Giubileo detenuti: appello degli ergastolani al Papa contro la "tortura del carcere a vita" di Andrea Gualtieri La Repubblica, 5 novembre 2016 Arrivano dalle prigioni di tutta Italia in Vaticano: dalla Sicilia c’è anche un musulmano. La preghiera composta nel penitenziario di Padova dall’ex 41bis che in cella ha preso 3 lauree: "Dio, fai capire agli umani che l’ergastolo è ingiusto. O facci morire presto". Si presentano come "i cattivi, i maledetti e i colpevoli per sempre". Sono gli ergastolani, "quelli che devono vivere nel nulla e marcire in una cella per tutta la vita". E per il Giubileo dei detenuti, convocato da papa Francesco per domenica 6 novembre, pregano così: "Dio, dillo tu agli umani che l’ergastolo è una vera e propria tortura, che umilia la vita e il suo creatore. E se proprio non puoi aiutarci, o se gli umani non ti danno retta, facci almeno morire presto". Il testo lo ha composto Carmelo Musumeci, un detenuto la cui storia è diventata emblema della battaglia contro le pene ostative, quelle che impediscono qualsiasi beneficio ai condannati. Ex boss della Versilia, ex recluso al 41bis, dopo 24 anni di carcere durissimo ha ottenuto di passare al regime di media sorveglianza e finalmente ha potuto parlare con sua moglie e i suoi figli attorno ad un tavolino anziché dietro alla vetrata. Nel frattempo ha studiato, ha conseguito tre lauree, ha rielaborato la sua vita precedente. "Però più studiavo e più vivevo il travaglio di scontrarmi con un sistema carcerario diverso da quello che dovrebbe essere. E mi chiedevo: io sono in carcere perché non ho rispettato le leggi, possibile che nemmeno il carcere non riesce a rispettarle?". E così insieme agli altri detenuti, attraverso la rivista Ristretti Orizzonti, realizzata nel istituto di Padova dove adesso è rinchiuso, e il suo blog, curato grazie all’associazione Ergastolani.org della Comunità Papa Giovanni XXIII, ha avviato le prime battaglie. Per concedere ai carcerati maggiori contatti con le proprie famiglie, ma soprattutto per cancellare quella che definiscono "la tortura del fine pena mai". "Quando ho sentito che papa Francesco ha eliminato l’ergastolo dal codice penale vaticano e poi lo ha definito una pena di morte nascosta, ho capito che lui ha realizzato quello che noi viviamo", spiega Musumeci. E al pontefice ora chiede di tornare a pronunciarsi: "Lui solo, con le sue parole, può ottenere più di tante lotte. Perché è un uomo giusto e vicino alla gente. Ed è il primo che si esprime senza badare alla diplomazia, ma avendo a cuore la parte più debole dell’umanità". Finora, in realtà, Bergoglio non ha avuto ascolto quando si è espresso sul tema dei carcerati. Non ha avuto fortuna l’auspicio di un’amnistia giubilare invocata nella bolla di indizione dell’Anno Santo. E non è riuscito nel 2015 il tentativo di salvare dal braccio della morte prima Kelly Renee in Georgia e poi Richard Glossip in Oklahoma. Ma il pontefice non si arrende e in questi mesi - ha rivelato giovedì l’arcivescovo Rino Fisichella - è stato in contatto telefonico altri condannati alla pena capitale degli Stati Uniti. E le sue parole intanto portano conforto. Hanno toccato il cuore anche di un giovane albanese rinchiuso nel carcere di Giarre, in Sicilia. Si chiama Anis e nonostante sia musulmano ha chiesto di partecipare al raduno di domenica nella basilica di San Pietro. Partirà con altri detenuti, con gli agenti penitenziari, i volontari e il cappellano don Paolo Giurato che risaliranno fino a Roma sul pullman autofinanziato con il sostegno del vescovo. "In papa Francesco - spiega - vedo la voglia di far convivere tutti nella pace e nel rispetto reciproco, l’idea di costruire una società che non è divisa dalle religioni e che non dimentica nessuno. E questo mi dà speranza per il mio futuro". Ma il discorso che sta più a cuore ai detenuti è quello che Francesco ha rivolto il 23 ottobre 2014, nella sala dei Papi, all’Associazione internazionale di diritto penale. È in quell’occasione che ha messo in guardia dalla "incitazione alla vendetta" e dal "populismo penale". E ha formulato quello che Patrizio Gonnella e Marco Ruotolo - nell’introduzione al saggio "Giustizia e carceri secondo papa Francesco" (in uscita in questi giorni per Jaca Book) - definiscono un "pressante invito alla cautela nell’applicazione della pena e all’inderogabile rispetto della dignità della persona" rivolto anzitutto ai giuristi, ma anche "alle donne e gli uomini di cultura, affinché compiano il loro dovere, accompagnato dalla consapevolezza che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno - aggiungono citando le parole di Francesco - di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni". Giubileo delle carceri. Porta Santa senza sbarre di Massimiliano Coccia Tempi, 5 novembre 2016 La prima volta che entrai in un carcere fu parecchi anni fa. Accompagnavo il senatore Fiorello Cortiana in una visita ispettiva alla Casa Circondariale Don Bosco di Pisa, in cui all’epoca era detenuto Adriano Sofri. Avrò avuto una ventina d’anni e il carcere lo vedevo da fuori passeggiando a Trastevere, lo ascoltavo in qualche racconto o ancor peggio negavo alle volte la sua esistenza come si fa con tutte le cose che temiamo. Perdere la libertà di camminare, di gridare, di leggere in un parco, di fumare un sigaro in una cena tra amici, di amare è il pensiero che ci spaventa di più, unito solo alla morte. Ogni cella equivale ad un girone infernale da tenere lontano dagli occhi e dal cuore, ogni cella diventa uno sgabuzzino dove rinchiudere nella nostra coscienza tutti i nostri reati per cui nessuno ci ha giudicato, ma che in realtà sappiamo essere pendenti. L’ossessione della nostra innocenza crea l’ossessione della pulizia sociale e così nel corso dei decenni gli hotel di Stato sono sempre rimasti a latere della nostra vita. Si evoca il carcere duro per mafiosi, delinquenti di ogni tipo, si chiede la costruzione di nuove prigioni per sentirci più sicuri e per carezzare la costante marea di populisti e manettari che nella società politica italiana conservano un fascino mai sopito. E così la giustizia diventa una mannaia, una giustizia che, il più delle volte, esigiamo per gli altri ma da cui prendiamo le distanze se riguarda noi, una giustizia che una volta brandita e urlata ha come temibile punizione il finire dietro le sbarre. A Roma, dove siamo bravi a trovare una funzione positiva a qualunque cosa rappresenti disagio, minaccia o paura, gira una filastrocca che recita: "A via de la Lungara ce sta ‘n gradino, chi nun lo salisce nun è romano e né trasteverino" (A via della Lungara - la strada dove è ubicato il carcere di Regina Coeli, ndr - c’è un gradino, chi non lo sale non può considerarsi né romano e né trasteverino", un sapiente adagio per trasformare l’entrata in galera in un passaggio obbligato per ricevere la cittadinanza romana e trasteverina. Oltre la goliardia, l’adagio svela una condizione reale: se si è varcata la soglia di un penitenziario non si torna come prima, si diventa cittadini di una Repubblica diversa, si diventa sia da detenuti sia da detenenti un prodotto sociale nuovo, si diventa dei malati terminali permanenti. La parola chiave - Con questi pensieri e con un carico di dolore interiore profondo ho varcato la Porta Santa più importante quest’anno, senza nulla togliere alla sacralità delle basiliche giubilari romane, ma le grate della casa circondariale della Dozza a Bologna hanno per me rappresentato il viaggio più lungo, l’esercizio più alto della tanto sbandierata "misericordia". È facile parlarne quando magari le centinaia di catechesi hanno come effetto la tua personale, le tue piccole e grandi ferite, i tuoi torti e le tue paventate ragioni, ma quando innanzi a te si stagliano fratelli che hanno ucciso altri uomini, fratelli che hanno usato violenza contro altre persone, che per qualche spiccio da rapinare sono arrivati a modificare il corso di decine di vite, in quel momento, quando per un attimo i miei occhi hanno incontrato i loro, ho sentito una ferita enorme, come una lancia che oltrepassasse ogni confine della razionalità imposta dalla professione giornalistica, dal credere potentemente, dall’avere quel senso di miseria verso me e le mie complicate ascendenze, in quel momento ho visto mille volte il mio sguardo uguale al loro, in quel momento ho compreso l’essenza del dolore vero e profondo e mi sono tornate alla memoria le parole del cardinale Carlo Maria Martini a proposito del dolore di Cristo sulla croce: "Dopo il lungo silenzio di fronte agli accusatori di ogni tipo, di fronte ai maltrattamenti e alle ingiustizie, Gesù, nel momento della morte, esce con il grido: "Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?". È la parola di qualcuno che, avendo interiorizzato tutte le delusioni, le amarezze e i dolori del mondo, avendo sentito cadere sulla sua persona tutto il mistero della sofferenza ed avendo cercato una ragione, un senso per questo terribile mistero, trova finalmente nelle Scritture la parola chiave, il versetto che interpreta il suo vissuto". Solo coi propri errori - Sentire su di sé il dolore del mondo intero è forse la grazia più grande che varcare la Porta Santa di un carcere ti dona, perché per un momento non hai una scenografia da compiacere, sei solo, come non lo sei stato mai con la tua povertà, con il tuo errore e con la tranquilla consapevolezza che al posto di quei detenuti che hai davanti potevi esserci anche tu. Renderci uguali, spogliati davanti a Dio e davanti agli uomini, è la grande lezione che papa Francesco ha imposto nelle agende dei nostri vertici quotidiani, del nostro stare nella società. Quando insieme a Chef Rubio ho varcato la soglia del penitenziario bolognese, lui per insegnare a cucinare ed io per documentare quel momento, non pensavo che quelle inferriate avrebbero avuto un effetto corrosivo, detergente sulla mia anima, non pensavo che mesi dopo queste parole di papa Francesco tornassero così forti: "Vivere il Vangelo è il principale contributo che possiamo dare. La Chiesa non è un movimento politico, ma è chiamata ad essere lievito, con amore fraterno, solidarietà e condivisione. La crisi attuale non è solo economica e culturale, è in crisi l’uomo come immagine di Dio; è perciò una crisi profonda, per questo la Chiesa deve uscire verso le periferie esistenziali". Ma chi le attraversa queste periferie? Chi prende un autobus per andare in carcere? Chi nella società si scontra contro il muro che vorrebbe relegati i detenuti ad un fine pena mai? Chi comprende che il non perdonare gli altri, l’utilizzare il carcere come strumento di tortura sociale, di speculazione politica, in realtà non è nient’altro se non perdonare se stessi e condannarsi ad un ergastolo ostativo dettato dalla propria non conoscenza? Polizia, volontari, cappellani - Sono pochi quelli che percorrono queste città carcerarie: ci sono gli agenti di Polizia penitenziaria, un corpo che nel corso dei decenni ha subìto una trasformazione radicale e che, grazie al lavoro di tanti, si pone sempre di più come la prima nuova intermediazione umana tra i detenuti e il mondo esterno; ci sono le cooperative che cercano di convertire il potenziale distruttivo di ogni detenuto in potenziale costruttivo, in fattore reagente; ci sono i tanti cappellani nelle carceri che sono corpo vivo di Cristo e carne viva del Vangelo, pastori di un gregge che non può brucare l’erba se non nel ristretto orizzonte dove è recluso. E poi c’è chi il carcere ha provato a raccontarlo come Ambrogio Crespi, regista del docu-film "Spes contra spem. Liberi dentro" presentato alla Mostra del cinema di Venezia e prodotto in collaborazione con Index Production e Nessuno Tocchi Caino, che va oltre la retorica che trasuda dalla narrazione di genere e ci restituisce in questo Anno della misericordia i ritratti degli ultimi degli ultimi: gli ergastolani ostativi, quelli del "fine pena mai". Nessuna pretesa di clemenza - Un film coraggioso che tocca i nervi scoperti delle nostre coscienze, che si scontra con gli stessi sguardi che ho incontrato alla Dozza di Bologna o al Don Bosco di Pisa. Un docu-film lontano dalla "gerarchia delle cose urgenti", lontano dalla vita quotidiana di ogni persona. Criminali, mafiosi, autori di numerosi omicidi ci accompagnano in un viaggio che forse con le nostre timide coscienze non avremmo potuto mai intraprendere; una navigazione profonda dentro ad anime oscure, un viaggio nel buio profondo attraverso squarci di luce che come dei lampi accecano chi li guarda. Volti, racconti e nessuna pretesa di clemenza, nessun buonismo, nessuna posizione ideologica preconcetta. Un docu-film che ci racconta che un uomo non è il reato che compie. Un docu-film politico, che pone attraverso la voce del condannato e dell’amministrazione penitenziaria la prospettiva, il senso della pena e la sua espiazione; la questione della redenzione ma non certo il perdono. Una pellicola che può diventare strumento di misericordia attiva, che alla fine pone una domanda umana: può esistere la rinascita pur essendo condannati a morire in carcere? Tutto questo miscuglio di sentimenti, passione, amore, misericordia e debolezza del nostro sistema interiore sembra dirci che il carcere è materia complessa perché è l’unica istituzione dello Stato, insieme alla scuola, ad avere potere formativo sugli individui, a rieducarli, a reintrodurli nella società con successo ed è complesso perché riguarda il pubblico e il privato e se il privato se ne può occupare attraverso le parole del Papa, la propria coscienza, un proprio pensiero laterale, la politica sembra molto lontana dalla meta. In questo rimane sempre l’eccezione del Partito radicale transnazionale, che dopo il suo congresso di settembre, svoltosi all’interno del carcere di Rebibbia, il primo dopo la scomparsa di Marco Pannella, ha lanciato per il 6 novembre, in concomitanza con il Giubileo dei detenuti, una grande marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà intitolata a papa Francesco e a Marco Pannella. Un dibattito scandaloso - Dal titolo è giunto un meraviglioso cortocircuito, il Papa argentino accostato all’abruzzese testardo padre di tante battaglia per i diritti civili nel nostro paese, cortocircuito che ha scosso una parte dei cattolici, ma è proprio l’accostamento quasi esotico ad essere provocatorio e sembra suggerirci che l’unica modalità per riportare al centro del dibattito politico le carceri è lo scandalo. Lo scandalo stesso che vive lontano dalle nostre coscienze nell’immaginare celle strapiene, violenze e ferite che si sovrappongono ad antiche cicatrici non curate, che prima o poi torneranno a sanguinare, uomini lasciati come terreni riarsi dal sole, uomini lasciati soli ad aspettare una chiave che riapra non solo una cella, ma una speranza di essere perdonati e tornare ad essere umani. Carceri. Quando il "diavolo" radicale e "l’acquasanta" vaticana parlano una lingua comune di Valter Vecellio jobsnews.it, 5 novembre 2016 Sono ormai centinaia le adesioni alla IV Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà indetta dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito per domenica 6 novembre; l’ultima in ordine di tempo - ma è da credere che quando questo articolo sarà letto, altre ne saranno arrivate - è quello della Funzione Pubblica Cgil Nazionale; giornata scelta non a caso: è quella, nell’ambito delle celebrazioni dell’Anno Santo, dedicata agli ultimi tra gli ultimi: i detenuti e la più generale comunità penitenziaria. Una marcia - anche qui non a caso - dedicata a Marco Pannella, il leader radicale che per tutta la sua vita ha dedicato una particolare attenzione alle questioni della giustizia e alle condizioni di vita in carcere; e insieme a papa Francesco, che al pari di Giovanni Paolo II non si stanca di chiedere, finora inascoltato, un gesto concreto di misericordia, di umana, e se si vuole cristiana, pietà. Il corteo partirà alle 9,30 da un luogo simbolo: il carcere romano di Regina Coeli, per poi sfociare a piazza San Pietro. Sarà aperto da decine di gonfaloni, di regioni e sindaci: da quello del Piemonte a quelli della Basilicata e della Calabria; e poi i comuni di Torino, Milano, Napoli, Cremona… Centinaia le personalità che hanno aderito all’iniziativa, politici, esponenti del mondo della cultura, del sindacato, della società civile: hanno deciso di fare loro il motto "Spes contra spem", essere speranza e non solo averne. A scorrere l’elenco delle adesioni sono due gli aspetti che in particolare colpiscono: circa diecimila detenuti comunicano la loro intenzione, quel giorno, di intraprendere uno sciopero della fame di dialogo e fiducia. Si dirà: chi, se non loro, che sono i diretti interessati? Certo, ma quello che dovrebbe far riflettere è che la cosa sembra cadere tra la generale indifferenza. Pensate se dieci di loro, invece di digiunare, decidessero di salire su un tetto e minacciare sfracelli. Televisioni e giornali si mobiliterebbero al massimo. Cosa ne deve ricavare chi vuole in qualche modo amplificare una sua causa, perorare una sua iniziativa? L’altra cosa che colpisce è la massiccia presenza di organizzazioni e personalità del mondo cattolico. Alla marcia aderiscono Caritas e Comunità di Sant’Egidio, Beati costruttori di pace e gruppo Abele con tutto l’arcipelago di Libera; le Acli e una quantità incredibile di "don"; moltissimi di loro sono impegnati quotidianamente nella realtà carceraria; e per limitarsi a qualche nome: don Antonio Biancotto, cappellano del carcere Santa Maria Maggiore di Venezia; don Albino Bizzotto, presidente dell’associazione Beati i costruttori di pace; don Mario Cadeddu, già cappellano carcere di Macomer; don Ettore Cannavera, presidente dei cappellani delle carceri sarde; suor Fabiola Catalano; don Luigi Ciotti; fra Loris D’Alessandro, cappellano del carcere Pagliarelli di Palermo; don Antonio Mazzi, presidente della Fondazione Exodus; don Nicolò Porcu; fra Beppe Prioli, fondatore dell’Associazione "La Fraternità"; don Piergiorgio Rigolo, cappellano del carcere di Pordenone; don Vincenzo Russo, cappellano del carcere Sollicciano di Firenze; don Sandro Spriano cappellano del Carcere Rebibbia di Roma… Intervistato da "Radio Radicale", il portavoce della Conferenza Episcopale Italiana don Ivan Maffeis dice: "La CEI guarda con attenzione a questa iniziativa e come Segreteria generale dà una convinta adesione; l’iniziativa è vista da parte nostra come una occasione proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica e più in generale il mondo politico sulla situazione in cui il nostro sistema penitenziario versa. L’augurio, e voglio metterci anche l’impegno, è che ci sia una accoglienza delle istanze portante avanti proprio per superare il degrado in cui i detenuti, ma non solo i detenuti (penso agli agenti, ai volontari, agli educatori), oggi si muovono. Si è trattata di una decisione maturata con il Segretario generale, Monsignor Nunzio Galantino; il presidente Bagnasco è stato informato e condivide le finalità dell’iniziativa. Ci si confronta con un mondo, quello delle carceri, per certi versi invisibile, eppure si tratta di una realtà pesante: penso alla lunga lista di suicidi che avvengono nelle prigioni, a queste vite spezzate, penso alle persone fragili che sono detenuti per reati minori. Spesso in questi luoghi manca una rete di appoggio, spesso offerta dai volontari o da una certa parte di umanità di chi opera dentro, come i nostri cappellani. Intorno a certi temi, possiamo dire scomodi, come l’attenzione verso l’ultimo che abbiamo reso ultimo, o perché per situazioni della vita si è reso ultimo, attorno a certi temi c’è una capacità di chiusura, una capacità di silenziare anche la parola più alta come quella del Papa. Quelle persone che già sono invisibili per tanti motivi vengono censurate dai mezzi di informazione e ciò diventa una irresponsabilità pesante". Poi, certo, sono seguite le "precisazioni"; da monsignor Galantino al presidente della CEI Angelo Bagnasco si ha avuto cura di chiarire che i radicali sono i radicali, che il Vaticano e le sue gerarchie sono e restano Vaticano e gerarchie; ma questo è da mettere in conto: dal primo giorno della elezione di papa Francesco è in corso, nelle vellutate stanze dei palazzi vaticani una lotta senza quartiere e di potere; è evidente che molta parte della nomenklatura vaticana vede l’attuale pontefice come fumo negli occhi ed ostile, fermamente determinato a contrastare ogni pur minimo segno di rinnovamento e apertura. Il "diavolo" radicale con l’"acquasanta" clericale: qualcosa di simile all’eresia… Anche questo aspetto della vicenda meriterebbe attenzione e qualche meno superficiale riflessione. Niente, invece. Eppure non è la prima volta che "diavolo" e "acquasanta" cercano e trovano un’intesa. La prima volta nei giorni della campagna per la lotta alla fame nel mondo con le sue grandi Marce di Pasqua. Un obiettivo, ricorda uno dei dirigenti di quegli anni, Angiolo Bandinelli, "che ci univa alle ansie verso i diseredati della terra di papa Giovanni Paolo II, il quale ce ne diede pubblicamente atto; e ugualmente sentimmo l’attenzione del mondo cattolico per le iniziative di Pannella in primo luogo sulle condizioni inumane delle carceri, sulla situazione disastrosa della giustizia italiana, e specificamente per sollecitare una amnistia/indulto (un "atto di clemenza", la definì papa Giovanni Paolo II davanti al Parlamento italiano riunito in seduta congiunta) da cui avviare la riforma della giustizia". Con buona pace delle faide in corso nei corridoi e negli androni dei "sacri" palazzi. Così la Marcia di domenica può costituire una nuova occasione per ricordare che proprio l’anticlericale Partito Radicale pannelliano pone grande e specifica attenzione a temi profondi della religiosità cristiana. Ne consegue, inevitabilmente, la fondamentale questione che si pone nei tempi che ci tocca vivere: la definizione dei valori necessari e urgenti per una umanità globalizzata, non più suddivisa tra religioni, razze o confini nazionali, unita nella speranza di una condivisione di significati, "simboli", diritto, validi ovunque e per ciascuno. Giorni fa, alcuni dirigenti del Partito Radicale hanno avviato un discorso, attraverso le colonne di "Avvenire", il giornale dei vescovi che non sappiamo dove potrà approdare; è però avviato. E il direttore di "Avvenire" Marco Tarquinio, nell’elencare e confermare la sua "visione" delle cose di questo mondo, conclude: "Siamo stati attenti a tante vostre iniziative e denounce in tema di carcere. Come non potremmo non esserlo anche stavolta?". Magari se anche dalle parti di palazzo Chigi decidessero di prestare una qualche attenzione, chissà: anche a loro farebbe bene. Intervista a don Balducchi: "nelle carceri facciamo crescere il rispetto per la persona umana" di Umberto Folena Avvenire, 5 novembre 2016 La Messa celebrata dal Papa in San Pietro con la partecipazione di mille detenuti, momento centrale del Giubileo dei carcerati. Un’occasione per riflettere sulla vita dentro gli istituti di pena. Sabato 5 novembre i circa mille detenuti che parteciperanno - dalle 15 alle 17 - a Roma al Giubileo dei carcerati visiteranno le chiese giubilari del centro storico della Capitale: San Salvatore in Lauro, Santa Maria in Vallicella (Chiesa Nuova), San Giovanni Battista dei Fiorentini. Durante la sosta a questi luoghi di culto i detenuti parteciperanno all’adorazione eucaristica e potranno accostarsi al sacramento della Riconciliazione. Successivamente si svolgerà il pellegrinaggio verso la Porta Santa in San Pietro. Domenica 6 novembre il Giubileo dei carcerati vivrà il suo momento centrale nella Basilica di San Pietro. Alle 9 sono previste le testimonianze di alcuni reclusi. A seguire il Rosario in preparazione alla Messa. Poi alle 10 l’Eucaristia presieduta da papa Francesco (tra i concelebranti vi saranno anche i cappellani di alcuni penitenziari). Successivamente i detenuti accompagnati dai loro familiari assisteranno alle 12 alla preghiera dell’Angelus in piazza San Pietro. Per l’occasione è prevista, tra l’altro, una esposizione di prodotti realizzati nelle carceri. Per questa iniziativa senza scopo di lucro si aprirà uno stand nei pressi di Castel Sant’Angelo. Con questo Giubileo, l’opera di misericordia andrà aggiornata. "Non più e non solo visitare i carcerati - spiega don Virginio Balducchi - e neanche la comunità ecclesiale che li va a incontrare. Ma un incontro con la comunità cristiana del carcere. Per dialogare, pregare insieme, creare prospettive di riparazione sociale". Balducchi è l’ispettore generale dei cappellani cattolici delle carceri italiane, 230 in tutto, carceri minorili compresi. La visita diventa incontro, dunque. E la comunità cristiana del carcere come sta vivendo il Giubileo, e l’attesa per domani? La speranza, forse perfino il sogno che sta cominciando a realizzarsi, è di essere pensati dalla comunità ecclesiale come fratelli e sorelle; in altri termini, considerati non solo per il reato commesso, per il quale responsabilmente stanno pagando, ma anche per la capacità di operare il bene. Voi cappellani avete dei segnali precisi in merito? Sono arrivate e stanno arrivando molte lettere a papa Francesco di questo tenore. Alcune sono state preparate durante il percorso formativo in carcere, altre sono del tutto spontanee. I carcerati desiderano sentirsi parte della comunità cristiana. Si sentono e sono comunità. Quindi "visitare i carcerati" diventa... Diventa, si trasforma, cresce in un incontro tra comunità che dialogano. D’altronde tra "dentro" e "fuori" contatti e collaborazione sono già attivi. Ad esempio, ci sono comunità parrocchiali che accolgono detenuti in articolo 21. E il gesto del Papa che li invita a casa sua obbedisce proprio a questa logica: se il carcere "separa", Francesco unisce. Chi incontrerà domani il Papa? Chi sconta pene alternative al carcere; carcerati in permesso premio, e sono detenuti condan- nati per ogni genere di reato; minori; agenti di polizia penitenziaria; i familiari; le vittime di reati; il mondo del volontariato che opera dentro il carcere e fuori, per il reinserimento; naturalmente noi cappellani e altri operatori, come direttori, educatori, magistrati di sorveglianza. Un vero incontro di comunità. Ma quali problemi porteranno con sé? Il primo obiettivo per il quale impegnarsi sempre di più in carcere credo sia di crescere nella capacità di rispetto per la persona, sempre. Ma con le carceri strapiene non è affatto facile. Poi sarebbe bene migliorare le condizioni di salute, rendere più facili gli incontri con i familiari, poter avere lavoro per tutti. E il sovraffollamento? Certo, sarebbe molto meglio se ci fossero meno detenuti, anche se chi lavora nel carcere, posso garantirlo, si sforza affinché le cose comunque migliorino. Però negli istituti più grossi, con più di mille detenuti, un lavoro educativo personalizzato è molto, molto difficile. Per non dire quasi impossibile. Che cosa vi aspettate domani dal Papa? Credo che le persone detenute si aspettino soprattutto tre cose. Un appello di Francesco ai po-litici, affinché si sforzino di trovare soluzioni alternative al carcere. Poi, vorrebbero che il Papa parlasse loro di Dio, un Dio vicino che vuole loro bene. Infine, sperimentare il perdono di Dio misericordioso, e dei fratelli e delle sorelle che hanno offeso. Tutti i detenuti protagonisti, anche senza esserci fisicamente di Marina Lomunno Avvenire, 5 novembre 2016 Ci saranno anche 8 detenuti dei penitenziari piemontesi a rappresentare i loro compagni e compagne di cella (oltre 3.800 presenti nei 13 istituti detentivi della regione), domani nella Basilica di San Pietro con papa Francesco per la Messa in occasione del Giubileo dei carcerati. Lo ha annunciato Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti, durante una conferenza stampa nella sede della Regione Piemonte. I reclusi in permesso premio, 4 del carcere di Ivrea, 3 di quello di Torino e uno da Cuneo insieme ai loro familiari "parteciperanno alle celebrazioni del Giubileo - ha specificato il garante - accolti dall’Ispettoria generale dei cappellani che, grazie alle associazioni di volontariato cattolico, si sono mobilitati per l’ospitalità dei detenuti coprendo le spese degli spostamenti e del pernottamento. Grazie all’attenzione che fin dall’inizio del suo pontificato papa Francesco dedica al mondo carcerario, il Giubileo è un momento importante per sensibilizzare anche l’opinione pubblica e il mondo laico sui problemi legali alla detenzione e sulla situazione in cui versa il nostro sistema penitenziario". Per don Domenico Ricca, salesiano, cappellano del carcere minorile torinese Ferrante Aporti, "il Papa ci richiama all’attenzione verso coloro che sono considerati scarti della società e alle periferie. E le carceri spesso sono collocate alla periferia delle nostre città". Chi non potrà andare a Roma potrà vivere il Giubileo dei carcerati in collegamento ideale con San Pietro, come i 25 detenuti del carcere di Biella che con i loro familiari, parteciperanno alla Messa presso il Santuario di Oropa: al temine verrà servito un rinfresco preparato dai detenuti della sezione "Ricominciare". Anche nel carcere minorile torinese Ferrante Aporti verrà celebrata la Messa in concomitanza con la celebrazione in San Pietro. "Abbiamo invitato tutti i volontari e dopo l’Eucaristia faremo un po’ di festa con i ragazzi - dice don Ricca - ricordando il 21 giugno 2015, quando papa Francesco, durante la sua visita a Torino, invitò a pranzo in arcivescovado con alcuni senza fissa dimora e rifugiati, anche 11 dei nostri detenuti. Abbiamo appeso nella sala centrale del carcere la sua foto autografata: i ragazzi ne vanno molto fieri". Il carcere e la fatica del perdono di Mons. Nunzio Galantino Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2016 C’è chi non ha rinunziato a sporcare e strumentalizzare coni mezzi a propria disposizione - la falsità prima di tutto - nemmeno l’attenzione al mondo delle carceri e dei carcerati che lo stesso papa Francesco ha voluto riservare in quest’ultima parte dell’ anno giubilare della misericordia. C’è in giro, e non fa assolutamente niente per nascondersi, una capacità di chiusura che arriva a stravolgere o a silenziare su questo come su altri temi anche parole semplicemente ispirate al mandato evangelico: visitare i carcerati. So bene che a qualcuno non è piaciuto l’auspicio "per una piena accoglienza delle istanze volte a superare il degrado in cui, non soltanto i detenuti, ma gli stessi agenti di custodia, i volontari e gli educatori si muovono". Non smetto però di ritenere importante l’attenzione da riservare al mondo delle carceri. Un mondo per certi versi invisibile, una realtà umanamente pesante: penso alla lunga lista di suicidi che avvengono nelle prigioni, penso alle tante vite spezzate, penso alle persone fragili che sono detenute per reati minori. Spesso in questi luoghi manca una rete di appoggio, il più delle volte offerta dai volontari o dall’umanità di chi opera lì dentro, come i cappellani e quanti si spendono per accompagnare coloro che nel percorso di detenzione, come alla sua conclusione, si trovano privi di qualunque opportunità riabilitativa e occupazionale. Penso a uno per tutti: don Gino Rigoldi. Ne ricordo l’opera perché lo conosco; ma, credetemi, non è assolutamente l’unico. Ho varcato tante volte l’ingresso delle carceri. Altrettante volte, prima di farlo, avevo cercato di immaginare le parole da dire alle persone che lì dentro avrei incontrato per colloqui personali o per momenti celebrativi particolari. Confesso però che lo sguardo, le parole e i gesti non sempre e immediatamente benevoli dei reclusi mi hanno quasi sempre portato per un’altra strada. Hanno chiesto altro dal mio cuore di uomo e di prete. Mi hanno portato il più delle volte a dire altro o addirittura a tacere. È capitato lo stesso a papa Francesco quando, il 21 Giugno del 2014, iniziò dalla Casa circondariale di Castrovillari la sua visita pastorale alla Diocesi di Cassano all’Jonio. Un giorno di sole e tanta, davvero tanta gente ad attenderlo fuori dalla Casa circondariale. Varcato l’ingresso, papa Francesco si trovò dinanzi uomini e donne che portavano segnate sul loro volto storie certamente faticose. Aveva tra le mani il suo discorso scritto ma, dopo aver ascoltato le parole di saluto del direttore e di uno dei detenuti, fissando gli occhi dei reclusi e quelli altrettanto commossi degli operatori presenti nel cortile, scelse di mettere da parte le parole scritte. E sì! Perché il carcere, come l’ospedale, è un luogo che non sopporta la teoria e fatica ad accettare giudizi senza appello. Capisce e accoglie solo il linguaggio della vicinanza. Una vicinanza che è possibile solo a chi cerca, in un certo modo, di fare quello che dice di aver fatto Maria von Wedemeyer scrivendo al suo fidanzato, Dietrich Bonhoeffer, rinchiuso nel carcere di Tegel e poi fatto impiccare da Hitler. "Ho tracciato con il gesso una linea intorno al mio letto, larga all’incirca come la tua cella. Ci sono un tavolo e una sedia, come io mi immagino. E quando sono seduta lì, credo quasi di essere insieme a te". Uno "stare insieme" che si fa ascolto e condivisione, ma che non rinunzia alla verità. È vero. Aver commesso un reato non autorizza a considerare e a trattare il condannato come un uomo senza diritti; soprattutto se la privazione dei diritti tocca gli aspetti più elementari che rendono la vita di ogni uomo una vita dignitosa. La verità esige però di non dimenticare tutte quelle persone o quelle situazioni che sono state danneggiate da comportamenti illegali, spesso irrazionali e violenti. È davvero difficile trovare l’equilibrio in tutto questo. È difficile soprattutto quando continui a pensare che non esistono storie compromesse per sempre e degne solo di essere malamente rottamate. Ricordo, a questo proposito, di aver vissuto momenti di profondo imbarazzo durante una celebrazione nella sala adibita a cappella presso il carcere di Castrovillari. Al momento dello "scambio della pace" avevo chiesto ai reclusi di guardare negli occhi il compagno o la compagna vicini e di immaginare che al loro posto ci fossero le persone che erano state danneggiate fino a far loro meritare la pena della detenzione. Guardarli negli occhi - avevo chiesto loro - e impegnarsi a riparare il male fatto una volta scontata la pena. Molti, in quel momento, si rifiutarono di stringere la mano al proprio vicino. Dopo il prevedibile imbarazzo da parte mia e dopo essermi domandato se non avessi, con quella richiesta, offeso i detenuti, ho capito che altro è chiedere perdono al Signore, come avevamo fatto all’inizio della celebrazione cantando il nostro "Kyrie eleison", e altra cosa è chiedere perdono con i fatti a quanti sono stati danneggiati e offesi. Accompagnare il recluso a perdonare se stesso e ad accettarsi, aiutarlo a progettare una vita di relazioni ritrovate è la fatica più improba. In quel carcere e ad ascoltare papa Francesco, quel 21 giugno, c’era l’assassino di padre Lazzaro Longobardi, un prete a me ancora tanto caro, e i parenti di un bimbo di tre anni bruciato con altre due persone alcuni mesi prima, sempre a Cassano. A tutti i detenuti Francesco, in nome di queste vittime e delle tante vittime della violenza che avevano segnato col loro sangue quella terra, chiese di trasformarsi da segni e da presenze negative in segni e presenze positive. Penso sia questo il senso del Giubileo dei carcerati che si celebrerà domani. Nessuna assoluzione a buon mercato quanto piuttosto una pervicace e faticosa voglia di dire a tutti che ci si può rimettere in piedi. È questo e solo questo il senso che ha il prossimo giubileo dei carcerati voluto da papa Francesco e che non può non trovare consenso in chi continua a credere nella perfettibilità dell’uomo. Il digiuno dei reclusi, un ritorno alla società di Aldo Masullo Il Mattino, 5 novembre 2016 Tra tante stragi del mondo, scatenate dall’umana follia, in Italia la devastazione di persone e di luoghi storici irrompe, scatenata dalla cieca strapotenza della natura. Intanto la faziosità referendaria divora le nostre energie politiche. Così, nel dibattito pubblico rimane inavvertita una significativa novità che rompe la nostra inerzia sociale di fondo. Alla giornata conclusiva del "giubileo della misericordia" proclamato da papa Francesco, e alla concomitante "marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà", indetta dal partito radicale, l’informazione diffusa è troppo disattenta. Eppure qualcosa di nuovo avviene. All’iniziativa aderiscono insieme uomini di fede religiosa e laicissime forze politiche. A suo sostegno vari esponenti radicali stanno attuando la pratica "non violenta" del digiuno, conforme al gandhiano insegnamento di Marco Pannella. Ora a questa pratica vanno motivatamente associandosi migliaia di detenuti. Dico "motivatamente" non nell’ovvio senso del loro personale interesse agli auspicati provvedimenti di clemenza, bensì nel sorprendente senso della loro adesione ad una ragione civile di fondo, nella convinzione maturata in loro, come molte loro lettere attestano, dell’influenza del sistema penale sulla vita dell’intera società nazionale. L’assidua, appassionata attenzione prestata dai radicali allo stato del sistema carcerario ha innescato un processo di maturazione attiva di forze civili sensibili e seriamente progressiste. Ma soprattutto ha suscitato un salto culturale in una parte sempre più larga della popolazione reclusa. Il fatto straordinario è che sempre più numerosi individui, quasi ostaggi della pur legittima pretesa punitiva pubblica, esclusi da ogni funzione sociale, espulsi dall’essere attivi, di fatto spogliati della dignità propria dei liberi, per la prima volta hanno lasciato alle spalle l’umiliazione della propria condizione e lo scoraggiato abbandono alla passività e al senso di mortificante impotenza. Per la prima volta i reclusi assumono un protagonismo civile. Essi hanno cominciato a ragionare su errori compiuti e ingiustizie subite, a non chiedere pietà né ruminare rivalse, ma a prendere coscienza dei loro diritti di uomini, a riappropriarsi della dignità di cittadini. È come se l’arto a lungo addormentato di un corpo vivente si fosse ridestato e avesse ripreso a funzionare integrato nell’unitaria volontà, e così un grave peso di sociale inerzia finalmente si fosse sciolto nel flusso del collettivo fervore. Tutto ciò deve richiamare l’attenzione delle forze politiche, e dell’opinione pubblica che nel bene e nel male ne condiziona gli orientamenti, sul dettato dell’art. 27 della Costituzione. Qui non solo si stabilisce che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità", ma pure che esse "devono tendere alla rieducazione del condannato". Certamente il lessico della norma non può più soddisfare. Fuori tempo è l’implicita referenza ideologica. Innanzitutto con l’espressione "senso di umanità", la legalità della pena nella sua concreta somministrazione è fatta dipendere da un sentimento, cioè da un fattore soggettivo, troppo indeterminato, e la si espone così all’arbitrarietà. È questa la cultura collettiva e politica in cui finora è prosperata l’inciviltà del sistema carcerario italiano, dove accanto a poche eccezioni positive convivono situazioni vergognose. Ma l’inadeguatezza meno drammatica eppure più rilevante sta nel termine "rieducazione". Vi s’intravede, inconsapevole, una sfumatura di schizzinosità perbenistica, la convinzione che il condannato sia un "mal educato", un individuo rimasto fuori dalla "buona educazione" in cui si riconosce la società normale. Da un tal punto di vista, ci si propone di sostituire nel reo la mala con la buona educazione, in breve di "ri-educarlo". Ebbene, il digiuno, a cui molte migliaia di detenuti hanno deciso di partecipare, si badi bene, non per "protesta" ma in "sostegno" morale delle ragioni del giubileo e della marcia, non vuol essere un esibito avvio di "buona educazione", quasi un passo verso la "ri-educazione", e perciò un prepararsi a meritare una graziosa benevolenza. Si tratta di ben altro. Qui è intervenuto il gesto, con cui un infelice popolo di esclusi dichiara il suo rientro nella comune appartenenza attiva, l’orgoglio dell’iniziata "reintegrazione" nella civile libertà. Si è oggi ad un punto in cui la ratio legis della seconda metà del secondo comma dell’art. 27, cioè l’intenzione normativa in essa implicita, non si può esprimere con il termine "ri-educazione". Essa piuttosto con nuova sensibilità va letta come "re-integro". La pena infatti vale solo se l’esperienza, che l’individuo ne fa, lo sollecita a "ri-collocarsi", a ri-occupare il posto perduto nell’organismo sociale. Funzione seria della pena, come oggi si comincia a intendere, non è la pretenziosa e mortificante "ri-educazione" del reo, bensì la rispettosa "re-integrazione" di cui egli è non il passivo gratificato ma l’impegnato attore. Tutto ciò significa che la pena detentiva, la cui funzione afflittiva sta nell’ assenza della libertà di scegliere dove e con chi stare, nell’essere insomma istituzionalmente in balia di altri, non può acuirsi fino a soffocare nel condannato l’attitudine più propriamente umana, l’agire produttivo, il riversare il pieno dell’ energia nel progettare ed eseguire un’opera. Perfino il "lavoro forzato", che un tempo si praticava nelle galere o negli ergastoli, per quanto umiliante e durissimo, è infondo meno brutale della costrizione all’inattività. Il lavoro forzato massacra i corpi, la forzata inattività massacra gli animi. L’esito infatti a volte è il suicidio. In gran parte delle nostre carceri le ore cadono lente nella testa dei detenuti e vi scavano buchi oscuri, come lo stillicidio li scava nella pietra. La riforma carceraria è un momento decisivo della ripresa del processo di modernizzazione dello Stato italiano. Si tratta di trasformazioni all’altezza della maturazione sociale in corso e al tempo stesso sue necessarie condizioni. Nelle carceri deve avvenire un cambiamento capace di rendere finalmente la detenzione uno stato di punizione, se meritata, non di tortura. Al centro del cambiamento va posto il concreto rispetto del diritto insopprimibile alla vita attiva, a quella libera operosità che vale, essa prima d’ogni altra, a restituire al detenuto il rispetto di se stesso e a consentirgli così di re-integrarsi nella pienezza della sua appartenenza sociale. Rimane l’altra fondamentale condizione necessaria del rispetto di sé e della re-integrazione: la ragionevole speranza che in ogni caso l’esclusione un giorno possa aver fine. Ma questo è un altro, assai inquietante discorso. Giustizia e amnistia. Intervista al Radicale Maurizio Turco di Matteo De Fazio riforma.it, 5 novembre 2016 Il sovraffollamento non è solo delle carceri, ma anche dei processi pendenti e delle violazioni dell’Italia nei confronti delle regole internazionali, secondo Maurizio Turco del partito Radicale. Domenica a Roma si terrà una marcia per riportare nel dibattito pubblico i problemi delle carceri italiane e per ribadire l’importanza di amnistia e indulto. Il 5 e il 6 novembre quasi diecimila carcerati attueranno uno sciopero della fame per attirare l’attenzione sulle condizioni degli istituti di pena. "Partiremo dal carcere di Regina Coeli verso Piazza San Pietro - racconta Maurizio Turco, della presidenza del partito Radicale - nel giorno del giubileo dei carcerati, indetto dal papa: facciamo forza sulla sua figura perché è stato lui ad abolire l’ergastolo nel Vaticano e a introdurre il reato di tortura, che invece in Italia ancora non c’è". Cosa significa questa marcia? "Non è una protesta, ma una proposta: rientrare nella legalità. Accendiamo i fari sul sovraffollamento carcerario, ma anche sul sovraffollamento giudiziario dei milioni di processi pendenti e delle migliaia di amnistie non conosciute e non deliberate dal Parlamento quali sono le prescrizioni; contro il sovraffollamento di illegalità da parte di questa Repubblica, definita criminale dalla Corte di giustizia dell’Unione europea e dalla Corte Europea dei diritti umani con le loro sentenze di condanna del nostro Paese per violazioni della legalità internazionale. Alcune persone, come Rita Bernardini, sono in sciopero della fame da ottobre perché c’è un emergenza nelle carceri: il Ministro Orlando ha fatto un buon lavoro ma non è sufficiente perché i problemi sono davvero tanti. Si possono risolvere, ma bisogna avere coraggio". Qual è la richiesta? "Ieri un esponente politico ha detto che non si può parlare di amnistia vicino alle elezioni, perché l’opinione pubblica non capirebbe. Ma noi chiediamo semplicemente dibattiti: la tv pubblica non informa i cittadini su questi temi, ma decide al posto loro, condizionandoli con il silenzio e censurando un dibattito, come questo, che è fondamentale. Lo è per questioni che riguardano i diritti umani, senza dubbio, ma anche per un problema di costi economici. La mancanza di giustizia nel Paese impedisce gli investimenti, la rinascita e la ricrescita dell’economia italiana, nonostante i tentativi dei diversi governi, e questo perché non si va alla radice del problema: non si ha il coraggio di dire che esistono delle misure come l’amnistia, che dev’essere approvata dal Parlamento ma che a qualcuno può sembrare ingiusta per la sensazione che si cancellino i reati con un colpo di spugna, e intanto c’è il silenzio sulle prescrizioni". Oltre al fatto che il carcere ha l’obiettivo di rieducare e reinserire il cittadino nella società. "Sì, è una condizione fondamentale, c’è scritto nella Costituzione. Il carcere riesce ad aver un pò di attenzione quando si parla di sovraffollamento, ma anche se non ci fosse questo problema, cioè se ciascuno avesse i tre metri quadri di spazio che gli spettano di diritto, rimarrebbe un’altra difficoltà: stare 23 ore al giorno in cella a non fare niente non ha senso. Di questo è necessario parlare con chi ha in mano la Costituzione, anche perché il costo sociale di un carcere organizzato come il nostro è altissimo: le recidive sono il prodotto della diseducazione carceraria". Sono state molte le adesioni alla marcia? "Per la prima volta ci sono segnali forti di mobilitazione: Il fondatore di Libera, Don Ciotti, ha aderito, così come le Acli e la Cgil Funzione Pubblica, e poi ci sono regioni che hanno aderito e verranno con il proprio gonfalone, come Piemonte, Basilicata e Calabria. Sono segnali fondamentali di un’attenzione che può contribuire a far cambiare l’idea sull’amnistia in questo Paese. Questa può essere vista non come un atto di liberazione dei colpevoli, ma come un atto di liberazione del Paese dalle proprie responsabilità criminali. L’obiettivo di questa quarta marcia è che non ce ne sia una quinta". Fp-Cgil alla Marcia per l’Amnistia "servono investimenti adeguati per riforma esecuzione penale" fpcgil.it, 5 novembre 2016 La Funzione Pubblica Cgil Nazionale aderisce alla Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà, indetta dal Partito Radicale in occasione del Giubileo dei Carcerati. La marcia, arrivata alla sua quarta edizione, si terrà domenica 6 novembre con un concentramento alle 9.30 di fronte al carcere romano di Regina Coeli, dal quale partirà il corteo che terminerà il suo percorso in Piazza San Pietro. È necessario, afferma la Fp Cgil Nazionale, "partecipare e denunciare il permanere di gravi carenze e pessime condizioni di vita delle nostre carceri. L’articolo 27 della Costituzione rischia davvero di non essere attuato nel mandato a realizzare la funzione di recupero del reo. Il governo, però, - prosegue - deve sapere che non si avvia alcuna profonda riforma dell’esecuzione penale, a partire dal sistema carcerario, senza investimenti nel reclutamento di nuovo personale, senza rinnovo dei contratti di lavoro, senza adeguati investimenti in formazione e aggiornamento continuo di poliziotti penitenziari, assistenti sociali ed educatori". Per la categoria dei lavoratori dei servizi pubblici della Cgil, "ogni buona intenzione riformatrice è destinata al fallimento, insomma, se oltre ad interventi su strutture che versano in uno stato di forte degrado, non si pone al centro il lavoro pubblico, tutto il lavoro pubblico. Il carcere deve essere davvero l’ultima scelta possibile spostando l’esecuzione penale, verso le pene e le misure alternative e riportando stabilmente così il nostro paese negli standard europei". Per questa ragione, conclude la Funzione Pubblica Cgil, "domenica 6 novembre saremo in piazza e parteciperemo alla Marcia per l’Amnistia per rivendicare ancora una volta il nostro impegno per far sì che venga riportato un livello di umanità all’interno delle strutture penitenziarie per i detenuti e per tutte le operatrici e tutti gli operatori che ogni giorno vi lavorano". L’inciviltà carceraria di Roberto Gervasini rmfonline.it, 5 novembre 2016 "Non sarà facile avanzare se non interverrà una vera conversione della mente, della volontà e del cuore. Il compito richiede l’impegno risoluto di uomini e di popoli liberi e solidali " (Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptor hominis, 1979, n. 16). I mangiapreti radicali investirono l’anno dopo le loro pur modeste guarnigioni in una campagna nazionale d’ informazione contro la fame nel mondo. Era il 1980. La chiesa cattolica appoggiò decisamente l’iniziativa. Son trascorsi da allora ben trentasei anni e nell’anno del Giubileo della Misericordia non si possono certamente ignorare i carcerati, come stabilisce una delle sette opere di misericordia corporali così magistralmente descritte e racchiuse nella tela mozzafiato del Caravaggio al Pio Monte della Misericordia nell’amata Napoli. Per il Giubileo dei carcerati ci sarà una marcia domenica 6 novembre che partirà dal carcere romano di Rebibbia per arrivare a Piazza san Pietro. La Cei ha dato la propria adesione. Miracolo della Misericordia dopo 36 anni? No. Anche a Varese la presenza del volontariato cattolico presso le carceri dei Miogni è vitale da tempo. Si lavora nel silenzio di tutti e nell’interessamento di nessuno. Poi ci sono anche laici e istituzioni, naturalmente, come CPIA ed i professori Roberto Caielli e Giovanni Bandi, tra gli altri. Invitata da Universauser Varese nell’ambito del Festival dell’Utopia, è giunta a Varese in ottobre Rita Bernardini, nel silenzio generale della stampa locale, con una sola vistosa eccezione. Rita, già parlamentare italiana ed europea, da anni gira per le carceri italiane non trascurando poi di riferire i misfatti a radio radicale, settimanalmente. La stessa, autorizzata dal magistrato, ha potuto avere accesso al carcere dei Miogni di Varese, non senza qualche resistenza. Premesso che il sistema carcerario è una cartina di tornasole del grado di civiltà di un paese, delle sue contraddizioni e difficoltà, c’è sofferenza in molti Paesi occidentali. Gli Stati Uniti segnano il record di oltre due milioni e mezzo di detenuti e in alcuni Stati americani la spesa carceraria supera quella per il sistema scolastico (si va in galera per guida in stato di ebbrezza). L’Italia è ormai alle prese con una crisi di sistema che richiede un intervento deciso e risolutore anche se i carcerati sono relativamente pochi, circa 60 mila. Di questi quasi la metà è teoricamente innocente, cioè è detenuta in attesa di giudizio. Di questa metà un terzo sono stranieri, gente spesso arrivata clandestinamente in cerca di futuro, senza lavoro, senza reddito, senza casa, senza istruzione, preda di venditori all’ingrosso di droghe leggere e pesanti sul libero mercato. Restano in cella molti, assistiti da un avvocato nominato d’ufficio, senza futuro. Al Carcere dei Miogni stazionano detenuti con pene da scontare inferiori ai tre anni. La popolazione oscilla intorno alle 70 unità. Il carcere è a dir poco fatiscente ed infatti è stata prospettata più volte la chiusura o il trasferimento in nuova struttura, verso le periferie. Ai Miogni una cella con due detenuti concede forse meno di due metri quadrati a testa di pavimento calpestabile. Una parete, sul fondo, divide la cella. Dietro questa parete un fornello e una turca. Dove si mangia si defeca, parrebbe capire, ma nessuno interviene per rimediare a situazioni sanitarie da lager. Magistrati? ASL? Organi di controllo? Sindacati del Corpo di Guardie Carcerarie? Regna il silenzio per quanto ne possiamo sapere. I topi, secondo quanto dichiarato da alcuni detenuti a Rita Bernardini, pare girino al piano terra, felici. Al piano terra in inverno fa troppo caldo mentre ai piani superiori si dorme con chili di coperte e la cuffia in testa per il freddo. Non è dato sapere se corre acqua solo fredda. È certo che molti detenuti son disposti a lavorare gratis fuori dal carcere e sarebbe utile che qualche istituzione provasse a prendere contatti, visto che i Miogni sono anche in zona centrale. Non si può essere fiduciosi, anche se per la prima volta un Presidente del Consiglio italiano in carica ha visitato un carcere. Matteo Renzi è stato al carcere di Padova, carcere modello, nell’ottobre scorso. Non era mai accaduto in 155 anni di Unità del Paese. Un segnale di cambiamento? È improbabile. C’è sempre altro come priorità di spesa anche se il carcere è ormai paragonabile ad un corso di studi superiore. Entri come piccolo delinquente ed esci laureato in più materie del delinquere perché nulla è la possibilità di riabilitazione, crescita interiore, progresso culturale serio. Per chi scrive la soluzione sarebbe l’abolizione del carcere, tutte le carceri, semplicemente. Meno spese, meno danni alle persone, meno scuola qualificata per un delinquere. Viste le statistiche e le indagini, non è una provocazione. Per chi crede resta il Giudizio finale. Dopo il Giubileo dei carcerati nel 2000 voluto da Giovanni Paolo II la situazione non è cambiata. Anche il Presidente Napolitano più volte chiese provvedimenti ed interventi al Governo senza alcuna risposta. La civiltà di un popolo la si misura dal regime carcerario. Ecco, appunto. Radicali e vescovi celebrano insieme il Giubileo dei carcerati, ma con finalità diverse di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 5 novembre 2016 Quando i radicali denunciano, con la radicalità loro propria, la situazione insostenibile delle carceri italiane e quando i cappellani o i Vescovi mettono al centro della loro attenzione la debolezza dei carcerati dentro i luoghi di detenzione, preparandosi a celebrare il loro Giubileo, dicono la stessa cosa o dicono cose diverse? Da un certo punto di vista, dicono la stessa cosa, ma da un altro punto di vista, dicono cose diverse. Certamente dicono la stessa cosa, in quanto sia gli esponenti politici radicali, sia i rappresentanti del mondo cattolico, hanno ben presente quanto sia ormai divenuta inumana e perciò invivibile la situazione delle carceri italiane. In questa prospettiva, mondo laico e mondo cattolico non possono che camminare insieme per stigmatizzzare come gli imputati riconosciuti colpevoli siano stati condannati ad una certa pena detentiva, ma non certo a vivere spesso in modo assai precario e umanamente inaccettabile. Tuttavia, è doveroso riconoscere come, per quanto dal punto di vista, per dir così, della "diagnosi", essi siano d’accordo, invece lo siano molto meno dal punto di vista delle finalità che ciascuno intende raggiungere. Infatti, mentre gli esponenti politici radicali, facendo in senso pieno politica (e che altro dovrebbero fare?), ingaggiano una vera e propria benemerita battaglia per ottenere la dovuta attenzione dal governo, allo scopo di riformare l’ordinamento giudiziario e soprattutto di affrontare una volta per tutte lo spinosissimo problema della edilizia carceraria; al contrario cappellani e Vescovi, celebrando il Giubileo (che letteralmente si riferisce al suono del corno del capro - Yobel - con cui veniva annunciata pubblicamente l’antica festività ebraica), hanno di mira un obiettivo completamente diverso: hanno di mira l’anima dei detenuti (e che altro dovrebbe loro importare?). La finalità propria del Giubileo è infatti quella di elargire, a certe condizioni, l’indulgenza plenaria per i peccati commessi, vale a dire non solo la remissione della colpa - come avviene attraverso il sacramento della confessione - ma anche quella della pena da scontare. Ecco perché il Giubileo si presenta come un evento a suo modo eccezionale, che può essere celebrato soltanto ad una certa distanza di tempo rispetto al precedente: perché si tratta di una cosa per certi versi inaudita ed incredibile anche per i credenti: e precisamente del fatto che la Chiesa storicamente data, quella che c’è qui ed ora, si assume la immane responsabilità di assicurare ai fedeli che soddisfino certe condizioni che non dovranno affrontare nessuna espiazione della pena per i peccati commessi, ma che saranno subito ammessi alla beatifica contemplazione di Dio (ovviamente, sempre che non ricadano, come è altamente probabile, in altri peccati). Ecco allora perché non sorprende che se, sul versante strettamente operativo, radicali ed episcopato possono anche registrare delle benvenute convergenze, su quello delle finalità da raggiungere, le loro strade debbano divergere. E meno male che è così. Ci mancherebbe che i radicali invece di protestare per l’edilizia carceraria, si mettessero a fare processioni verso le Basiliche giubilari o che i Vescovi si mettessero a digiunare, invece di guidare il popolo di Dio verso la conversione delle anime. È bene insomma - ed anche logico - che ciascuno faccia ciò che è chiamato a fare senza confusione o indebite interferenze. Infine, si tenga conto che il paragone che qui si è cercato di illustrare, in realtà, è asimmetrico, in quanto mentre i radicali sono professionisti della politica e perciò è logico che facciano il loro mestiere, cappellani e Vescovi sono pastori del gregge di Dio, non certo dediti alla politica né per vocazione né per professione. Il vero paragone dovrebbe perciò proporsi fra politici cattolici e politici non cattolici. Ma purtroppo pare che dei primi si siano perse le tracce. Marcia per l’amnistia: amici del Pd perché non venite con noi?! di Valter Vecellio Il Dubbio, 5 novembre 2016 Nel sito del Partito Radicale c’è un apposito spazio (amnistiaperlarepubblica.it), che è una specie di orologio: ogni giorno, con certosina precisione, censisce le adesioni alla marcia che avrà luogo domani a Roma. Una marcia che parte dal carcere di Regina Coeli per approdare a piazza San Pietro; i promotori l’hanno voluta intitolare a Marco Pannella e a papa Francesco. Una data non è casuale, il 6: è il giorno dell’Anno Santo dedicato ai detenuti, e alla più generale comunità penitenziaria; una marcia per quelli che da anni sono i chiodi fissi del Partito Radicale: "l’amnistia, la giustizia e la libertà". All’iniziativa hanno aderito un nutrito numero di amministrazioni e consigli comunali (per non far torto a nessuno, mi limito a citare il sindaco di Bologna, Merola), enti, associazioni; e decine di singole personalità: c’è davvero di tutto, laici e credenti di tante religioni, politici, esponenti di quel mondo della cultura e dello spettacolo, professionisti delle più svariate professioni; e naturalmente tanti detenuti. C’è anche un digiuno in corso, da parte di alcuni dirigenti e militanti radicali, guidati da Rita Bernardini. Digiuno di dialogo, com’è prassi dei radicali, e di confronto, con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Sarebbe bello trovasse un momento per incontrare e ascoltare i digiunatori, le loro ragioni; questo ostinato battersi in favore dei diritti degli "ultimi". Per una ragione, se si vuole, meramente egoistica: se sono tutelati e garantiti i diritti degli "ultimi", lo saranno anche quelli di chi "ultimo" non è. Il "manifesto" della marcia, disegnato da Vincino, mostra un ancor vivo e rigoroso Pannella che sulle spalle reca papa Francesco, che inalbera un cartello con la scritta: "Amnistia". Diavolo e acqua santa, si sarebbe tentati di dire; se non che, a volerla mettere così, non si capirebbe bene chi è il demonio, chi è l’acqua benedetta: perché l’anticlericale per eccellenza, da sempre, si può dire che aveva appena dismesso i pantaloni corti, e già mostrava attenzione e sensibilità per le ragioni del mondo dei credenti; mentre all’attuale pontefice, ritenuto da non marginali ambienti vaticani un "comunista", non si risparmiano polemiche e accuse di "sovversivismo". Come sia, parte del mondo cattolico si è da tempo schierato: dalla Caritas al gruppo di Libera, dalle Acli alla comunità di Sant’Egidio e la Fondazione don Luigi Di Liegro; e una quantità di "don": Luigi Ciotti, Antonio Mazzi, Albino Bizzotto dei "Beati costruttori di pace", tantissimi cappellani penitenziari. Non solo adesioni individuali: don Ivan Maffeis, portavoce della Conferenza episcopale italiana, intervistato da Radio Radicale, dice: "La Cei guarda con attenzione a questa iniziativa e come segreteria generale della Cei si dà una convinta adesione a l’iniziativa specifica in sé è vista, da parte nostra, come un’occasione proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica e, più in generale, anche il mondo politico sulla situazione in cui il nostro sistema penitenziario versa. L’augurio, e insieme all’augurio vogliamo metterci anche l’impegno, è che ci sia un’accoglienza delle istanze portate avanti proprio per superare il degrado in cui i detenuti ma non solo i detenuti, penso agli agenti, penso ai volontari e agli educatori, oggi si muovono". E dalle pagine di Avvenire, il giornale della Cei si è avviato un interessante e significativo "dialogo" tra il direttore del quotidiano e gli esponenti radicali. Si levano voci anche da sinistra. Non poche, neppure tante, però. Pesco qualche nome: Ileana Argentin, Guido Calvi, Vannino Chiti, Furio Colombo, Luigi Manconi, Valter Verini; e ancora: Luigi Ferrajoli, Giuseppe Giulietti, Aldo Masullo, Sergio Staino? E dire che è cosa che dovrebbe vedere mobilitata in prima persona proprio la sinistra; o almeno quella sinistra che ci si ostina a credere esista da qualche parte: quella animata da spirito liberale e libertario, rispettosamente laica, laicamente rispettosa. Si dice che l’amnistia di per sé non risolve il problema della grave crisi in cui da sempre, si può dire, si dibatte la giustizia in Italia; chi lo dice, ha ragione. È una misura strutturale, ma non risolutiva, "solo" per far tornare il sistema carcerario e quello giudiziario nella legalità; ma contemporaneamente bisogna procedere alle riforme necessarie. È un percorso che possiamo leggere sulle pagine ormai ingiallite di una Unità dell’11 agosto del 2011: Un passaggio che val la pena di rileggere: "Era così anche ai tempi del divorzio: i più prudenti suggerivano di accontentarsi del divorzio per i matrimoni civili, che allora erano l’1,8 per cento; noi invece abbiamo fatto in modo che sul divorzio fossero coinvolti tutti, famiglia per famiglia, a prendere posizione. E così deve accadere ora sulla condizione carceraria. Su carceri e amnistia dobbiamo far partire un grande dibattito nel paese". Lo scriveva Marco Pannella; valeva allora, vale oggi. C’è poi la specifica situazione delle carceri. Nonostante l’indubbia buona volontà del ministro Orlando, del Dap, della stragrande maggioranza dei direttori delle carceri, degli agenti di custodia, volontari ecc., la situazione è sempre disastrosa. E valga per tutto, quello che denuncia il presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe), Luciano Lucania. Ci spiega che a causa delle celle affollate e strutture di cura che non funzionano, le carceri italiane sono diventati moltiplicatori di patologie. Non solo non si guarisce, si contraggono malattie anche gravi: "Dietro le sbarre, c’è in gioco anche la salute dei detenuti. Alla società viene restituita in molti casi una persona malata. Tra il 60 e l’80 per cento delle persone recluse oggi in Italia soffre di una malattia. In quasi un caso su due si tratta di patologie infettive, mentre tre detenuti su quattro (circa 42 mila) soffrono di disturbi psichiatrici". Secondo i dati della Simspe, dei quasi 100 mila detenuti transitati negli istituti italiani nel 2015, 5mila sono positivi all’HIV, 25mila hanno l’epatite C e 6.500 l’epatite B. Ma si tratta solo di stime, perché circa la metà dei detenuti non sa di essere malato. Tra celle affollate, cure e strutture non sempre all’altezza e stili di vita non adeguati, i contagi sono più frequenti che altrove. La tubercolosi, ad esempio, che colpisce molti stranieri, in carcere si contrae dalle 25 alle 40 volte in più: "Dal 2008 l’assistenza sanitaria penitenziaria è passata dal ministero della Giustizia alle regioni", spiega Lucania. "Ma la fase di passaggio non si è ancora conclusa". Così, tra competenze in conflitto e diversi inquadramenti contrattuali, il risultato è che oggi non esistono ancora dipartimenti strutturati per la salute penitenziaria nei sistemi sanitari regionali. Tanto meno si sa quanti siano i medici che lavorano in carcere. Da anni si parla dell’istituzione di un osservatorio epidemiologico. Ogni regione dovrebbe fare il suo, per poi unire i dati a livello nazionale, in modo da prevenire i contagi. Finora lo hanno fatto solo Toscana ed Emilia Romagna. "Alcuni istituti hanno grandi spazi dedicati alla salute, altri solo piccole aree", dice Lucania. "Ma non sappiamo in che stato siano davvero gli ambulatori di sezione e che attività ispettiva venga fatta in questi luoghi". Ancora: in alcune regioni si fanno gli screening, in altre no. In certi casi i detenuti tossicodipendenti (il 30 per cento) vengono seguiti, in altri no. Tra promiscuità sessuale, tatuaggi fai-da-te e violenze, le malattie infettive proliferano. Ecco: sul provvedimento proposto dai radicali, ovviamente, le opinioni possono essere le più diverse. Ma si può, credo, tutti convenire sulla necessità e l’opportunità di questo grande dibattito, di questa collettiva riflessione. Magari a partire da quelle ormai lontane parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II, quando intervenne a Montecitorio, davanti alle Camere riunite, accolto da unanime, scrosciante applauso; e a seguire dagli appelli dell’attuale pontefice, e dal messaggio - l’unico - che il presidente emerito Giorgio Napolitano ha rivolto alle Camere, quand’era l’effettivo inquilino del Quirinale. La Marcia di domenica, e il digiuno di dialogo e speranza di Bernardini e gli altri, è questo che chiedono e sollecitano. Perché ognuno di noi vinca la propria ignavia, indifferenza, sfiducia; non "solo" si nutra speranza, ma si sappia, e soprattutto si voglia essere "speranza". E ora, compagni dentro e fuori del Partito Democratico: cosa aspettate a spezzare il pane con i radicali, come già fanno significative "quote" di mondo cattolico? Braccialetti fantasma, giustizia beffata di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 5 novembre 2016 Liste d’attesa infinite a livello nazionale, riunione tra magistratura e forze dell’ordine. Promessi e mai consegnati: la penuria di dispositivi elettronici condiziona la concessione degli arresti domiciliari. Prima di emettere un’ordinanza di custodia cautelare i giudici devono sapere se è disponibile il braccialetto elettronico, in quanto l’indagato non può restare in carcere in attesa se ne liberi uno. Ma le forze dell’ordine non hanno un elenco dei braccialetti disponibili, poiché sono gestiti direttamente da Telecom per conto dello Stato; la lista d’attesa è nazionale e soltanto dopo l’emissione di una misura cautelare è possibile sapere quanto tempo sarà necessario per ottenerlo. È paradossale la situazione che da mesi paralizza, di fatto, l’applicazione di una norma pubblicizzata come la soluzione di tutti i mali in un Paese afflitto da carceri sovraffollate al limite del lecito. Lo strumento elettronico consente, infatti, di verificare con certezza il rispetto dell’obbligo di arresti domiciliari: se l’indagato con braccialetto si muove da casa, suona l’allarme nella centrale operativa Beti, unica in tutta Italia, gestita da Telecom. Dunque il controllo è effettivo. Ma i braccialetti (in realtà sono cavigliere) messi a disposizione dal ministero della Giustizia sono troppo pochi: appena duemila in tutta Italia. E quelli in servizio sono "fantasma", insufficienti per far fronte alle necessità, soprattutto dopo le ultime modifiche normative al sistema delle misure cautelari, che impongono al giudice di motivare per quale ragione abbia deciso di imporre il carcere ad un indagato. In sostanza, il legislatore ha voluto che le misure alternative (domiciliari, obbligo o divieto di dimora ecc.) siano la norma, il carcere l’eccezione. Senza però fornire gli strumenti adeguati. Il ministro Angelino Alfano in primavera aveva promesso 10 mila nuovi braccialetti, ma non si sono ancora visti. E così al Palazzo di Giustizia continuano ad annaspare. Il presidente della sezione Gip del Tribunale di Venezia, Giuliana Galasso, ha convocato una riunione con le forze dell’ordine - polizia e carabinieri in particolare - per cercare di affrontare e risolvere le crescenti difficoltà. La questione non è semplice: bisogna conciliare la gestione burocratica dei braccialetti elettronici con la recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che impedisce ai giudici di imporre il carcere, in automatico, in mancanza dei braccialetti. Ogni caso va valutato a seconda della pericolosità dell’indagato. Ma, di fatto, non essendoci alcuna certezza sull’effettiva disponibilità dei braccialetti, le alternative restano soltanto due: carcere o domiciliari senza alcun controllo elettronico. La Camera penale veneziana ha protestato con forza, qualche mese fa, sollecitando il Governo a mettere a disposizione un numero adeguato di braccialetti in quanto in ballo vi è un principio cardine della nostra democrazia: la libertà personale. E non si può dire che lo Stato stia spendendo poco: ogni anno a Telecom vanno 11 milioni di euro per gestire i duemila braccialetti in funzione, somma che si aggiunge gli 80 milioni di euro versati dal 2001 al 2011 alla stessa società per l’utilizzo, in via di sperimentazione, dei primi 114 strumenti elettronici. Quanti dei duemila braccialetti siano utilizzati in Veneto nessuno lo sa: i dati non sono disponibili. Orlando: "Daremo ai cittadini i dati sul lavoro dei giudici" di Errico Novi Il Dubbio, 5 novembre 2016 Via Arenula metterà on line in tempo reale i risultati delle ispezioni. Così il Csm non potrà ignorarli. "C’è chi controlla i controllori". Andrea Orlando si riferisce all’ispettorato del suo ministero, che verifica performances e eventuali illeciti dei magistrati. Fin qui nulla di rivoluzionario: via Arenula ha sempre condotto sugli uffici giudiziari ispezioni ordinarie, non solo dettate da clamorose disfunzioni. La novità è che l’esito delle verifiche in futuro sarà messo on line in tempo reale: i "controllori", cioè i giudici, potranno essere indirettamente valutati dagli stessi cittadini. Il che può avere un peso anche nell’assegnazione degli incarichi direttivi da parte del Csm. Spiega il guardasigilli: "Già oggi il Consiglio superiore è in possesso di questi dati. Non è che sarà costretto a scegliere i nuovi capi in base alle risultanze delle ispezioni. Però nel momento in cui queste vengono rese pubbliche si crea una sindacabilità democratica che può pesare nelle scelte del Consiglio". In realtà Orlando si muove da mesi in una dialettica con la magistratura che a volte diventa conflitto. Lui spiega, come ha fatto pure ieri in conferenza stampa, che "parametri come l’eccesso di prescrizioni o di arretrato civile non dipendono solo dalle carenze di organico"; e visto anzi che spesso Tribunali e Procure "al completo" realizzano le prestazioni peggiori "è decisiva soprattutto la capacità organizzativa di chi dirige l’ufficio". L’Anm ribatte puntuale che no, non è un problema di "management della giurisdizione" e che nulla potrà cambiare finché ci saranno le attuali carenze, soprattutto sul fronte degli amministrativi. Perciò il ministro gioca una carta imprevedibile: rendere "pubblici in tempo reale" già dal prossimo futuro "i risultati dell’ispettorato: al Csm noi forniamo già per ogni singolo ufficio statistiche sulla durata dei processi e sull’estinzione dei reati: ora offriamo all’opinione pubblica i numeri su quanto apprendono i nostri ispettori". Così a Palazzo dei Marescialli non potranno ignorare quel parametro, nelle "promozioni" dei magistrati. O almeno potranno essere chiamati a spiegare perché non ne hanno tenuto conto. All’incontro con i giornalisti il ministro della Giustizia è affiancato dal capo di gabinetto Giovanni Melillo e dalla numero uno dell’Ispettorato di via Arenula Gabriella Cesqui, oltre che dal sottosegretario Cosimo Ferri. È la prima volta che gli "score" dell’attività ispettiva vengono esposti ai media con tanta sistematicità: nella cartella che li illustra dal 2014 a oggi si apprende per esempio che le sedi giudiziarie messe sotto la lente d’ingrandimento sono state in tutto 212. In tre anni significa che dal ministero hanno monitorato il lavoro di 7.068 magistrati togati e 3.144 onorari (che ora peraltro proclamano lo sciopero dal 21 al 25 novembre). C’è il numero delle toghe oggetto di procedimento disciplinare: quest’anno sono aumentate quelle promosse dal ministro (siamo già a 59 contro le 48 del 2015), a fronte di una netta diminuzione (dalle 135 di due anni fa alle attuali 47) di quelle avviate dal procuratore generale. In ogni caso le sentenze di condanna della sezione disciplinare del Csm restano un terzo del totale. Nel mirino degli ispettori diretti da Cesqui non finiscono solo i ritardi nel deposito delle sentenze: "Prevarrà sempre più la verifica sull’organizzazione". A breve si saprà anche se la nuova responsabilità civile ha fatto danni: Orlando già dice però "non c’è stata un fuga di magistrati dai processi, come paventato dall’Anm: che reagisce a ogni riforma e forse dovrebbe farlo in modo più pacato". Chissà come prenderà Davigo lo squarcio di quest’altro velo della giurisdizione. Un detenuto non perde il lavoro esterno perché è uscito a comprare un panino La Repubblica, 5 novembre 2016 Cassazione. Prima sezione penale. Sentenza n. 46.583. Accolto il ricorso un 36enne ammesso al lavoro esterno come portiere alla stazione di Bari, al quale il magistrato di sorveglianza aveva revocato la misura perché si era allontanato per andare in salumeria. Non perde la semilibertà il detenuto ammesso al lavoro esterno, nel corso della espiazione della pena, che con l’autorizzazione del datore di lavoro si allontana per acquistare un panino in salumeria, dal momento che dove svolge il suo impiego non ci sono punti di ristoro né distributori automatici di vivande. Lo rimarca la Cassazione accogliendo il ricorso di Gerardo G., un detenuto di 36 anni ammesso al lavoro esterno come portiere alla stazione di Bari, al quale il magistrato di sorveglianza aveva revocato la semilibertà perché i carabinieri non lo avevano trovato al lavoro durante il controllo. L’uomo ha fatto presente di essere stato autorizzato dal datore ad andare tutti i giorni in salumeria per 15 minuti, giusto il tempo di acquistare un panino e tornare indietro, e di non avere avuto alcuna intenzione di evadere. La Cassazione ha accolto il suo reclamo ordinando al magistrato di sorveglianza di Bari di rivalutare la sua decisione in quanto "la revoca della misura non può conseguire al mero riscontro di violazioni di legge o delle prescrizioni della misura": il tribunale "deve valutare e spiegare le ragioni per le quali la violazione commessa deve ritenersi indicativa di una volontà di allontanamento dalle finalità proprie della misura stessa". I supremi giudici inoltre fanno presente che "l’autorizzazione del datore di lavoro ad allontanarsi dalla postazione lavorativa, per il tempo e le finalità indicate, non esimeva il detenuto dal richiedere al magistrato di sorveglianza la corrispondente autorizzazione". Tuttavia - prosegue la Cassazione - "l’incidenza della predetta autorizzazione" poteva far pensare al detenuto di non commettere alcun comportamento "di disvalore e gravità", e questa circostanza deve essere valutata in suo favore. Così il verdetto 46.583 della Prima sezione penale ha rinviato l’analisi di questo caso al tribunale di sorveglianza di Bari. Intervista a Michele Anzaldi (Pd): "la Rai mandi in onda il docu-film sul fine pena mai" di Valentina Stella Il Dubbio, 5 novembre 2016 Il 4 novembre, l’associazione radicale Nessuno tocchi Caino ha presentato il docu-film di Ambrogio Crespi "Spes contra spem. Liberi dentro" nel Teatro del Carcere di Rebibbia. Tra gli ospiti il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, il Capo di Gabinetto del Ministero della Giustizia Giovanni Melillo, il Capo del Dap Santi Consolo, il direttore del carcere Mauro Mariani e il regista Ambrogio Crespi. Il docu-film, già presentato sempre alla presenza del ministro Orlando alla 73^ Mostra d’Arte internazionale cinematografica di Venezia e proiettato alla Festa del Cinema di Roma, è frutto del dialogo e della riflessione comune di detenuti e operatori penitenziari della Casa di Reclusione di Opera sul tema dell’ergastolo ostativo, sul "fine pena mai". L’onorevole del Pd Michele Anzaldi, membro della Commissione di Vigilanza Rai, qualche giorno fa ha rivolto un appello al Presidente della Rai Monica Maggioni, chiedendo di mandare in onda il docu-film. Nel frattempo i radicali hanno organizzato una conferenza stampa davanti alla sede Rai di Viale Mazzini dal titolo: "Se il servizio pubblico non vuole ascoltare il Partito Radicale, il Partito Radicale va a parlare al servizio pubblico". Onorevole ha ricevuto qualche risposta? Sì, la presidente Maggioni mi ha risposto che la Rai sarebbe entrata in contatto con la produzione per valutare la possibilità di valorizzare il docu-film. La messa in onda sarebbe certamente una scelta in linea con le prerogative del servizio pubblico. Come mai il tema delle carceri riceve così tanta disattenzione da parte del servizio pubblico della Rai e della stampa in generale? Forse perché viene ritenuto, a torto, lontano dall’interesse dei cittadini. In realtà i temi della sicurezza e della giustizia, come anche della lotta alla criminalità organizzata, sono continuamente all’ordine del giorno, nell’agenda del nostro Paese, e la questione carceraria ci rientra pienamente. È giusto che i cittadini, in particolare coloro che pagano il canone, possano essere informati in maniera approfondita anche sull’espiazione della pena, sui percorsi rieducativi, sul trattamento dei detenuti. Se la Rai non lo manderà in onda farà lo stesso appello alle altre reti? L’appello che ho lanciato nei giorni scorsi era già rivolto a tutte le tv. Se la Rai dovesse tardare a dare delle risposte, mi auguro che altre emittenti vogliano mettere a disposizione i propri spazi per un docu-film che tutti gli italiani dovrebbero poter vedere. L’accusa di Amnesty International: in Italia migranti maltrattati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 novembre 2016 Nel mirino gli hotspot visitati quattro volte dai rappresentanti dell’organizzazione. Torture e abusi negli hotspot italiani. A denunciare la situazione di queste strutture volute dalla Commissione Europa è Amnesty International con un dettagliato rapporto di 60 pagine dove analizza le responsabilità concrete dell’Italia e quelle politiche dell’Europa. Il dossier analizza le conseguenze delle tre missioni degli hotspot: la raccolta obbligatoria delle impronte digitali, lo screening immediato per stabilire le necessità di protezione e separare migranti irregolari da richiedenti asilo, e l’applicazione del rimpatrio forzato in paesi d’origine dove queste persone sono "a rischio di persecuzione o tortura". Le informazioni presentate in questo documento - viene premesso nel dossier - sono state raccolte da rappresentanti di Amnesty International durante il 2016, attraverso quattro visite a diverse città e centri di accoglienza in Italia: Roma, Palermo, Agrigento, Catania e Lampedusa (marzo), Taranto, Bari e Agrigento (maggio), Genova e Ventimiglia (luglio), Roma, Como e Ventimiglia (agosto). Alcune informazioni sono basate su precedenti visite in Italia, comprese quelle ai centri di accoglienza di Lampedusa e Pozzallo a luglio 2015. Durante queste visite, Amnesty International ha intervistato 174 rifugiati e migranti e ha avuto conversazioni più brevi con molti altri. Le interviste hanno avuto luogo in centri di accoglienza che hanno la funzione di hotspot (Lampedusa e Taranto), in altri centri di accoglienza gestiti dalle autorità italiane o da Ong (inclusi centri di accoglienza a Ventimiglia) e anche fuori da queste strutture, in particolare a Roma, Ventimiglia e Como. La maggior parte delle interviste è stata fatta a uomini, rispecchiando lo squilibrio di genere tra rifugiati e migranti, tuttavia sono stati intervistati anche donne e minori non accompagnati. Amnesty International ha parlato con persone di almeno 10 diverse nazionalità, tuttavia questo rapporto cita esplicitamente solo i casi di alcune delle persone che hanno riferito ad Amnesty International di aver subito gravi violazioni dei diritti umani - e queste provengono principalmente dal Sudan e, in quantità minore, da Eritrea ed Etiopia. Sono state rimosse con attenzione le informazioni che potessero rivelare l’identità dei singoli rifugiati, richiedenti asilo e migranti, per rispettare la loro riservatezza e non pregiudicare la loro sicurezza personale o procedure d’asilo in corso. A marzo, Amnesty International spiega che ha incontrato il capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione presso il ministero dell’Interno, prefetto Mario Morcone. Durante le visite agli hotspot di Lampedusa e Taranto, così come ad Agrigento e Ventimiglia, i delegati di Amnesty International hanno anche ottenuto informazioni dalla polizia e da altri funzionari operanti in tali città. Amnesty International ringrazia questi funzionari per la loro disponibilità, e tuttavia esprime rammarico per il fatto che il direttore centrale per l’immigrazione e la polizia delle frontiere del ministero dell’Interno, prefetto Giovanni Pinto, il cui ruolo è centrale in questo ambito, non abbia potuto rendersi disponibile per un incontro con Amnesty International e non abbia risposto alla lettera che l’organizzazione gli ha inviato a giugno 2016, chiedendo informazioni su screening e iter al quale sono sottoposti i nuovi arrivati. Durante l’anno, Amnesty International ha inviato due lettere al ministro dell’Interno, On. Angelino Alfano, esprimendo preoccupazione in relazione ai risultati provvisori della ricerca e chiedendo informazioni sull’uso della forza e della detenzione per il rilevamento delle impronte digitali dei nuovi arrivati e sulla riammissione di cittadini di paesi terzi, in particolare del Sudan. Il ministro Alfano ? dichiara amaramente Amnesty- non ha risposto ad alcuna delle lettere. Amnesty ha raccolto testimonianze shock di alcuni rifugiati e migranti i quali hanno dichiarato di aver subito torture per costringerli a dare le impronte digitali. Queste comprendevano accuse di pestaggi che hanno causato dolori forti, scosse elettriche tramite manganelli elettrici, e umiliazione sessuale e inflizione di dolori ai genitali. Alcuni hanno denunciato di aver subito duri pestaggi da parte di agenti di polizia, riferendo come questi avessero continuato a picchiarli per diversi minuti, infliggendo loro dolore con pugni, calci e manganelli. In un passaggio del rapporto si legge la testimonianza di Adam, un ragazzo di 27 anni del Darfur, sbarcato al porto di Catania il 26 giugno 2016 dove la polizia poi l’ha trasferito in autobus verso una stazione di polizia dove dovevano dare le impronte digitali. "Al piano terra c’era una sala di attesa, al primo piano l’ufficio per l’identificazione. Ci hanno portati lì tre persone alla volta. Non c’era un interprete, ci chiedevano solo di dare le impronte. Io ho rifiutato. C’erano sei poliziotti in uniforme. Mi hanno picchiato col manganello sulle spalle, al fianco e sul mignolo della mano sinistra, che da allora non riesco a raddrizzare. Sono caduto e mi hanno preso a calci, non so quante volte, per circa 10 minuti. Avevo paura". Altra testimonianza riportata dal rapporto è quella di Abker, 27 anni sempre del Darfur: "Ci hanno portati a uno a uno in una stanza dove c’erano almeno sette poliziotti, alcuni seduti alla scrivania. Nessuno parlava arabo. Poi mi hanno preso le mani per metterle sulla macchina. Mi sono ribellato e allora hanno cominciato a prendermi a pugni e a calci su tutto il corpo, per mezz’ora. Alla fine mi hanno preso le impronte digitali". Secondo Amnesty International anche i minori avrebbero subito dei pestaggi. Viene riportata la testimonianza di un ragazzino sudanese di 16 anni arrivato nella notte del 26 giugno 2016 in un porto del sud Italia, ma che poi è riuscito a raggiungere Torino, nel nord del paese, senza lasciare le impronte digitali. Tuttavia, alla stazione ferroviaria di Torino, la polizia ha fermato lui e l’ha portato in un ufficio di polizia all’interno della stazione ferroviaria. "Mi hanno chiesto di lasciare le mie impronte - racconta il ragazzino sudanese -, ma ho rifiutato. Ero solo con cinque poliziotti che mi hanno picchiato. Uno di loro mi ha dato un calcio sulla caviglia, con le scarpe della polizia che hanno la punta di ferro. Mi fa ancora male. Mi hanno dato pugni dappertutto e mi piegavano indietro le dita. Alcuni mi giravano le mani verso la macchina per le impronte, altri mi davano pugni". Sulla vicenda si registra la smentita del prefetto Mario Morcone, capo Dipartimento immigrazione del Viminale: "Che le forze di polizia operino violenza sui migranti è totalmente falso. Sono rimasto sconcertato nel leggere queste cretinaggini. Amnesty - ha aggiunto - costruisce i suoi rapporti a Londra, non in Italia". Turchia. Il golpe di Erdogan. "È come se avessero bombardato di nuovo il parlamento" di Mariano Giustino Il Manifesto, 5 novembre 2016 Retata di parlamentari del partito di sinistra filocurdo Hdp, terza forza politica del paese. In carcere il leader Demirtas e altri 13. "È come se avessero bombardato di nuovo il parlamento" ha detto Sezgin Tanrikulu, deputato del Partito repubblicano del popolo (Chp), il maggior partito d’opposizione, poche ore dopo la diffusione della notizia dell’arresto di 14 parlamentari del Partito democratico dei popoli (Hdp), il partito filocurdo e di sinistra libertaria di Selahattin Demirtas. Dichiarazioni che si susseguivano, mentre a Diyarbakir un’autobomba colpiva l’edificio che ospita l’antiterrorismo, provocando almeno 8 morti. Dalla sera prima le autorità avevano reso irraggiungibili i social network e limitava i servizi di WhatsApp e Instagram. Ieri in Turchia è accaduto quello che ci si aspettava dal 7 giugno del 2015, dopo il successo elettorale della formazione politica filocurda che per la prima volta è riuscita ad avere un suo gruppo parlamentare ed è diventata la terza forza politica del paese. Il governo Akp e il presidente Erdogan in questi 16 mesi hanno duramente criminalizzato l’importante componente politica, accusata di essere il braccio politico dell’organizzazione armata Pkk. L’esito di quel voto che fece perdere all’Akp la maggioranza parlamentare di cui aveva goduto fino ad allora, non portò ad alcun governo e dunque si tornò al voto dopo pochi mesi, il 1° novembre. Il risultato delle ultime elezioni riconsegnò la maggioranza dei seggi al partito di governo, ma a sbarrare la strada alle ambizioni del presidente Erdogan, mirante a instaurare un regime presidenziale senza i dovuti contrappesi, è stata la presenza in parlamento di 59 deputati del partito filocurdo. Questo ha determinato anche il successo elettorale dell’Hdp, col 13,5% dei voti e una rappresentanza parlamentare di ben 80 deputati, facendo perdere al Pkk il ruolo di primo piano che aveva nella rappresentanza della componente curda. E ha inoltre sconvolto i piani del presidente turco che sperava di ottenere la maggioranza dei due terzi in parlamento per realizzare la sua riforma costituzionale. Cosa che non è avvenuta proprio per l’entrata in campo del Partito democratico dei popoli. Dunque Erdogan mira a delegittimare il partito guidato dal giovane avvocato attivista per i diritti umani Selahattin Demirtas, che si era presentato alle elezioni come argine allo strapotere del presidente e avendo al centro della propria agenda la difesa e la promozione dei diritti umani e i diritti di tutte le minoranze etniche e religiose. Aveva mandato un segnale molto chiaro all’Unione europea, affinché sostenesse la rinascita democratica del paese nella speranza che si aprisse una nuova e decisiva fase nei rapporti tra Ankara e Bruxelles. Il leader dell’Hdp in questi mesi non si è affatto risparmiato nell’esortare i combattenti curdi a deporre le armi. Ma finora i suoi appelli sono caduti nel vuoto perché il partito armato vuole con la forza riconquistare la sua centralità politica. I parlamentari arrestati ieri hanno dichiarato al procuratore che ha firmato il provvedimento come loro rispondano solo ai cittadini che li hanno eletti. Solo loro "possono mettere in discussione la nostra attività politica - hanno detto durante l’interrogatorio. Aggiungendo: "Noi non riconosciamo in voi degli organi giudiziari imparziali e dunque ci asteniamo dal rispondere alle vostre accuse". Il testo di difesa comune era stato preparato dai legislatori dell’Hdp dopo la modifica costituzionale sulla sospensione dell’immunità parlamentare, avvenuta il 20 maggio scorso. Demirtas è tra coloro che hanno utilizzato tale dichiarazione congiunta per la difesa, lo ha confermato l’avvocato Ramazan Demir. E personalmente avrebbe dichiarato: "Non voglio rispondere alle vostre domande. Non credo che l’eventuale procedimento legale che sarà avviato da voi sia legittimo. Anche la mia detenzione è illegale. In una circostanza in cui è compromessa la dignità della giustizia, io non accetto di essere oggetto di un tale processo. Non voglio essere parte di una farsa giudiziaria, che è stata messa in scena su ordine del presidente Recep Tayyip Erdogan. Questa è una storia personale molto discutibile", ha aggiunto il leader dell’Hdp. Con questi arresti la Turchia si allontana ulteriormente da una seria prospettiva di pacificazione della sua società. Si sta tornando, come negli anni 80 e 90, alla sistematica divisione tra turchi e curdi. Con il rischio serio di un bagno di sangue. Insieme al leader carismatico e presidente Selahattin Demirtas, tra i parlamentari arrestati durante la notte vi sono leader storici del movimento curdo, tra i fondatori dell’Hdp come Figen Yüksekdas, Idris Baluken, Gülser Yildirim, Leyla Birlik, Sirri Süreyya Önder e Ziya Pir. Poi nella serata di ieri questi ultimi due sono stati rilasciati. Turchia. Bruxelles: "arresti agghiaccianti", ma teme per il patto sui migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 5 novembre 2016 Un’altra "linea rossa" è stata superata. Sono trascorsi appena quattro giorni da quando Martin Schulz ha definito l’arresto dei giornalisti di Cumhuriyet - l’ultimo giornale d’opposizione rimasto in Turchia - come il superamento "dell’ennesima linea rossa contro la libertà di espressione" in quel paese, ed ecco arrivare la notizia dell’arresto dei deputati del partito democratico dei popoli (Hdp), preceduta dalla conferma di altri due arresti, riguardanti questa volta i due sindaci di Diyarbakir, la capitale curda nel sud est dell’Anatolia. "Un segnale agghiacciante dello stato del pluralismo in Turchia", commenta il presidente del parlamento europeo. "Ci aspettiamo che la Turchia salvaguardi la sua democrazia parlamentare, così come il rispetto dei diritti umani e lo stato di diritto", gli fa eco la rappresentante della politica estera dell’Unione europea Federica Mogherini, che ha anche telefonato al ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu. Per l’ufficio diritti umani dell’Onu, invece, quanto sta accadendo sta andando "oltre ciò che è ammissibile". L’Ue ha più di un buon motivo per guardare con timore alle notizie in arrivo da Ankara. Alla preoccupazione per le conseguenze dell’ennesimo atto di repressione attuato da Recep Tayyip Erdogan si somma quella, sempre più concreta, di vedere saltare l’accordo sui migranti siglato a marzo con Ankara e caposaldo, insieme al migration compact, degli sforzi di Bruxelles per fermare i flussi verso l’Europa. Non ci sono dubbi, infatti che quell’accordo sia sempre più in bilico. Da mesi Erdogan chiede all’Ue la liberalizzazione dei visti consentendo così ai turchi di girare liberamente nell’area Schengen. Richiesta che fa parte dell’accordo di marzo e che Bruxelles si è sempre detta pronta a soddisfare a patto che Ankara risponda ai 72 criteri richiesti per la sua approvazione. Finora ne sono stati soddisfatti 67 e secondo il commissario per l’immigrazione Dimitri Avramopoulos non ci sarebbero problemi neanche sugli ultimi cinque se non fosse che tra questi c’è la richiesta di modificare la legge contro il terrorismo, giudicata da Bruxelles niente di più che un espediente per cancellare l’opposizione interna. Punto su quale Erdogan non intende però cedere. La questione per l’Unione è ormai diventata imbarazzante. Non passa infatti praticamente giorno senza che Ankara minacci di far saltare tutto. "La nostra pazienza sta finendo", ha avvertito due giorni fa Cavusoglu. "Se non verrà concessa la liberalizzazione dei visti non aspetteremo la fine dell’anno per sospendere l’accordo". E prima di lui minacce analoghe sono arrivate dallo stesso Erdogan che ha anche accusato la Germania di essere "diventata un posto dove i terroristi si rifugiano" dopo che Berlino non ha escluso di non concedere l’estradizione di alcuni oppositori. Il giorno in cui tutti i nodi arrivano a pettine potrebbe non essere lontano. Salvo slittamenti diplomatici (già verificatisi in passato), la Commissione europea dovrebbe presentare la prossima settimana l’annuale rapporto sui Paesi dell’allargamento in cui verranno presentati anche gli sviluppi raggiunti dalla Turchia. Visto quanto accaduto nelle ultimi giorni per quanto riguarda rispetto del pluralismo e dei diritti umani e libertà di stampa, difficilmente i risultati potranno essere positivi. Altri elementi contribuiscono poi a rendere più complicate le cose. Entrambi i contendenti non possono fare infatti passi indietro senza rischiare di perdere la faccia. Erdogan, che non vuole cedere sulla normativa anti-terrorismo, deve anche rispettare la promessa fatta ai suoi cittadini sui visti. Bruxelles non può concedere la liberalizzazione dei visti se prima Ankara non si allinea ai principi dei democrazia che sono alla base dell’Unione europea. Non a caso ieri i ministri degli Interni di Austria, Cechia e Slovacchia hanno chiesto a Bruxelles di prepararsi a far fronte alle conseguenze di un eventuale fallimento dell’accordo sui migranti. Turchia. L’implacabile "sultano", l’alt da dare. Cose turche e d’Europa di Vittorio E. Parsi Avvenire, 5 novembre 2016 Recep Tayyp Erdogan continua implacabile la sua marcia per completare la trasformazione della Turchia da un possibile Stato di diritto, di tipo europeo, membro candidato all’ingresso nella Ue, a satrapia mediorientale, in cui il "reis" può stravolgere le leggi, e la loro applicazione, a suo piacimento. L’arresto per non meglio specificate azioni terroristiche di Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, leader del Partito democratico dei popoli (Hdp, il principale partito curdo che nel Parlamento di Ankara occupa 70 seggi), insieme a un’altra decina di parlamentari del medesimo partito, è davvero, per dirla con il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, "un segnale spaventoso sulle condizioni del pluralismo politico in Turchia". Il Hdp aveva raccolto alle ultime elezioni politiche, nonostante i pesantissimi condizionamenti delle frodi e delle manipolazioni a favore dell’Akp di Erdogan, il 10% dei voti. Soprattutto, quella curda rappresenta la sola, vera opposizione agguerrita. Il disegno di Erdogan è fin troppo chiaro: disintegrare il partito curdo per impedirgli di superare la soglia di sbarramento del 10% (sotto la quale non si può accedere alla Camera dei deputati), così da consentire al suo Akp di fare il pieno dei voti alle future elezioni, raggiungendo il quorum necessario a riformare la Costituzione in senso presidenziale. L’ossessione per questo disegno dell’uomo forte del Bosforo, che a partire dal 2011 ha accentuato il suo autoritarismo e la violenza verbale delle sue dichiarazioni, assomiglia sempre più a una vera manifestazione di paranoia politica. Già oggi infatti il "sultano" governa la Turchia esercitando la sua volontà assoluta, mandando in galera chiunque gli si opponga, lo derida o, semplicemente, non lo aduli, in una maniera che fa sembrare il presidente russo Vladimir Putin un paladino della democrazia liberale. Da quando il misterioso e per lui provvidenziale tentato golpe del 15 luglio scorso è fallito, Erdogan ha impresso un ulteriore, fortissimo giro di vite alla natura illiberale e arbitraria del regime: dopo i militari, i magistrati, i docenti universitari, i professori, i funzionari statali e gli imprenditori è ora la volta dei deputati. Nel caso della minoranza curda non può sfuggire che l’inasprimento delle misure repressive all’interno è associato all’offensiva militare che le forze di Ankara vanno conducendo contro i peshmerga: per ora in Siria, prossimamente in Iraq, perlomeno a sentire le preoccupazioni esternate dalle autorità di Baghdad. Su quest’ultimo fronte, mentre gli Stati Uniti sono vergognosamente latitanti, alle prese con una campagna presidenziale tanto infinita quanto infinitamente mediocre, Ankara ha trovato l’oggettiva connivenza russa e la sostanziale "non belligeranza" iraniana. Ma è un fatto: negli ultimi anni, le mosse pasticciate, miopi e arroganti di questo leader dall’ego smisurato non hanno fatto altro che contribuire a rendere il Levante l’inferno che è. Per essere estremamente chiari, occorre fermare Erdogan: innanzitutto nella sua pericolosa megalomania internazionale; ma anche è necessario pressarlo per la sua scellerata politica interna. Trovare il modo non sarà facile, eppure le sedi esistono: a cominciare da quelle europea e della Nato. Ora vediamo come eravamo stati facili profeti nel mettere in guardia la signora Merkel dallo stringere un patto con il signore del Bosforo per "risolvere" la partita tedesca dei migranti e dei rifugiati. Proprio la signora della politica europea rischia di pagare molto cara la sua incauta apertura di credito a Erdogan. Quest’ultimo agita per nulla velatamente la minaccia di riaprire il rubinetto del flusso dei profughi attraverso l’Egeo e i Balcani. Dobbiamo sperare che in un soprassalto di dignità e coraggio, l’Europa, a partire dalla Germania, sappia trovare la forza di sottrarsi al ricatto. Isolare la Turchia sarebbe sbagliato: ma farle capire in maniera dolorosa e costosa quali sono le conseguenze della sua scelta di isolarsi nei confronti dell’Europa è la sola via possibile. Altrettanto dovrebbe fare la Nato, da cui è lecito attendersi un comportamento meno vergognoso di quello tenuto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settante del secolo scorso nei confronti dei colonnelli golpisti greci: sempre che i concetti di "democrazia" e di "alleanza delle democrazie" significhino ancora qualcosa. Pakistan. Un milione di afgani a un passo dall’espulsione di Emanuele Giordana Il Manifesto, 5 novembre 2016 Tra gli arrestati e multati da Islamabad anche Sharbat Gula, da bambina la sua foto fu l’icona della guerra in Afghanistan. A Sharbat Gula è andata forse meglio che ad altri afgani che, come lei, vivono in Pakistan da anni e che adesso Islamabad ha deciso di espellere obbligandoli a far ritorno a casa, dove spesso casa non hanno più. Sharbat Gula, arrestata a fine ottobre con documenti contraffatti, è stata condannata a una multa, a quindici giorni di carcere e all’espulsione. Ma non è una rifugiata qualsiasi. È la donna che divenne l’icona della guerra afgana conquistando la copertina di National Geographic con una foto di Steve McCurry. La foto rese famosa lei e ancor più famoso lui che l’aveva utilizzata come modella nel 1984, quando lei aveva 12 anni, nel campo profughi di Nasir Bagh a Peshawar, capitale della provincia di confine dove vive la maggior parte dei 2,6 milioni di afgani fuggiti dalla guerra. Nel giugno del 1985 Sharbat Gula ebbe il suo momento di gloria mediatica senza neppure saperlo. Solo sette anni dopo si seppe di chi era il volto anonimo di quella ragazzina ormai diventata donna. Ora è anche madre. Forse la sua notorietà le ha risparmiato pene maggiori. Degli oltre 2 milioni e mezzo di afgani che vivono in Pakistan, un milione e 600 mila sono registrati, ma un milione è senza documenti, come nel caso di Sharbat Gula. Mettersi a posto non è semplice, specie per chi vive da decenni nei campi. Nel 2009 il Pakistan ha cercato di dare il via a un piano di rimpatrio ma alla fine le cose non sono andate molto avanti. L’accelerazione è recente. Negli ultimi mesi la polizia pachistana ha cominciato gli sgomberi: per chi vuole andare c’è un incentivo. Per chi non vuole c’è uno spintone. Nel giro di pochi mesi sono stati espulsi 400 mila afgani ed entro dicembre Islamabad ne voleva rimpatriare altri 600mila. Poi, dopo le pressioni dell’Onu, ha rinviato a marzo. Ma pare che voglia rispettare la data. Un milione di afgani che rientrano si aggiungeranno a un altro milione e duecentomila sfollati interni cui si sommeranno gli 80 mila afgani che la Ue, che ha fatto firmare a Kabul un accordo capestro in tal senso, vuole espellere dalle frontiere europee. Una goccia se paragonati al milione del Pakistan. Chi vuole tornare sarà aiutato ma chi non vuole - e l’accordo appena firmato tra Bruxelles e Kabul parla chiaro - verrà accompagnato su aerei di linea dove nei prossimi mesi ci saranno 50 posti riservati agli espulsi. Il parlamentare Giulio Marcon ha chiesto spiegazioni al governo. Che per ora tace. Il Pakistan ha una lunga storia di ospitalità: nel 2002 ha firmato un accordo con l’Alto commissariato dell’Onu (Acnur) per i rimpatri volontari e circa 3 milioni di afgani hanno fatto volontariamente ritorno ma per altri è davvero dura: molti di coloro che sono tornati non hanno più trovato le loro terre, confiscate da signori della guerra e banditi locali e per altri il ritorno è impossibile proprio perché sanno che la loro casa non c’è più, che in Afghanistan c’è ancora guerra e scarse occasioni di lavoro. Quanto al Pakistan è ormai per la linea dura: c’è chi suggerisce che i rifugiati sono un problema economico e chi aggiunge che il Pakistan ha già i suoi sfollati interni per guerra o carestie. Ma c’è anche una ripicca con Kabul che Islamabad accusa di dare asilo ai talebani pachistani oltre al fatto che l’Afghanistan manovra per escludere il Pakistan dal negoziato con la guerriglia.