 104 milioni di sterline per alleviare "la pressione nelle carceri e rafforzare la sicurezza". Steve Gillan, della Prison Officers Association (Poa), ha detto che l’adeguamento del personale carcerario è necessario affinché le carceri non si trasformino in "bagni di sangue". Il numero degli agenti, dal 2010 con l’agenda dell’austerità, era sceso a 7.000 e afferma: "il Governo ha scatenato il problema, hanno fatto tagli al personale. Hanno preso così tanto denaro dal sistema, che il sistema si è rotto". "Non staremo a guardare i nostri agenti che quotidianamente si trasformano in sacchi da boxe". Turchia. Da Md allarme per la situazione nel Paese di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 8 novembre 2016 Concluso a Bologna il congresso di Magistratura democratica. Apertura sul nuovo ordinamento penitenziario e riflessione sul 41bis. Niente spaccatura al vertice, Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito i più votati per la guida del gruppo. Tutela dei diritti individuali e collettivi nel nome dei valori costituzionali, riaffermazione delle garanzie contro atti giudiziari e di polizia lesivi delle libertà fondamentali, Csm più trasparente, collegialità nella gestione degli uffici: questo il catalogo dei principali impegni che Magistratura democratica (Md) si è assunta nella mozione finale approvata all’unanimità al termine del suo congresso, domenica a Bologna. Il vento della politica soffia in un’altra direzione, ma le toghe di sinistra non hanno paura di sembrare fuori moda quando denunciano l’aumento delle diseguaglianze "in nome delle ragioni di bilancio elevate a priorità" e la demolizione della legislazione sul lavoro "riportata all’epoca pre-Statuto". La giurisdizione vissuta dalla parte dei più deboli significa puntare il dito contro "i processi di criminalizzazione e imprigionamento delle ‘povertà colpevolì" di fronte invece alle difficoltà di colpire i "fenomeni sistemici di criminalità organizzata e corruzione". Un’attenzione particolare, come da tradizione per Md, è stata dedicata al pianeta-carcere, oggetto di un documento specifico in cui si chiede al parlamento di approvare la legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario, tema su cui c’è comunanza di vedute con il ministro Andrea Orlando. La prigione "deve cessare di essere quel luogo oscuro in cui confinare le insicurezze collettive" e l’esecuzione delle pene deve essere realmente improntata alla rieducazione: serve dare "un nuovo volto alle misure alternative" e fare "ricorso alle nuove forme di giustizia riparativa", in base alle quali sanare le ferite delle vittime è più importante che punire i rei. E occorre ripensare anche "finalità e presupposti" dei regimi differenziali come il 41 bis. Ma non di sola Italia si è parlato. Dal congresso bolognese si è levato un grido d’allarme sulla Turchia, dove la repressione colpisce anche i magistrati progressisti, la cui associazione Yarsav è stata sciolta con decreto governativo. Il suo presidente, Murat Arslan, è agli arresti, così come decine di suoi colleghi. Contro la "deriva totalitaria" in corso nel Paese del Sultano Erdogan, la corrente di sinistra di giudici e pm chiede "che le istituzioni europee rompano l’assordante silenzio tenuto sinora sulla tragica demolizione dei principi di separazione dei poteri e di indipendenza della magistratura", e chiama alla mobilitazione. La Md uscita dalle giornate congressuali sembra aver trovato un equilibrio fra la riaffermazione della propria identità e l’investimento in Area, la coalizione con il Movimento per la giustizia, l’altra corrente progressista. Le rotture che alcuni paventavano alla vigilia non si sono verificate, e la conclusione delle assise è stata unitaria. Dall’elezione del consiglio nazionale, il parlamentino dell’associazione, è venuta un’indicazione sulla nuova leadership: a condurre il gruppo saranno quasi sicuramente Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, i più votati. Turchia. "Ankara farà esplodere la guerra civile con i kurdi" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 novembre 2016 Intervista al giornalista turco Zeynalov: "I conflitti in Siria e Iraq servono ad allungare lo stato di emergenza necessario a reprimere le opposizioni". Un altro deputato Hdp arrestato, convocati gli ambasciatori europei. Le porte delle celle turche continuano ad aprirsi: ieri è stato arrestato un altro parlamentare dell’Hdp, il Partito Democratico dei Popoli, fazione di sinistra pro-kurda decapitata da un’ondata di arresti senza precedenti. È stato preso ieri ad Hakkari Nihat Akdagon, uno dei tre deputati che mancavano alla lista nera di Ankara. Non cessano nemmeno le proteste, violentemente attaccate dalla polizia: ieri è toccato ad una manifestazione indetta da organizzazioni di donne, aggredite con proiettili di gomma a Istanbul. All’autoritarismo governativo, l’Hdp ha risposto domenica annunciando la sospensione delle attività parlamentari, interne all’assemblea e nelle commissioni. Quasi una secessione dell’Aventino, se ci è permesso il paragone, a cui reagisce il premier Yildirim: dopo aver arrestato 12 deputati Hdp, minaccia di accusare di tradimento gli altri 46 se non si presenteranno in parlamento. Ma li accusa anche di finanziare il terrorismo, pur volendoli seduti sugli scranni parlamentari: domenica ha parlato di trasferimento di denaro dai comuni guidati dall’Hdp al Pkk. Una guerra senza quartiere, che arriva all’Europa: ieri il governo ha convocato gli ambasciatori dei paesi della Ue per le condanna espresse dopo gli arresti. Ne abbiamo parlato con il giornalista turco di origine azera Mahir Zeynalov, editorialista di Al Arabiya e commentatore per Cnn e Bbc, deportato dal paese nel febbraio 2014. Cosa ci si deve aspettare dalla nuova ondata repressiva Con la crescente repressione contro media e politici kurdi, il governo turco li sta portando al limite: aprirà ad una battaglia interna tra kurdi e esercito, una guerra civile che potrebbe allargarsi ulteriormente. Sono le azioni di Ankara a rendere concreto un simile scenario. L’obiettivo è distruggere la sola opposizione al presidenzialismo. Ma l’attacco va letto anche come parte di una strategia più ampia che coinvolge Siria e Iraq Erdogan non tollera chiunque metta in dubbio la sua autorità mentre è alla caccia di pieni poteri presidenziali. Lo stato di emergenza è lo strumento perfetto per la sua campagna di eliminazione delle opposizioni. Per questo, ha bisogno del caos. Le guerre in Siria e Iraq, come quella nel sud-est turco, sono buone ragioni per ampliare lo stato di emergenza. Provocando un’escalation dei conflitti nei due paesi vicini e inviandoci l’esercito, Erdogan prova a convincere l’opinione pubblica che il governo sta affrontando nemici sia all’interno che all’esterno. E questo gli permetterà di ampliare lo stato di emergenza e reprimere ogni dissidente. Quali settori della società sostengono Erdogan Gode di un ampio e fedele sostegno dalla base della società turca, per lo più conservatrice e nazionalista. Non manca un numero significativo di kurdi conservatori che, come in ogni autocrazia, sperano in affari lucrosi o posti di lavoro. La guerra all’Hdp può essere vista anche come uno scontro tra visioni socio-economiche Neoliberismo contro un’idea più egualitaria di società Non sono certo che sia causa di frizione. Ci sono gruppi che non si sono piegati a Erdogan e i kurdi sono uno di questi. Li vuole punire, è semplice. Perché il governo turco pensa di non aver bisogno del processo di pace con il Pkk Dopo che Erdogan lanciò il processo di pace, alle elezioni del giugno 2015 ottenne il 41%, quasi il 10% in meno di quanto serviva per la maggioranza assoluta e la modifica del sistema politico da parlamentare a presidenziale. Quel 10% mancante sono elettori radicalmente nazionalisti. Ha abbandonato il processo di pace e a novembre 2015 ha preso il 49%. La pace con i kurdi per lui è un ostacolo. Filippine. Se Duterte vuole riabilitare il dittatore Marcos di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 8 novembre 2016 Domani la Corte Suprema delle Filippine si pronuncerà su una petizione per bloccare la sepoltura delle spoglie dell’ex presidente Ferdinand Marcos nel cimitero degli eroi. Sono passati 40 anni da quando Loretta Rosales è stata arrestata perché manifestava contro la dittatura ma ancora oggi soltanto l’idea che Duterte voglia far diventare il dittatore un eroe le fa venire il voltastomaco. "Noi abbiamo il dovere di non alterare la verità - ha detto la donna che oggi ha 77 anni - anche per le generazioni future". È da agosto che il dibattito sulla sepoltura dell’ex presidente, morto nel 1989, infiamma gli animi dei filippini. I rappresentanti di entrambi i fronti sono scesi in piazza ma ora tutti aspettano con il fiato sospeso il verdetto della Corte Suprema. Durante i 21 anni della sua presidenza, dal 1965 al 1986, Marcos è rimasto alla storia per la sua brutalità: si calcola che 3mila oppositori politici siano stati uccisi in quegli anni e che decine di migliaia siano stati torturati. Marcos fuggì negli Stati Uniti nel 1986 dove morì tre anni dopo. Ma negli anni la sua figura ha subito un lento processo di riabilitazione che culmina ora con la decisione di Duterte sulla sepoltura (nella foto una manifestazione davanti all’ambasciata americana a Manila dei sostenitori di Duterte). D’altra parte la famiglia Marcos è ancora in politica. La moglie Imelda, nota soprattutto per le sue mille paia di scarpe, è deputata, la figlia Imee è governatrice della provincia di Ilocos Norte e il figlio Ferdinand Jr. è stato senatore. Duterte non ha mai nascosto la sua ammirazione per il dittatore: "Voglio che sia seppellito nel cimitero degli eroi - ha detto - non perché era un eroe ma perché era un soldato filippino. Questa è la legge". I resti del presidente erano tornati in patria nel 1993 e da allora sono sepolti in una bara di vetro nella cripta del centro presidenziale Ferdinand E. Marcos a Batac, la sua città natale a Ilocos Norte. Finora tutti i presidenti avevano negato ai familiari il cimitero degli eroi. I gruppi che si battono contro la sepoltura parlano di una transazione economica tra la famiglia Marcos e Duterte. Hilda Narciso, 70 anni, fa parte della "Coalizione contro la sepoltura di Marco nel Cimitero degli eroi". Nel 1983 era un’insegnante disoccupata: fu arrestata e stuprata per sei mesi in un campo militare. Da mangiare le davano vermi e pesce andato a male. "Chi mi ha fatto questo non è un eroe" dice.