Mille detenuti in Piazza San Pietro. Il Papa: "Chiedo un atto di clemenza" di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 7 novembre 2016 In San Pietro la Messa per i carcerati. Francesco: "Ogni volta che entro in un carcere mi chiedo perché loro e non io. Ma non pensiamo di non poter essere perdonati". Un "atto di clemenza" per i detenuti. Dopo la messa per il Giubileo delle carceri, Francesco si rivolge alle "autorità competenti" per chiedere un gesto alla fine dell’Anno Santo della Misericordia. "Vorrei rivolgere un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo, affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti", esordisce. "Inoltre, desidero ribadire l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società". Di qui l’appello: "In modo speciale, sottopongo alla considerazione delle competenti Autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". "Perché non io?" - "Ogni volta che entro in un carcere, penso: perché loro e non io?". Francesco va oltre il testo scritto e guarda i carcerati che affollano la Basilica di San Pietro, "tutti abbiamo la possibilità si sbagliare, tutti in un’altra maniera abbiamo sbagliato…". È una riflessione sulla speranza e la liberazione, l’omelia che il Papa rivolge ad oltre mille detenuti arrivati da dodici paesi del mondo con familiari, operatori, volontari, polizia penitenziaria. Tra le navate, per il Giubileo dei carcerati, si vedono almeno quattromila persone, tanti sono arrivati con i bambini. "Il Giubileo, per sua stessa natura, porta con sé l’annuncio della liberazione. Non dipende da me poterla concedere, ma suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un compito a cui la Chiesa non può rinunciare", dice Bergoglio. "A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’è poca fiducia nella riabilitazione. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto". Le parole di Francesco non sono rivolte soltanto all’universo carcerario: "Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni". L’essenziale del Vangelo - "Ero prigioniero e siete venuti a trovarmi". Dall’inizio del pontificato Francesco indica ai fedeli il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, le parole di Gesù sull’atteggiamento che distinguerà i giusti dai dannati, "lì c’è tutto l’essenziale". I poveri, i migranti, i carcerati. Per questo, mentre si avvicina la conclusione (il 20 novembre) dell’Anno Santo della Misericordia, ha voluto dedicare due giorni all’universo delle prigioni. Sabato le confessioni nelle chiese giubilari, il pellegrinaggio alla Porta santa. Ed ora la messa, le parole di Francesco: "Oggi celebriamo il Giubileo della Misericordia per voi e con voi, fratelli e sorelle carcerati. Ed è con questa espressione dell’amore di Dio, la misericordia, che sentiamo il bisogno di confrontarci. Certo, il mancato rispetto della legge ha meritato la condanna; e la privazione della libertà è la forma più pesante della pena che si sconta, perché tocca la persona nel suo nucleo più intimo. Eppure, la speranza non può venire meno. Una cosa, infatti, è ciò che meritiamo per il male compiuto; altra cosa, invece, è il "respiro" della speranza, che non può essere soffocato da niente e da nessuno". Il perdono - Del resto, "nessuno davanti a Dio può considerarsi giusto, ma nessuno può vivere senza la certezza di trovare il perdono" considera il pontefice. "Il ladro pentito, crocifisso insieme a Gesù, lo ha accompagnato in paradiso. Nessuno di voi, pertanto, si rinchiuda nel passato!", esclama. Accanto all’altare c’è una Madonna col Bambino che spezza le catene. Francesco conclude: "La storia passata, anche se lo volessimo, non può essere riscritta. Ma la storia che inizia oggi, e che guarda al futuro, è ancora tutta da scrivere, con la grazia di Dio e con la vostra personale responsabilità. Imparando dagli sbagli del passato, si può aprire un nuovo capitolo della vita. Non cadiamo nella tentazione di pensare di non poter essere perdonati". Il Papa a San Pietro con i detenuti: "ipocrita chi vede per voi solo il carcere" di Andrea Gualtieri La Repubblica, 7 novembre 2016 Arrivano da prigioni di tutto il mondo. Nella basilica parlano insieme Elisabetta e l’uomo che ha ucciso suo figlio: "Siamo riusciti ad abbracciarci, e la mia vita di ergastolano è cambiata". E fuori la marcia dei radicali per l’amnistia. "Ogni volta che entro in un carcere mi domando: perché loro e non io. Tutti, abbiamo la possibilità di sbagliare". Nel giorno del Giubileo dei detenuti, papa Francesco mette in guardia da chi "punta il dito" contro qualcuno che ha commesso errori nella sua vita. E lancia tre appelli alle autorità civili: per "un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento", ma anche "in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri" e per "una giustizia penale che non si esclusivamente punitiva" ma aperta "alla prospettiva di reinserire il reo nella società". Rivolgendosi ai mille carcerati arrivati in San Pietro per la messa, Francesco afferma: "A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone per le quali l’unica via è quella del carcere. Non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’è poca fiducia nella riabilitazione". Ma così, avverte il pontefice, "si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto". "Non spetta a me concedere la vostra liberazione", dice il Papa. Ma la Chiesa non può rinunciare di "suscitare in voi il desiderio della vera libertà". La basilica di San Pietro è piena per la messa solenne. Il pontefice ricorda che "certo, il mancato rispetto della legge ha meritato la condanna" e che "la privazione della libertà è forma più pesante della pena che si sconta, perché tocca la persona nel suo nucleo più intimo". Ma ai carcerati raccomanda: "Nessuno di voi si rinchiuda nel passato: certo la storia passata anche se lo volessimo, non può essere riscritta. Ma non cadiamo nella tentazione di pensare di non poter essere perdonati". E per quindici volte, rivolgendosi a loro, il pontefice nella sua omelia ripete le parole "speranza" e "spera". Sono arrivati dall’Ucciardone e da Opera, da Poggioreale e da Regina Coeli: è la geografia delle carceri italiane quella che si ricompone nelle prime file di San Pietro. E ci sono anche rappresentanti delle persone recluse all’estero: dodici i Paesi che hanno accettato la richiesta di far espatriare i carcerati per permettere loro di incontrare il pontefice. Ma è ovviamente dall’Italia che si registra un afflusso notevole, iniziato già a ridosso delle 7, prima che si aprissero i varchi. Vengono con i cappellani, i volontari, i familiari. Le dodici dell’istituto femminile di Rebibbia passano sotto la Porta Santa accompagnate dalla direttrice dell’istituto penitenziario. Sedici arrivano invece della casa di reclusione di Milano Bollate, dieci da Cosenza, e tra loro un detenuto avanza tenendosi per mano con la moglie. Quelli arrivati da Puglia e Basilicata hanno una maglietta con una citazione di Bergoglio - "Non lasciatevi rubare la speranza" - che oltre al messaggio rievoca anche l’autoironia che solo i detenuti sanno avere sulla propria condizione e sul proprio passato. Davanti a loro, ai piedi dell’altare, una statua della Madonna anch’essa scelta in modo particolare: è la Vergine della Mercede, che tiene in braccio il Bambinello con le manette aperte. Il Papa ha voluto che i detenuti fossero protagonisti assoluti. Sono alcuni di loro a servire la messa come ministranti, altri hanno preparato le ostie. A qualcuno è stato chiesto invece di portare la testimonianza prima dell’inizio della funzione. Daniel, romano, ha raccontato di essere entrato in carcere a 17 anni: "Lì però ho sperimentato la misericordia di chi mi ha aiutato e ho imparato anch’io ad aiutare gli altri". Elisabetta, invece, ha parlato subito prima dell’uomo che ha ucciso suo figlio. E insieme hanno raccontato di come siano riusciti ad abbracciarsi e di come la vita dell’ergastolano sia cambiata dopo il perdono ricevuto. Alla fine della messa, poi, tutti si spostano all’esterno per l’Angelus. E piazza San Pietro vede mescolarsi i detenuti, i pellegrini e i partecipanti alla marcia promossa dai Radicali, che arriva proprio in Vaticano dopo aver sfilato per chiedere amnistia e indulto. Ed è qui che Francesco rivolge i suoi appelli. Il Papa chiede clemenza per i detenuti: "la giustizia non sia soltanto punitiva" di Giacomo Galeazzi La Stampa, 7 novembre 2016 All’Angelus il Papa chiede un atto di clemenza "per i detenuti ritenuti idonei". Come già aveva fatto il suo predecessore San Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000, in occasione della sua storica visita al Parlamento italiano, Jorge Mario Bergoglio sollecita ai governi "un atto di clemenza" per i carcerati. In modo speciale, Francesco sottopone "alla considerazione delle competenti autorità civili la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". Tanti palloncini gialli per chiedere, nel giorno del Giubileo dei carcerati, un provvedimento di amnistia. Sono state centinaia le persone che hanno partecipato all’iniziativa, partita da carcere di Regina Coeli per arrivare in piazza San Pietro per l’Angelus del Papa. "In occasione dell’odierno Giubileo dei carcerati- afferma il Papa- vorrei rivolgere un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo, affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti. Inoltre, desidero ribadire l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società". Inoltre il Papa incoraggia i lavori della Conferenza sul clima. "Due giorni fa è entrato in vigore l’Accordo di Parigi sul clima del pianeta - spiega. Questo importante passo avanti dimostra che l’umanità ha la capacità di collaborare per la salvaguardia del creato, per porre l’economia al servizio delle persone e per costruire la pace e la giustizia. Domani, poi, comincerà a Marrakech, in Marocco, una nuova sessione della Conferenza sul clima, finalizzata, tra l’altro, all’attuazione di tale accordo. Auspico che tutto questo processo sia guidato dalla coscienza della nostra responsabilità per la cura della casa comune". Francesco ha ricordato anche i 38 martiri in Albania, del periodo della dittatura comunista, proclamati ieri beati. "Ieri a Scutari, in Albania- evidenzia- sono stati proclamati Beati trentotto martiri: due vescovi, numerosi sacerdoti e religiosi, un seminarista e alcuni laici, vittime della durissima persecuzione del regime ateo che dominò a lungo in quel Paese nel secolo scorso. Essi preferirono subire il carcere, le torture e infine la morte, pur di rimanere fedeli a Cristo e alla Chiesa. Il loro esempio ci aiuti a trovare nel Signore la forza che sostiene nei momenti di difficoltà e che ispira atteggiamenti di bontà, di perdono e di pace". Il quadro di riferimento è la fede che non può essere ridotta a etica. "La Risurrezione è il fondamento della fede cristiana. Se non ci fosse il riferimento al Paradiso e alla vita eterna, il cristianesimo si ridurrebbe a un’etica, a una filosofia di vita", afferma. Secondo Francesco, "credere alla Risurrezione è essenziale, affinché ogni nostro atto di amore cristiano non sia effimero e fine a sé stesso, ma diventi un seme destinato a sbocciare nel giardino di Dio, e produrre frutti di vita eterna". Ai fedeli raccolti in piazza San Pietro, il Pontefice ricorda che "il messaggio della fede cristiana viene dal Cielo, è rivelato da Dio e va oltre questo mondo". Quindi "la Vergine Maria, regina del Cielo e della terra, ci confermi nella speranza della Risurrezione e ci aiuti a far fruttificare in opere buone la parola del suo Figlio seminata nei nostri cuori". Tante le adesioni alla marcia arrivata a San Pietro, dai radicali all’unione delle Camere penali, alle associazioni come "Nessuno tocchi Caino". La "Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà" è stata intitolata a Marco Pannella e a Papa Francesco. La parola amnistia va riabilitata, è scritta nella Costituzione, oggi "è negata, è un tabù, si ha paura a pronunciarla perché si è vittima del populismo penale in voga nel nostro paese", spiegano gli organizzatori aggiungendo che "l’amnistia non ha a che fare con un’operazione di clemenza, ma è l’affermazione e il ripristino della legalità". "La marcia di oggi a Roma è, in primo luogo, per l’amnistia", sottolinea il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani di Palazzo Madama. E l’amnistia "è stata richiamata per ben due volte, come necessaria e urgente, da Papa Bergoglio, e ciò nonostante che in tanti abbiano cercato di mettere a tacere questa saggia e ragionevolissima proposta. Non c’è giubileo senza misericordia e non c’è diritto giusto senza amnistia e indulto". Il Papa a San Pietro con i detenuti: "ipocrita concepire solo il carcere" di Franca Giansoldati Il Messaggero, 7 novembre 2016 Fuori dalla maestosità di san Pietro, sulla piazza, si sente gridare silenziosamente una sola parola: "Amnistia". Uno striscione enorme è ben visibile da lontano. Dentro la basilica si è appena celebrato il Giubileo dei carcerati e il Papa, davanti a mille detenuti di varie nazionalità, presenti in Vaticano grazie al permesso del Ministero di Giustizia, ha parlato della potenza della speranza. Più tardi, all’Angelus, affacciandosi alla finestra del palazzo apostolico ha chiesto al "governo un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di un tale provvedimento". Amnistia. Poi ha implorato un "miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri, affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti". La giustizia penale non deve essere "esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società". Durante la messa guardando negli occhi i mille detenuti presenti in basilica, Francesco ha assicurato che il perdono di Dio è sempre possibile per chi crede. "La storia che inizia oggi, e che guarda al futuro, è ancora tutta da scrivere, con la grazia di Dio e con la vostra personale responsabilità. Imparando dagli sbagli del passato, si può aprire un nuovo capitolo della vita. Non cadiamo nella tentazione di pensare di non poter essere perdonati". Francesco a braccio ha aggiunto anche una frase: "Ogni volta che entro in un carcere penso sempre: perché loro sono qui e non io Tutti hanno la possibilità di sbagliare". Durante la funzione alcuni detenuti delle carceri di Brescia, Busto Arsizio e Palermo hanno fatto da "chierichetti" all’altare, portando i doni, durante l’offertorio. Presenti a San Pietro anche i familiari dei carcerati, i cappellani e i volontari che operano negli istituti penitenziari. Accanto all’altare è stata posta la Madonna protettrice delle carceri, che tiene in braccio Gesù con una catena spezzata tra le mani. Prima della messa i mille detenuti hanno attraversato in preghiera la Porta Santa. Quindi ci sono state delle testimonianze e dei momenti musicali. "Cari detenuti - ha detto Bergoglio - è il giorno del vostro Giubileo! Che oggi, dinanzi al Signore, la vostra speranza sia accesa. Il Giubileo, per sua stessa natura, porta con sé l’annuncio della liberazione. Non dipende da me poterla concedere, ma suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un compito a cui la Chiesa non può rinunciare. A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere". Fuori sulla piazza la marcia dei Radicali ricordava che il 35 per cento dei detenuti italiani sono ancora in attesa di giudizio e che i benefici alternativi al carcere consentono un recupero nella società mentre il carcere in genere peggiora le situazioni. Durante l’omelia il pontefice ha raccolto questa battaglia: "Non si pensa alla possibilità di cambiare vita c’è poca fiducia nella riabilitazione. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto". "Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni". Il Papa ha poi esortato i detenuti a non perdere mai la speranza che non può essere soffocata da nessuno. "Il mancato rispetto della legge ha meritato la condanna; e la privazione della libertà è la forma più pesante della pena che si sconta, perché tocca la persona nel suo nucleo più intimo. Eppure, la speranza non può venire meno. Una cosa, infatti, è ciò che meritiamo per il male compiuto; altra cosa, invece, è il respiro della speranza, che non può essere soffocato da niente e da nessuno". Anche Dio spera, "per paradossale che possa sembrare, è proprio così: Dio spera! La sua misericordia non lo lascia tranquillo". "Non esiste tregua né riposo per Dio fino a quando non ha ritrovato la pecora che si era perduta. Se dunque Dio spera, allora la speranza non può essere tolta a nessuno, perché è la forza per andare avanti; è la tensione verso il futuro per trasformare la vita; è una spinta verso il domani, perché l’amore con cui, nonostante tutto, siamo amati, possa diventare nuovo cammino". "Dove c’è una persona che ha sbagliato, là si fa ancora più presente la misericordia del Padre, per suscitare pentimento, perdono, riconciliazione". Occorre sempre avere "la certezza della presenza e della compassione di Dio, nonostante il male che abbiamo compiuto. Non esiste luogo del nostro cuore che non possa essere raggiunto dall’amore di Dio". Il Papa invoca clemenza per i detenuti del mondo di Mariaelena Finessi Il Piccolo, 7 novembre 2016 Francesco all’Angelus davanti a mille reclusi provenienti dagli istituti di pena. "Ipocrita chi pensa che l’unica via per chi ha sbagliato sia quella della prigione". "Desidero ribadire l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società". Le parole di Papa Francesco, pronunciate nel corso dell’Angelus, risuonano forte nel giorno in cui la Chiesa celebra il Giubileo dei detenuti. In mille, provenienti perlopiù dagli istituti penitenziari italiani, hanno potuto lasciare la propria cella e partecipare ieri all’evento che Bergoglio ha pensato per loro. Ad accompagnarli c’erano altre quattromila persone tra familiari, cappellani, agenti di polizia e operatori sociali che lavorano dentro e fuori le mura delle carceri. Certo, Francesco non scende nei tecnicismi, non suggerisce l’indulto o l’amnistia. La strada che indica è un’altra: quella della comprensione. "Sottopongo alla considerazione delle competenti autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". E agli uomini di governo rivolge un appello "in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo", dice, "affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti". Nell’omelia mattutina Francesco aveva spiegato che "il Giubileo, per la sua stessa natura, porta con sé l’annuncio della liberazione. Non dipende da me poterla concedere, ma suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un compito a cui la Chiesa non può rinunciare". Bergoglio condanna quindi "l’ipocrisia" di chi vede nei condannati a una pena detentiva "solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere". In fondo, "tutti abbiamo la possibilità di sbagliare. Tutti - insiste Francesco - in una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato". Ma è l’ipocrisia a farcelo dimenticare. Anzi, "spesso siamo anche prigionieri" dei pregiudizi, di schemi ideologici e leggi di mercato che schiacciano le persone, e siamo pure "schiavi degli idoli di un falso benessere" che ci tengono "tra le strette pareti della cella dell’individualismo", e "puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni". Questo non vuol dire che Francesco voglia cancellare le responsabilità personali. Quel che intende il Pontefice ha invece a che vedere con la possibilità di rimediare agli errori per tornare ad essere liberi. "La speranza non può venire meno. Una cosa, infatti, è ciò che meritiamo per il male compiuto; altra cosa, invece, è il "respiro" della speranza, che non può essere soffocato da niente e da nessuno". Il credo cristiano, conclude Francesco, sia da insegnamento: "Quante volte la forza della fede ha permesso di pronunciare la parola perdono in condizioni umanamente impossibili!". Ecco, "dove alla violenza si risponde con il perdono, là anche il cuore di chi ha sbagliato può essere vinto dall’amore". Al "Giubileo dei carcerati" il Papa parla di amnistia come i Radicali di Salvatore Izzo altroquotidiano.it, 7 novembre 2016 Mille detenuti e 4mila tra familiari, agenti di custodia e volontari hanno partecipato al Giubileo delle Carceri in San Pietro con Papa Francesco. Quando si parla di giustizia e prevenzione dei crimini "non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’è poca fiducia nella riabilitazione". Amnistia e Papa Francesco ha dovuto constatarlo in questo Giubileo della Misericordia, aperto con la richiesta dell’amnistia e che si conclude senza che sia stata concessa. Per i detenuti Francesco chiede un atto di clemenza: "In modo speciale, sottopongo alla considerazione delle competenti Autorità civili la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". In occasione dell’odierno Giubileo dei carcerati, ha aggiunto all’Angelus, "vorrei rivolgere un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri, affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti", ha detto inoltre il Pontefice ribadendo "l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società". "A volte - ha spiegato ai 1.000 detenuti in San Pietro - una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere". Secondo Francesco, "in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto". "Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà - ha osservato il Pontefice - non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà". "Non dipende da me poterla concedere", dice Francesco parlando dell’amnistia, da lui richiesta un anno fa ai governi e parlamenti di tutti i paesi del mondo nella lettera sulle modalità per la celebrazione dell’Anno Santo Straordinario. "Suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un compito - ha spiegato - a cui la Chiesa non può rinunciare". "La speranza non può essere tolta a nessuno, perché è la forza per andare avanti; è la tensione verso il futuro per trasformare la vita; è una spinta verso il domani, perché l’amore con cui, nonostante tutto, siamo amati, possa diventare nuovo cammino… Ogni volta che entro in un carcere mi domando perché loro e non io? Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare". Secondo Francesco, "puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni. Nessuno davanti a Dio può considerarsi giusto ma nessuno può vivere senza la certezza di trovare un perdono. Oggi - ha continuato - celebriamo il Giubileo della Misericordia per voi e con voi, fratelli e sorelle carcerati". "È con questa espressione dell’amore di Dio, la misericordia, che sentiamo il bisogno di confrontarci", ha spiegato Francesco. E anche se "il mancato rispetto della legge ha meritato la condanna; e la privazione della libertà è la forma più pesante della pena che si sconta, perché tocca la persona nel suo nucleo più intimo" nell’ottica del Vangelo, ha spiegato, "la speranza non può venire meno. Una cosa, infatti, è ciò che meritiamo per il male compiuto; altra cosa, invece, è il respiro della speranza, che non può essere soffocato da niente e da nessuno. Il nostro cuore sempre spera il bene; ne siamo debitori alla misericordia con la quale Dio ci viene incontro senza mai abbandonarci". "Il Giubileo, per sua stessa natura, porta con sé l’annuncio della liberazione". Il rispetto della dignità umana dei detenuti è la misura della nostra civiltà di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) agensir.it, 7 novembre 2016 Nella Giornata giubilare dedicata ai detenuti, Papa Francesco ha proposto un cambio di paradigma mettendo al centro della questione penale la dignità umana. Che va riconosciuta anche al peggiore dei criminali. Lo aveva già ricordato in altre occasioni: la pena non deve scivolare verso la vendetta, il diritto penale serve a contenere la violenza e non a esaltarla, chi commette un reato non è un nemico da eliminare. Papa Francesco ci propone un cambio di paradigma mettendo al centro della questione penale la dignità umana. La dignità umana non pertiene alla sfera dei doveri. La dignità umana è parte fondativa del campo dei diritti umani. La dignità umana non si perde a seconda delle circostanze di vita o dei comportamenti tenuti. La dignità umana è dote indisponibile della persona. Dunque è compito delle istituzioni proteggere la dignità umana di tutti, nessuno escluso. Papa Francesco con parole chiare, forti, inequivocabili ha ricordato al mondo laico che mai la giustizia penale deve essere esercitata calpestando la dignità umana, mai le condizioni di detenzione debbono tradursi in un abuso del monopolio pubblico della violenza. Lo aveva già ricordato in altre occasioni: la pena non deve scivolare verso la vendetta, il diritto penale serve a contenere la violenza e non a esaltarla, chi commette un reato non è un nemico da eliminare. Le tesi su carceri e giustizia di papa Francesco, ribadite in occasione della giornata giubilare dedicata ai detenuti, non sono generiche parole di speranza. Costituiscono, per chi le volesse ascoltarle in profondità, altrettante parti di un vero e proprio progetto di governo della "sicurezza". La sicurezza si costruisce rispettando e promuovendo la dignità umana anche del peggiore dei criminali. Quando papa Francesco invita i governi a garantire migliori condizioni di detenzione nelle proprie carceri non lo fa solo perché è un Papa buono o perché è giusto che sia così, ma anche perché sa che in questo caso il giusto coincide con l’utile. Un detenuto trattato male, umiliato, che subisce abusi durante la carcerazione si sentirà vittima dello Stato. In questo modo si sarà concluso un percorso pericoloso di vittimizzazione di colui che ha infranto la legge. Il detenuto trattato male, umiliato, vessato non rimetterà in discussione la propria storia di vita ma sposterà verso lo Stato le colpe della propria condizione. Quando le porte delle galere si chiudono alla legalità e alla umanità, coloro i quali in quelle galere ci sono finiti per avere violato la legge, si sentiranno legittimati a continuare a violare la legge, visto il maltrattamento subito dalle istituzioni. Un detenuto, viceversa, trattato nel rispetto profondo delle leggi interne e internazionali, ovvero con giustizia e umanità, avrà un esempio di legalità e rispetto della persona che potrà usare nella sua vita da libero. I tassi di recidiva, anche in Italia, sono molto alti anche perché la pena è spesso disumana. Sono 10 milioni i detenuti nel mondo. 55 mila nel nostro Paese. Papa Francesco si è rivolto a tutti gli Stati. Ha chiesto clemenza anche per rimediare a una giustizia selettiva, che discrimina sulla base del censo, del colore della pelle, dell’etnia di provenienza. Una giustizia inclemente per chi non ha risorse, per i poveri, per i tossicodipendenti, per gli immigrati, per chi ha problemi psichici. Vedremo se in giro per il mondo, e dunque anche in Italia, verrà raccolto il suo invito. Intervista a Rita Bernardini "ai detenuti dare dignità, solo così si riabilitano" di Osvaldo Baldacci Giornale di Sicilia, 7 novembre 2016 "Amnistia" è la parola magica pronunciata dal Papa che fa innamorare i detenuti ma commuove anche chi per essa si batte da sempre. Come Rita Bernardini, esponente storica del Partito Radicale e della sua presidenza, e attualmente in sciopero della fame proprio a sostegno di questa causa. Il Giubileo dei detenuti ha rappresentato una giornata importante per il tema delle carceri, con la voce di Papa Francesco che si è levata alta e forte mentre voi marciavate per chiedere l’amnistia. Soddisfatta? "Oggi siamo stati davvero molto felici. Non solo perché il nostro striscione che ha marciato davanti a un corteo di diecimila persone è entrato fino in Piazza San Pietro. Ma anche perché Papa Francesco ha confermato il suo pensiero sulla clemenza e quindi ha ribadito la sua richiesta anche di amnistia per i detenuti. Per questo lo abbiamo ringraziato pubblicamente per la parole pronunciate a favore di un miglioramento delle condizione di vita dei detenuti nelle carceri italiane e per aver avuto ancora una volta il coraggio e la forza di richiedere alle istituzioni di tutto il mondo un atto di clemenza. Lui è sempre stato chiaro su questo tema, e su questo era molto unito a Marco Pannella". Cosa li ha accomunati? "Questa per la dignità dei detenuti è una battaglia che due personalità di prestigio come loro hanno avuto il coraggio di combattere, Pannella dal punto di vista laico e Bergoglio da quello religioso. Ma veramente si sono trovati molto uniti. Quando Pannella era al Policlinico Gemelli durane un suo sciopero della fame proprio su questa tematica, ricevette una telefonata di Papa Francesco, il quale gli disse "Io ti aiuto su questa battaglia". E Marco gli disse: "Ascoltami, tu devi dire una sola parola: amnistia". Francesco concludendo ribadì che l’avrebbe aiutato. E a distanza di qualche mese nell’indire il Giubileo della Misericordia si pronunciò proprio in favore di una amnistia, come ha ribadito di nuovo ieri. Subito Marco a Radio Radicale e Radio Carcere commentò raccontando quanto fosse felice per quel pronunciamento. Tra loro c’è sempre stata grande unione di intenti su questo". Un po’ meno condivisa questa proposta sembra esserlo a livello politico. Papa Francesco ha chiesto l’amnistia in questo Anno Santo, ma è quasi finito e non c’è stato neanche un segnale. Che ne pensa? "Noi cerchiamo di fare la nostra parte con i nostri mezzi che non sono certamente quelli di Marco Pannella, ma lui ha seminato molto e ha lasciato una forte eredità. Non si ferma la lotta per l’umanizzazione delle carceri, il rispetto dei diritti dei detenuti, l’amnistia e l’indulto. Il Partito Radicale si è espresso fortemente su questo nel Congresso di Rebibbia. Noi continuiamo a lottare, con i mezzi della non violenza. Io e altri compagni stiamo al ventottesimo giorno di sciopero della fame, e nel fine settimana, in concomitanza con il Giubileo, hanno aderito 17 mila detenuti, per chiedere l’amnistia e la calendarizzazione del progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario che giace al Senato". A che punto è? "C’è un dialogo con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che tra l’altro è il primo firmatario di quel progetto di legge. Lui alla richiesta di amnistia risponde istituzionalmente che quel che serve davvero sono riforme strutturali. Ma appunto queste stanno in quel disegno di legge che è fermo. Il fatto è che in quel testo c’è dentro anche la storia del prolungamento dei termini di prescrizione e il tema delle intercettazioni. Per questo quello che chiedo, anche con lo sciopero della fame, è lo stralcio della parte riguardante l’ordinamento penitenziario, per approvarla subito. Sarebbe una risposta concreta per dare un segnale". E l’amnistia? "Amnistia e indulto andrebbero comunque varati. Peraltro ci sono 40 parlamentari di tutti gli schieramenti politici che l’appoggiano. L’amnistia non è una bestemmia, è un provvedimento che c’è nell’ordinamento giuridico italiano. È la classe politica che se ne è privata solo perché ha paura della reazione della gente. Ma alla gente va spiegato che il problema sono le carceri così come sono oggi. Chi torna a delinquere è chi esce da queste carceri che trattano male i detenuti, che escono senza aiuti, senza lavoro, senza prospettive. Senza pene alternative. Che sono stati costretti all’ozio forzato. Che spesso hanno condanne di pochi mesi che li segnano per sempre. Ci sono quasi ventimila detenuti che hanno meno di due anni di reclusione che risultano inefficaci, peggiorativi, una condanna alla disperazione. Quando sarebbero previste pene alternative e soprattutto percorsi di riabilitazione e reinserimento. Per i detenuti poi la cosa migliore è l’indulto. L’amnistia quasi serve di più ai magistrati, perché la riforma della giustizia ingolfata è l’altro passo fondamentale in questo ambito". Giubileo dei carcerati, ha ragione Papa Francesco di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2016 Ha ragione Papa Francesco: mai lo Stato deve violare la dignità umana. È questo un limite invalicabile per il potere punitivo dello Stato. Il Papa lo ha ribadito nella giornata dedicata al giubileo dei carcerati. Durante l’Angelus della giornata giubilare dedicata ai detenuti, Bergoglio - dopo avere ribadito che la dignità umana va sempre rispettata, anche nel caso del più pericoloso dei criminali - ha rivolto un appello alla comunità degli Stati affinché adottino un provvedimento di clemenza. È principalmente alle democrazie che senz’altro si rivolgeva. Nei regimi i problemi sono su un’altra scala. È nelle democrazie che dobbiamo preoccuparci di come il diritto penale stia declinando verso derive razziste e di classe. È qui che il diritto penale sa essere clemente nei confronti dei potenti e inclemente nei confronti di chi non ha mezzi né risorse. La clemenza significa anche questo: non affollare le prigioni di immigrati, di tossicodipendenti, di poveri e di malati psichici. Significa non maltrattare le persone e non lasciarle morire in galera. Significa offrire opportunità di recupero sociale a tutti. Faceva simpatia e impressione vedere Piazza San Pietro colma di detenuti, di loro familiari, di operatori penitenziari e di volontari in attesa di ascoltare le parole del Pontefice. Che in quei pochi minuti e sotto una pioggia scrosciante ha ribadito quanto aveva detto in un suo precedente discorso dell’ottobre 2014 rivolto all’associazione internazionale dei penalisti: che esiste una questione "penale" ed esiste una questione "penitenziaria". Tutti oggi danno per scontato che l’unica sanzione possibile sia il carcere. Ma il carcere fa male. Il carcera stigmatizza. Il carcere aliena. Il carcere isola. Il carcere è morte sociale. Papa Francesco apre coraggiosamente ad altre forme di esercizio della punizione. E nel frattempo chiede di migliorare le condizioni di detenzione. Papa Francesco predica bene dopo avere agito di conseguenza. Nel 2013 con motu proprio ha modificato il codice penale dello Stato del Vaticano: ha abolito l’ergastolo, da lui definita pena di morte nascosta, e ha introdotto il delitto di tortura nel rispetto della definizione data dalle Nazioni Unite nella Convenzione del 1984. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha visitato pochi giorni fa il carcere di Padova. Un gesto importante. Uno dei tanti modi per dare seguito alle parole del Papa sarebbe quello di fare tutto il possibile per introdurre il crimine di tortura nel codice penale. Sarebbe un bel messaggio, inutilmente atteso da quasi trent’anni. Nella giornata dedicata da Bergoglio ai detenuti, i radicali hanno organizzato una marcia per l’amnistia ricordando quel grande lottatore per i diritti di tutti che era Marco Pannella. Chissà cosa direbbe oggi Pannella di fronte al silenzio delle istituzioni dopo le parole di Papa Francesco. Lasciare la speranza di riscatto di Orazio La Rocca Il Mattino di Padova, 7 novembre 2016 "Un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei". Quindi, non un provvedimento a pioggia (amnistia, indulto, uscita anticipata dalla prigione per chi è a fine pena...) varato indistintamente per tutti i detenuti, ma un gesto di misericordia solo per quelli che lo "meriteranno". Papa Francesco, nel suo appello lanciato a favore di provvedimenti di clemenza per i detenuti è stato chiaro, ma quelle parole scomode (clemenza solo ai carcerati idonei) corrono il serio rischio di essere oscurate dalle tante suggestioni, miste a parole, implorazioni, richiami, esortazioni che hanno caratterizzato il Giubileo dei carcerati celebrato ieri nella basilica di S. Pietro. Un evento storico nel suo genere perché in nessuno degli Anni Santi indetti dal 1300 era mai stata celebrata una giornata per i carcerati. Fin dal primo Giubileo presieduto da Bonifacio VIII per motivi non solo di fede, ma anche per risanare il bilancio delle casse papali con le offerte e l’acquisto delle indulgenze da parte dei pellegrini, i carcerati erano stati sempre tenuti lontani dagli eventi giubilari. Papa Francesco - in linea con la sua costante attenzione verso poveri, ultimi, emarginati, migranti e reclusi - ha indicato una strada senza ritorno per la Chiesa e, si spera, anche per quei governanti di buona volontà sensibili alle sue parole ed ai suoi gesti, al di là di colori politici, nazionalità, religioni. E per essere ancora più esplicito ha spalancato la Porta Santa della basilica vaticana a ben 1000 detenuti arrivati dai maggiori penitenziari italiani, mettendoli al centro della loro giornata giubilare. Un gesto che - è bene ricordare - non è nato ieri, ma che affonda le proprie radici nei pontificati degli ultimi 50 anni. Fu, infatti, Giovanni XXIII il primo Papa a visitare i carcerati, nel penitenziario romano di Regina Coeli, un passo consegnato giustamente alla storia che in seguito è stato "copiato" da quasi tutti i suoi successori. Come, ad esempio, Benedetto XVI e, prima di lui, Paolo VI e Giovanni Paolo II che ha avuto nella difesa della dignità dei carcerati uno dei punti fermi dei suoi 27 anni di pontificato, recandosi non solo nelle carceri, ma lanciando continui appelli per fermare il boia in quei paesi - come gli Usa e la Cina - dove stavano per essere eseguite condanne a morte. Non sempre gli appelli di Papa Wojtyla sono stati accolti. Ma uno su tutti merita di essere ricordato quando salvò la vita di Paula Cooper, una giovane afroamericana che quando era minorenne e sotto gli effetti di psicofarmaci aveva ucciso la propria insegnante, e che, dopo una decina d’anni di prigionia e di attesa nel braccio della morte, stava per andare sulla sedia elettrica malgrado i familiari della sua vittima l’avessero perdonata, convinti dal suo sincero pentimento. L’appello pro Paula Cooper di Giovanni Paolo II salvò una vita umana, ma tante altre vite dopo sono state ammazzate. E questo Papa Francesco lo sa. Per cui, l’eliminazione della pena di morte è certamente uno dei pilastri della sua opera pastorale presso le istituzioni mondiali - Onu in testa - ma anche la richiesta di atti di clemenza (come più volte fece papa Wojtyla nelle sue prolusioni e nel Grande Giubileo del 2000, quando ne parlò anche solennemente nel Parlamento italiano davanti a deputati, senatori e alle più alte autorità dello Stato) è uno dei suoi punti fermi. Ieri lo ha ribadito con un appello ancora più incisivo perché - ha spiegato, tra l’altro - "a nessun carcerato deve essere negata la speranza del riscatto e del reinserimento nella società". Ma senza fare sconti a nessuno: i destinatari degli atti di clemenza invocati da papa Bergoglio devono essere solo i "carcerati ritenuti idonei", vale a dire quelle persone che, pur avendo sbagliato e dopo aver pagato parte del loro debito con la Giustizia, dimostrano di aver capito l’errore commesso e di voler rimettersi in gioco per ricominciare a vivere una nuova vita. È questa la Misericordia pro-carcerati che chiede Francesco, una Misericordia alta, vera, figlia di quella Misericordia del Cristo della Croce che perdona i suoi aguzzini "perché non sanno quello che fanno", aperta a tutti quelli che dimostrano di meritarla, senza buonismi e, tantomeno, senza provvedimenti politicamente corretti. La parola "amnistia" oggi è un tabù ma è scritta nella Costituzione e va riabilitata di Bruno Forte Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2016 Il Papa chiede "un atto di clemenza" per i carcerati. "In modo speciale, sottopongo alla considerazione delle competenti autorità civili - ha detto Papa Francesco dopo l’Angelus - la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". "In occasione dell’odierno Giubileo dei carcerati - ha detto il Papa dopo la preghiera dell’Angelus -, vorrei rivolgere un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo, affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti. Inoltre, desidero ribadire l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società. In modo speciale, sottopongo alla considerazione delle competenti autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza - è l’appello del pontefice - verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è stato poi presente nella basilica vaticana dove il Papa ha celebrato la messa per il Giubileo dei detenuti. Assieme al ministro anche molti esponenti politici e membri delle organizzazioni che si occupano dei temi relativi al miglioramento delle carceri e della vita dei detenuti. Tanti palloncini gialli per colorare un grigio e deserto centro di Roma, una marcia per chiedere, nel giorno del Giubileo dei carcerati, un provvedimento di amnistia. Sono state centinaia, inoltre, le persone che hanno partecipato all’iniziativa, partita da carcere di Regina Coeli per arrivare in piazza San Pietro per l’Angelus del Papa. Tante le adesioni, dai radicali all’unione delle Camere penali, alle associazioni come Nessuno tocchi Caino. "La parola amnistia va riabilitata, è scritta nella Costituzione". Oggi "è negata, è un tabù, si ha paura a pronunciarla perché si è vittima del populismo penale in voga nel nostro paese", hanno spiegato i partecipanti, aggiungendo che "l’amnistia non ha a che fare con un’operazione di clemenza, ma è l’affermazione e il ripristino della legalità". La Marcia per l’Amnistia, la Giustizia e la Libertà è stata intitolata a Marco Pannella e a Papa Francesco. Indennizzi della Legge "Pinto", scende la mora di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2016 La sentenza del Consiglio di Stato n. 2595/2016. Si abbassa di molto il risarcimento che può ottenere il cittadino dal ministero della Giustizia per il ritardo nel pagamento dell’indennizzo per l’irragionevole durata del giudizio. La penalità di mora, infatti, va calcolata applicando il tasso di interesse legale, sulla scorta della legge di Stabilità del 2016 (legge 208/2015). Lo ha stabilito il Consiglio di Stato con la sentenza n. 2595/2016. I fatti - La vicenda riguarda un cittadino che aveva ottenuto nel 2012 l’indennizzo previsto dalla legge 89 del 2001 (la legge Pinto) per un processo durato troppo a lungo. Aveva allora spedito in forma esecutiva la sentenza che condannava il ministero della Giustizia a pagare la somma. Dopo avere atteso alcuni mesi, il cittadino aveva proposto ricorso al Tar Lazio per l’ottemperanza della sentenza e aveva chiesto il risarcimento del danno da ritardo della Pa in base all’articolo 114, comma 4, lettera e), del Codice del processo amministrativo (decreto legislativo 104/2010). La decisione - Il Tar Lazio (sentenza 2841 del 2015) ha ricordato che le amministrazioni dello Stato dispongono di un termine di 120 giorni per eseguire i provvedimenti giurisdizionali che le obbligano al pagamento di somme. Il termine decorre dalla notifica del titolo esecutivo, in questo caso della sentenza. Solo alla scadenza di questo termine si può procedere a giudizio di ottemperanza. Accertata la decorrenza del termine, il Tar ha quindi ordinato al ministero di adempiere. I giudici hanno evidenziato che la penalità di mora (cosiddetta "astreinte") a carico delle amministrazioni è ammessa per tutte le decisioni di condanna, anche quelle riguardanti una prestazione pecuniaria. Per calcolare questa penalità, il Tar ha ritenuto di concedere al ministero un termine di tolleranza di sei mesi dalla data di notifica della sentenza di condanna. Dalla scadenza e fino all’effettivo pagamento, il danno risarcibile è stato calcolato prendendo a parametro l’interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali. L’avvocatura dello Stato ha impugnato la pronuncia del Tar e il Consiglio di Stato ha accolto parzialmente l’appello, ritenendo che la misura e la decorrenza delle penalità dovessero essere individuate diversamente. Per quanto riguarda la misura, i giudici di secondo grado hanno ritenuto più equo il parametro dell’interesse legale, esplicitamente indicato dall’articolo 1, comma 781, della legge di Stabilità 2016 (208/2015), che ha modificato l’articolo 114, comma 4, lettera e), del Codice del processo amministrativo. Anche se il ministero avrebbe dovuto pagare prima dell’introduzione di questa norma, la mancata indicazione di un parametro in precedenza ha consentito al Consiglio di Stato di applicare l’interesse legale in via equitativa. Quanto alla decorrenza, i giudici hanno ritenuto che la penalità non fosse comminabile per inadempimenti pregressi alla sentenza che ordina l’esecuzione del giudicato, ma che dovesse maturare dal giorno della comunicazione o notificazione dell’ordine di ottemperanza, che contiene l’ordine di pagamento. Anche su questo punto il Consiglio di Stato si rifà al comma 781 dell’articolo 1 della legge di Stabilità 2016. L’omicidio stradale tra perizie in conflitto e risarcimenti lumaca di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2016 La legge 41/2016 non regge ai primi test pratici. Oltre a un aumento delle omissioni di soccorso e degli incidenti rimasti senza colpevoli accertati, le nuove norme stanno sollevando seri problemi di legittimità costituzionale rispetto alle altre ipotesi colpose. L’omicidio stradale viene contestato dal 25 marzo scorso a chi provoca la morte di una persona guidando in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, oppure per comportamenti particolarmente pericolosi. Le pene possono arrivare fino a 12 anni (18 anni se il conducente fugge) ed è di fatto molto difficile evitare il carcere, soprattutto se il tasso alcolemico supera 1,5 g/l o se si guida sotto effetto di droghe. L’assenza della "condizionale" - Le pene edittali hanno scoraggiato anche la strategia del patteggiamento cosiddetto allargato, previsto per i reati puniti con la pena in concreto non superiore a cinque anni. In caso di accordo sulla pena, infatti, questa sarebbe comunque superiore alla soglia che consentirebbe la sospensione condizionale. Le numerose circostanze aggravanti e il divieto di concessione delle circostanze attenuanti in regime di prevalenza o equivalenza con queste hanno di fatto reso impraticabile il ricorso a questo istituto. Inattuabile, quindi, anche la strada della sospensione del procedimento con messa alla prova e quindi con finalità rieducative del colpevole: l’istituto si applica soltanto se la pena edittale non supera i quattro anni. Il dibattimento resta la strategia preferibile, in grado di consentire l’accertamento del fatto e la difesa degli imputati, con le relative conseguenze in termini di tempi e costi. L’accertamento del fatto - I giudici, allora, sono stati chiamati in questi mesi a difficili operazioni in tema di accertamento del nesso causale e della particolare circostanza attenuante prevista dal comma settimo dei nuovi articoli589-bis e 590-bis del Codice penale nel caso in cui l’incidente sia causato dalla colpa concorrente di altri soggetti, vittima compresa, come il mancato uso delle cinture di sicurezza o del casco. In caso di omicidio stradale, a scendere in campo nell’immediatezza di un sinistro sono adesso più che mai i medici legali, incaricati di evidenziare eventuali corresponsabilità che possano alleggerire la posizione processuale degli imputati. Decisiva si sta rivelando la tempestività della nomina dei consulenti, anche da parte di eventuali difensori d’ufficio. Sotto la lente dei tribunali finisce anche la condotta imprudente delle vittime, come è accaduto davanti al tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in cui con la sentenza del 19 ottobre scorso, il Gup Ernesto Anastasio ha concesso l’attenuante ad effetto speciale della colpa concorrente (che riduce le pene fino alla metà) a un conducente in stato di ebbrezza che, guidando a circa 30 km/h, aveva causato la morte di un pedone che camminava nello stesso senso di marcia delle autovetture in transito, contrariamente a quanto stabilito dall’articolo 190 del Codice della strada, che impone ai pedoni di circolare in senso opposto. La difesa dell’imputato aveva chiesto e ottenuto il rito abbreviato. Il giudice, pur non riconoscendo le attenuanti generiche dato il tasso alcolemico superiore a 2 g/l, ha contenuto la pena nel limite di due anni e otto mesi di reclusione. La durata dei processi - Paradossalmente, le nuove norme hanno condotto a un minor numero di sentenze negli ultimi mesi, con ritardi prevedibili anche nei risarcimenti dei danni. Preclusa la possibilità di patteggiare, agli indagati non resta che accertare oltre ogni ragionevole dubbio ogni elemento del fatto. A partire dal presupposto fattuale di essersi messi alla guida sotto effetto di sostanze stupefacenti o in stato di ebbrezza, che dovrà essere provato oltre ogni ragionevole dubbio e con le garanzie di legge. Chi causerà un incidente, per essere sottoposto ad alcoltest, dovrà innanzitutto essere avvisato della facoltà di essere assistito da un difensore, pena l’inutilizzabilità degli accertamenti stessi, ma vista la gravità della pena e la prova non tecnica dell’etilometro, potrà chiedere ulteriori accertamenti, come le analisi del sangue in ospedale, che sono decisive ai fini dell’accertamento del nuovo reato. L’assunzione di droghe - Per quanto riguarda la guida sotto effetto di sostanze psicotrope, invece, non è sufficiente provare che, precedentemente al momento in cui l’autore si è messo alla guida avesse assunto stupefacenti, ma anche che guidava in stato di alterazione causato da tale assunzione. Per la scienza medica, infatti, le tracce degli stupefacenti permangono nel tempo, pertanto l’esame tecnico (anche del capello) potrebbe avere un esito positivo in relazione a un soggetto che ha assunto la sostanza molti giorni prima e che invece non si trovava in stato di alterazione al momento dell’incidente. Il nesso di causalità - Occorrerà poi dimostrare il nesso di causalità tra l’assunzione delle sostanze e/o dell’alcol e l’incidente. L’evento morte o le lesioni dovranno essere dovute proprio alla incapacità del conducente di osservare le regole sulla circolazione stradale causata dal suo stato di alterazione, così come precisato dalla Circolare 5/2016 della Procura di Trento. Anche la Polizia locale di Milano, con la circolare 11/2016 redatta in collaborazione con il sovrintendente Bruno Malusardi, ha ribadito che "il conducente in stato di ebbrezza coinvolto in un incidente da cui derivino lesioni a terzi, ma che non abbia commesso violazioni a norme della circolazione stradale causalmente connesse all’evento, non potrà essere ritenuto responsabile per le nuove ipotesi autonome di reato". In tema di omicidio colposo da incidente stradale, la Cassazione aveva già avuto modo di pronunciarsi prima dell’introduzione delle nuove norme, affermando che il nesso causale tra la condotta del conducente e l’evento mortale deve essere sempre oggetto di un rigoroso accertamento (Cassazione, sezione IV, sentenza 17000 del 5 aprile 2016). Tale accertamento deve quindi necessariamente riguardare oggi anche la causalità tra l’alterazione e l’evento causato, trattandosi di fattispecie autonome di reato e quindi tutti gli elementi costitutivi del delitto devono essere provati oltre ogni ragionevole dubbio. Puniti i maltrattamenti ripetuti anche se per periodi brevi di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2016 Tribunale di Firenze, sentenza 2690 del 19 luglio 2016. Risponde di maltrattamenti in famiglia il marito che, in più occasioni anche se per periodi brevi, minaccia la moglie di portarle via i figli e farla licenziare e la percuote, anche in presenza dei minori, per ottenere del denaro in cambio della promessa di andarsene di casa. Il reato scatta anche per condotte perpetrate in momenti successivi e ripetute, senza che sia necessario che vengano poste in essere per un tempo prolungato. Lo puntualizza il Tribunale di Firenze (giudice Di Girolamo), con la sentenza 2690 del 19 luglio scorso. Accusato di maltrattamenti familiari è un uomo portato a giudizio dalla coniuge, costituitasi parte civile. La donna, vittima di minacce e lesioni personali, commesse anche di fronte ai figli, aveva querelato più volte il marito. Di qui, il processo, la cui istruttoria aveva confermato la ricostruzione fornita dalla donna. Ascoltati i testimoni e letti i documenti prodotti, era emerso che il consorte, già per carattere "molto esuberante", come lo aveva definito la moglie, era solito tornare a casa ubriaco, percuotere la moglie, minacciarla di ridurla sulla sedia a rotelle e dare in escandescenze, anche sotto gli occhi dei figli. Non solo. Ultimamente era arrivato a farsi consegnare soldi, dietro l’impegno di lasciare casa. La situazione era precipitata con la perdita del lavoro. Un’escalation di aggressività tale da ridurre la moglie in uno stato di profonda prostrazione psichica e fisica. Per questo, il giudice condanna il marito per il reato di maltrattamenti in famiglia, previsto e punito dall’articolo 572 del Codice penale. L’incontenibile reattività dell’imputato, dimostrata dal fatto che la sua aggressività si sia indirizzata non solo verso la coniuge, ma anche verso familiari e terzi, non "consente affatto di escludere (...) l’elemento soggettivo del delitto di maltrattamenti posto in essere nei confronti della moglie, nel concreto vittima di violenze e minacce e sopraffatta dal terrore indottole dai comportamenti" dell’uomo. E già dalle prime avvisaglie della sua indole violenta, a caratterizzare il rapporto matrimoniale era la palese sopraffazione e prevaricazione della partner, causa, peraltro, dell’irreversibile deteriorarsi dell’intesa sentimentale e del fallimento del progetto familiare. Per il giudice sussiste anche l’altro reato contestato: lesioni personali. Secondo il tribunale, "le violazioni accertate devono essere unificate sotto il vincolo della continuazione atteso che risulta evidente come le stesse siano state poste in essere in esecuzione del medesimo disegno criminoso". Il giudice ha tuttavia riconosciuto le circostanze attenuanti generiche dato che le condotte delittuose erano state poste in essere in un contesto caratterizzato da dolorose esperienze familiari e dall’improvvisa perdita di una stabile occupazione lavorativa. Nel riconoscere le attenuanti, il giudice ha anche valutato la circostanza che l’uomo fosse riuscito ad assicurare una regolare contribuzione al mantenimento dei figli e a conservare i contatti con loro, alla presenza della madre e presso la ex casa familiare. Contributo unificato dovuto dalla Onlus che fa ricorso al Tar di Luca Benigni e Gianni Rota Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2016 Ctr Lombardia 4991/44/2016. I processi originariamente avviati senza obbligo di pagamento dell’imposta di bollo mantengono il regime di esenzione anche per il contributo unificato. Tuttavia l’esenzione per le Onlus non riguarda le attività di natura giudiziaria e, dunque, non si applica in caso di presentazione del ricorso promosso di fronte al Tar. Così si esprime la Ctr Lombardia 4991/44/2016 (presidente e relatore D’Agostino). Nel caso in esame una Onlus ricorre al Tar senza versare il contributo unificato, appellandosi all’articolo 27-bis, allegato B-tabella del Dpr 642/1972, secondo cui tutti gli atti posti in essere dagli enti non profit sono esenti da imposta di bollo. Inoltre, il successivo articolo 10 del Dpr 115/2002 estende l’esenzione dal contributo unificato a quei processi già esenti da bollo. Per il combinato disposto, dunque, secondo la ricorrente nulla è dovuto. La segreteria del Tar, però, le invia ugualmente l’invito al pagamento del contributo unificato, prontamente impugnato dalla Onlus davanti alla Ctp. In via principale, la ricorrente invoca il combinato disposto e, in via subordinata, la lesione dei principi costituzionali per discriminazione. La replica è decisa. Secondo il Tar l’esenzione assoluta da imposta di bollo per le Onlus, che ha portata circoscritta senza possibilità di differente interpretazione, riguarda solo atti e provvedimenti di specifici procedimenti amministrativi, tra cui non sono compresi i processi avviati innanzi al Tar. Inoltre, non può essere invocata la lesione di principi costituzionali in quanto la norma non è discriminatoria. La Ctp accoglie il ricorso introduttivo sul motivo assorbente dell’esenzione da imposta di bollo spettante alle Onlus. A quel punto viene proposto appello nei confronti della sentenza di primo grado e la Ctr Lombardia dà torto alla contribuente per i seguenti due motivi: • solo gli atti, documenti, istanze, contratti, copie, estratti, certificazioni e attestazioni, posti in essere o richiesti dalle Onlus sono esenti da imposta di bollo (articolo 27-bis, allegato B-tabella del Dpr 642/72) e, dunque, mancando il riferimento ad attività di natura giudiziaria in qualsivoglia sede e forma esplicate, l’esenzione da imposta di bollo ha una portata circoscritta; • l’esenzione da contributo unificato in base all’articolo 10 del Dpr 115/2002 riguarda solo il processo già non soggetto a imposta di bollo e non è applicabile alle Onlus che per le attività di natura giudiziaria, comprese quelle promosse innanzi al Tar, devono sempre pagarlo; • l’assoggettamento a contributo unificato delle Onlus non è discriminatorio e non viola principi costituzionali. Pertanto il pagamento del contributo unificato previsto discrezionalmente dal legislatore si sottrae a qualsiasi interpretazione forzata della ratio legis che ha inteso attribuire alle Onlus l’esenzione da imposta di bollo solo in alcuni casi. L’imparzialità dei magistrati spiegata dal caso Di Matteo di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 novembre 2016 Il teorico della trattativa stato-mafia scende in campo contro il referendum, mettendo in mostra la scomparsa della linea sottile tra giustizia e politica. Antonino Di Matteo sapete tutti chi è: è un magistrato palermitano di 56 anni, è presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati di Palermo, sostituto procuratore alla procura di Palermo. Nelle ultime settimane il nome di Antonino Di Matteo è tornato a essere al centro dell’attenzione per una sberla micidiale che un giudice di Palermo, la dottoressa Marina Petruzzella, ha rifilato a quello che doveva essere il processo del secolo e che invece si sta trasformando sempre di più, giorno dopo giorno, in un grande incubatore di manipolazioni: il processo sulla Trattativa Stato-mafia. La scorsa settimana il Foglio ha pubblicato le conclusioni integrali allegate alle motivazioni della sentenza di assoluzione di un caso che doveva essere il perno della trattativa stato-mafia, il processo a Calogero Mannino. Motivazioni devastanti, che hanno demolito l’impianto accusatorio dell’inchiesta, con il giudice Petruzzella che ha infierito sia sull’inesistenza di prove nel processo sia sull’astuzia adottata dai protagonisti dell’inchiesta per creare attorno al processo un consenso mediatico che ha drogato le indagini preliminari. Ma per Nino Di Matteo, magistrato ovviamente scomodo, ovviamente sotto scorta, ovviamente idolo grillino, votato dagli iscritti al blog di Beppe Grillo nel 2015 come terzo possibile candidato alla presidenza della Repubblica, la trattativa stato-mafia non rappresenta solo un normale processo o una normale attività giudiziaria. È stata qualcosa di più: qualcosa che ha proiettato Di Matteo in un Olimpo in cui nel 2011 si è proiettato anche il suo collega Antonio Ingroia. Un Olimpo speciale all’interno del quale, in Italia, i magistrati si sentono spesso legittimati a occuparsi tanto di codice penale quanto di codice morale, sorvolando sulle norme che obbligano giudici e pm a svolgere costantemente una funzione di terzietà. Quando si entra in questo Olimpo, per la verità molto affollato e ormai poco elitario, la linea di demarcazione che separa la professione del magistrato dalla professione di guru politico diventa sempre più sottile, sempre più sfumata, e può succedere qualsiasi cosa. Persino che un magistrato, che in teoria dovrebbe ricordare che "terzietà e imparzialità sono assunte come le caratteristiche che consentono di distinguere i giudici dagli altri organismi che esercitano funzioni statali diverse", prenda una posizione politica contro un qualche politico, accettando dunque di diventare una figura non solo pubblica ma pienamente politica. Antonio Ingroia, amico e collega di Di Matteo, dopo aver costruito una carriera sulla base di un’inchiesta senza prove, la trattativa stato-mafia, è sceso in campo, come sapete, e si è candidato in politica contro tutto quel sistema che ha combattuto da magistrato. Non si sa se il dottor Di Matteo seguirà la stessa strada del dottor Ingroia. Ma si sa che qualche giorno fa è successo qualcosa di clamoroso, che altrettanto clamorosamente non ha suscitato alcun tipo di reazione. È il 27 ottobre, siamo a Palermo, a un convegno organizzato dal comitato "Liberi cittadini per la Costituzione", e accanto a una deputata del Movimento 5 stelle, Giulia Sarti, c’è Antonino Di Matteo che parla di riforme, di Costituzione, di governo, di Renzi e di "rischio dittatura per l’Italia" in caso di vittoria del Sì. Con un tono pacato, senza alcun disagio, perfettamente a suo agio nel ruolo di interprete delle vere volontà dei padri costituenti, Di Matteo snocciola tutto il repertorio grillino per il No (il 27 settembre, non si capisce bene per quali ragioni, il sindaco di Roma Virginia Raggi ha dato la cittadinanza onoraria al pm palermitano). Lo spartito è il solito. Il complotto di JP Morgan. La fine della democrazia. Il disegno di distruzione del paese che va da Gelli a Renzi. E così via. Lo spirito usato da Di Matteo - arriviamo al succo della questione - è lo stesso utilizzato nel processo sulla Trattativa: dimostrare che le azioni della politica sono avvolte da una nube di opacità che rende illegali e immorali (il magistrato dice che la riforma non solo è sbagliata ma "viola" i principi della Costituzione) tutte le decisioni che vengono portate avanti da una classe politica non all’altezza della situazione e dunque non legittimata ad agire. "La riforma è stata ideata e ostinatamente voluta dal Governo della Repubblica con la pressione e l’etero direzione dell’ex Presidente della Repubblica Napolitano", dice Di Matteo come se questa presenza in campo di Napolitano fosse quasi un’aggravante penale (a proposito di terzietà: il Csm ha nulla da dire su un magistrato che dopo aver coinvolto Giorgio Napolitano in un processo senza prove ora fa campagna, via referendum, contro lo stesso ex presidente della Repubblica?). Si capisce che questi temi non facciano scalpore in un paese in cui la principale corrente della magistratura (Md) organizza comitati elettorali alla luce del sole contro una riforma costituzionale sostenuta dal governo. Si capisce che tutto questo non possa far scandalo in un contesto in cui il capo dell’Anm delegittima ogni giorno la classe politica dicendo che i politici "non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi". Ma in un paese in cui molte riforme costituzionali sono cadute anche per via giudiziaria ("Ricordo che a un certo punto, quando eravamo al nodo giudiziario, arrivò un telegramma dalla procura di Milano: era una diffida a proseguire", ha raccontato qualche settimana fa Ciriaco De Mita, svelando una delle ragioni per cui nel 1993 non venne realizzata la riforma costituzionale) un magistrato che si traveste da politico, usando il consenso derivatogli da un’inchiesta giudiziaria giudicata senza capo né coda da un giudice della sua stessa procura, dovrebbe farci riflettere su molte cose. Su come la terzietà sia diventata un gargarismo come il garantismo. Su come ormai sia diventato normale ciò che in qualsiasi altro paese al mondo verrebbe considerato non normale (la giustizia politica). E su come sia deleterio non cambiare un sistema istituzionale come quello attuale che è così debole da essere diventato il paradiso perfetto per una categoria particolare di magistrati. Quelli specializzati nel confondere penale e morale. Quelli specializzati a miscelare con abilità avvisi di sfratto alla politica con avvisi di garanzia ai politici. Ivrea (To): nel carcere di spunta "l’acquario", la cella liscia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 novembre 2016 La denuncia di un detenuto confermata dal Garante cittadino. Confermata l’indiscrezione anticipata da Il Dubbio sul racconto del Garante del comune Armando Michelizza in merito ai pestaggi che sarebbero avvenuti all’interno della casa circondariale di Ivrea e denunciati tramite una lettera di un detenuto. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma a Il Dubbio, ha spiegato che appena è venuto a conoscenza della denuncia, subito si è attivato consultando il garante dei detenuti del comune di Ivrea. Michelizza ha confermato al Garante nazionale che da tempo nel carcere di Ivrea vige un clima di tensione a causa della mala gestione della direzione, che giunge a sfociare in episodi di violenza ai danni dei detenuti. Sempre Michelizza non ha nascosto il problema della grande difficoltà che ha nello svolgere la sua funzione rispetto alle esasperazioni delle spinte securitarie all’interno dell’istituto. Il garante dei detenuti del carcere di Ivrea ha inoltre confermato di aver visitato due detenuti coperti di lividi su tutto il corpo. Nel frattempo, sempre da fonti del nostro giornale, trapela l’ipotesi che nel carcere di Ivrea esisterebbe una "cella zero" come ai tempi del carcere di Poggioreale. Sarebbe una cella "liscia", che nell’ambiente carcerario eporediese viene soprannominata "L’acquario". In quella cella verrebbero isolati e maltrattati i detenuti considerati irrequieti. A confermare la veridicità dei fatti sarà la magistratura inquirente. La lettera di denuncia presentata dal detenuto Matteo Palo parlava di violenza indiscriminata da parte di una "squadretta" composta da guardie penitenziarie provenienti dal carcere di Vercelli. Gli agenti avrebbero utilizzato idranti e manganelli picchiando almeno cinque detenuti. Nessun dottore avrebbe stilato un referto medico. Tutto ciò sarebbe avvenuto durante la notte tra il 25 ed il 26 ottobre in seguito a una protesta dei detenuti. A confermare alcuni aspetti della denuncia è stato anche il garante regionale Bruno Mellano che nella giornata di mercoledì è andato a fare una visita nel carcere. Ha incontrato sia la direttrice, Assuntina Di Rienzo, che i detenuti coinvolti nel caso delle presunte violenze. Mellano rappresenta come le versioni dell’amministrazione dell’istituto penitenziario di Ivrea e quella dei detenuti continuino a non combaciare e, tuttavia, ha riscontrato che le testimonianze dei ristretti convergono nella denuncia di violenze e, in almeno due casi, ha verificato l’esistenza di lividi e residui di ematomi e appreso che ai feriti non è stata effettuata alcuna prognosi medica. Risulta inoltre che la Procura di Ivrea ha ricevuto almeno tredici esposti nel giro di un anno e cinque sono i fascicoli aperti contro ignoti per lesioni. La direttrice del carcere nega che ci sia stata violenza da parte degli agenti, tanto da aver messo a disposizione della magistratura le immagini dell’impianto di video sorveglianza: ma è trapelata la notizia che - esattamente il giorno dei presunti pestaggi avvenuti alla sezione del quarto piano - le videocamere a circuito chiuso non fossero in funzione. Nel frattempo la deputata del Pd Anna Rossomando, in merito ai presunti pestaggi, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia per chiedere di far luce su quanto è accaduto, su quale sia la situazione attuale e su quali provvedimenti si intendano adottare. Padova: Papa Francesco ha incontrato anche i detenuti del carcere Due Palazzi di Alberta Pierobon ed Elisa Fais Il Mattino di Padova, 7 novembre 2016 La delegazione padovana ricevuta dal Pontefice: "Mi avete rallegrato". Don Pozza: "Emozionati fino alle lacrime". "Ero triste ma voi mi avete rallegrato la domenica, sono felice di incontrarvi": e se lui, papa Francesco, era felice, loro i 27 detenuti tra i quali cinque ergastolani del Due Palazzi di Padova, erano in lacrime. Scossi e commossi, travolti dall’emozione, sconvolti perfino, compresi i detenuti i musulmani che hanno partecipato all’avventura romana. Ed è sgorgato un pianto collettivo. Tra i mille carcerati arrivati ieri a San Pietro per la messa del Papa (Giubileo delle carceri) c’erano anche i padovani, accompagnati da don Marco Pozza cappellano del carcere, Ottavio Casarano il direttore, Nicola Boscoletto della cooperativa Giotto, suore, catechisti, educatori e Cinzia Zanellato che con i detenuti fa teatro. "Ci avevano detto che era saltata l’udienza con il Papa", racconta don Pozza; così siamo andati a zonzo per Roma, sotto la pioggia. Eravamo al Pantheon quando alle 17.30 ci è arrivata una telefonata dal Vaticano: "venite, il Papa vuole salutarvi". Siamo saltati al volo sull’autobus e nel giro di mezz’ora eravamo lì. La mattina mi avevano invitato su Rai1 alla trasmissione "A sua immagine" e avevo parlato di carcere. Il Papa mi aveva ascoltato e mi ha detto "Mi sei molto piaciuto"". E don Pozza deve aver toccato il cielo del Vaticano con un dito. Uno dei detenuti, Armand Davide (tra i "protagonisti del documentario "Mai dire mai" voluto da Diocesi e TV2000 e girato nella casa di pena Due Palazzi), ha letto a Francesco una lettera da parte di tutti. "Alla fine mi ha abbracciato", continua il cappellano "e io l’ho salutato dandogli del tu. Mi è venuto spontaneo". Nel giorno del Giubileo delle carceri papa Francesco è tornato sul tema dell’amnistia, da lui richiesta un anno fa ai governi e parlamenti di tutti i Paesi del mondo. Jorge Mario Bergoglio durante l’Angelus ha sollecitato ad un atto di clemenza per i carcerati ritenuti idonei, in favore del miglioramento delle condizioni di vita delle carceri, per una giustizia penale non solo punitiva ma aperta alla prospettiva del reinserimento. Tema sul quale c’è un’attenzione particolare in città: negli ultimi giorni hanno visitato il carcere Due Palazzi il premier Matteo Renzi e il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano, oltre al vescovo Cipolla. "Torno a casa con il cuore contento", racconta Nicola Boscoletto, il presidente della cooperativa Giotto che dà lavoro ai detenuti, "Il Papa ha compiuto un gesto storico disarmante: con semplicità ha chiesto un atto di clemenza. Da oltre 26 anni, superando difficoltà e i dubbi, la Cooperativa Giotto è riuscita ad inserire nel mondo del lavoro oltre cinquecento detenuti. Ci impegniamo quotidianamente per dare una possibilità di rinascita alle persone e il lavoro è un pilastro fondamentale. Spero che i nostri governanti pongano un’attenzione maggiore su questo aspetto, considerando il "lavoratore detenuto" non come persona da sfruttare, ma come risorsa che paga il suo debito con la società". "La condizione delle carceri è un tema fondamentale perché troppo spesso questi ambienti si trasformano in un luogo di abbruttimento delle persone", ha aggiunto Boscoletto. Busto Arsizio: dalla Casa circondariale a Roma, per il Giubileo dei carcerati Il Dubbio, 7 novembre 2016 La delegazione lombarda è quella più numerosa: grande lavoro per i giudici di sorveglianza di Varese per permettere ai detenuti di partecipare alla messa del Papa. È numerosa e molto assortita la delegazione di Busto Arsizio che si è recata a Roma per partecipare alla celebrazione del Giubileo dei carcerati e delle loro famiglie. La delegazione lombarda è quella più numerosa: grande lavoro per i giudici di sorveglianza di Varese per permettere ai detenuti di partecipare alla messa del Papa. Don Silvano Brambilla, l’infaticabile cappellano della casa circondariale, con l’aiuto dei volontari ha organizzato tutto fin nei minimi particolari ed ha messo insieme il gruppo di detenuti, persone in misura alternativa, volontari, responsabili ed operatori dell’istituto. L’emozione è palpabile ed il programma intenso: non manca lo striscione di saluto al Pontefice, come si legge sul portale di VoceLibera, la rivista del carcere di Busto Arsizio, diretta da Claudio Bottan. Al Papa sarà consegnata anche una chiave di cioccolato, realizzata nella cioccolateria della casa circondariale. Determinante il placet del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Grazia e di Giustizia e dell’Ispettorato generale dei Cappellani. Lo sottolinea Monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione: "Questa fattiva collaborazione ha permesso che i detenuti di tutte le categorie possano essere rappresentati in San Pietro. Ci saranno, quindi, minori, persone in alternativa al carcere sul territorio, persone in detenzione domiciliare e detenuti definitivi con condanne diverse… Insomma, una presenza vera che segna un reale impegno per offrire un futuro e una speranza oltre la condanna e la durata della pena". Sei detenuti hanno svolto il loro servizio come volontari del Giubileo: "Un’esperienza intensa vissuta da tutti con spirito di genuino impegno e responsabilità", ha commentato Fisichella. Nella giornata di sabato, i partecipanti hanno avuto la possibilità di confessarsi e di compiere il pellegrinaggio verso la Porta Santa di San Pietro attraversando il percorso di via della Conciliazione, per prepararsi alla celebrazione domenicale, caratterizzata da quattro testimonianze: un detenuto che in carcere ha sperimentato l’esperienza della conversione parlerà insieme alla vittima con la quale si è riconciliato; il fratello di una persona uccisa che si è fatta strumento di perdono; un ragazzo minorenne che sta scontando la sua pena e, infine, un agente della Polizia Penitenziaria, che quotidianamente è a contatto con i detenuti. Le testimonianze saranno accompagnate da musiche e canti realizzate dal Coro Papageno, composto da volontari e detenuti della Casa Circondariale "Dozza" di Bologna. Il servizio liturgico sarà svolto dai detenuti, e le ostie che saranno utilizzate per la Messa sono state prodotte da alcuni detenuti del carcere di Opera di Milano. Per la celebrazione, esposto per la prima volta il Crocefisso restaurato di recente ad opera del Capitolo della Basilica. Un Crocefisso ligneo del XIV secolo che, tolto il primo Giubileo del 1300 di Papa Bonifacio VIII, ha di fatto visto tutti i Giubilei della storia fino ad oggi. Accanto alla croce, esposta la statua della Madonna della Mercede, protettrice dei prigionieri. L’Angelus domenicale sarà come sempre recitato dal Palazzo Apostolico e i detenuti vi parteciperanno in un settore della piazza. Torino: FeedHome, il primo negozio dedicato ai prodotti made in carcere di Annalisa Dall’Oca Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2016 "Il progetto vuole ribadire forte e chiaro che l’economia carceraria è la chiave di volta per ripensare in modo efficace il sistema carcerario italiano". È più che un negozio, è il risultato di un percorso di collaborazione tra istituzioni, cooperative, agenti della polizia penitenziaria, professionisti, detenuti e volontari. Oltre le vetrine che affacciano su via Milano, in pieno centro a Torino, c’è una storia, e per ripercorrerla bisogna attraversare 16 carceri italiane. È al di là delle sbarre delle case circondariali dislocate lungo tutta la Penisola, tra la Sicilia e la Valle d’Aosta, infatti, che vengono confezionati i prodotti in vendita nello store FreedHome, il primo in Italia dedicato al commercio del made in carcere. I dolci, ad esempio, li preparano i detenuti della Banda Biscotti, a Verbania, i cosmetici arrivano dalla Giudecca di Venezia, e il caffè proviene dalla casa circondariale di Pozzuoli, in provincia di Napoli. Ancora, sugli scaffali del negozio si trova la pasticceria siciliana di Sprigioniamo Sapori, carcere di Ragusa, gli oggetti realizzati dal laboratorio di stamperia del penitenziario di Torino, e poi prodotti da forno, bottiglie di vino, snack salati, fino agli oggetti di design, alle magliette e alle borse colorate. "Il progetto - spiega FreedHome, realtà che riunisce un gruppo di cooperative sociali che operano all’interno degli istituti di pena italiani - vuole ribadire forte e chiaro che l’economia carceraria è la chiave di volta per ripensare in modo efficace il sistema carcerario italiano. Il negozio, quindi, non è solo un punto vendita: Freedhome rappresenta la voce delle tante realtà che ogni giorno dimostrano la forza riabilitativa del lavoro, portando valore, professionalità e voglia di fare nel sistema penitenziario del nostro Paese". Progettato durante la giunta Fassino, e portato avanti dal sindaco Chiara Appendino, lo store è di proprietà del Comune di Torino, messo a disposizione del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta, che lo ha dato in uso a Extraliberi, cooperativa che lavora nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. E più che un negozio, è il risultato di un percorso di collaborazione tra istituzioni, cooperative, agenti della polizia penitenziaria, professionisti, detenuti e volontari. "È un laboratorio di idee, ed è la dimostrazione che quanto dice la legge 354 del 1975, e cioè che il lavoro nelle carceri è uno dei fattori fondamentali per la riabilitazione dei detenuti, sia la verità. Siamo convinti che nei penitenziari esista un grande potenziale ancora da scoprire: le storie delle esperienze di economia carceraria, delle persone che coinvolgono, delle speranze che racchiudono. Ma soprattutto, delle certezze che sanno esprimere". Inaugurato a fine ottobre, le cooperative di FreedHome sperano che lo store piemontese sia solo il primo di una lunga serie. Il prossimo aprirà a Genova, mentre dietro al bancone di Torino si procederà con l’inserimento lavorativo di un ex detenuto. "Oggi in Italia 1.000 detenuti su 50 mila impiegano il proprio tempo lavorando in carcere per un’impresa e portano avanti ogni giorno progetti in ambiti diversi: alimentare, artigiano, tessile, manifatturiero. Queste attività sono strumenti attivi d’integrazione, per questo è stato creato un negozio che dia piena espressione a questo valore, facilitando la commercializzazione dei prodotti made in carcere dopo diverse esperienze temporanee e la partecipazione a fiere ed eventi di settore". Al di là del percorso sociale rappresentato dal progetto, poi, c’è anche la qualità dei prodotti in vendita. "C’è chi li compra come gesto politico, per contribuire a sostenere un progetto che ha dentro un valore sociale, chi li preferisce a un prodotto qualunque, perché crede che tutti abbiano diritto a fare qualcosa di buono, e chi li sceglie perché sa che il lavoro in carcere è uno degli antidoti più potenti all’insicurezza delle nostre città. Tutto giusto, ma noi speriamo anche che chi compra i nostri prodotti lo faccia soprattutto perché sono buoni, belli e ben fatti. E lo sono davvero, credeteci". Viterbo: Uspp; detenuto in coma farmacologico, salvato da un agente penitenziario tusciaweb.eu, 7 novembre 2016 Ha probabilmente inalato dei farmaci ed è finito in coma farmacologico. Si tratta di un detenuto 18enne del carcere di Mammagialla, ristretto al reparto giudiziario. È successo sabato sera, intorno alle 20,30. Ad accorgersene, durante il giro di ispezione, un agente di polizia penitenziaria. Subito il ragazzo è stato soccorso e trasportato all’ospedale Belcolle, dove è stato sottoposto alle cure del caso e salvato. Danilo Primi non ha più parole per esprimere il suo disappunto. "L’istituto - dice il consigliere nazionale Uspp - è allo sbaraglio e il personale non ce la fa più. L’intervento del collega è stato provvidenziale e solo grazie a lui, il giovane detenuto si è potuto salvare. La carenza del personale è cronica e non si riesce ad andare avanti. Solo su quel padiglione, di tre piani e sei sezioni detentive, ci sono 300 detenuti. I poliziotti in servizio erano due. Come si fa ad andare avanti in questo modo. Siamo al collasso". Primi è stufo anche di dover ribadire criticità ormai annose. "È eclatante che ci siano detenuti sempre più problematici, che assumono psicofarmaci e che dovrebbero essere sorvegliati in maniera speciale, è sempre più stranieri. Le cose, nell’istituto non cambiano, anzi non fanno che peggiorare le condizioni di lavoro degli agenti. Agenti che, invece, non si tirano mai indietro. C’è addirittura chi si riposa tre ore dopo una giornata di lavoro e poi ricomincia. Un personale che va elogiato per l’attaccamento alla professione e senza il quale non si potrebbe andare avanti". Primi attacca: "Possibile che il comandante e il direttore del carcere non si accorgano di questa situazione. L’amministrazione è consapevole degli episodi che si susseguono a Viterbo? Non meno di una settimana fa, un detenuto è finito in prognosi riservata dopo una rissa. Episodi che si ripetono con sempre più frequenza mettendo a rischio chi lavora". Primi è sul piede di guerra: "Come Uspp, nelle prossime ore, avvierò lo stato di agitazione e se, non avrò risposte dalle amministrazioni centrale e locale entro una decina di giorni, farò una manifestazione fuori dal carcere. Non credo ci sia volontà di risolvere le situazioni. Prendessero provvedimenti perché in ballo c’è la sicurezza, e non solo delle carceri, ma anche dei territori. Ho 31 anni di servizio - conclude - e non mi è mai capitato vedere e vivere situazioni del genere". Roma: Fns-Cisl e Osapp; dopo l’evasione da Rebibbia sette agenti trasferiti La Repubblica, 7 novembre 2016 Sette agenti della Polizia penitenziaria in servizio la notte dell’evasione dei tre detenuti da Rebibbia, sono stati trasferiti al carcere di Regina Coeli. È quanto denuncia Massimo Costantino segretario Fns-Cisl che sottolinea: "È facile spostare gli agenti ma è difficile mettere in sicurezza gli istituti penitenziari". "I detenuti - prosegue - sono evasi tagliando le grate e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, invece di rafforzare le grate sostituendole magari con altre in acciaio, trasferisce gli agenti". Sulla stessa linea il segretario dell’Osapp Leo Beneduci, che dichiara: "Tutto il personale del turno interno-esterno della notte del 27 ottobre è stato trasferito precauzionalmente, e non perché siano emerse responsabilità. A Rebibbia manca il 50% del personale, cioè ci sono 620 unità invece che 940 e la notte dell’evasione le poche unità presenti erano state impegnate per l’arrivo dei detenuti dal carcere terremotato di Camerino: la colpa è della ronda che non c’era o di chi era in sala regia dove non è possibile distinguere gli allarmi provocati da un temporale da quelli di una evasione?". "I nostri ragazzi", edito da Cesvol, con gli scritti dei detenuti del carcere di Terni terninrete.it, 7 novembre 2016 Scrive Daniele Moroni: "niente può imbrigliare la mente e l’anima". L’associazione Toto Corde, attraverso il Cesvol di Terni, ha dato alle stampe un libro molto interessante, "I nostri ragazzi" che comprende gli interventi di alcuni detenuti del carcere di Terni. Fra loro gli interventi degli ex dirigenti della ThyssenKrupp, Marco Pucci e Daniele Moroni. Il libro edito da Cesvol ospita, fra gli altri, anche gli interventi di alcuni prigionieri politici che stanno scontando l’ergastolo oltre quello dei condannati al volontariato protagonisti del festival della cultura che, nei mesi scorsi, ha coinvolto decine di detenuti del carcere di Terni. Questa la lettera integrale di Marco Pucci Ci passavo davanti, ci sono passato davanti molte volte, non mi sono mai avvicinato, non nascondo che quel luogo, per quello che rappresentava, mi intimoriva. Avevo paura, paura per ciò che nascondeva, per la vita che si svolgeva al suo interno, per le persone costrette, loro malgrado, a viverci, ad assistere al lento passare del tempo. Conoscevo quel luogo come il Carcere di Terni, quello di Vocabolo Sabbione, il nuovo carcere, quello di massima sicurezza. Adesso non ci passo più davanti, sono dentro, ci sono finito dentro. Ho varcato i cancelli del carcere, adesso mi trovo al suo interno, all’interno di quel luogo che mi aveva intimorito, a contatto con le persone di cui avevo appreso le storie, in alcuni casi, attraverso i media locali e nazionali, volti che avevo visto per la prima volta in televisione o sulle pagine dei giornali. Quelle persone, quei volti e quelle storie cominciano a diventarmi, a poco a poco, familiari. Quelle persone con le quali mai avrei pensato di incrociare i miei sguardi, mai avrei pensato di soffermarmici a parlare, sono diventate i miei compagni di viaggio, un viaggio lungo ed estenuante attraverso una vita parallela celata al mondo esterno. Ho lasciato la mia vita di tutti i giorni al di là del muro di cinta, non so quando riuscirò a varcare di nuovo i cancelli del carcere a ritroso, ma so con certezza che devo essere forte, vivere la nuova realtà con grande temperamento, sapendo che ogni giorno è un giorno in meno verso la riconquista della libertà. Prima o poi riuscirò a svegliarmi da questo incubo che accompagna, ormai costantemente, le mie notti. Entro all’interno, varco, accompagnato dagli agenti della Polizia Penitenziaria, i vari cancelli, salgo le scale e comincio a prendere confidenza con la nuova realtà, il mio nuovo mondo parallelo. Arrivo all’ufficio matricola, mi prendono le generalità, le impronte digitali e mi scattano delle foto. Al termine sono un detenuto, contraddistinto da una foto e da un numero. devo essere forte, mi dico. Quello che avevo visto soltanto nei film americani adesso è, ahimè, realtà. Ormai sono parte integrante del sistema, un detenuto tra tanti, quello che eri al di là del muro di cinta non ti appartiene più, nel carcere non ci sono classi sociali, non ci sono titoli da anteporre al tuo nome, nel carcere sei un detenuto, un detenuto e basta. Una voce silenziosa tra tante. La sezione di appartenenza, il tuo braccio, viene assegnata in base al reato commesso, io sono stato assegnato a quello dei reati comuni. Qui dentro siamo tutti uguali, è un po’ come la famosa livella di Totò, tutti uguali dopo la morte, ed entrare in carcere è un po’ come morire. Devo essere forte, ripeto a me stesso. Ti crolla il mondo addosso, non hai più certezze se non quella di dover passare un lungo periodo in cattività forzata, privato dei tuoi affetti, della tua quotidianità, privato della tua libertà. Ci spostiamo di qualche metro ed arriviamo al casellario, una sorta di magazzino, dove, dopo una minuziosa ispezione, ti tolgono tutto ciò che, secondo il regolamento, può ledere alla tua incolumità personale. Raccolti gli effetti personali "superstiti" in un sacco di plastica nero, le borse rimangono, con il resto degli oggetti personali, stoccate presso il casellario; ci si avvia verso la cella che, nell’accoglierti, sancirà il tuo battesimo all’interno del carcere. Per evitare un impatto traumatico con questa nuova realtà e per consentirti di "acclimatarti", i primi giorni vengono trascorsi presso la sezione Accoglienza del carcere. È una sorta di zona cuscinetto tra il mondo esterno e il braccio a cui sarai assegnato successivamente. Tale permanenza è, per fortuna, di breve durata e dopo qualche giorno siamo pronti per la destinazione finale, per condividere le nostre giornate con gli altri detenuti, pronti, come si dice qui dentro, a socializzare. Piano piano prendiamo conoscenza del regolamento e cominciamo ad orientarci. Ci abituiamo, per tutte le richieste che riteniamo necessarie, ad utilizzare il modulo per le domandine. Il sistema carcerario trae la sua forza motrice dalle domandine che vengono inviate dai detenuti agli uffici del carcere preposti, dalla richiesta di colloquio, all’acquisto di prodotti di varia necessità. In questo sistema di totale livellamento, dove il tempo è una variabile indipendente, dove i ritmi sono molto rallentati è importante mantenere il proprio equilibrio psico-fisico. Bisogna mantenersi sempre lucidi, non farsi prendere dalla depressione e dall’ansia ed avere un approccio razionale anche di fronte a situazioni, all’apparenza, irrazionali ed illogiche. Bisogna dare un senso alla nuova avventura e fare tesoro di un’esperienza che può arricchirti sul piano umano. Penso che qualsiasi esperienza anche la più negativa possa insegnarti qualcosa. In effetti il carcere ha molto da insegnarti e da insegnare. E in questo mondo ricco di storie, ogni detenuto ha la propria da raccontare, gli spunti di riflessione e di meditazione non mancano. In questo microcosmo multietnico di sofferenza, di solidarietà, di urla, di risa, di rabbia ed anche di umanità, sto trascorrendo le mie giornate. Qualcuno ha descritto il carcere come il luogo dove le cose semplici vengono rese difficili dalle cose inutili. In apparenza è vero, ma solo in apparenza, in realtà bisogna comprendere bene che tutto ciò che accade all’interno del carcere, il suo modello organizzativo, è funzionale a garantire la massima sicurezza dei suoi "ospiti". È evidente che il carcere deve esprimere al meglio la propria missione rieducativa, volta al reinserimento di coloro che, una volta scontata la loro pena, possano inserirsi nella società con gli stessi diritti delle persone "normali". Il carcere è quindi "utile" se svolge tale ruolo e rende normali le persone che vi hanno soggiornato. Perché in una società che si rispetti non si può tollerare che ci siano delle persone considerate più normali di altre. Ritengo che bisogna dare un senso alla missione rieducativa del carcere. Bisogna fare in modo che il percorso di osservazione e di rieducazione sia ad hoc per ogni detenuto. Ovviamente ci vogliono risorse qualificate e strutture adeguate, sia da un punto di vista numerico che economico. Bisogna fare in modo che la struttura carceraria abbia un rapporto simbiotico con la società esterna, la prima deve "preparare" il detenuto all’inserimento nella vita sociale, la seconda deve creare le condizioni più adeguate per evitarne il rigetto. Se le due realtà sono intimamente connesse, preparate, coordinate e strutturate, l’obiettivo di reinserimento ha buone possibilità di essere raggiunto. Ci vogliono, ovviamente, progetti ed idee, bisogna mettere da parte i pregiudizi della società civile nei confronti dei detenuti e dare loro un ruolo. Tali persone hanno bisogno di una chance per essere riabilitate ed accettate, non possono essere considerate dei condannati a morte sociale, persone senza speranza. Qui dentro ho avuto modo di apprezzare il lavoro silenzioso dei volontari che quotidianamente coinvolgono e stimolano i detenuti in attività culturali e ludico-ricreative. È grazie a questi "Condannati al Volontariato" se, attraverso i vari laboratori organizzati, è stato possibile dotare di occhi nuovi alcuni di noi detenuti facendoci rivedere un mondo che magari, sino ad oggi, abbiamo rifiutato, osteggiato o di cui avevamo paura. Grazie a loro è stato possibile organizzare il Festival della Cultura, dedicato alla memoria di Giovanni, Festival che ha coinvolto molti di noi facendoci, per un breve lasso di tempo, sentire attori veri di teatro. Sarebbe molto bello far conoscere questi "attori" al mondo esterno, fare apprezzare la loro spontaneità e la loro voglia di essere normali. Ecco, questo è quello che succede nel mio carcere, nel mio mondo parallelo; una società nella società. Dove ogni giorno si cerca di dare un senso alla propria esistenza, dove si lavora affinché ogni giorno questi condannati abbiano la speranza di essere accettati e reinseriti nella società "normale". Condannati ai quali bisogna ridare dignità e soprattutto il rispetto degli altri. Vi chiedo di credere in queste "risorse" silenziose, di investire in questo mondo parallelo, di credere nelle loro potenzialità; vi chiedo di accogliere il loro grido di aiuto e di abbattere il muro di indifferenza che li circonda. Recentemente ho visto un film, Invictus, che raccontava la storia di Nelson Mandela, un grande uomo. Mi sono rimaste impresse alcune parole pronunciate alla fine del film, gli ultimi versi della poesia che da il titolo al film stesso "Io sono padrone del mio destino, Io sono capitano della mia anima". Ecco così dobbiamo sentirci noi detenuti. Come detto c’è anche la testimonianza di Daniele Moroni che, fra le altre cose scrive: "se il carcere può limitare gli spostamenti niente può fare per imbrigliare la mente e l’anima. I sentimenti quando sono veri e profondi possono addirittura alimentarsi delle difficoltà e della lontananza. Quello di cui però sento una grande mancanza è il contatto fisico che corrisponde a questi sentimenti. Questa è veramente una violenza che viene esercitata non solo contro di me ma anche contro le persone che amo peraltro completamente estranee agli eventi che hanno causato la mia detenzione. Le mie nipotine. Lanciarle in alto e riprenderle in un forte abbraccio, assistere alle loro scoperte e alle loro conquiste. Questo mi manca. I mie figli. Accarezzarli e cercare negli occhi la loro felicità, guardarli considerandoli come la migliore eredità che possa lasciare al mondo. la compagna della mia vita. Vedere nei suoi la nostra complicità, sentire il suo profumo, i corpi che si attraggono e si desiderano. Questo mi manca. "I nostri ragazzi" è distribuito gratuitamente da Cevsol. Verrà presentato ufficialmente nei prossimi giorni. Si può richiedere al telefono 339.1843155 (Francesca) oppure totocorde@yahoo.com. La scuola insegni ai giovani le insidie della rete di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 7 novembre 2016 C’è qualcosa che accomuna Tiziana Cantone e Hillary Clinton, e riguarda le insidie nascoste nel web. Internet è un’autostrada. Ci passano sia i benefattori sia i delinquenti. Tiziana Cantone e Hillary Clinton in apparenza non avevano nulla in comune, invece un aspetto le rende simili: nessuna delle due persone aveva calcolato a sufficienza le insidie della rete. Una era la trentunenne che ha avuto la vita distrutta dalla pubblicazione su Internet, non voluta, dei video di suoi rapporti sessuali. L’altra è la prima candidata che può essere eletta alla presidenza degli Stati Uniti, al momento non certa di vincere perché da segretaria di Stato aveva impiegato la sua casella di posta elettronica privata al posto di quella istituzionale. Sì, è vero, il web offre grandi opportunità, ha accorciato le distanze e così via. Questo, che ripetiamo spesso, è indubbio. Ma dobbiamo riconoscerci tutti un po’ primitivi, neofiti rispetto ai molteplici effetti di una delle più grandi innovazioni nei modi di comunicare se perfino Hillary Clinton (teorica di Internet propulsore della libertà) ci si è fatta male. Nel suo caso, trascurando quanto la casella privata, preferita per non lasciare propri messaggi controversi agli archivi statali, si sarebbe rivelata un boomerang perché inopportuna per e-mail con segreti di Stato. Se possono essere state furbizia e pigrizia a indurre Clinton a offrire il fianco a inchieste dell’Fbi, Tiziana Cantone, che poteva apparire disinvolta, si è trovata a soffrire fino a darsi la morte in seguito a una candida ingenuità. Non aver messo in conto, nell’inviare i video a destinatari precisi, che per qualsiasi cosa viaggi in rete la distanza tra riservatezza e duratura pubblicità può consistere in pochi click. Internet è un’autostrada. Ci passano sia i benefattori sia i delinquenti. Prima di accedervi è meglio conoscere le principali insidie e l’attuale debolezza di sistemi e norme a tutela della riservatezza. Per guidare un ciclomotore è necessario un patentino, l’aver appreso determinate informazioni. La ragione: risparmiare danni agli altri e a se stessi. Internet merita consapevolezze analoghe. Ai giovani la scuola fornisca lezioni essenziali affinché evitino di farsi male e - anche involontariamente - di fare del male. Turchia. Il partito filo curdo Hdp si ritira da Parlamento di Marco Ansaldo Il Manifesto, 7 novembre 2016 Cresce la tensione dopo l’autobomba che ha ucciso 11 persone e l’arresto dei deputati del Partito democratico dei popoli. Un’atmosfera tesa, nervosa, a Diyarbakir, fa da preludio alla decisione del Partito democratico dei popoli (Hdp), filo curdo, di ritirarsi da tutte le attività del Parlamento di Ankara. Nella città ancora ferita per le 11 vittime dell’autobomba di venerdì, seguita all’arresto di 11 deputati di quella che è la terza formazione nell’Assemblea generale, riunioni febbrili si sono susseguite per due giorni. Poi l’annuncio. Ed è il portavoce del partito a leggere il verbale, davanti a una sede presidiata in forze dalla polizia nel timore di attentati e di dimostrazioni: "Non parteciperemo più ai lavori parlamentari". I caffè di Diyarbakir sono ancora pieni di avventori, come nel distretto di Sur, occupato dall’esercito turco, ma alle cinque della sera scatta il coprifuoco. In quella che è la metropoli curda più popolosa del Sud est dell’Anatolia non si parla altro che dei fermi di una compagine politica oggi decapitata, con i suoi due leader portati in carceri di massima sicurezza ben lontano da qui, dalla parte opposta del Paese. La co-presidente Figen Yuksekdag, come gli altri suoi colleghi deputati, è accusata di legami con il terrorismo e di non essersi presentata ai magistrati per rispondere ai capi di imputazione. Ora sta in una cella a Kocaeli, vicino a Istanbul, mentre il presidente Selahattin Demirtas è stato portato a Edirne, a un passo dal confine con la Grecia. Una doppia mossa delle autorità, tesa a smorzare qualsiasi tipo di dimostrazione a loro favore proprio nell’area più calda della Turchia. E dalla sua prigione Demirtas ha lanciato un messaggio, inviandolo attraverso i suoi avvocati. Questo: "Il nostro arresto illegale ha soltanto aggravato la profonda oscurità in cui il nostro Paese viene trascinato ogni giorno. Ma quelli che pensano di poterci costringere ad arrenderci a questa oscurità sappiano che un solo fiammifero, una sola candela bastano a illuminare l’oscurità. Qualunque sia il nostro posto e le nostre condizioni, continueremo, se necessario, a bruciare come una candela per far vivere il nostro popolo in pace in un futuro di libertà". Altri messaggi sono stati inviati dagli altri deputati curdi arrestati venerdì scorso. Ad Ankara si discute intanto la decisione del partito filo curdo di non partecipare all’attività della legislatura e agli incontri delle commissioni parlamentari. "Dopo discussioni con il nostro gruppo parlamentare e il nostro comitato esecutivo - ha fatto sapere il portavoce Ayhan Bilgen - abbiamo deciso di bloccare i nostri sforzi legislativi alla luce di tutto quanto sta accadendo". Le consultazioni sono state ampie, e il rappresentante curdo non esclude persino un eventuale ritiro totale dal Parlamento. "Tornate indietro da questo errore, prima che sia troppo tardi", replica il primo ministro, Binali Yildirim, esponente del Partito giustizia e sviluppo, i conservatori di ispirazione religiosa al potere da 14 anni. Nella strada di Diyarbakir dove l’autobomba l’altra sera ha ucciso anche due bambini assieme alle altre vittime ci sono ancora i segni dell’esplosione. Ma la rivendicazione è tuttora un giallo. L’azione prima è stata attribuita al Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, che Ankara considera legato ai deputati arrestati. Poi è venuta la volta del cosiddetto Stato Islamico di attribuirsi la paternità dell’attacco. Infine è giunta la rivendicazione del Tak, i Falchi per la liberazione del Kurdistan, gruppo estremista nato da una costola del Pkk e ritenuto responsabile di molti attentati in passato. Tayyip Erdogan, il capo dello Stato, non si è tirato indietro dal commentare gli ultimi eventi. E lo ha fatto attaccando ancora una volta l’Occidente. "L’Europa, nel suo insieme - ha detto il presidente turco - sta favorendo il terrorismo. Anche se ha dichiarato il Pkk un’organizzazione terroristica, questo è chiaro. Vediamo come il Pkk possa agire così liberamente e facilmente in Europa. Quando chiediamo come queste armi siano finite nelle mani del Pkk, la loro risposta è sempre pronta: sono state mandate alla coalizione anti-Isis". Poi Erdogan ha rispedito al mittente tutte le critiche seguite agli arresti dei leader curdi e di mezza redazione del giornale di centro sinistra Cumhuriyet: "Non mi preoccupa se mi chiamano dittatore o qualcosa di simile. Da un orecchio mi entrano e dall’altro escono. L’importante è quello che dice il mio popolo". A Diyarbakir la gente nei locali sorseggia il caffè perplessa, ascolta alla tv le parole del leader, e si mette a discutere animatamente. Turchia. Emma Bonino "Erdogan verso la dittatura, ma con lui l’Ue ha sbagliato molto" di Paolo Valentino Corriere della Sera, 7 novembre 2016 E sull’Iraq: "Può tornare la guerra civile". Riguardo agli immigrati: "In Italia siamo bravi a salvare le persone ma poi, quando arrivano, siamo fermi al reato di clandestinità". "I segnali della svolta autoritaria in Turchia si accumulano da anni - dice nell’intervista al Corriere l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino, ma certamente l’ultima escalation, con l’arresto dei leader del principale partito curdo, suggerisce che Erdogan taglia i ponti con l’Europa e l’Occidente. Preso da due guerre, una interna e l’altra esterna ma entrambe collegate alla questione curda, egli sceglie una strada in fondo alla quale c’è un regime dittatoriale. La situazione è preoccupante, anche perché la Turchia è membro della Nato e ospita testate nucleari, mentre l’Europa ha perso ogni leva di pressione". In che senso? "Nel momento in cui abbiamo deciso, sbagliando, che la nostra priorità nei confronti di Ankara era che si tenessero rifugiati e migranti, tutto il resto è diventato secondario". Come dovrebbe reagire ora l’Europa? "È molto difficile, tenendo conto del contesto, le basi Nato, la dipendenza energetica. Dovremmo tornare credibili, affrontare la questione migranti con l’integrazione e liberarci dalla dipendenza nei confronti della Turchia, cui abbiamo di fatto appaltato il problema dei rifugiati e la difesa delle frontiere esterne. Ci siamo consegnati mani e piedi a Erdogan, la cui deriva autoritaria non è cominciata con l’arresto dei leader curdi". Una deriva inevitabile? "Non era inevitabile che noi ci privassimo di ogni leva, rifiutando di affrontare il problema migranti e profughi a livello europeo, con una dimensione europea, come ci imponevano la nostra responsabilità e anche i nostri interessi. Lo sanno tutti che abbiamo bisogno di persone per compensare il calo demografico, lo dicono le ricerche dei radicali, di Confindustria, di Assolombarda. Quindi non è solo un problema di valori ma anche di necessità. Non lo abbiamo fatto per miopia, ragioni di bottega elettorale e questo è il risultato: siamo nelle mani di Erdogan". Che fare quindi? "Ci saranno com’è giusto una serie di dichiarazioni: questa deriva non è accettabile. Ma occorre anche riconoscere i nostri errori e correggerli. Solo la Germania ha fatto una legge sull’integrazione. Gli altri nessuno, noi in Italia siamo bravissimi a salvare le persone e dobbiamo esserne orgogliosi, ma poi quando arrivano siamo ancora fermi alla Bossi-Fini, al reato di clandestinità e via continuando". Sbagliammo nel 2006 a chiudere la porta dell’Unione europea alla Turchia? "Assolutamente sì, e fu quella la prima perdita di credibilità. Quando il Consiglio europeo decise all’unanimità di aprire i negoziati tutti sapevano che sarebbero durati vent’anni. Ma appena due mesi dopo, trascinati da Merkel e Sarkozy, i leader europei cambiarono idea. Gli errori passati e quelli recenti non giustificano però l’attuale deriva autoritaria. Il cammino è stretto, o facciamo la nostra parte e ci mettiamo in condizione di parlare con Ankara senza dover mendicare nulla, oppure non abbiamo alcuna possibilità di incidere. Detto questo, anche la Turchia deve pensarci due volte prima di continuare su questa strada: rotti i ponti con l’Europa, dove va? Il progetto di Davutoglu, nessun nemico ai nostri confini, è in macerie. Il Paese è isolato anche nella regione e ha grossi problemi economici". Considera chiusa ogni prospettiva di negoziato della Ue con Ankara? "No, non vorrei finisse così. Ma dobbiamo prima riappropriarci della nostra credibilità e della nostra agenda". Facciamo bene in Libia a sostenere Serraj o è una partita senza speranza? "Avevo espresso dubbi sin dall’inizio, il piano messo a punto da León e poi ripreso in toto da Kobler era troppo poco inclusivo, non teneva conto della realtà del terreno. Dieci mesi dopo i miei dubbi trovano conferma. Non penso che la situazione libica, che ha livelli di violenza inferiori alla Siria, sia destinata a migliorare. Probabilmente la comunità internazionale appoggia Serraj perché non vede un’alternativa. Intanto la Francia cura i propri interessi sostenendo il generale Haftar. Ricordo anche che la Libia è un enorme carcere a cielo aperto: nei campi libici ci sono centinaia di migliaia di disperati che arrivano da tutta l’Africa, sottoposti a maltrattamenti e torture". In Iraq continua l’offensiva su Mosul. Sarà la vittoria decisiva contro Daesh? "Prima o poi li cacceremo, sia pure a un costo umano esorbitante. Mi preoccupa che non ci sia alcun accordo sul dopo: chi lo gestirà? I peshmerga? Gli iraniani? I sunniti? Rischiamo di avviarci verso una nuova guerra civile in Iraq. Senza una gamba politico-diplomatica, ogni intervento militare è monco, come insegna la cacciata di Gheddafi". Turchia. Erdogan dice qualcosa anche a noi di Piero Sansonetti Il Dubbio, 7 novembre 2016 La retata di parlamentari curdi, in Turchia, parla anche a noi. La Turchia è una grande potenza, candidata a far parte dell’Unione europea; il Parlamento è democraticamente eletto, col voto popolare, e così il governo. Qualche mese fa, in Turchia, fu ridotta l’immunità parlamentare e in questo modo è stata resa possibile la retata di parlamentari filo-curdi che è stata eseguita venerdì dalla polizia. La possibilità che i parlamentari siano arrestati, senza una procedura politica di garanzia, è l’atto antidemocratico per eccellenza. Successe nell’America latina degli anni settanta, successe in Grecia nel 1967, e prima ancora era successo in Italia all’epoca del fascismo. Da oggi possiamo dire tranquillamente che in Turchia la democrazia ha subito una svolta autoritaria che ne ha sfregiato l’aspetto e la sostanza. Si dice: la Turchia è lontana, la Turchia non ha le nostre tradizioni democratiche né il livello del nostro dibattito. Da noi questo rischio non c’è. Può darsi. Eppure a me è capitato in queste ultime settimane di ascoltare in varie trasmissioni televisive molti giornalisti e leader politici indignarsi perché nel nuovo Senato esisterà l’immunità parlamentare, e questo limiterà le possibilità di indagine della magistratura, e ho sentito illustri commentatori chiedere al governo di cancellare l’immunità parlamentare al Senato e anche alla Camera. La stragrande maggioranza dei cittadini italiani, e anche dei giornalisti e di molti opinionisti, è convinta che in Italia esista una "immunità" che impedisce ai magistrati di indagare sui parlamentari. In realtà sarebbe logico se fosse così, visto che la Costituzione prevede l’indipendenza dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e in effetti i cosiddetti "Padri Costituenti" - oggi molto celebrati ma molto poco conosciuti - avevano previsto questa elementare misura democratica. Ma nel 1993 fu spazzata via da un voto unanime della Camera, sollecitato dalla Procura di Milano, al quale si opposero soltanto il nostro collaboratore, allora deputato, Giuseppe Gargani a altri tre parlamentari. L’immunità parlamentare, in Italia, non esiste più da 23 anni. È restata solo la misura elementare di protezione della democrazia che consiste nell’impossibilità di arrestare un parlamentare senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Cioè esattamente quella misura che esisteva anche in Turchia, finché Erdogan non l’ha fatta cancellare dando vita a un processo di estinzione della democrazia. È questa misura che gran parte degli opinion leader, che dominano nelle nostre Tv e nei giornali, vorrebbero - come Erdogan - cancellare. È solo a futura memoria che dico questo. Non sono sicuro che Erdogan sia così lontano. Se qualcuno, magari anche da dentro la magistratura, volesse segnalare questo pericolo, vivrei più tranquillo. Ma temo che non succederà. Regno Unito. Il Card. Nichols chiede attenzione alle persone senza dimora e alle carceri di Lisa Zengarini radiovaticana.va, 7 novembre 2016 L’attuale emergenza abitativa nel Regno Unito si affronta cominciando dalla prevenzione, ossia intervenendo sulle cause che costringono sempre più persone a vivere per strada o in alloggi di fortuna. Lo ha detto il card. Vincent Nichols, durante il ricevimento annuale in Parlamento della Caritas Social Action Network (Csan), la rete delle associazioni caritative cattoliche britanniche. Il numero dei senza fissa dimora in Gran Bretagna è raddoppiato dal 2010 ed è aumentato del 30% nel solo 2015. Secondo le stime ufficiali riportate dal quotidiano The Guardian, ogni notte nel Paese 3.569 persone dormono all’addiaccio. A questi - ha osservato il primate cattolico inglese - sono da aggiungere i tanti "homeless nascosti", soprattutto giovani, che riescono a trovare sistemazioni di fortuna temporanee. Per fare a fronte a questa emergenza - ha sottolineato - occorre intervenire prioritariamente sulla prevenzione, perché sono tante le circostanze della vita che espongono le persone al rischio concreto di perdere un tetto sotto cui dormire: difficoltà finanziarie, una separazione, situazioni di tossicodipendenza, di alcolismo, la condizione di ex detenuto. I tagli della spesa pubblica di questi anni a sostegno delle famiglie e persone in difficoltà hanno aggravato il problema, aumentando il carico di lavoro sulle charities locali che svolgono una preziosa opera di aiuto ai senza casa. In questo senso, il card. Nichols ha salutato positivamente il recente annuncio del Ministro per le comunità e le amministrazioni locali, Marcus Jones, di nuovi stanziamenti da parte del suo dicastero per programmi di prevenzione e il finanziamento di alloggi in locazione a prezzi accessibili. Il ministero stanzierà anche 40 milioni di sterline a favore delle organizzazioni caritative. Il primate inglese ha ribadito, da parte sua, la disponibilità della Chiesa a collaborare più strettamente con le autorità su questo fronte. Nel suo intervento l’arcivescovo di Westminster ha poi parlato dell’emergenza carceri. Le prigioni britanniche, sovraffollate e con elevati tassi di violenza, autolesionismo e suicidi, sono infatti al collasso, come ha ammesso il precedente Premier Cameron che lo scorso febbraio aveva dichiarato l’intenzione dell’esecutivo di presentare un progetto di riforma del sistema penitenziario per migliorare la drammatica situazione degli oltre 85mila detenuti nel Paese. Proprio al tema della riforma carceraria - ha annunciato il card. Nichols - è dedicato un nuovo documento della Conferenza episcopale inglese e gallese (Cbcew) dal titolo "The Right Road" ("La strada giusta"). Partendo da un precedente documento pubblicato 12 anni fa intitolato "A Place of Redemption" e ispirandosi alle esperienze sul campo delle charities cattoliche, dei cappellani carcerari ed esperti, il testo presenta una serie di proposte concrete di riforma incentrate su nuova visione del sistema penale, attenta al recupero e alla riabilitazione dei detenuti per il loro reinserimento nella società, senza trascurare il sostegno alle vittime.