Sistema carcerario, gesti simbolici e azioni concrete di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 novembre 2016 La proposta di delega al governo giace impantanata. Occorre tirarla fuori e procedere. Se 15 detenuti usando la violenza avessero scatenato una rivolta carceraria e fossero saliti sul tetto di San Vittore o di Poggioreale, avrebbero già monopolizzato l’attenzione 24 ore su 24 di dirette tv e paginate di giornali. Invece è una non-notizia, nel senso che non è notiziato, il fatto che non 15 ma 15.000 dei 55.000 detenuti stiano digiunando oggi non per protestare, ma come gesto di non violenza per aderire (ad esempio con Acli, Libera, Comunità di Sant’Egidio, Cgil e 40 parlamentari di vari partiti) all’odierna "Marcia per l’amnistia, la giustizia, la libertà" promossa dal Partito Radicale dal carcere romano di Rebibbia a piazza San Pietro e intitolata a "Marco Pannella e Papa Francesco", proprio nello stesso giorno del "Giubileo dei Carcerati" fortemente voluto dal Pontefice come penultimo evento del Giubileo della Misericordia. È solo il più eclatante esempio della miope inconsapevolezza che ancora circonda le questione del sistema penitenziario, cruciale nella qualità della esecuzione della pena (salute, percorsi rieducativi, scuola e lavoro, logistica) e non riducibile invece soltanto al sovraffollamento carcerario, che peraltro, pur mitigato rispetto ai 67.000 detenuti del 2011, torna a dare segnali preoccupanti con quasi duemila detenuti in più in 12 mesi e con 55.000 presenze in una capienza dichiarata di 50.000 posti teorici. Inconsapevolezza confermata pure dal bizzarro riscontro della visita mercoledì a Brescia del ministro della Giustizia Orlando, da tempo convinto "evangelizzatore" dell’ovvietà (purtroppo non così scontata) per la quale non ha senso continuare a spendere 3 miliardi di euro l’anno per un sistema carcerocentrico se poi come risultato esso produce, in chi esce dal carcere una volta espiata la pena, tassi di recidiva (e quindi di insicurezza per i cittadini) incomparabilmente superiori alle "ricadute" delinquenziali dei detenuti che scontino invece parte della propria pena in forme alternative al carcere, specie se in un percorso di istruzione e di avviamento al lavoro "vero" (che oggi esiste solo per un fortunato 3 per cento dei detenuti): dell’interessante intervento del Guardasigilli non è passata una riga sui media, salvo che "nel 2018 si farà il nuovo carcere a Brescia", unica briciola di notizia subito recepita nella versione locale del pseudo-salvifico luogo comune carcero-centrico, alimentato peraltro anche da settori della magistratura e dall’attuale dirigenza Anm. E così finirà che toccherà ancora a Papa Francesco, con il potente gesto di oggi, spendersi - come già il 23 ottobre 2014 nel discorso all’Associazione internazionale di diritto penale - per testimoniare che non si smette di essere persone per il solo fatto di essere imprigionati a motivo del reato commesso; per avvertire che "si è affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative"; e per contrastare la mentalità diffusa che solo con "una pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina". Eppure, per non sprecare l’inversione di tendenza che timidamente sembrava poter attecchire (a fronte di 55.000 detenuti stanno scontando la propria pena in misure alternative al carcere altri 33.200 condannati), sarebbe importante andare oltre i "gesti simbolici". Lo è stato indubbiamente quello di Renzi il 28 ottobre a Padova, primo presidente del Consiglio a visitare un carcere. Ma per evitare che si risolva nell’ennesima toccata e fuga, l’occasione di fare invece qualcosa di concreto ci sarebbe. Ormai 7 mesi fa, infatti, si sono conclusi gli "Stati generali dell’esecuzione della pena" convocati dal ministro Orlando nel maggio 2015 per trarre utili indicazioni dalle migliori competenze del settore, riunite in 18 tavoli di studio. Questo prezioso lavoro, coordinato dal professor Glauco Giostra, ha alimentato una unanimemente apprezzata proposta di delega al governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario, che però da allora giace impantanata perché improvvidamente mescolata nell’eterogeneo calderone del disegno di legge sul processo penale, notoriamente paralizzato da veti politici incrociati sui divisivi temi della prescrizione e delle intercettazioni. Tirarla fuori da questa palude, e mandarla avanti da sola per una spedita approvazione, questo sì che sarebbe un "gesto simbolico". Il carcere, le "ombre", l’(im)possibile. Oltre le sbarre di Danilo Paolini Avvenire, 6 novembre 2016 L’affermazione può sembrare stramba parlando di carceri, eppure il Giubileo dei detenuti che si celebra oggi (ma fin qui tutto il pontificato di Francesco) rappresenta una spinta in uscita. L’invito è a ricongiungere ciò che il male compiuto dagli uomini ha separato, a comprendere che la prigione è parte integrante della società e non un inferno terrestre da chiudere il più ermeticamente possibile per poi gettare la chiave. "Visitare i carcerati" è una delle opere di misericordia corporale. Ma nell’Anno Santo che ha voluto dedicare alla misericordia, papa Bergoglio ha chiamato le donne e gli uomini "liberi" (e quindi anche i governi di tutto il mondo) a fare qualcosa di più arduo: lasciarsi visitare dai carcerati, dalle loro pene, dalle loro colpe, dalle loro paure, dai loro rimorsi e rimpianti, dai loro diritti di essere umani troppo spesso calpestati. "A volte potrebbe sembrare che le carceri si propongano di mettere le persone in condizione di continuare a commettere delitti, più che promuovere processi di riabilitazione", ha sottolineato nel febbraio scorso visitando il penitenziario messicano di Cereso. Un messaggio universale, di enorme valenza spirituale, civile e sociale. In Italia, è lo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando, in un’intervista che pubblichiamo oggi, a riconoscere che "alcuni passi compiuti finora" in materia carceraria "sarebbero stati impensabili senza il contributo e la spinta delle parole di papa Francesco". Delle parole e degli atti, ci permettiamo di aggiungere, avendo ancora negli occhi l’immagine del Pontefice chino a lavare i piedi ai ragazzi reclusi a Casal del Marmo e ai detenuti di Rebibbia durante le messe In Coena Domini del 2013 e del 2015. Giorni fa anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi, accompagnato da Orlando, ha visitato un carcere, il Due Palazzi di Padova. Un significativo segnale di attenzione da parte di un governo che appena due anni fa è riuscito a "sminare" una condanna per l’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, a risarcire circa 7mila detenuti per il "trattamento inumano e degradante" dovuto al sovraffollamento carcerario. L’operazione è riuscita facendo leva sulla depenalizzazione di alcuni reati, sull’introduzione anche per i maggiorenni della sospensione del processo con "messa alla prova", su un aumentato ricorso alle misure alternative alla detenzione in cella. Dal 2014, secondo l’esecutivo, il tasso di sovraffollamento è sceso dal 146% al 109%. Il dato è contestato dai radicali e da altre realtà impegnate sul fronte penitenziario, perché non terrebbe conto dell’inagibilità di circa 5mila posti. Ma forse sono anche altri i numeri da cui partire per comprendere quanto lavoro c’è ancora da fare per rendere i luoghi di detenzione italiani degni di uno Stato di diritto. Due in particolare: 47 e 652. Il primo riguarda i bambini che vivono in carcere, reclusi da innocenti in quanto sono recluse le loro mamme, e sono 47 di troppo. Il secondo è il totale dei detenuti semi-liberi che lavorano all’esterno, come autonomi o alle dipendenze di datori diversi dall’amministrazione penitenziaria. E sono davvero pochi. Poi ci sono gli "uomini ombra", come si autodefiniscono gli ergastolani "ostativi", coloro cioè che non hanno accesso ai benefici di legge (alcuni tipi di permesso, semi-libertà, libertà condizionale) neanche dopo 26 anni consecutivi di carcerazione. Non si sa quanti siano, perché sul loro conto non esistono statistiche ufficiali, di certo c’è soltanto che scontano una "pena di morte nascosta", come ebbe a dire nel 2014 ancora papa Francesco all’Associazione internazionale di Diritto penale. Sono appena tre zone d’ombra che abbiamo voluto illuminare in un quadro che presenta ancora tante criticità, come gli edifici fatiscenti o vetusti, la carenza negli organici della Polizia penitenziaria e dei mediatori culturali, le condizioni igienico-sanitarie... C’è chi pensa che servirebbe un’amnistia per cercare di ricominciare (quasi) da zero, ma un provvedimento del genere richiede una maggioranza qualificata in Parlamento. Sarebbe un gran gesto, sempre possibile, ma in tutta franchezza improbabile in questo momento politico e data l’attuale composizione delle Camere. Però un’occasione per battere un nuovo colpo la politica ce l’ha ed è contenuta nella riforma del processo penale che stenta a farsi largo tra i lavori del Senato per i veti incrociati all’interno della maggioranza: l’articolo 31 enuncia i princìpi e i criteri per riformare l’ordinamento penitenziario. Ci sono, almeno in potenza, tutte le risposte che il mondo carcerario aspetta da anni. Poi, ovviamente, i decreti delegati andranno riempiti di contenuti, altrimenti sarà stato scritto soltanto l’ennesimo libro dei sogni. Ma intanto è uno sforzo che va fatto perché in carcere, e dopo il carcere, ci siano solo persone e non più ombre. Amnistia e indulto. Articolo 79, la riforma costituzionale che manca di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 6 novembre 2016 La valutazione negativa della Renzi-Boschi si conferma anche considerando l'occasione persa per cambiare norme che si sono rivelate sbagliate. Come il quorum irraggiungibile per le leggi di amnistia e indulto. La valutazione complessivamente negativa - nel merito e nel metodo - della legge costituzionale Renzi-Boschi si conferma anche da una prospettiva particolare: guardando non a quanto prevede ma a ciò che non prevede. Riformare una Costituzione per sua natura destinata a durare nel tempo è, infatti, impresa non meno difficile dello scriverne una nuova, e ciò rende le sue modifiche strutturali evento infrequente. Dunque occasioni da non perdere per porre mano a norme costituzionali rivelatesi sbagliate. Tale è l'articolo 79 della Costituzione, che disciplina l'approvazione delle leggi di amnistia e indulto, già riscritto con apposita legge costituzionale nel 1992. Un caso esemplare di riforma sbagliata da riformare di nuovo: destino che - facile previsione - condividerà con molte delle novità dell'attuale revisione, se mai questa supererà il voto referendario, Da qui un insegnamento generale: in materia costituzionale, l'elogio del fare è sempre fuori luogo, perché fare è verbo transitivo, che si qualifica esclusivamente per il complemento oggetto che regge. Dunque si può fare bene, ma anche fare un errore madornale. Attualmente l'articolo 79 della Costituzione richiede, per approvare una legge di clemenza, che sia "deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale". Si tratta di un unicum normativo. Maggioranze così elevate non sono richieste nemmeno per leggi costituzionali, con il paradosso che è più agevole modificare l'articolo 79 della Costituzione che approvare una legge di amnistia o indulto. Sono quorum che consentono paralizzanti veti incrociati. capaci d'impedire provvedimenti di clemenza (anche quando necessari) o di condizionarne il contenuto (oltre il necessario): basta che un partito si sfili o minacci di sfilarsi dalla monolitica maggioranza richiesta, e il ricatto avrà sicuro successo. Non stupisce, dunque, l'abrogazione di fatto dello strumento: al netto dell'indulto del 2006, sono ormai ventiquattro anni che il parlamento non approva più una legge di clemenza. È un copione andato in scena anche di recente. Strasburgo, 2013: la Corte europea dei diritti condanna l'Italia per un sovraffollamento carcerario così grave da trasformare la pena in un trattamento inumano e degradante. Il solo strumento adatto a interrompere tempestivamente il protrarsi della violazione in atto era un provvedimento di clemenza, come motivatamente richiesto dal presidente della Repubblica, dalla Corte costituzionale, dal vertice dell'Amministrazione penitenziaria, finanche dal Papa. Non è bastato. Si è preferito introdurre riforme, legislative e amministrative, promettenti ma inadeguate: dati ministeriali alla mano, in tre anni siamo passati dal superlativo di un superlativo (sovraffollamento) ad un semplice superlativo. Ma sempre di affollamento carcerario restiamo ammalati. L'esito sarebbe stato diverso, se riforme e clemenza avessero operato in sincrono: ridotta entro la capienza regolamentare la popolazione detenuta con un mirato indulto, il sistema sarebbe rientrato nella legalità consentendo il decollo delle nuove misure. Perché, in un corpo malato, la febbre va abbattuta per poter tentare una cura efficace. Il difetto dell'articolo 79 della Costituzione non è solo negli incredibili quorum deliberativi. La sua formulazione pone altri problemi che si manifestano prima, durante e dopo la sua approvazione parlamentare. In entrata, esso stabilisce che "in ogni caso l'amnistia e l'indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge". Si corre così il rischio che un suo deposito molto anticipato, magari fatto a inizio legislatura a meri fini emulativi minimizzi oltre misura gli effetti temporali della legge di clemenza che verrà. Durante il procedimento parlamentare non è chiaro se le maggioranze richieste si applichino o meno anche alle votazioni sugli emendamenti e su quali di essi. Il rischio di esporre la legge approvata a vizi formali d'incostituzionalità, quindi è sempre dietro l'angolo. In uscita, le maggioranze qualificate raggiunte e l'ampia discrezionalità legislativa in materia "blindano" l'atto di clemenza, sottraendolo a un adeguato controllo del capo dello stato (in sede di promulgazione) e del giudice delle leggi (in sede di sindacato di legittimità costituzionale). Qui, il pericolo in agguato è quello di un abuso legislativo non rimediabile, tenuto anche conto che le leggi di amnistia e indulto non sono abrogabili per via referendaria. Amnistia e indulto, dunque, non si possono e non si debbono concedere. Eppure - come è stato detto - "figurano non in un esoterico diritto consuetudinario, ad arbitrio del sovrano, ma tra gli strumenti di politica criminale che la Costituzione repubblicana metteva a disposizione del legislatore". Allora come mai, oggi, rappresentano un vero tabù? La clemenza è indubbiamente strumento delicato. perché consente alla politica di agire sulla giurisdizione: estinguendo processi in corso o riducendo condanne in esecuzione. La sua concessione, tuttavia, rientra nell'orizzonte di una sanzione tesa al recupero sodale del reo: questo, infatti è il vincolo costituzionale che accompagna la pena da quando nasce "fino a quando in concreto si estingue" (sentenza numero 313/1990). Se sono croniche, l'irragionevole durata dei processi e le condizioni inumane dietro le sbarre precludono questo disegno costituzionale. È allora che il ricorso alla clemenza s'impone, per chiudere una drammatica falla nel sistema delle garanzie e dei diritti. Rappresenta una risorsa preziosa proprio in quanto fusibile di un circuito inceppato. Contro una legge di amnistia e indulto pesano, invece, radicati pregiudizi. Il suo abuso in passato, quando tra il 1953 e il 1990 venne approvata - in media - ogni triennio. La sua efficacia palliativa rispetto a problemi strutturali, destinati inevitabilmente a riproporsi. L'enfasi sulla paura collettiva per la messa in libertà anticipata di detenuti (che non hanno scontato integralmente la loro pena) e di imputati (che l'hanno fatta franca). La conseguente retorica della vittimizzazione secondaria di chi ha subito il reato. La maschia preoccupazione di non mostrare uno stato debole, disubbidiente al comandamento della tolleranza zero. Detto altrimenti: essere contrari a un atto di clemenza è molto popolare, assicura facile consenso e garantisce dividendi elettorali. Scritta in piena Tangentopoli da un parlamento assediato dal risentimento popolare, l'attuale formulazione ostativa dell'articolo 79 fu (anche) una risposta a tali pulsioni giustizialiste. Qui, però, la demagogia fa a pugni con il ripristino della legalità, che non può dipendere dalle piazze. Quando costringe gli imputati in un limbo infinito e i condannati in un inferno disumano, lo stato viola la sua stessa Costituzione e i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani. A ciò deve porre obbligatoriamente riparo, e presto, esercitando tutte le sue prerogative. E, tra queste, la Costituzione annovera anche le leggi di amnistia e indulto quali strumenti di deflazione giudiziaria e carceraria. Il vero problema, allora, non è se approvare una legge di clemenza, bensì come congegnarla e, prima ancora, restituirle agibilità politica e parlamentare. Il che riporta il discorso alla necessaria revisione dell'articolo 79. La riforma costituzionale Renzi-Boschi si limita a riservare - correttamente - l'approvazione delle leggi di amnistia e indulto alla Camera dei deputati, in quanto strumento di politica criminale. Per tutto il resto, conferma il testo vigente, invece, sarebbe stata necessaria una sua modifica più incisiva e articolata: il tavolo 16 dei recenti Stati generali dell'esecuzione penale, promossi su impulso del guardasigilli Orlando, ne traccia così le linee guida: 1) Imputare la relativa iniziativa legislativa al solo governo, quale scelta riconducibile al suo indirizzo politico. Sarebbe così l'esecutivo a cristallizzare l'efficacia temporale massima dell'atto di clemenza, decidendo quando depositare il disegno di legge. 2) Riservare all'assemblea parlamentare l'intera sua discussione ed eventuale approvazione, nella logica della clemenza collettiva quale prerogativa politica esclusiva del parlamento da esercitarsi sotto il massimo controllo pubblico possibile. 3) Subordinare amnistia e indulto alla sussistenza di presupposti rimessi alla valutazione del legislatore, debitamente motivati in un apposito preambolo alla legge. In questo modo il contenuto materiale dell'atto di clemenza (la selezione dei reati inclusi nel provvedimento, l'arco temporale di operatività della legge, le sue eventuali condizioni d'efficacia) sarebbe costretto dentro una trama obbligatoriamente coerente con i suoi presupposti. 4) Rendere così possibile la verifica di tale coerenza normativa, costituzionalmente imposta alla legge di amnistia e indulto. 5) Ridimensionare i quorum richiesti per l'approvazione del provvedimento di amnistia e indulto, pur conservandone la natura di legge rinforzata. Ad esempio, prevedendo la maggioranza assoluta dei componenti della Camera nella sola votazione finale. Di tutto ciò la riforma in corso colpevolmente tace. Ragione in più per dirle, come lo scrivano Bartleby, "Preferirei di no". Intervista al ministro Orlando: grazie al Papa più dignità per i detenuti di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 6 novembre 2016 Il ministro fa il bilancio dell’operato del governo: nelle carceri 54.900 detenuti presenti su una capienza di 50mila. Entro il 2017 altri 800 posti. "Nel 2013, quando l’Italia fu condannata dalla Corte europea con la sentenza Torreggiani, i detenuti erano 65.905 a fronte di 46mila posti. Oggi sono 54.912, su 50.062 posti. E ne realizzeremo altri 800 entro fine anno e 600 a metà 2017...". Nel giorno del Giubileo dei detenuti, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ragiona con Avvenire dei problemi del pianeta carcere e delle possibilità di cambiarlo, partendo da un’ammissione affatto scontata per un "laico", per storia politica e convinzioni personali, come lui: "Alcuni passi compiuti finora sarebbero stati impensabili senza il contributo e la spinta delle parole di papa Francesco, che ha posto la questione del rispetto della dignità dei detenuti, della misericordia come cardine dell’intero Giubileo. Ci ha aiutato ad affrontare un clima sociale a volte ostile, perché strumentalizzato da "imprenditori della paura" che rendono difficile fare capire alla gente che esistono diritti fondamentali per ogni essere umano, quale che sia l’errore commesso...". Dati alla mano, il sovraffollamento carcerario appartiene al passato? I provvedimenti messi in campo hanno fatto calare il tasso dal 146% al 109, in linea con altri Paesi europei e più basso di Regno Unito (111) e Francia (119). Tutti i detenuti sono in celle che rispettano il parametro minimo di 3 metri quadri calpestabili a persona. Perciò, la Corte di Strasburgo ha restituito i ricorsi all’Italia. Non solo: 3 anni fa gli individui "trattati" dal sistema penale erano 87mila. Ora sono 94mila, ma le misure alternative sono raddoppiate, da 21mila a 40mila, e ciò dimostra che si può perseguire la sicurezza con minor ricorso al carcere. Infine, è lievemente sceso il dato di chi attende il giudizio di primo grado: dal 35,1% al 33,6. Ciononostante, il senso di umanità e la rieducazione previsti dall’articolo 27 della Costituzione spesso latitano. Perché? Manca una profonda trasformazione della vita penitenziaria. Il modello è "passivizzante": ti dice "non fare niente di male", ma non ti invita a fare "qualcosa di bene". Puntiamo a far approvare la delega sull’ordinamento penitenziario contenuta nella riforma penale, per costruire un nuovo tipo di trattamento, che metta alla prova le persone offrendo possibilità di riscatto. Ma lo stallo in Senato sulla riforma, dovuto allo scontro sulla prescrizione, è superato? Il testo è quello uscito dalla Commissione. Il presidente del Consiglio mi ha garantito che intende procedere verso la sua approvazione. Lunedì scorso, durante la visita che abbiamo fatto al carcere Due Palazzi di Padova, un detenuto gli ha detto: "Fate presto, mettete la fiducia!". La prossima settimana ci sarà una riunione dei capigruppo per calendarizzare il testo in Aula e poi, spero, si andrà al voto. Torniamo al carcere. Il lavoro scarseggia o è trattato in modo degradante: chi fa la sarta viene chiamata "rattoppina", l’addetto alle pulizie "scopino". Epiteti sgradevoli, che oltretutto non faranno curriculum quando il recluso uscirà... Ho dato disposizione affinché quella terminologia sia superata, in favore di espressioni corrette, usate anche "fuori". E stiamo pensando a una struttura unica che si occupi del lavoro in carcere. I dati dicono che siamo sulla buona strada. Quali sono? Al 30 giugno, si contavano 12.903 detenuti ammessi al lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria; altri 2.369 dipendenti da imprese e cooperative, di cui 936 negli istituti, 781 all’esterno e 652 in semilibertà. Stiamo spingendo sulle convenzioni con gli enti locali: grazie a un accordo col Campidoglio, 100 reclusi sono stati impiegati nel ripristino di aree urbane durante il Giubileo. La tossicodipendenza in carcere resta un problema gravissimo... Il tossicodipendente deve poter scontare la pena in una comunità di recupero. Ma alcune Regioni non garantiscono i posti che si erano impegnate a offrire. Serve una vigilanza più severa, anche mettendo in mora quelle Regioni che si sottraggono... Gli stranieri in carcere sono tanti, ma interpreti e mediatori culturali scarseggiano... Il problema esiste, dato che un detenuto su tre è straniero, e nella legge di Bilancio sono previste risorse per l’assunzione di mediatori culturali... Lei ha visitato "a sorpresa" diversi istituti. Cosa ha trovato? Ci sono strutture esemplari come Bollate o come Padova, che come dicevo ho visitato insieme al presidente del Consiglio Matteo Renzi, il primo premier italiano a farlo. Ma sono rimasto sorpreso dai progressi a Poggioreale: non è più una realtà invivibile. Alcuni istituti, a Savona e Sala Consilina, erano inadeguati e li ho fatti chiudere, ma il secondo ora rischia di dover riaprire per un ricorso al Tar. Chiudere un carcere, perfino strutture vergognose, non è semplice, ma abbiamo un piano e lo stiamo rispettando. E il personale impegnato nella custodia e nella cura dei detenuti? Nella legge di Stabilità, ci saranno interventi in favore della Polizia penitenziaria, così come di educatori e psicologi. E vorrei esprimere apprezzamento per le figure religiose, come cappellani o imam autorizzati alla predicazione in carcere: la loro azione "umanizzante" è preziosa, anche sul fronte del contrasto alla radicalizzazione, nuova minaccia nei penitenziari. Nonostante gli appelli, l’adozione di provvedimenti di clemenza, come l’amnistia, resta una chimera? La praticabilità politica di un provvedimento di clemenza è ardua: per l’amnistia occorrono i due terzi del Parlamento. Ciò detto, quando lo si è fatto in passato, la deflazione è durata poco. Servono interventi strutturali ed è ciò che stiamo facendo... In Italia la pena capitale non esiste, ma c’è l’ergastolo, definito dal Papa "una pena di morte nascosta", perché priva di speranza. Pensa che potrà essere abolito? È una discussione aperta. Ma credo che, finché mafie e gruppi terroristici non saranno debellati, sia difficile pensare a un suo superamento. Aggiungo che, sull’abolizione mondiale della pena di morte, ci riconosciamo nelle parole del Papa. E come membro del governo sono fiero di quanto l’Italia sta facendo nel sostegno alla moratoria internazionale: siamo capofila in questa battaglia. Giubileo dei detenuti: dalle ostie prodotte in carcere all’abolizione del "fine pena mai" Redattore Sociale, 6 novembre 2016 Il pontefice, che celebra oggi il Giubileo dei detenuti, consacra le ostie prodotte da un gruppo di detenuti di Opera. Grazie al progetto "Il senso del Pane", 600 mila Ostie della Misericordia sono arrivate in 300 parrocchie di tutto il mondo. Marazziti, presidente Commissione Affari sociali: "Rivedere il fine pena mai: nessuna pena può escludere riabilitazione e speranza. Due persone su tre tornano in carcere dopo aver scontato tutta la pena: bisogna cambiare". Per i detenuti di tutto il mondo, oggi è il giorno del Giubileo. E della Misericordia. Papa Francesco celebra infatti, ieri e oggi, il Giubileo delle carceri, ricevendo in pellegrinaggio detenuti con i loro famigliari, personale penitenziario, cappellani delle carceri, associazioni che offrono assistenza all’interno e all’esterno delle carceri. E ci sarà anche, dall’istituto penitenziario milanese di Opera, il gruppo di detenuti che, grazie al progetto "Il senso del Pane", ha prodotto fino ad oggi circa 600 mila ostie "della misericordia", recapitandole poi a oltre 300 parrocchie in tutto il mondo. Il pontefice ritornerà a consacrare il frutto del loro lavo, che ha già benedetto nel giorno di Pentecoste, quando ha ricevuto in udienza i detenuti. E proprio in occasione del Giubileo dei detenuti, interviene Mario Marazziti (Demo.s-CD), presidente della Commissione Affari Sociali della Camera dei deputati, promotore alla Camera dell’Intergruppo "Carcere, umanizzazione, esecuzione della pena, riabilitazione" e primo firmatario dei disegni di legge per l’abolizione dell’ergastolo ostativo e per l’amnistia e l’indulto. "Nessuna pena può escludere la possibilità della riabilitazione e la speranza - afferma - Purtroppo un tasso di recidività del 67 per cento per chi sconta tutta la pena è l’indice più evidente di una trasformazione della pena e della sua utilità, fino a trasformarsi nel suo contrario. Se due persone su tre tornano in carcere dopo avere scontato tutta la pena è una intera società che deve chiedersi cosa cambiare e come cambiare il sistema carcerario e giudiziario". E a proposito di indulto e amnistia, "aspetta da due anni il mio disegno di legge sulla abolizione del cosiddetto "fine pena mai", che riguarda più di mille persone legate al crimine organizzato. Mentre ho depositato con Fabrizio Cicchitto e altri colleghi un disegno di legge realistico per l’amnistia e l’indulto non indiscriminati, per i reati che non creano allarme sociale, che non incrina il concetto della certezza della pena, ma che anticiperebbe il tempo del recupero sociale delle persone che hanno sbagliato per reati non gravi. Senza mettere in discussione la definitività della pena, occorre immaginare un patto educativo anche con chi ha compiuto i crimini più gravi, che permetta, a condizioni chiare, se rispettate, la possibilità di riconsiderare le modalità della pena stessa, riaprendo la porta alla speranza. E al cambiamento in meglio della persona". Carceri, marcia per l’amnistia: il corteo per il rispetto dei detenuti di Veronica Di Benedetto Montaccini ofcs.report, 6 novembre 2016 Anche 12mila detenuti aderiscono allo sciopero della fame. Radicali: "Per denunciare situazione illegale". Nelle carceri italiane ci sono 1.318 detenuti in più rispetto al 2015, 55mila in tutto. Significa un sovraffollamento del 108% e diritti che non vengono rispettati, come ha sottolineato anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha richiamato il nostro Paese per i trattamenti inumani e degradanti dietro alla sbarre. Persone picchiate, bisogni fatti davanti a tutti, pene lunghissime, nonnismo, zero igiene, come si legge anche nell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone. In questo contesto è stata indetta una marcia per la battaglia per una legge sull’amnistia. "L’obiettivo è quello di arrivare ad esaminare il ddl Manconi", spiegano il Partito radicale e Unione camere penali, i promotori della marcia che il 6 novembre 2016 parte dal carcere di Rebibbia a Roma. L’ex segretaria del Partito Radicale, Rita Bernardini, sta proseguendo lo sciopero della fame, che ha raggiunto ormai 28 giorni. Un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica, come da tempo faceva anche il leader "spirituale" Marco Pannella, deceduto lo scorso 19 maggio. Una battaglia iniziata da Pannella che però si trasforma, nel giorno del giubileo dei carcerati, in una manifestazione trasversale a cui partecipano cattolici, associazioni, movimenti, partiti di ogni colore e anche più di 12mila detenuti in modo non violento con uno sciopero della fame. "Chiariamo che per i detenuti - spiega a Ofcs Report Rita Bernardini - serve l’indulto mentre l’amnistia ai magistrati, perché sfoltisce i processi. Sì, per i detenuti si spende molto, 3 miliardi. Ma non sono per i detenuti, e noi che entriamo nelle carceri lo sappiamo bene. Abbiamo avuto continui richiami Ue. Siamo l’unico paese oggetto di una condanna pilota per Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha riconosciuto che i nostri trattamenti inumani e degradanti sono strutturali: significa che continuano nel tempo e riguardano la quasi totalità degli istituti". Ci sono quattro ddl in attesa di analisi, quello a firma del senatore Manconi ridà in mano al Parlamento la decisione sull’amnistia perché chiede di cambiare il voto con maggioranza dei 2/3 ad oggi sempre irraggiungibile con una maggioranza assoluta, per tornare a decisioni più giuste. L’idea finale che si vuole raggiungere è che non si vada più in carcere inutilmente, che le pene non durino tempi esagerati e lo stesso i processi, che la rieducazione sia il fine ultimo del carcere, con una possibilità di vita anche dopo le sbarre. "Gli articoli 24, 27 e 111 sono articoli trascurati che non piacciono - commenta il segretario dell’Unione camere penali, Raffaele Petrucci - vanno più di moda riferimenti populisti. Quando i nostri costituenti pensavano alla pena, si riferivano ad una possibilità di recuperare la vita. Beccaria attualissimo. La rieducazione, oltre ad essere un dovere, permette di abbattere i costi sociali. Il carcere porta ad altro carcere ciclicamente, mentre è stato dimostrato che le esperienze che permettono di riabilitarsi nella società sono quelle con minor costo sociale e che dovremmo favorire". Il fatto che l’amnistia in Italia sia vista ancora così male, anche culturalmente, porta a fenomeni grigi, come quello raccontato dal presidente di Unione camere penali, Beniamino Migliucci: "Ci sono dei dati che confermano che nelle indagini si matura gran parte delle prescrizioni, circa il 60%. Non è per incolpare la magistratura, ma gran parte dei procedimenti arrivano alle procure. E questa è una riforma strutturale che chiediamo da tempo, per non arrivare a provvedimenti emergenziali. C’è così un’amnistia strisciante, ci sono delle procure che riescono ad imporsi, altre che invece per mancanza di mezzi o di soldi non riescono allo stesso modo. I pubblici ministeri diventano signori delle prescrizioni e delle amnistie e non dovrebbe essere così. E questo è un fatto assolutamente di ingiustizia. Qualche procedimento va più speditamente degli altri. Queste scelte di valore dovrebbero essere fatte dal Parlamento per l’articolo 32 bis. Dobbiamo ripristinare le legalità, in questo modo forse non servirebbe neanche arrivare a chiedere a gran voce l’amnistia". L’obiettivo della marcia è tornare a far parlare del problema del sovraffollamento delle carceri e del richiamo per trattamenti inumani che l’Europa ha fatto al nostro paese e poi ridare un significato diverso alla parola amnistia, non come "liberazione di delinquenti" ma come simbolo di democrazia. Carceri: parte da Regina Coeli la marcia dei radicali, arriverà fino a Piazza San Pietro Avvenire, 6 novembre 2016 Alla manifestazione dedicata a Pannella e al Papa, hanno aderito anche Acli e Libera. Sfileranno uniti i Radicali, domenica a Roma, dal carcere di Regina Coeli a piazza san Pietro. L’edizione 2016 della "Marcia per l’amnistia, la giustizia, la libertà" è fortemente condivisa dalle due anime degli eredi politici di Marco Pannella, le cui divergenze alla morte del leader storico sono state palesate dal XV Congresso. Da una parte i fedelissimi al progetto originario del vecchio leader, guidati da Maurizio Turco e Rita Bernardini, con l’ala di "Nessuno tocchi Caino", contrari a essere ingabbiati nella logica partitocratica con quello che risulterebbe un "partitino". Dall’altra le nuove leve di Riccardo Magi, che si sono strette negli ultimi mesi della malattia al vecchio guru, intenzionate a incidere, specie a livello locale, come soggetto politico proprio in nome delle campagne pannelliane. Ma la storica battaglia contro il sovraffollamento delle carceri e le difficili condizioni dei detenuti in Italia restano tra i temi fondamentali su cui il partito-movimento si ricompatta e cerca di tenere alta l’attenzione. Di qui la voluta coincidenza della manifestazione, intitolata a "Marco Pannella e papa Francesco", con il Giubileo dei carcerati, e l’arrivo del corteo all’interno del Colonnato di Bernini previsto verosimilmente per il culmine della celebrazione. In queste settimane proprio i radicali della vecchia guardia hanno cercato un dialogo anche con il nostro giornale, rivolgendosi al direttore Marco Tarquinio, con una lettera e una risposta dalle quali è scaturito un intenso dibattito su cosa significa battersi per la vita "senza intermittenze". Sulla necessità di umanizzare i luoghi di detenzione e riabilitazione dei carcerati i due mondi "sono in stereofonia", ricordano volentieri Turco e Bernardini, riprendendo le parole usate dallo stesso Tarquinio nella replica alla lettera del 20 ottobre scorso firmata dai rappresentanti del "Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito". Come fu già con Giovanni Paolo II, più volte citato dai radicali per il suo impegno a favore dei detenuti, la grande e sentita attenzione di Francesco, culminata nel potente gesto di indire il Giubileo delle carceri, ha lasciato il segno. "La marcia - dice Bernardini - è il nostro modo di sostenere il Papa, che sul tema si è speso molto". Ieri l’ex-segretaria - da ventisei giorni in sciopero della fame per accendere i riflettori sul dramma dei detenuti - ha organizzato una conferenza stampa davanti alla sede della Rai di viale Mazzini, per protestare contro il servizio pubblico, accusato di non informare dovutamente i cittadini sulla Marcia. Con lei anche il tesoriere Maurizio Turco. La manifestazione, comunque, ha avuto eco nel mondo politico, sindacale e dell’associazionismo, da dove arrivano diverse adesioni. Oltre a 40 parlamentari di diversi partiti (da Martino e Matteoli di Forza Italia, a Cicchitto di Ncd, da Verini del Pd ai capigruppo di Sel di Camera e Senato, Fratoianni e De Petris), anche la Cgil, le Acli e Libera. E all’iniziativa dell’anima "lealista" dei pannelliani aderiscono convinti anche i "giovani" Radicali italiani, guidati da Magi. "Alla crisi della giustizia e al suo riflesso nelle drammatiche condizioni delle carceri italiane sono strettamente legate le nostre principali iniziative", sottolineano. Magi (Radicali Italiani): "in marcia per l’amnistia, ma anche per l’antiproibizionismo" di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 novembre 2016 Parla Riccardo Magi, segretario di Radicali Italiani: "A rischio, per colpa della burocrazia, le 60 mila firme raccolte a sostegno della legge per la legalizzazione della cannabis". Dall’Fp-Cgil all’Unione delle camere penali, si allunga di ora in ora la lista delle adesioni alla "Marcia per l’Amnistia, la Giustizia e la Libertà" intitolata a Marco Pannella e a Papa Francesco indetta per questa mattina a Roma dal Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito, in occasione del Giubileo dei carcerati. Un’iniziativa attorno alla quale si ricoagula tutta la galassia radicale, dopo i recenti e ancora non sopiti mal di pancia interni, compresa Radicali italiani che ha recentemente chiuso il suo congresso riconfermando Riccardo Magi segretario. Emma Bonino lo ha detto chiaramente: nessuno si senta il vero e solo erede di Pannella. Infatti anche voi oggi sfilerete dal carcere di Regina Coeli a Piazza San Pietro per chiedere l’amnistia, in nome di Marco Pannella e del Papa. Ma che senso ha oggi una tale richiesta, accostando due persone così diverse? Non è un po’ una forzatura? No, non lo è. Innanzitutto perché l’amnistia, come diceva Marco, serve per far rientrare le istituzioni italiane nella legalità. Il cui confine è dato dalle leggi italiane, dalla Costituzione e anche dagli standard internazionali, basti pensare alle tante condanne ricevute della Cedu. Nonostante ci sia una diminuzione generale dei detenuti, sappiamo che la situazione delle carceri italiane resta drammatica. Quindi l’amnistia rimane comunque l’unica soluzione per tornare allo stato di diritto. Perché intitolarlo a due persone così diverse? Non lo trovo strano: c’è stata oggettivamente una convergenza tra il messaggio del Pontefice e quello, pienamente politico ma anche molto spirituale, soprattutto negli ultimi anni, di Marco. Basti pensare al richiamo di oggi (ieri, ndr) di Papa Bergoglio su un’altra questione centrale sulla quale siamo impegnati: quella dell’accoglienza e dell’inclusione degli immigrati. La convergenza però si ferma agli atti di clemenza, perché è difficile che Papa Francesco condivida la vostra politica antiproibizionista. Infatti questo ci contraddistingue. Durante il congresso, che ha avuto un esito non scontato, rilanciando un movimento che si è ritrovato unito in una bella atmosfera, abbiamo visto tante nuove persone che si sono avvicinate in occasione della campagna per la legalizzazione della cannabis e per la decriminalizzazione dell’uso di tutte le sostanze stupefacenti. Anche il Guardasigilli Andrea Orlando, intervenendo al congresso di Magistratura democratica, ha denunciato la tentazione crescente di affrontare con la sola risposta penale i problemi sociali. E ha detto che se il tema delle carceri viene affrontato solo nel giorno del Giubileo dei detenuti "è un problema per tutta la sinistra". Il ministro Orlando coglie un punto essenziale: l’illusione che i grandi temi sociali si possano affrontare attraverso la repressione e quindi il diritto penale. Purtroppo è ciò che avviene oggi, visto che un terzo dei detenuti ha subito condanne per violazione della legge sulle droghe e un altro terzo è costituito da immigrati. È evidente che pensare a delle riforme in questi settori è un’urgenza quanto mai pressante e avrebbe effetti positivi immediati anche sul sovraffollamento carcerario. E i cittadini italiani lo sanno: avete superato le 50 mila firme necessarie per portare in parlamento la legge di iniziativa popolare sulla legalizzazione della cannabis. A che punto è l’iter? Nonostante più di 60 mila cittadini che hanno firmato, siamo ancora con il fiato sospeso perché, in base a una normativa "medievale" a cui ancora siamo sottoposti, non bastano le firme ma occorre il certificato elettorale di ciascuno dei firmatari della proposta di legge. Abbiamo dovuto inviare a migliaia di comuni italiani la richiesta, via pec, di questi certificati. Molti non ci hanno ancora risposto, alla faccia dell’amministrazione digitale. E abbiamo tempo fino all’11 novembre per consegnare firme e certificati. Quindi c’è il rischio che la campagna possa naufragare per questo? Sarebbe una cosa estremamente grave. Infatti una delle nostre battaglie centrali è quella per la semplificazione della raccolta di firme attraverso l’identità digitale. Se non si fa almeno questo, la riforma costituzionale, aumentando il numero di firme richieste, rischia di affossare definitivamente referendum e leggi popolari. "Perché loro e non io?" Il carcere nel cuore del Papa, fin dai tempi di Buenos Aires di Lucia Capuzzi Avvenire, 6 novembre 2016 Già da prete e, poi, arcivescovo, visitava con frequenza i detenuti. Da Papa ha continuato a farlo. "Alcuni dicono: sono colpevoli. Io rispondo con la parola di Gesù: chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano". L’uomo con il cleryman nero e il borsello pronunciò la frase mentre si dirigeva alla fermata del bus 109. Aveva fretta di tornare verso il centro, a Plaza de Mayo. La sera del Giovedì Santo amava fare la tradizionale visita a Gesù-Eucaristia in sette chiese. Jorge Rouillon, giornalista del prestigioso quotidiano argentino La Nación, rimase spiazzato dall’umile schiettezza di quel sacerdote che era da poco diventato arcivescovo di Buenos Aires. Era il 1 aprile 1999. Jorge Mario Bergoglio aveva incontrato il cronista all’uscita del carcere di Devoto dove aveva celebrato la Messa e lavato i piedi a un gruppo di detenuti. Quando il reporter gli chiese perché avesse scelto proprio i carcerati, citò il brano evangelico del giudizio universale: "Sono stato prigioniero e siete venuti a trovarmi". Poi, aggiunse: "Il mandato di Gesù vale per ognuno, ma soprattutto per il vescovo che è il padre di tutti". Per la stessa ragione, molto tempo dopo, Bergoglio avrebbe scelto di celebrare il primo Giovedì Santo come successore di Pietro, nella cappella Padre misericordioso del centro di reclusione minorile Casal di Marmo di Roma. "Come prete e come vescovo devo essere al vostro servizio - ha detto quel 28 marzo 2013 -. Ma è un dovere che mi viene dal cuore: lo amo". In questo, uno dei suoi modelli, aveva confessato a Sergio Rubín e Francesca Ambrogetti nel libro-intervista El jesuita (in Italia pubblicato da Salani con il titolo Papa Francesco), è il cardinal Casaroli, che andava a visitare i minori detenuti tutti i fine settimana. San Giovanni XXIII, poco tempo prima di morire, raccomandò all’ormai segretario di Stato: "Non smettere mai di andare da loro". Bergoglio ha fatto suo tale monito: da arcivescovo ha svolto tre visite pastorali alla prigione di Devoto. E da Papa continua a ritagliarsi spazi per chiamare o visitare i carcerati. "Andare" è un verbo cardine del suo magistero. La Chiesa si muove per farsi prossima agli ultimi, agli emarginati, agli scartati. La vicinanza concreta e spirituale ai reclusi tocca, però, anche un’altra corda - altrettanto cruciale - del pensiero e dell’azione del cristiano Bergoglio. L’aveva espresso lui stesso nell’incontro con i cappellani delle carceri dell’ottobre 2013. "Mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro". Tali parole contengono in filigrana quanto già affermato nell’intervista a La Civiltà Cattolica. Alla domanda su chi fosse Jorge Mario Bergoglio, il Papa aveva risposto: "Un peccatore". A cui - aveva proseguito - "Dio ha rivolto i suoi occhi". "Miserando atque eligendo", "Lo guardò con sentimento d’amore e lo scelse": la frase di San Beda il Venerabile a proposito di San Matteo, dunque, è molto più del motto dello stemma di Francesco. È la sua stella polare. Poiché in essa è contenuto il mistero di un Dio disposto a portare su di se il male del mondo pur di dimostrare il proprio amore all’essere umano. Questa è la misericordia tanto spesso richiamata da Francesco. Non sensibilità d’animo o, peggio, buonismo. Bensì la consapevolezza che ogni uomo e donna è oggetto dello sguardo divino. In particolare, coloro che se ne sentono esclusi. "Reclusione non vuol dire esclusione. Capito?", ha detto il Papa ai carcerati boliviani di Palmasola. Per questo, non poteva mancare, in occasione del Giubileo, un momento di condivisione con i detenuti. Anche se stavolta, a muoversi saranno questi ultimi, il pensiero corre al consiglio di Giovanni XXIII a Casaroli: "Non smettere di andare da loro". Magistratura democratica non si scioglie e rilancia di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 6 novembre 2016 Oggi si conclude a Bologna il congresso di Md. Ieri l’intervento del guardasigilli Orlando: andrò alla giornata del Giubileo dei detenuti. Il congresso dell’orgoglio ritrovato: le giornate bolognesi saranno probabilmente ricordate così. Magistratura democratica non si scioglie affatto, e anzi rilancia: la corrente di sinistra delle toghe riafferma le proprie ragioni fondanti, quelle che nel 1964 portarono un drappello di "eretici", riuniti proprio nel capoluogo emiliano, a rompere gli assetti del terzo potere dello stato nel nome dei valori della Costituzione repubblicana. Quella Costituzione aggredita dal governo di Matteo Renzi con la riforma sottoposta a referendum, sul quale ieri è intervenuto uno degli ospiti più importanti del congresso, l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, figura-simbolo del comitato del No, accolto calorosamente: "A chi dice che la prima parte della Carta non è stata toccata, dobbiamo ricordare invece che è stato violato clamorosamente l’articolo 1, perché le modifiche sono avvenute con un atto di sovranità di un parlamento illegittimo, quindi al di fuori delle forme e dei limiti della Costituzione stessa". Inevitabilmente, il referendum è stato anche ieri un tema centrale del congresso: fra i più duri, il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, per il quale la riforma renziana sta in un riassetto "generale dei poteri verso luoghi della sovranità privi di legittimazione democratica, come la Bce e la Commissione europea". Ma si è parlato anche di molto altro. Presenti il guardasigilli Andrea Orlando (Pd) e il numero uno dell’Anm Piercamillo Davigo, la discussione si è incentrata sulle nuove norme in materia di giustizia e sul rapporto fra magistrati e politica. Bruciano ancora le ferite del decreto legge che ha prorogato nel loro ruolo i vertici della Cassazione e aumentato di un anno l’obbligo di permanenza nella stessa sede, mentre poco o nulla si è fatto su questioni come la prescrizione e le carenze di organico. E c’è preoccupazione per le indiscrezioni sulle novità in materia di diritto d’asilo. Per Orlando il governo fa quel che può "in condizioni difficili, essendo la maggioranza una coalizione non omogenea". Il rimedio? Manco a dirlo, "la vittoria del sì al referendum, che consentirebbe la formazione di compagini di governo più compatte". Frecciata verso la platea che, referendum a parte, ha reagito alle sue parole meno negativamente di come avesse fatto il giorno prima nei confronti del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini (anche lui Pd). Non sono più i tempi berlusconiani dell’assedio all’indipendenza, e su questo concordano ministro e magistrati, ma questi ultimi vedono ora un altro pericolo: quello delle "lusinghe". Giudici e pm non più nemici, anzi: troppo amici del potere politico, che offre loro incarichi di ogni genere, nei dicasteri o nelle authority. In forma diversa da prima - viene detto - è lo stesso un’insidia all’indipendenza. In molti interventi risuona la necessità di una nuova intransigenza da parte di Md, anche nei confronti delle derive interne alla corporazione delle toghe. Emilio Sirianni, giudice d’appello a Catanzaro, punta il dito sulla repressione del movimento Notav, "esempio di diritto penale del nemico, su cui deve farsi sentire molto di più la nostra voce critica". Sulla difficile condizione delle carceri richiama l’attenzione la livornese Giuliana Civinini, che denuncia come Md sia l’unica associazione di giudici e pm sensibile al "Giubileo dei detenuti" in programma per oggi. E poi la questione del concorso per l’accesso in magistratura: oggi non possono sostenerlo i neolaureati, perché sono necessari due anni di scuola di specializzazione, ovviamente a pagamento. "È una modalità classista, di fatto possono permetterselo solo le persone che hanno famiglie alle spalle che possano mantenerle", accusa Giulia Locati, giudice di prima nomina a Milano. Altro vistoso neo: il "tetto di cristallo" che, malgrado eccezioni, continua generalmente a bloccare l’ascesa delle donne magistrate agli incarichi direttivi. Il confronto interno sul rapporto fra Md e Area, la coalizione con l’altra corrente progressista, Movimento per la giustizia, ha prodotto una linea condivisa: non ci sarà un annacquamento di Md nella coalizione, come alcuni temevano, ma nemmeno una rottura con gli alleati. Oggi, nell’ultima giornata dei lavori, quest’intesa dovrebbe essere sancita dall’approvazione di una mozione unitaria e dall’elezione di un consiglio nazionale che rappresenti tutte le diverse anime. Si profila già anche un’intesa sul nuovo ticket che subentrerà a Carlo De Chiara e Anna Canepa alla guida dell’associazione: quasi sicuramente sarà composto da Riccardo De Vito, giudice di sorveglianza a Nuoro, e Mariarosaria Guglielmi, pm a Roma, entrambi membri dell’esecutivo uscente. La missione di Orlando tra le "toghe rosse": riforma giusta di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 novembre 2016 Ai giudici che parlano di politica e rivendicano il diritto a farlo, il ministro della Giustizia risponde che ben venga questa discussione. Nonostante le diversità di vedute sulla riforma costituzionale, che ha infastidito il presidente del Consiglio. Non invece il Guardasigilli Andrea Orlando, che si presenta al congresso di Magistratura democratica - la corrente della sinistra giudiziaria schierata per il No al referendum - dicendo: "La vostra posizione è del tutto legittima, anche perché è sfidante. Purché non sia legata alla riforma elettorale, che non piace neppure a me, e io voto Sì anche perché quella legge la stiamo cambiando". Un annuncio che non scalda la platea delle "toghe rosse", poco inclini ad accontentarsi delle promesse. Non per sfiducia in Orlando, semmai è Renzi a provocare sentimenti di scetticismo. Ma si vedrà. Per adesso Orlando cerca di agganciare la nuova Costituzione alle "disuguaglianze" di cui per tre giorni hanno discusso gli aderenti a Md. E Tra gli ospiti Zagrebelsky: "Con la nuova Carta subordinazione totale della politica all’economia" domanda: "Siamo sicuri che l’attuale assetto garantisca che vengano combattute e superate? Io temo di no". Spiega che i tempi lunghi delle decisioni, nel mondo globalizzato, favoriscono il condizionamento dei poteri esterni sulla politica; primo fra tutti quello economico-finanziario. La riforma tende a "riequilibrare i rapporti di forza tra democrazia ed economia, restituendo centralità alla politica". Brusìo in sala. La maggioranza pensa l’esatto contrario. L’ha spiegato il giorno prima il leader della Fiom Maurizio Landini, gradito e abituale ospite come il segretario della Cgil Susanna Camusso: "Questo governo ha tolto diritti ai lavoratori per aumentare quelli delle imprese". Lo ripete il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, che cita Piketty e le politiche keynesiane negate dalle imposizioni della Banca centrale europea: "La politica ha abdicato da tempo al suo ruolo, consegnandosi al neoliberismo di stampo classista". E lo ribadisce il presidente del Comitato per il No Gustavo Zagrebelsky: "Con questa riforma ci sarà una subordinazione totale della politica all’economia. Il che significa subordinare la democrazia, che invece presuppone la totale libertà della politica". Difficilmente la contrapposizione può essere più netta. Ma tra i delegati c’è pure chi voterà Sì; una minoranza che non prende la parola né esce allo scoperto, ma esiste soprattutto nella nuova generazione di magistrati democratici. E che ha trovato sfogo nel "rammarico" espresso dalla sezioni di Md di Catania e Caltanissetta "per la tempistica e le modalità di adesione al comitato per il No", perché non si è tenuto conto delle "posizioni diverse, variegate e non tutte univocamente negative sul contenuto delle riforme costituzionali". Sarebbe stato meglio discuterne prima, protestano, e magari qualcuno avrebbe sostenuto le posizioni del ministro Orlando. Che non dispiace alle "toghe rosse", dalle quali viene stimolato (ad esempio per bocca del pm romano Giuseppe Cascini, molto acclamato) su alcune modifiche da fare subito per migliorare il servizio giustizia. Lui le invita a sostenerlo su altre riforme, come quella carceraria: "Una cosa veramente di sinistra". Applausi. Congresso Md. I magistrati "di sinistra" e la crociata sul jobs act di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 novembre 2016 Evitare il rischio "amarcord". Nessuna nostalgia per i tempi passati, quelli caratterizzati dallo scontro con la politica, ma uno sguardo rivolto al futuro, come dice Nello Rossi. Al ventunesimo congresso di Magistratura democratica in corso a Bologna la seconda giornata ruota tutta attorno a una riflessione sulle diseguaglianze nel terzo millennio e sul ruolo della giurisdizione. Lasciandosi alle spalle il ventennio berlusconiano visto che le emergenze, adesso, sono altre. Proprio Nello Rossi, attuale avvocato generale dello Stato, aprendo i lavori, ha voluto premettere che il garantismo è nel dna di Md. Citando il caso Tortora, ha ricordato che furono proprio due storici esponenti di Md, Ippolito e Palombarini, i primi che criticarono apertamente la conduzione di quel processo. "Attualmente il processo penale invece è pieno di diseguaglianze", sostiene Rossi. In proposito lo storico esponente de Md invita colleghi a "tenere sempre ben presenti i diritti degli ultimi: chi sono gli ultimi nella società odierna? Ad esempio i piccoli risparmiatori, sopraffatti da una finanza sempre più aggressiva. Da contrastare con forza". Renato Rordorf, presidente di sezione in Corte di Cassazione, ha sottolineato che anche nel processo civile esistono diseguaglianze. Con sistemi di giurisdizione sempre più complicati che solo i più attrezzati riescono a fronteggiare, ricorrendo magari a costose formule di arbitrati non alla portata di tutti. Roberto Riverso, magistrato del lavoro, ha "demolito" il jobs act, a suo giudizio fonte di diseguaglianze: "Ha avuto il merito di far tornare indietro i diritti dei lavoratori di 50 anni, con l’aumento del numero dei licenziamenti, la difficoltà di risarcimento del danno, controlli sempre più invasivi sul posto di lavoro e costi elevati per accedere alla giurisdizione con l’introduzione del contributo unificato. Indebolendo la contrattazione", sostiene Riverso, "l’unico risultato è stato quello di inserire nell’ordinamento più flessibilità, togliendo certezze e trasformando l’Italia in un Paese con 4 milioni e 600mila poveri. E poi non è assolutamente vero che ha creato lavoro favorendo gli investimenti stranieri". Maurizio Landini, segretario della Fiom ed invitato al congresso, gioca in casa nel descrivere un mondo del lavoro sempre più precario, dove è stata azzerata la contrattazione collettiva. Una crociata di quelle che Berlusconi bollava come "toghe rosse" contro il jobs act, dunque. Ma nelle assise di Md si parla, certo, anche del lavoro dei giudici: e si smentisce che oggi si lavori di più di un tempo. Quello che è aumentato è il numero e la complessità delle leggi. "Purtroppo", lamenta Claudio Castelli, presidente della Corte d’Appello di Brescia, "il tema dei carichi esigibili è stato strumentalizzato dalla destra giudiziaria: una risposta demagogica che sta facendo presa sui giovani magistrati. Che poi, come è stato fatto rilevare, tanto giovani non sono considerato che il concorso in magistratura è diventato di secondo livello, con giudici di prima nomina che hanno quarant’anni". E a proposito di giovani toghe, non erano molte quelle presenti in sala. Fondamentale, per Castelli, "fermare il nonnismo giudiziario: serve equità fra generazioni". L’aumento dei fascicoli c’è ma secondo la maggioranza dei relatori "bisogna finirla con la storia dell’obbligatorietà dell’azione penale". Che va esercitata solo nei casi in cui si è certi di giungere a una condanna. Molto importante, in tale contesto, il ruolo del dirigente. Sì anche a competenze esterne per agevolare le scelte di nomina del Csm. C’è sempre il rischio che il magistrato lavori più per i titoli che non per la giurisdizione. Il togato del Csm Valerio Fracassi ricorda "i progressi fatti in tema di nomine". E sui lavori consiliari, "Movimenti e Md dovranno coordinarsi sempre più". Tra gli ospiti c’è anche Susanna Camusso, segretario Cgil: auspica "maggiore collaborazione con Md". E ovviamente si accoda all’allarme sulla precarietà. Il clou arriva con Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, che difende "appassionatamente" il lavoro svolto da Palazzo dei Marescialli in questa consiliatura. A partire dalle nomine, fatte con criteri meritocratici e trasparenti. Con qualche distinguo dal togato Piergiorgio Morosini. Che rivendica la storia di Md e "l’alto ruolo della magistratura" e dice "no al carrierismo". Ma anche al referendum: perché la Costituzione va difesa. Davigo (Anm): "in Italia ci sono troppi avvocati, così la giustizia va in crisi" di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 6 novembre 2016 Piercamillo Davigo domani alla Sun terrà una conferenza sulla crisi della giustizia. "In Germania i cassazionisti sono 39, in Francia 100, in Italia sono 52 mila". Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati sarà domani alla "Sun" parlare della crisi della giustizia in Italia. "Per uscire dalle difficoltà basterebbe attuare il contenimento della domanda patologica di giustizia. In Francia viene appellato solo il 40 per cento delle sentenze". E sugli avvocati aggiunge: "Sono impressionanti i dati relativi ai cassazionisti: in Germania ce ne sono 39, in Francia 100, in Italia 52 mila". Troppi processi inutili o pretestuosi, rarissime sanzioni nei confronti di chi li avvia: è questo che ingolfa la macchina della giustizia in Italia secondo Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Davigo, che fu componente dello storico pool "Mani pulite" della Procura di Milano, sarà domani alla Sun per incontrare gli studenti di Giurisprudenza. Argomento dell’intervento, "La crisi della giustizia in Italia. Cause e possibili rimedi". Dottor Davigo, la crisi sembra così profonda che trovare un rimedio sarebbe un miracolo. "Niente affatto. Le cose sono molto più semplici di quanto appaiano. Per uscire dalle difficoltà basterebbe attuare il contenimento della domanda patologica di giustizia". Ci fa capire meglio? "Facciamo l’esempio dei processi d’appello. In Francia viene appellato solo il 40 per cento delle sentenze di condanna a pena da eseguire, in Italia le sentenze vengono appellate tutte. Questo accade per due motivi. Il primo è cercare di arrivare alla prescrizione: passa il tempo, i processi sono lenti, i reati si prescrivono, le condanne vengono cancellate. Il secondo motivo è semplicemente guadagnare tempo per rinviare l’esecuzione della sentenza. In Italia la Corte d’appello non può aumentare la pena se appellante è il solo imputato, in Francia tale divieto non c’è e questo riduce gli appelli pretestuosi". Accade, immagino, nei processi civili in materia di credito. "Anche. Ammesso che un creditore riesca a ottenere una sentenza a lui favorevole, otterrebbe un interesse pari a quello di mercato e difficilmente riuscirebbe a farsi pagare dal debitore. Prima che la sentenza venga pronunciata, spesso il debitore occulta i beni e non gli succede niente. Questo non accade in altri Paesi, per esempio negli Stati Uniti, il cui rigoroso sistema giudiziario prevede un danno punitivo collegato a una condotta sleale". Come si esce da questo meccanismo odioso? "Occorre rendere poco conveniente agire o resistere indebitamente in giudizio. Tuttavia se, ad esempio, si riducesse della metà il numero dei processi, a parità di tutte le altre condizioni si ridurrebbe della metà il reddito degli avvocati. Allora è necessario prima riportare a livello fisiologico il numero degli avvocati. Attualmente un terzo degli avvocati dell’Unione europea sono italiani. Sono impressionanti i dati relativi ai cassazionisti: in Germania ce ne sono 39, in Francia 100, in Italia 52 mila. La conseguenze è che in Italia sulla Corte di Cassazione si abbattono ogni anno quasi novantamila processi. Un numero di processi così alto rischia di inficiare il principio della nomofilachia che compete alla Cassazione, cioè la garanzia dell’uniforme interpretazione della legge. Le contraddizioni diventano possibili". Sono dati che colpiscono molto. "Infatti. Durante la mia permanenza a Milano gli avvocati sono passati da 980 a 23 mila: lo squilibrio mi pare evidente". Quali ne sono le cause, a suo avviso? "Ai miei tempi, quando si usciva dalla facoltà di Giurisprudenza, le strade possibili erano varie: una tra le più ambite, per esempio, era la carriera nella pubblica amministrazione. Ma la pubblica amministrazione non assume da vent’anni, le aziende private sono in crisi e il risultato è che il 93 per cento dei laureati in Giurisprudenza si avvia verso l’avvocatura. Numeri così alti mettono a rischio anche il controllo della deontologia". Quindi lei ritiene che il numero di processi vada ridotto? "È necessario, Ma una classe politica non è riuscita a riformare la debole categoria dei tassisti, non pensa neppure di affrontare quella degli avvocati". Domani lei parlerà proprio agli studenti di Giurisprudenza. "E dirò loro che, secondo me, è indispensabile istituire il numero chiuso, come già avviene in altre facoltà, nell’interesse loro e dell’avvocatura. Magari diventerò impopolare, ma sarò chiaro. Del resto il reddito degli avvocati è in forte calo, la tendenza mi sembra irreversibile". Mamone (Nu): in carcere manca acqua calda e riscaldamento, detenuti in sciopero della fame La Nuova Sardegna, 6 novembre 2016 Fns-Cisl: "I detenuti chiedono anche riscaldamento e detersivi". Manca il riscaldamento e l’acqua calda, non ci sono detersivi per l’igiene personale e degli ambienti carcerari, e nella colonia penale di Mamone scoppia la protesta: alcuni detenuti oggi 5 novembre hanno iniziato lo sciopero della fame, altri si sono rifiutati di uscire per il lavoro. Le rimostranze riguardano il mal funzionamento della caldaia e col freddo che inizia a farsi sentire la situazione sta per esplodere. I detenuti nei giorni scorsi, tramite gli agenti di polizia penitenziaria, hanno portato le loro rimostranze all’Ufficio di ragioneria dell’amministrazione carceraria, ma non sarebbe arrivata nessuna risposta. Il segretario generale aggiunto della Fns-Cisl, Giovanni Villa, ha spiegato che "la polizia penitenziaria e gli educatori hanno fatto il possibile per far mantenere la calma ai reclusi, purtroppo la corda si è spezzata, e la protesta è scoppiata. Da tempo stiamo denunciando i disservizi a Mamone, ma nessuno ci ascolta". "La visita del capo dipartimento non ha sortito alcun effetto positivo, anzi la situazione è peggiorata. Ci dispiace dirlo - ha concluso Villa - ma a circa un anno dall’insediamento del nuovo direttore possiamo affermare che l’amministrazione generale della colonia ha fallito. È indispensabile voltare pagina e cambiare, se possibile con nuovi protagonisti". Pozzuoli (Na): detenute a sostegno di giubileo e amnistia, battono stoviglie sulle cancellate Ansa, 6 novembre 2016 Hanno battuto ritmicamente utensili per la tavola contro le cancellate delle finestre per un quarto d’ora, così le ospiti della Casa circondariale di via Pergolesi a Pozzuoli hanno voluto manifestare oggi la propria partecipazione al Giubileo per detenuti che si celebrerà domani in San Pietro e il sostegno alla quarta marcia per l’amnistia organizzata, sempre domani, a Roma dal partito radicale. Sembrava una protesta, come accaduto in altre occasioni, ma a svelare il vero motivo è stata la direttrice del carcere, Stella Scialpi, interpellata telefonicamente. "Mi hanno comunicato l’iniziativa con un documento in cui chiedevano l’autorizzazione - ha informato la direttrice. Un fatto insolito e che non potevo di certo autorizzare. Una procedura seguita, probabilmente, per farmi sapere il motivo vero e che non si trattava di una protesta!". Milano: così i salesiani rieducarono i tanti "traviati" del Beccaria di Agnese Moro La Stampa, 6 novembre 2016 Il Centro salesiano "San Domenico Savio" di Arese, salesianiarese.it, a pochi chilometri da Milano, ha una storia lunga e speciale. Presente in città dal 29 settembre 1955, quando l’arcivescovo di Milano monsignor Montini - futuro Papa Paolo VI, su richiesta delle di Comune e Provincia, affidò ai Salesiani la gestione dell’Istituto di rieducazione dell’Associazione Nazionale Beccaria per "giovani traviati". Li chiamavano "barabitt", "piccoli Barabba", nome che oggi ritorna in importanti attività di animazione, teatro, cooperazione internazionale e comunità di accoglienza che fanno capo alla Associazione Barabbàs Clown barabbas.it. Allora la struttura gestita dal Beccaria, con 350 ragazzi, era in pessime condizioni, la vita molto simile a quella di detenuti; le attività formative e lavorative praticamente inesistenti; le speranze di crearsi una vita buona nulle. Celle di punizione, sanzioni comminate in base a criteri arbitrari e spesso sproporzionate rispetto alla mancanza commessa, un clima di disperazione, molti tentativi di suicidio. L’arrivo dei salesiani - guidati dalla figura carismatica di don Francesco Beniamino Della Torre - portò profondissimi cambiamenti, basati sulla convinzione tutta salesiana che in ogni ragazzo ci sia qualcosa di buono che va fatto emergere, e dalla fiducia che ne deriva. Il primo gesto fu quello di buttare in un tombino le chiavi delle celle di punizione, rendendo così evidente il fatto che un vecchio mondo era finito. I ragazzi risposero positivamente alla apertura di credito ricevuta, tanto che, mandati a casa (con un atto di coraggio e non troppo consentito) nelle festività natalizie, senza controlli esterni, alla fine del periodo tornarono tutti al Centro. "Da allora - scrivono i salesiani - il Centro opera tra i giovani, in particolare tra quei giovani il cui cammino di crescita è contrassegnato da difficoltà e fatiche, proponendo un itinerario formativo integrale nella scia del "sistema preventivo" di san Giovanni Bosco". Lo fanno anche oggi che si occupano prevalentemente di formazione professionale, aiutando centinaia di ragazzi non solo ad imparare un mestiere e ad avere un lavoro, ma anche la fiducia di potersi costruire un futuro buono, fiducia che manca a tanti altri di loro che consideriamo e lasciamo che si considerino niente più che "barabitt". Televisione. Il docufilm "Mai dire mai" questa sera su TV2000 alle 23 Ristretti Orizzonti, 6 novembre 2016 Il docufilm "Mai dire mai" di Andrea Salvadore, promosso da Tv2000 e Diocesi di Padova, sarà trasmesso da Tv2000 in seconda serata, il 6 e 13 novembre 2016, in occasione del Giubileo dei carcerati, nell'anno straordinario della Misericordia voluto da Papa Francesco. Il documentario è un viaggio attraverso i volti e le storie di dieci persone detenute (otto uomini e due donne) nel carcere "Due Palazzi" di Padova e alla "Giudecca" di Venezia. Le loro esperienze sono narrate in due puntate che alternano le narrazioni dei detenuti all'intervista al vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla, le esperienze dei cappellani del carcere di Padova, don Marco Pozza, e di Venezia, fra Nilo Trevisanato, il dialogo con i direttori delle Case di reclusione Ottavio Casarano (Padova) e Gabriella Straffi (Venezia) e la voce di operatori di altre realtà che operano nei due Istituti di pena. L’idea di fondo del docufilm nasce dal progetto di Ristretti Orizzonti "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere", molte delle testimonianze sono di detenuti della redazione. Questa sera alle 23 la prima puntata. L’inferno dei carcerati italiani all’estero. Libro-inchiesta ricostruisce i 12 casi più eclatanti di Maurizio Gallo Il Tempo, 6 novembre 2016 Sono 3.500 i nostri detenuti in paesi stranieri spesso in condizioni inumane. Non giudicate. Il punto non è se siano colpevoli o innocenti. Il punto è che gli vengono negati i più elementari diritti umani, sono ridotti a larve, privati della loro dignità, abbandonati in celle luride e ostaggi del silenzio. Sono i "Prigionieri dimenticati", titolo del libro-inchiesta di Katia Anedda (ed. Historica; pag. 119), fondatrice appunto della Onlus "Prigionieri del silenzio". Detenuti italiani nelle carceri di Paesi stranieri, alcuni considerati "culle del diritto", come gli Stati Uniti, altri in cui la schizofrenia della giustizia e la corruzione dei governanti rispecchia lo stato di sottosviluppo, come il Mali o la Guinea Equatoriale. Il caso dei nostri due Marò arrestati in India senza prove valide è forse il più noto. Ma non è l’unico. Nel luglio 2014 la Farnesina diffuse i dati relativi al dicembre 2013. I nostri connazionali dietro le sbarre di una prigione estera erano quasi tremila e cinquecento (3.422). Oltre 2.600 si trovavano nell’Ue; 161 nei Paesi europei fuori dall’Unione; 490 nelle Americhe; 59 nel mediterraneo e in medio oriente; 12 nell’Africa sub-sahariana e 75 tra Asia e Oceania. A detenere il record di galeotti italiani nel Vecchio Continente è la Germania, che tre anni fa ne ospitava 1.218. Segue a ruota la Spagna, con 574 persone. La causa principale degli arresti è il traffico di droga, sebbene anche l’omicidio giochi una sua parte, con il 59% dei casi nell’Ue e 28,6% negli Usa. Fuori d’Europa, il grosso dei "prigionieri" con la nostra cittadinanza sono concentrati, oltre che negli Stati Uniti, in Brasile e in Venezuela, dove "si riscontrano le peggiori condizioni di reclusione", scrive Anedda e dove, secondo una relazione del 2015 di Amnesty International, vengono "negati ai detenuti i più elementari diritti garantiti dalle convenzioni internazionali, come l’assistenza di un avvocato o la presenza di un interprete durante gli interrogatori". Il libro passa in rassegna dodici casi emblematici tra quelli dei 3.422 compatrioti che sono stati o sono detenuti all’estero (scesi a 3.288 nel dicembre dello scorso anno), a partire da quello, eclatante, di Carlo Parlanti. Tra l’altro, emerge che, non dirado, i "cattivi" non sono solo gli "altri". Anche noi abbiamo le nostre responsabilità. L’opinione pubblica, perché etichetta subito questi uomini e donne, spesso vittime di malagiustizia, come irrimediabilmente colpevoli. E se ne disinteressa. Le nostre autorità, perché non sempre fanno bene il loro dovere di assistenza, sia per scarsità di mezzi e di organico che per scarsa sensibilità personale. Spiega nella prefazione del libro l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, sottolineando le "innegabili carenze dell’azione di governo nella questione Marò" e ricordando alcune delle vicende affrontate nel libro, che "diverse di queste vicissitudini sono state segnate da errori, disattenzioni politiche e amministrative che non hanno certo contribuito alla credibilità del nostro Paese". E il diplomatico conclude, citando il lavoro di Katia Anedda, che "il pubblico dibattito deve spezzare quel "silenzio che è una barriera che separa più del filo spinato e ferisce più della tortura". Il silenzio dell’indifferenza. L’Italia che vuole sparare. Ho la licenza di caccia ma il fucile lo tengo per proteggere casa di Raphaël Zanotti La Stampa, 6 novembre 2016 Quasi trecentomila autorizzazioni in più in appena tre anni. "È difficile ottenere un fucile per difesa, fingo che sia per sport". Questa inchiesta nasce da un’anomalia, uno di quegli scarti capaci di rompere la routine e che spesso sono il segnale di un cambiamento in atto. L’anomalia si chiama "licenza per armi". L’Italia non è l’America, dove chiunque può acquistare un fucile semiautomatico al supermercato sotto casa. L’uso delle armi è super controllato. Al di là di chi porta la divisa, sono pochissime le categorie che possono possedere, e ancora meno portarsi in giro, una pistola o un fucile. Eppure negli ultimi anni qualcosa è cambiato. Il numero di licenze per armi è esploso. Nel 2015 ne sono state rilasciate 1.265.484. Un’enormità se si considera che solo tre anni prima erano poco più di un milione (1.094.487 per la precisione). Che cosa è successo? Arriva la paura - È interessante osservare l’andamento delle licenze. Se nel 2012 e 2013 c’era stato un aumento, seppur contenuto, è nel 2014 e nel 2015 che l’anomalia si manifesta in modo più evidente. In Italia un cittadino comune può ottenere una licenza per tre motivi: difesa personale, uso venatorio e uso sportivo. Ed è proprio in queste due categorie che si è avuto il picco. Le licenze per andare a caccia sono cresciute del 12,4%. Quelle per uso sportivo addirittura del 18,5%. Al contrario la difesa personale è in continuo calo da anni. Siamo diventati di colpo tutti amanti delle beccacce o emuli di Campriani? Ovviamente no. Il timore è che dietro questo fenomeno si celi in realtà una trasformazione dell’Italia. Una trasformazione che il presidente dell’Unione nazionale del tiro a segno, Obrist Ernfried, sembra aver ben individuato: "Alcuni mutamenti nella società legati a un nuovo sentimento dei cittadini di dotarsi del porto delle armi hanno consentito un significativo aumento delle attività relative all’addestramento al maneggio delle armi", scriveva nella sua relazione dell’attività Uits del 2015. In soldoni: i cittadini si avvicinano alla disciplina del tiro perché saper maneggiare un’arma infonde sicurezza in un periodo in cui la percezione della propria insicurezza è alle stelle. Le polemiche sorte a seguito dell’uccisione di ladri da parte di proprietari di case e il fioccare di iniziative legislative per allargare i confini della legittima difesa, parlano da sole. Ed è probabile che il presidente della Uits potrà dormire tra due guanciali, in futuro, dopo che l’anno scorso la sua federazione aveva avuto un aumento dei tesserati dell’11%. Stiamo diventando un Paese che si arma perché i cittadini non si sentono difesi dalle forze dell’ordine? Ma allora perché ad aumentare sono le licenze per uso sportivo e caccia e non quelle per difesa personale? L’escamotage - "Perché l’uso per difesa personale non lo rilasciano mai", spiega a La Stampa un piccolo imprenditore vicentino che ha chiesto l’anonimato per spiegarci il meccanismo. "Per richiedere una licenza a uso venatorio o sportivo bastano pochi documenti facili da reperire, ma per richiedere una licenza per difesa personale è necessario un documento ulteriore: bisogna motivare la necessità. E finché sei qualcuno che gira con pietre preziose o fa lavori particolari che ti mettono in pericolo di vita, passa, ma quando sei un piccolo imprenditore come me, stringono la vite. E allora meglio avere un fucile in casa per uso venatorio. Magari a caccia non ci vai mai, ma se qualcuno tenta di entrare con la forza e mette in pericolo i tuoi familiari almeno sei preparato". Il ragionamento dell’imprenditore vicentino devono averlo fatto in tanti, a giudicare dai dati. E forse non è un caso se Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna risultano le regioni con il maggior numero di tesserati per il tiro a segno. Si tratta delle zone che negli ultimi anni sono state martoriate dalle rapine in casa e su cui c’è stata una certa pressione mediatica. La legge più restrittiva - Le questure, però, negano che sia per questo motivo che c’è stato l’aumento. A spiegare l’esplosione di tiratori e cacciatori sarebbe in realtà la normativa più stringente entrata in vigore nel 2013 e che ha costretto chiunque abbia un’arma in casa presentare un certificato medico che ne giustifichi il possesso. Una stretta dopo gli ultimi episodi di uso di un’arma da parte di persone che magari erano in cura per disturbi mentali. All’epoca si era alzato un polverone mediatico. Invece di presentare un semplice certificato, però, dicono dalle questure, molti ne avrebbero approfittato per richiedere oppure rinnovare la propria licenza di armi. È verosimile? Sì, ma non ci sono dati per poter confermare questa tendenza e non si capisce perché, invece di un banale certificato, qualcuno dovrebbe intraprendere una pratica burocratica più complessa e costosa. Cacciatori e sportivi - Proviamo ad approfondire. Abbiamo faticosamente rintracciato il numero di tesserini venatori rilasciati in Italia negli ultimi anni (una legge impone all’Ispra di monitorare la presenza dei cacciatori nelle varie regioni, ma l’unica relazione finora prodotta è stata un insuccesso: solo 8 regioni avevano risposto alla richiesta di informazioni). La Stampa, dopo aver collezionato i dati da tutte le Regioni, è in grado di dare cifre più attendibili: i cacciatori nel 2015 erano 579.252. Negli ultimi otto anni (l’ultimo dato ufficiale era quello Istat del 2007) sono calati di quasi un quarto. A fronte di questo tracollo, costante anno dopo anno, le licenze per uso caccia sono invece aumentate. Stessa cosa si potrebbe dire per i tesserini sportivi. I tesserati Fitav (Federazione Tiro a volo) negli ultimi anni hanno avuto oscillazioni di 400 iscritti. Quelli Uits sono cresciuti (come abbiamo visto), ma alla fine di qualche migliaio. E sebbene non sia obbligatorio avere una tessera Fitav e il tesseramento sportivo sia valido per un anno mentre la licenza sei, bastano questi numeri per giustificare una crescita che in quattro anni è passata da 373mila a 470mila licenze? Quanto pesa la nuova legge? Per dirimere la questione bisognerebbe essere in possesso di un altro dato: il numero di armi vendute in Italia. Si potrebbe così calcolare quanti nuovi possessori di armi ci sono nel Paese. Ma ancor più che per i cacciatori, rintracciare il numero di fucili e pistole venduti ogni anno agli italiani è impossibile. Lo sa bene Piergiulio Biatta, presidente dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere: "In Italia si conosce tutto. Se voglio sapere quanti televisori sono stati venduti nell’ultimo mese, lo so. Se voglio capire quante lavatrici sono state rottamate, lo so. Ma se si vuole sapere quante armi sono state vendute, è impossibile saperlo - dice Biatta. Ovviamente non è che non ci siano i modi e le tecnologie, ogni arma è immatricolata e tracciata: se è per volontà politica che non si vuole rendere pubblico il dato sarebbe gravissimo". Produzione e vendita - L’unico dato ufficiale è quello della produzione di armi, fornito dal banco di prova di Brescia dove vengono immatricolate tutte le armi. Che fine faccia ogni singolo pezzo una volta ottenuta la matricola, però, è impossibile saperlo. "Il ministero dell’Interno non dichiara quante armi sono state vendute agli italiani e quello degli Esteri non dichiara quante ne vengono vendute ai Paesi stranieri", dice Biatta. Questa opacità crea anche situazioni di imbarazzo internazionale. Per esempio nei depositi di Saddam Hussein, in Iraq, vennero ritrovate 30.000 pistole Beretta che erano state rifiutate dalla Guardia di Finanza italiana. La vicenda irachena era stata presto dimenticata grazie a una leggina retroattiva inserita nel mare magnum del decretone sulle Olimpiadi invernali di Torino 2006. Fino al 2012, d’altra parte, non esisteva neppure un obbligo di monitoraggio delle armi semiautomatiche esportate all’estero. Anche la relazione sulla produzione di armi che ogni anno viene fatta dalla Presidenza del Consiglio lascia ampie zone grigie. Per esempio indica il valore delle armi per cui una singola ditta produttrice è autorizzata all’export, ma non quantifica le armi e non indica a quali Paesi vengono vendute. Eppure sapere che 9 milioni di pistole sono state vendute all’Egitto mentre era vigente la decisione dell’Ue che vietava l’esportazione di qualunque materiale che poteva essere usato per la soppressione dei movimenti sociali interni poteva interessare l’opinione pubblica. Perché se è vero che una decisione della Commissione non è legalmente vincolate, è pur vero che lo è politicamente. Più morti in Europa - La trasformazione che potrebbe essere in atto in Italia da Paese che vedeva il monopolio della forza negli uomini in divisa a Paese in cui i cittadini si armano per la propria sicurezza personale è molto delicata e non va presa sotto gamba. I dati pubblicati dal Guardian che ha analizzato le statistiche delle morti dovute alle armi da fuoco sono sconfortanti. L’Italia è a metà classifica in Europa per quel che riguarda la media di armi per cento abitanti (11,9), ma siamo maglia nera per quel che riguarda gli assassinii compiuti con armi da fuoco: 0,71 ogni 100.000 abitanti. Il nostro dato è di sicuro drogato dalla presenza massiccia delle organizzazioni criminali che usano armi spesso detenute illegalmente. Ma proprio questa peculiarità non fa altro che sottolineare il problema: che impatto avrebbe una liberalizzazione delle armi in un Paese come il nostro? Migranti. Il Papa: "Vergogna! Si salvano le banche e non le persone" di Carlo Marroni Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2016 La situazione dei migranti e dei rifugiati è "obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori spontaneamente a Lampedusa: "vergogna". Francesco parla nella sala Nervi alle migliaia di partecipanti al terzo incontro dei movimenti popolari e torna sul tema centrale dei nostri tempi: sono "folle esiliate" a causa di "un sistema socio-economico ingiusto e di guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli". Il Papa torna su un’immagine emblematica pronunciata a maggio scorso nel corso della visita nell’isola greca di Lesbo, primo approdo europeo di molti rifugiati dalla Siria e dall’Iraq: c’è "una bancarotta" dell’umanità al quale non si vuole porre riparo. "Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo... molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente". È un discorso molto lungo e articolato quello che pronuncia in spagnolo ai delegati di 64 Paesi di organizzazioni di base impegnate sui fronti del lavoro, della casa, della distribuzione delle terre, del contrasto alle schiavitù, allo sfruttamento minorile e alla prostituzione: un complesso intervento - una "mini-enciclica" - che lega i temi affrontati dal Papa nel pontificato, da Evangelii Gaudium a Laudato Si, fino a Amoris Laetitia, i documenti-chiave sui temi della vita della chiesa, dell’economia, della politica, dell’ambiente e della famiglia. E riparte dal "filo invisibile", la struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni e rende schiavi. Bergoglio rilancia il suo messaggio: "Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. Quanto dolore, quanta paura!", dice il Papa. Che avverte: "C’è - l’ho detto di recente - c’è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo di base si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Nessun popolo, nessuna religione è terrorista. È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando "hai cacciato via la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro". Questo sistema è terroristico". Francesco incoraggia i movimenti popolari a impegnarsi in politica. "Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle". Cercando di combattere i virus diffuso della corruzione: "La corruzione non è un vizio esclusivo della politica. C’è corruzione nella politica, c’è corruzione nelle imprese, c’è corruzione nei mezzi di comunicazione, c’è corruzione nelle chiese e c’è corruzione anche nelle organizzazioni sociali e nei movimenti popolari". E aggiunge: "È giusto dire che c’è una corruzione radicata in alcuni ambiti della vita economica, in particolare nell’attività finanziaria, e che fa meno notizia della corruzione direttamente legata all’ambito politico e sociale". Migranti. Il patto per una società multietnica di Maurizio Molinari La Stampa, 6 novembre 2016 Il record di migranti arrivati quest’anno in Italia è il risultato del processo di decomposizione e di impoverimento degli Stati sulla costa Sud del Mediterraneo. Le radici di tali sconvolgimenti sono interne ad Africa e Medio Oriente, e l’impossibilità di trovarvi una rapida soluzione pone l’urgenza di politiche nazionali capaci di gestire la trasformazione del nostro Paese in una società multietnica, multirazziale e multireligiosa. Le linee d’azione possibili sono due: limitare il numero degli arrivi e accelerare l’integrazione di chi arriva. Per limitare il numero dei migranti che raggiungono l’Italia serve una gestione dei profughi che coinvolga tutti i Paesi Ue: se i trafficanti di esseri umani del Maghreb riempiono barconi sempre più grandi per spingerli nelle braccia dei marinai italiani non c’è ragione per cui le nostre navi debbano sbarcarli solo nei nostri porti. Un esempio viene dalle unità spagnole che riportano spesso i migranti intercettati nel Paese di ultima provenienza - ovvero il Marocco -, ma più in generale è legittimo affermare che poiché chi raggiunge una nave italiana tocca l’Europa, altri Paesi Ue potrebbero accogliere quote di migranti. E ancora: l’ipotizzata creazione di campi di accoglienza per migranti ai confini meridionali della Libia suggerisce la possibilità di ostacolare il traffico nel Sahara, lì dove le sue rotte fioriscono di più. Ma anche se tali sforzi dovessero avere successo bisogna essere onesti nell’affermare che l’arrivo di migranti in Italia è destinato a crescere. Il processo di trasformazione del nostro Paese in una società multiculturale deve essere dunque governato, gestito, per coglierne le opportunità e limitarne i rischi. Le prima, e più importante, opportunità è aumentare la forza lavoro: creare impiego per i migranti significa aiutare la crescita del Pil. In un Paese come l’Italia con oltre il 40 per cento di giovani senza lavoro può apparire una sfida temibile, ma la risposta può venire dai sindaci di piccoli e grandi Comuni riuscendo a identificare mansioni di utilità pubblica capaci di migliorare la vita cittadina. Poiché sono i sindaci ad amministrare il territorio dove i migranti si insediano, possono essere a loro identificare formule innovative di occupazione per trasformarli nel volano della crescita. Ma non è tutto perché ciò che serve ancora di più è gestire l’arrivo dei migranti nei centri urbani per evitare casi come il quartiere di Tor Pignattara a Roma dove - come Grazia Longo ha raccontato su questo giornale - su 16 mila residenti ben 6.000 sono extracomunitari. L’errore commesso da Francia, Belgio e Germania è stato aver consentito nell’ultimo mezzo secolo la creazione di aree popolate quasi esclusivamente da immigrati perché ciò ha ostacolato l’integrazione e favorito l’estremismo. Da qui l’esigenza di coordinare l’insediamento dei migranti favorendone la dispersione sul territorio assieme allo studio dell’italiano, all’apprendimento delle leggi ed alla condivisione di valori fondamentali come i diritti umani e lo Stato di diritto. Ciò che attende l’Italia, il governo come le amministrazioni locali, è un lavoro lungo e difficile ma indispensabile. Perché il successo dell’integrazione può trasformarsi in un volano di ricchezza e prosperità come il suo fallimento può generare rischi gravi per benessere e sicurezza. Se al governo spetta la pianificazione di tali sforzi ciò che può fare la differenza è la capacità dei singoli cittadini di partecipare all’integrazione: il successo dell’assorbimento dei migranti dipende dalla capacità di ognuno di noi di comportarsi con lo straniero come fece il patriarca biblico Abramo con la sua tenda, aprendola da ogni lato. Accogliere il migrante implica scelte difficili - perché significa rimettere in discussione la propria identità, ma altrettanto vale per chi arriva: l’immigrazione ha successo quando chi ne è protagonista decide di identificarsi con la nazione di arrivo, rispettandone leggi e tradizioni. Ecco perché ciò che serve è un patto sociale fra l’Italia e i suoi migranti basato sullo scambio consapevole fra completa condivisione dei diritti e assoluto rispetto della legge. Migranti. Violazioni dei diritti umani: ma siamo sicuri che Amnesty menta? di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2016 In questa storia triste e importante, in cui si denunciano e si documentano violazioni gravi dei diritti umani e civili contro profughi e migranti, è inevitabile notare alcuni eventi inconsistenti e paradossali. Le denunce di Amnesty International purtroppo non sono veramente smentite, sono soltanto dichiarate "impossibili" o "infondate". Cos’altro dovrebbero dire i responsabili di governo, vera o falsa che sia l’accusa? La seconda manifestazione di meraviglia e rifiuto viene dalla Comunità Europea, pavido e assente personaggio di questo dramma. Avrete notato che l’Organizzazione per i rifugiati delle Nazioni Unite (che hanno avuto come portavoce in passato Laura Boldrini, autrice di molte denunce di violazione dei diritti) questa volta non hanno parlato. Noi sappiamo che il prefetto Morcone - il coordinatore di quel vasto fenomeno che è l’immigra - zione disperata (quasi sempre una fuga) verso l’Italia, conduce (bene), il suo lavoro impossibile meritando stima. Ma sappiamo anche che non esistono casi in cui si sia dimostrato che Amnesty ha accusato senza prove. Ora Amnesty afferma che esistono casi in cui funzionari della Polizia italiana si sono comportati con crudeltà e in violazione grave dei diritti umani, anche verso donne (donne incinte) e minori. La ragione, come sapete, è il rifiuto di alcuni di lasciarsi identificare. Tutti ormai sappiamo che, secondo il folle trattato di Dublino, se sei identificato in un Paese, in quel Paese devi restare, anche senza casa, lavoro e famiglia che sta altrove. Di fronte a una denuncia come questa, mi permetto di dire al prefetto Morcone e, più ancora, ai suoi superiori politici, la difesa migliore (e doverosa proprio verso i moltissimi che svolgono questo impossibile lavoro con umanità) è di aprire l’inchiesta e accertare subito lo stato dei fatti. Anche prima del bellissimo film di Gianfranco Rosi, "Fuocoammare", era noto il lavoro della nostra Marina e il suo impegno a salvare. Eppure - prima ancora di Amnesty - è stata aperta una inchiesta giudiziaria a carico di un gruppo di ufficiali della Marina Italiana (che non sono la Marina, sono persone singole indagate dalla magistratura in base a certi fatti) che hanno ignorato una disperata richiesta di soccorso, giunta in Italia, girandola alla Marina maltese, e non hanno mosso un dito per salvare dal naufragio un barcone stracarico e in pericolo. Accusa e difesa si confronteranno in un tribunale. Amnesty non ha un tribunale. Sta ponendo un grave problema morale e politico. Qui, se governo e autorità responsabili non si assumono la responsabilità di sapere (con la legittima speranza di documentare un allarme infondato) ci si muoverà intorno a un vuoto, a un oscuramento di fatti non accertati che getterà un dubbio ingiusto su tutti coloro che si comportano con onore nel difficile compito del soccorso. È una colpa non voler sapere. Ma c’è una colpa ancora più grave: l’ostinazione a non tener conto della diffusa cultura xenofoba e violentemente razzista che ha invaso il nostro Paese sotto la guida non contrastata di personaggi indegni che si fregiano della titolarità di posizioni politiche e che hanno avuto cariche di governo proprio nel settore dei migranti e dei rifugiati. Il caso italiano, con tutte le sue cadute, non è il caso di Trump, dove il razzismo è una malattia ancora senza vaccino, e dove anche i poveri, se sono bianchi, salutano come un liberatore il ricco razzista bianco. Non si occuperà mai di loro, ma li vendicherà dall’onta di essere stati governati da un presidente nero. Il nostro, in un Paese da sempre multietnico, è il caso di una cultura xenofoba e di odio coltivata con cura, tenacia, persistenza, e circondata da molto rispetto di media e guru dell’opinione, al punto che un governo di destra ha potuto nominare un leghista ministro dell’Interno. Ed è bene ricordare che ancora oggi l’unica legge vigente in Italia in materia di accoglienza e respingimento (una legge tutta orientata sul respingimento) è la Bossi-Fini. Molte volte, insieme con i colleghi e amici radicali (quando ero in Parlamento) ho visitato centri, detti a volte di "accoglienza" e più spesso di "espulsione" e ho ascoltato storie impressionanti per l’ingiustizia e la violazione di diritti umani (assenza di medici, avvocati, detenzione totalmente arbitraria, "rimpatri" che, per molti, equivalevano alla pena di morte. Ci si dimentica della cultura xenofoba, solidamente rappresentata in Parlamento (dove deputati e senatori hanno chiamato "scimmia" una ministra nera) che forma, con la stessa moralità, notissimi personaggi sempre presenti in tv e, ovviamente, anche uomini e donne che lavorano per lo Stato e lo rappresentano. Eventi come Gorino, dove sorgono improvvisamente barricate per cacciare e terrorizzare poche donne e bambini profughi, ci dicono che tutto ciò succederà ancora. Ma, come si fa nelle guerre contro tutti i comportamenti criminali, bisogna cercare i mandanti. Egitto. La morte di Regeni e la strada (stretta) per la democrazia di Andrea Cozzolino (Europarlamentare Pd) Il Mattino, 6 novembre 2016 Insieme ai colleghi della Delegazione per i rapporti tra il Parlamento europeo e i Paesi del Mashreq, sono di ritorno da una missione ufficiale in Egitto. Tre giorni intensi, ricchi di appuntamenti e culminati con un lungo confronto diretto con il presidente egiziano Al-Sisi, che ci hanno restituito una dimensione più profonda della complessa e complicata realtà egiziana. Ci siamo ritrovati immersi in uno Stato nel pieno di una lenta, lunga e travagliata transizione verso la democrazia, e, allo stesso tempo, intriso di contraddizioni non sempre negative. La questione del rispetto dei diritti umani è stata il filo rosso dei nostri incontri, sia con Ong e associazioni, sia con i rappresentanti del Parlamento e del governo. Ovunque abbiamo sollevato il tema dei diritti calpestati e tutti assieme, come parlamentari europei, abbiamo concentrato attenzioni e sforzi sulla storia di Giulio Regeni, che è andata oltre la dimensione italiana, investendo direttamente e più in generale i rapporti tra Egitto ed Europa. Do atto ai miei colleghi europarlamentari di tutte le nazioni e di tutti i gruppi politici - il cui sostegno è andato ben oltre la solidarietà - di essere entrati nel merito di una vicenda che ha sconcertato tutti i cittadini europei. Dal canto mio, devo riconoscere che, negli ultimi mesi, qualcosa è iniziato a cambiare, anzitutto nel fronte delle autorità egiziane. Lo dimostrano sia gli scambi più frequenti tra inquirenti, sia la percezione che ho avuto incontrando e discutendo con i rappresentanti delle istituzioni e del Parlamento. Solo qualche mese fa, a Bruxelles, sempre nell’ambito della Delegazione Mashreq, abbiamo ospitato una nutrita rappresentanza del Parlamento egiziano, allora appena insediatosi. Ebbene, in quella circostanza la sensazione era stata di un tempo immobile e sospeso, immune da dubbi, che non lasciava spazio alla messa in discussione delle posizioni ufficiali. I mesi trascorsi hanno lavorato per far maturare le posizioni, mutando le cose. Quella sensazione - brutta - che avevo percepito a Bruxelles, non l’ho ritrovata nei tre giorni in Egitto e, in primo luogo, nel dialogo con i ministri e con lo stesso presidente Al-Sisi. Eppure, le istituzioni egiziane non sono state tenere con il Parlamento europeo: non sono mancati i momenti di tensione negli incontri, soprattutto quando ci hanno contestato le 14 risoluzioni approvate, con le quali abbiamo esaminato e condannato le violazioni del diritto internazionale perpetrate dalle autorità egiziane. Tuttavia, di fronte al caso Regeni l’atteggiamento è stato diverso, come se gli uomini e le donne che abbiamo incontrato avessero allentato le difese e dismesso i rigidi panni governativi, tornando padri e madri di figli che spesso vivono in Paesi europei, in particolare in Italia. Giovani, studenti coetanei di Giulio, che vivono nel disagio continuo di un’inchiesta poco limpida e chiedono verità, trasferendo nella loro terra di origine umori e sensazioni, capaci di sollevare emozioni e trasformare un "caso giudiziario" in quello che è realmente: una immane tragedia, un terribile omicidio che ha privato la famiglia di un figlio straordinario di cui andare fieri e l’Italia di un giovane e brillante ricercatore. L’aspetto umano non è da sottovalutare, anzi è un elemento su cui far leva per uscire dall’impasse di questi mesi, aprendo una stagione diversa di collaborazione. Ho potuto constatare di persona, anzitutto nel lungo dialogo con il presidente Al-Sisi, che il caso Regeni non è come gli altri: è un nervo scoperto, una ferita che continua a sanguinare e che l’Egitto sa bene di dover guarire. Dalla sua soluzione dipendono i rapporti futuri del Paese con l’Europa e con l’intero Occidente, relazioni vitali per realizzare il programma di rinascita socio-economica messo a punto dal governo. Non possiamo dimenticare che l’Egitto è un Paese di quasi 100 milioni di abitanti, con un’altissima percentuale di popolazione giovanile e con un tasso di povertà in continua crescita (la metà della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno), uno Stato che dipende fortemente dagli aiuti degli organismi internazionali. Siamo consapevoli del rischio che una nuova "rivoluzione", in Egitto, avrebbe il segno nefasto dell’integralismo; ne sono consapevoli i leader politici, presidente Al-Sisi in testa, che ne resterebbero travolti. Abbiamo davanti una strada stretta, difficile, in salita, sospesa tra un fanatismo religioso buio ed angosciante e la suggestione di nuovi autoritarismi militari: quella strada impervia porta alla democrazia, e forse in questo lavoro possiamo trovare un senso ad una morte insensata ed insopportabile. Stati Uniti. Corte suprema e i giudici da nominare: chi vince sarà la legge di Luca Celada Il Manifesto, 6 novembre 2016 Stati uniti. Una corte a maggioranza liberal potrebbe pronunciarsi sull’abolizione della pena di morte, su nuove restrizioni al porto d’armi e sulla tutela del voto delle minoranze. Attraverso le nomine alla corte suprema il prossimo presidente americano potrebbe lasciare un marchio profondo sul paese. Due degli attuali componenti della corte, la liberal Ruth Bader Ginsburg e il moderato Anthony Kennedy, sono pluri-ottuagenari e il liberal Stephen Breyer ha 78 anni. L’arci-conservatore italoamericano Antonin Scalia è morto a febbraio e da allora il congresso repubblicano ha boicottato i tentativi di Obama di sostituirlo. Il prossimo presidente potrebbe quindi plausibilmente imprimere una forte svolta ideologica alla cassazione Usa. Attraverso la judicial review il supremo tribunale americano ha facoltà di invalidare le azioni dell’esecutivo e le leggi emesse dal parlamento, valutandone la costituzionalità. È un ruolo che è stato determinante in tutte le maggiore svolte civili e riformiste del paese, che nell’ultimo mezzo secolo hanno compreso il suffragio universale, la desegregazione del sud col voting rights act, la "affirmative action", il diritto all’aborto e la protezioni dei diritti delle minoranze. Prima della morte di Scalia la maggioranza conservatrice (5-4) ha rappresentato uno strumento imprescindibile della destra per mantenere il potere politico sullo sfondo di una società la cui naturale tendenza culturale e demografica è di allontanarsi dal partito repubblicano. La questione della corte suprema è tanto più cruciale dal momento in cui determinerà le sorti delle molteplici executive action intraprese da Obama per aggirare l’ostruzionismo totale dei repubblicani in congresso e quindi la legacy politica dell’attuale presidente. Gli incarichi dei supreme justices sono a vita, cosicché Donald Trump o Hillary Clinton potrebbero, attraverso le prossime nomine, imprimere una direzione riformista o reazionaria per almeno la prossima generazione. Una corte a maggioranza liberal potrebbe pronunciarsi sull’abolizione della pena di morte, su nuove restrizioni al porto d’armi e sulla tutela del voto delle minoranze. Trump dal canto suo ha solennemente promesso di nominare giudici che proseguirebbero l’opera di Scalia. Una corte suprema conservatrice potrebbe pronunciarsi contro l’apertura cubana, invalidare la riforma sanitaria, l’accordo di non proliferazione con l’Iran o le norme contro l’inquinamento industriale firmate da Obama. Turchia. Erdogan e la Costituzione riformata con le manette di Marco Barbonaglia Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2016 Passeggiando per le vie di Istanbul in questi giorni grigi ma insolitamente tiepidi, non si nota nulla di diverso dal solito. A Kadikoy, nella parte asiatica della città, le persone fanno la fila alla bancarelle dei mercati per comprare il pesce o frutta e verdura. Istiklal Caddesi, sulla sponda opposta, con le vetrine scintillanti e i venditori di castagne, pannocchie e sim it (ciambelle di pane al sesamo), è affollata come sempre. Bisogna andare a Sisli, per sentire l’odore dei lacrimogeni nell’aria. Qui alcune centinaia di persone si erano radunate per protestare contro gli arresti dei leader del partito filocurdo Hdp e dei giornalisti del Cu mh uriyet. Arresti, questi ultimi, che sono stati convalidati proprio ieri. Secondo quanto riportato dall’Hurriyet, tre procuratori sono stati affiancati al titolare dell’inchiesta. Murat Inam, infatti, che aveva avviato l’indagine sui presunti legami di giornalisti del Cumhuriyet con il Pkk e l’organizzazione di Gulen, è a sua volta sotto accusa perché sospettato di avere legami con i gulenisti. Un paradosso che la dice lunga su di un Paese che, dopo il tentato golpe, vive sull’orlo della paranoia. Fino ad ora la voglia di normalità e la capacità di reazione della popolazione, hanno riequilibrato la situazione. Ma quello che oggi si domandano in molti, soprattutto dall’estero, è se ci sia ancora una vera democrazia in Turchia. Dopo il 15 luglio ci sono stati gli arresti, le epurazioni, lo stato di emergenza. Sono già 168 i media di opposizione chiusi da Erdogan con decreti dello stato d’emergenza, mentre oltre cento giornalisti rimangono dietro le sbarre, più di 750 tessere stampa sono state revocate e oltre 2.500 reporter hanno perso il lavoro. Misure che a molti, in Turchia, sono parse accettabili in relazione alla gravità dell’accaduto. Le critiche arrivavano, per lo più, dall’estero. Ma il repulisti che ha portato alla rimozione di 100 mila funzionari pubblici e all’arresto di circa 37 mila persone, non è ancora finito. Lo stato di emergenza, protratto per altri tre mesi potrebbe essere ulteriormente prorogato. Continuando in questa direzione, però, diventerebbe una situazione permanente, impedendo un reale ritorno alla normalità. Proprio in virtù dello stato di emergenza, una settimana fa è stata proclamata una legge che consente al presidente Erdogan di nominare direttamente i rettori delle Università. Nel frattempo, i due sindaci di Diyarbakir sono stati arrestati con l’accusa di avere legami con il Pkk e la città più importante del Paese per i curdi è stata posta in una sorta di amministrazione controllata. Infine sono arrivati gli arresti di Demirtas, degli altri deputati dall’Hdp e dei giornalisti del Cumhuriyet. Dal 15 luglio una gran parte dei turchi ha appoggiato l’operato del governo, lamentandosi per le critiche di un’Europa ritenuta incapace di capire la minaccia terroristica che da più parti incombe sul Paese. Oggi, però, un’ansia crescente sta attraversando soprattutto la parte più laica e progressista della popolazione. A preoccuparli è il potere nelle mani Erdogan dopo il tentato golpe. In questo contesto il timore è che il presidenzialismo che lo stesso Erdogan vorrebbe approvare sarebbe quasi la certificazione di una situazione che, di fatto, esiste già. Dopo aver resistito al golpe, la popolarità di Erdogan è cresciuta. Perfino, in alcuni casi, tra chi non si sarebbe mai sognato di votarlo prima. Questo consenso, per quanto grande, potrebbe tuttavia iniziare ad erodersi se il governo decidesse di procedere soltanto a colpi di prove di forza, cercando di neutralizzare chiunque considera un nemico. Turchia. Nuovi arresti nell’Hdp, la base si prepara a resistere di Chiara Cruciati Il Manifesto, 6 novembre 2016 I co-presidenti trasferiti in carceri di massima sicurezza, mentre viene confermato l’arresto di 9 giornalisti di Cumhuriyet. Benivan Atalas, Hdp: "È una repressione sistematica e di lungo termine portata avanti con la detenzione fisica". A volte un’immagine vale più di tante analisi. Immaginate una prigione di massima sicurezza e una cella in isolamento. Immaginate un carcere destinato ai peggiori criminali e ai terroristi all’estremo confine nord-occidentale, a due passi dalla Grecia. Il più lontano possibile dal sud est kurdo: questa è stata ieri la destinazione finale del co-presidente dell’Hdp, il Partito Democratico dei Popoli, Selahattin Demirtas. La co-presidente, Figen Yuksekdag, non ha avuto sorte migliore: anche per lei prigione di massima sicurezza ma a Kocaeli, nord est di Istanbul. Così il governo turco tratta parlamentari democraticamente eletti sui quali pesano accuse di terrorismo, di cui la magistratura non ha mostrato prove concrete. E se si può ampiamente dibattere sulla natura del presunto complice Pkk (per Turchia, Ue e Usa organizzazione terroristica, per tanti altri un movimento di liberazione), a contare non sono le prove giudiziarie: bastano quelle politiche. L’Hdp, oltre che rappresentare un’ampia fetta della comunità kurda, è prima di tutto fazione di sinistra votata da milioni di turchi stanchi del nazionalismo fascistoide dei vertici. Da mesi Demirtas chiama al cessate il fuoco, alla ripresa del dialogo tra governo e Pkk. Eppure è tacciato di terrorismo. Lo sono anche altri nove funzionari dell’Hdp arrestati ieri, dopo l’ondata di fermi di venerdì contro i parlamentari del partito. È successo ad Adana, città al confine con la Siria: unità speciali della polizia turca, addirittura accompagnati da elicotteri, hanno compiuto raid nelle case dei nove funzionari e li hanno portati via. Una repressione sistematica che non finirà qui, ci dice al telefono Berivan Atalas della commissione Esteri dell’Hdp: "Molto probabilmente ci saranno altri arresti contro i nostri parlamentari, funzionari e sostenitori. È una repressione di lungo termine portata avanti usando la detenzione fisica". "Al momento sono otto i deputati in carcere, tra cui i co-presidenti. Solo quattro di loro sono stati rilasciati, ma sotto controllo della polizia. Stiamo mobilitando tutta la nostra gente, il popolo dell’Hdp in Turchia, ma anche sostenitori fuori. Useremo ogni mezzo democratico a partire dalle manifestazioni di piazza. Oggi [ieri] c’è stata una protesta a Istanbul ma la polizia ha attaccato i manifestanti e alcuni di loro sono stati arrestati, non ho il numero esatto". Dagli uffici dell’Hdp si rialza già la testa: ieri il comitato centrale insieme al partito cugino del Dbp ha tenuto un meeting per organizzare un sit-in a Diyarbakir. "Ci aspettiamo una mobilitazione significativa di tutti i movimenti democratici popolari in Turchia che in queste ore ci stanno sostenendo con dichiarazioni e promettendo manifestazioni - conclude Atalas - Al contrario di partiti come il Chp, solidale solo a parole". Sono tacciati di terrorismo anche i giornalisti del quotidiano Cumhuriyet. Dopo i fermi della scorsa settimana, ieri nove giornalisti sono stati ufficialmente arrestati. Tra loro il direttore Murat Sabuncu. L’accusa - di nuovo - è di aver commesso crimini a favore di ben due organizzazioni terrostiche, Hizmet dell’imam Gulen e il Pkk, come se i due fossero soggetti ideologicamente assimilabili. Una precisione maniacale che calpesta senza problemi anche i fatti: tramite la propria agenzia stampa Amaq, lo Stato Islamico ha rivendicato l’attentato di venerdì a Diyarbakir, un’autobomba in cui sono morte 11 persone a poche ore dagli arresti di massa contro l’Hdp. Subito Ankara aveva bollato il Pkk come responsabile, giustificando l’affermazione con la vendetta che il Partito dei Lavoratori aveva promesso dopo le manette strette ai polsi dei 13 parlamentari. Ma l’Isis si è attribuito l’attentato. Non stupisce: non è la prima volta che lo Stato Islamico massacra la Turchia e colpisce le comunità kurde. L’autobomba è inoltre saltata in aria a pochi giorni dall’appello-audio del "califfo" al-Baghdadi che ha invitato i suoi uomini - molti presenti in territorio turco con cellule note alle forze di sicurezza - a invadere il paese per vendicarsi della partecipazione all’operazione su Mosul. Poco importa, il responsabile per la narrativa del governo resta il Pkk. Lo ha ribadito ieri il governatore di Diyarbakir che cita intercettazioni in mano agli inquirenti. A monte sta la necessità di plasmare il nemico più adatto alla strategia del sultano Erdogan e della sua politica di potenza regionale: il Pkk è l’avversario perfetto perché minaccia il mito della grande nazione turca e le ambizioni da impero ottomano del presidente. Lo fa a sud-est, come lo fa nel nord della Siria e in Iraq. Insomma è il nemico perfetto perché sfruttabile in tutto il Medio Oriente, per impedire partecipazione politica alla minoranza kurda in Turchia e per costruire finalmente quelle zone cuscinetto in Iraq e in Siria utili a spezzettare i paesi vicini. Iraq. Contrattacco dell’Isis a Mosul, si combatte strada per strada di giordano stabile La Stampa, 6 novembre 2016 I jihadisti rispondono all’appello del Califfo e resistono nella città assediata. Frenata l’avanzata dei peshmerga, le forze irachene costrette a ripiegare. Qualcosa non va, perché quella famigliola, il padre con il copricapo a quadretti rossi e bianchi dei beduini e tre ragazzi, se ne sta al coperto dietro il muro di cinta di una casa e cerca di sbirciare verso giù, verso il centro di Mosul. È da lì che gli spari si sentono sempre più vicini e poi, una, due esplosioni, sorde, potenti, le bombe dei raid aerei. Elicotteri d’assalto volano a poche centinaia di metri di altezza. Il sibilo di un razzo attraversa la carreggiata verso Sud-Ovest, squarcia l’aria e finisce sulle posizioni dell’Isis con un botto prolungato, quasi uno schianto. Fuoco amico. Il grande stradone che attraversa Gogjali, il primo quartiere liberato di Mosul, è di nuovo deserto. I gipponi Humvee, neri, delle forze speciali irachene, vanno verso il fronte ma a un certo punto una mezza dozzina torna indietro e si posiziona più o meno al centro del sobborgo. Le raffiche di fucili automatici e mitragliatrici pesanti sono ora concentrate attorno alla sede della tv, che si riconosce subito per l’antenna altissima. In quel punto di innesto fra i quartieri di Gogjali, Al-Quds, Karama, verso le tre del pomeriggio, lo Stato islamico ha lanciato un contrattacco sulle posizioni irachene. La battaglia va avanti per ore. Ci sono parecchi feriti, perché arrivano decine di autoambulanze e qualche minuto dopo una si fa largo in direzione opposta, verso Erbil, con una jeep militare che le apre la strada sparando in aria. "Erjah, erjah, tornate indietro". Anche i militari, sembra, stanno ripiegando. Poi però dicono che l’Isis è almeno a due chilometri e che la zona è sicura. Almeno per ora. Altri botti tremendi, raid aerei. Alla quattro e mezzo comincia a imbrunire e c’è molta confusione. La giornata si chiude all’opposto di come era cominciata. Di prima mattina la Golden Brigade aveva dato un’altra spallata verso il centro, dentro i quartieri di Al-Quds e Karama. "Controlliamo un quarto della città a Est del fiume Tigri", aveva annunciato al check-point di Bartella il generale Sabah al-Nahmam, portavoce dell’unità d’élite irachena. Certo, la resistenza appariva più forte. Un tank Abram era stato centrato in pieno da un missile anti-tank Kornet. "Ma non è stato distrutto, lo abbiamo già riparato", aveva precisato l’ufficiale. Che poi aveva fornito i numeri dell’operazione "a punta di lancia" che doveva penetrare nel cuore di Mosul, fino alla riva sinistra del fiume Tigri. Dodici battaglioni, cioè circa 10 mila uomini delle forze speciali e del controterrorismo. A Ramadi, a titolo di paragone, i battaglioni impegnati erano stati solo cinque. Poco dopo era arrivato il comandante della Golden Brigade in persona, generale Fasil Barawi, a ispezionare il fronte. Poi una colonna di mezzi sminatori degli americani. Camion blindati, circondati da griglie anti-razzi e con davanti una specie di rullo che neutralizza le bombe-trappola piazzate dappertutto dagli jihadisti. La bonifica delle strade si è però fermata quasi subito. Al check-point la tensione cominciava a salire. E il fitto scambio di colpi di armi leggere faceva capire che la marcia verso il Tigri si era impantanata. La "punta di lancia" delle forze speciali si era esposta troppo ai fianchi. Il comando congiunto delle operazioni ha deciso all’inizio della settimana di accelerare. Ma la direttrice da Est è l’unica ad aver raggiunto Mosul, mentre le avanguardie a Sud sono a 20 chilometri dal perimetro della città, e a Nord i peshmerga curdi non sono ancora riusciti a espugnare Bashiqa e Tall Kayf e si trovano a una decina di chilometri. L’Isis ha così concentrato i propri uomini attorno a Gogjali e ha cercato di recuperare terreno. Un attacco ai fianchi, anche con gruppetti rimasti nascosti fra le case, dentro il reticolo di tunnel che non è stato ancora bonificato, e poi rispuntati all’improvviso. Difficilmente la guarnigione islamista reggerà a lungo contro forze blindate appoggiate dall’aviazione ma intanto ha risposto all’appello del califfo Abu Bakr al-Baghdadi e ha dimostrato di non essersi ancora squagliata. Gli ufficiali iracheni, a differenza di quelli curdi, sono convinti che il leader dell’Isis è già scappato e che il crollo morale dei jihadisti sia questione di giorni, al massimo settimane. I peshmerga sono più prudenti. Da venti giorni stanno cercando di conquistare la cittadina di Bashiqa e fanno i conti con combattenti, "molti stranieri", decisi a lottare fino alla morte. E Bashiqa ha un centesimo degli abitanti di Mosul. La prospettiva di una lunga battaglia strada per strada, con un milione e passa di civili a fare da scudi umani, è sempre più concreta. Il contrattacco a Gogjali potrebbe essere solo un assaggio. Per i pochi civili rimasti è una sofferenza che ricomincia. "Non abbiamo acqua né da mangiare", racconta Salman Suleiman, 38 anni, padrone di un negozietto in una viuzza vicina alla strada principale. La pompa dell’acquedotto è stata danneggiata "e nessuno è venuto ad aggiustarla". Certo ora i militari hanno altro da fare. E l’incubo vero è il ritorno dell’Isis. A Salman gli islamisti hanno ucciso due fratelli, "di dieci e 17 anni" senza neanche dire di che cosa erano accusati. Così, "senza un perché". Libia. Liberati i due tecnici italiani rapiti "per errore", dubbi sul riscatto di Chiara Cruciati Il Manifesto, 6 novembre 2016 Cacace e Calonego, insieme al collega canadese, sono stati rilasciati: rapiti per errore, dicono alla Procura. A liberarli le forze del governo di unità, sempre più in difficoltà in un paese spaccato. Sono stati liberati ieri i due tecnici italiani, Bruno Cacace e Danilo Calonego, e il collega canadese rapiti in Libia il 19 settembre. I due hanno già fatto rientro in Italia, dove sono stati ascoltati dalla Procura di Roma. Cacace e Calonego sarebbero stati liberati dagli uomini del Consiglio presidenziale, ovvero dal governo di unità nazionale (Gna) guidato dal premier al-Sarraj. Un punto a favore di un’entità che non riesce a garantirsi né il consenso generalizzato della popolazione né tantomeno quello dei tanti attori che controllano il territorio. E mentre i vertici italiani, dal premier Renzi al presidente della Repubblica Mattarella, festeggiavano il rilascio e il ministro della Difesa Pinotti elogiava "il lavoro importante di uno Stato che c’è", si facevano strada dubbi sul rilascio: già un mese fa l’agenzia Middle East Eye, generalmente ben informata, aveva parlato della richiesta di un riscatto di quattro milioni di euro. Ci si chiede ora se i tre dipendenti della Conicos siano stati liberati così. Per ora si sa solo che i carcerieri li hanno spostati in Algeria dopo la cattura a Ghat, nel Fezzan. Si tratterebbe di criminali comuni, dicono i tecnici ai pm: "I nostri rapitori non erano jihadisti, bevevano alcol e non pregavano". E, aggiungono, li avrebbero presi "per errore", una rapita andata male (nel mirino il manager dell’azienda) e tramutata in rapimento: Cacace e Calonego hanno detto di essere stati spostati svariate volte nei primi giorni, rischiando di farsi scoprire dalle forze di sicurezza libiche. Per ora supposizioni di cui si attendono conferme o smentite. Soprattutto sull’eventuale pagamento di un riscatto, forma di negoziato usata in passato dall’Italia. Interessante da capire è anche il ruolo avuto dalle forze di al-Sarraj, che deve obbligatoriamente appoggiarsi a milizie esterne per mantenere il controllo delle zone dove è fisicamente presente. Come le milizie di Misurata, impegnate a Sirte, e come quelle tribù che hanno deciso di appoggiare il Gna più per garantirsi legittimazione internazionale che per reale convinzione. Tra questi alcuni gruppi armati presenti in Fezzan, zona calda ma spesso dimenticata: area desertica ma abitata, dove lo Stato è quasi del tutto assente, è controllata da tribù tra loro nemiche che gestiscono traffici di armi, droghe e essere umani con l’Africa subsahariana, il 70% delle entrate della regione meridionale libica. La Libia resta dunque spaccata. Del destino di Sirte si sa poco: pochi giorni fa gli Usa hanno interrotto in punta di piedi i raid aerei con le ultime sacche di Isis ancora in città, apparentemente invincibili. Le esportazioni petrolifere sono riprese, ma i porti restano sotto il controllo del generale Haftar e del parlamento di Tobruk. Ad intervenire, più recentemente, è stata la Cina che secondo i media locali avrebbe deciso di investire nella Cirenaica in mano ad Haftar 36 miliardi di dollari per progetti infrastrutturali, a cui si legherebbe l’export di risorse energetiche. Nigeria. Le ragazze-schiave di Boko Haram abusate dai liberatori di Lorenzo Carbone Il Dubbio, 6 novembre 2016 Inchiesta di Human Right Watch su ufficiali dell’esercito e della polizia. Sfuggite dalle mani di Boko Haram, sono state raggirate con false promesse di matrimonio, drogate, ubriacate e stuprate nel campo di Maiduguri, dove sarebbero dovuto essere protette. È successo a 43 ragazze e minori del campo, nel nord della Nigeria, che ospita i rifugiati che scappano dalla guerra tra il gruppo terroristico e l’esercito. Tra queste, circa una decina erano state liberate attraverso lunghe negoziazioni tra la Croce Rossa Svizzera e i terroristi meno di un mese fa. E qui, dopo due anni di prigionia con i jihadisti, ufficiali dell’esercito, poliziotti, leader e vigilantes del campo, insomma chiunque volesse togliersi lo sfizio, hanno abusato ripetutamente di loro. La denuncia arriva dall’associazione per i diritti umani Human Rights Watch, che ha raccolto le testimonianze di molte donne che per paura di rappresaglie non avevano raccontato nulla. Alcune di loro pare siano state infettate con il virus dell’Hiv e rifiutano assistenza per la vergogna pubblica che ne deriverebbe. "Gli avevo detto che ero troppo giovane" dice una sedicenne di Baga, "Mi ha offerto un drink, appena l’ho bevuto mi sono addormentata. Ho capito che era successo quando mi sono svegliata. Avevo dolori, escoriazioni e sangue nella mia vagina". Il presidente Muhammadu Buhari ha twittato di essere "preoccupato e scioccato". Ma che "i nigeriani e la comunità internazionale possono stare tranquilli, la cosa non sarà presa alla leggera". E ha ordinato all’Ispettore della Polizia e altri ufficiali di aprire un’inchiesta e cominciare ad investigare immediatamente. Kashim Shettima, governatore dello stato del Borno, racconta come "questi campi sono fonte di orribili storie di schiavitù sessuale, giri di prostituzione, spaccio di droga", e perció ha pianificato l’ingresso nei campi di donne e uomini in borghese con l’obiettivo di investigare e "scoprire i colpevoli e portarli alla giustizia". "Ha finto di essere interessato a me e di volersi impegnare, ma appena ho accettato e abbiamo fatto sesso, i suoi regali sono diminuiti finché mi ha abbandonato", dice una donna di trent’anni di Walassa riferendosi a un militare. Dopo che Boko Haram aveva ucciso suo marito e sequestrato la figlia, questa donna era stata liberata ed aveva raggiunto il campo di Maiduguri con i figli rimasti. "Ora la mia situazione è peggiorata, la nuova gravidanza mi affatica e non ho nessuno che si occupi di me e dei miei figli". Spesso, conferma l’inchiesta di Human Rights Watch, queste donne sono state raggirate attraverso proposte di matrimonio, regali, promesse di sostegno economico. È molto difficile per donne che hanno vissuto due anni di prigionia e chissà cos’altro, vedove che vivono nella vergogna di ciò che hanno subito, ritornare nella società e ricevere l’aiuto di uomini che vogliono impegnarsi. Che cosa racconteranno quando riusciranno a tornare alle loro case? Sono peggio i terroristi di Boko Haram o i militari che dovrebbero proteggerle?