Il Papa accoglie mille detenuti. San Pietro diventa un grande penitenziario di Andrea Gualtieri La Repubblica, 4 novembre 2016 L’appuntamento è per il 6 novembre, una delle ultime tappe del Giubileo. Fisichella: "Pettegolezzi di curia i flop sui numeri. Venti milioni i pellegrini a Roma nell’Anno Santo". Sono venti milioni i pellegrini che la Santa Sede ha contato fino ad oggi sotto alla porta santa della basilica di San Pietro. A poco più di due settimane dalla fine del Giubileo, Rino Fisichella, l’arcivescovo incaricato dei organizzare e coordinare gli eventi, definisce "pettegolezzi di curia" le analisi che farebbero classificare l’Anno santo come un flop. Indica sabato 22 ottobre come record di presenze in un’udienza, 93mila. E si proietta verso i prossimi due appuntamenti che coinvolgono categorie sociali alle quali papa Francesco ha sempre rivolto grande attenzione: i carcerati e le persone emarginate. San Pietro invasa dai detenuti - La basilica di San Pietro domenica 6 novembre si trasformerà in un grande penitenziario proprio per il giubileo dei detenuti. Arriveranno da tutta Italia e da altri 11 nazioni: dalla Lettonia agli Usa, dal Messico al Sudafrica. Mille in tutto: alcuni sono reclusi nelle carceri minorili, altri vivono agli arresti domiciliari. Ma ci saranno condannati in via definitiva che arriveranno dagli istituti di pena e anche ergastolani. Non ci saranno invece condannati a morte, ma il Papa - ha rivelato monsignor Rino Fisichella - "in questi mesi è stato in contatto con alcuni di loro e aveva anche provato invano a salvarne uno dall’esecuzione". Non ha avuto successo, in realtà, nemmeno la richiesta formulata da Bergoglio già nella bolla di indizione del Giubileo, quando auspicava "una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta". Un gesto di apertura che i governi non hanno colto. "Ma la Chiesa resta al fianco dei detenuti che vogliono reinserirsi nella società", ha sottolineato Fisichella, ricordando che tutti i vescovi del mondo sono stati invitati a visitare, nella giornata di domenica, i penitenziari delle proprie diocesi. In Vaticano, invece, i detenuti saranno affiancati durante la messa del Papa da familiari, volontari, operatori del carcere, agenti della polizia penitenziaria. Insieme assisteranno anche all’Angelus in piazza San Pietro, ma in un settore a loro riservato e isolato dagli altri pellegrini. Ultima data con gli emarginati - L’ultimo appuntamento a San Pietro prima della chiusura della Porta santa è invece in programma la domenica successiva, il 13 novembre. Papa Francesco incontrerà quelle che Fisichella ha definito "persone socialmente escluse": "Si tratta di coloro che subiscono precarietà economica o patologie, solitudine o problemi sociali". E sono seimila, al momento gli iscritti da tutto il mondo, ai quali si aggiungeranno i pellegrini spontanei. Arriveranno a Roma già da venerdì, parteciperanno ad una veglia e a una serie di incontri in varie lingue dove verranno raccontate alcune testimonianze. Sabato sarà dedicato a loro il concerto tenuto da Ennio Morricone nell’Aula Paolo VI. E domenica pregheranno con Francesco alla messa delle 10. Il 13 novembre sarà anche il giorno in cui si chiuderanno le porte sante che erano state aperte in chiese e santuari delle diocesi di tutto il mondo. E anche a Roma si mureranno i varchi giubilari delle tre basiliche di Santa Maria Maggiore, San Paolo fuori le mura e San Giovanni in Laterano. Una concomitanza con il giubileo degli emarginati che, ha spiegato Fisichella, ha un valore simbolico: "Serve a ricordare alla Chiesa il richiamo evangelico: i poveri li avete sempre con voi". Domenica 20 novembre, poi, sarà il giorno in cui Francesco chiuderà la Porta santa di San Pietro. "E per quella data faremo un bilancio corretto di questo anno intenso", ha commentato Fisichella. Giubileo dei Carcerati, mille detenuti a San Pietro per chiedere l’amnistia di Franca Giansoldati Il Messaggero, 4 novembre 2016 Domenica mattina, in mezzo alla folla dei pellegrini in piazza San Pietro, si vedrà da lontano un grande striscione con sopra scritto: "Amnistia". Una richiesta muta destinata a non essere né urlata né sbandierata. I militanti radicali - Emma Bonino in testa - saranno lì a reggere quell’enorme cartello. Quel giorno si faranno pellegrini tra i pellegrini in occasione del Giubileo dei carcerati, uno degli ultimi appuntamenti dell’Anno Santo della misericordia che Papa Francesco ha riservato a chi vive dietro le sbarre. I radicali arriveranno alla messa di Bergoglio da Regina Coeli, da dove partirà la quarta marcia "per l’amnistia, la giustizia e la libertà". Anche la Chiesa dirà qualcosa sull’amnistia? Monsignor Rino Fisichella scuote la testa ("Non credo che spetti a noi entrare in questo terreno") presentando l’evento che vedrà per la prima volta in Vaticano mille detenuti di differenti nazionalità. Tutti stanno scontando la pena nelle carceri italiane e hanno ottenuto il permesso di prendere parte alla celebrazione grazie a permessi speciali. Tra loro sono stati inclusi anche due ergastolani sottoposti al regime del 41 bis. Durante la messa quattro testimoni racconteranno di come siano cambiati attraverso la misericordia e la fede. Una guarigione umana e spirituale. Il tema della riconciliazione e del perdono saranno predominanti anche nella giornata precedente. Il pellegrinaggio verso la Porta Santa, la confessione nelle chiese giubilari. "Sono stati invitati i mille detenuti con i loro famigliari, gli agenti della polizia penitenziaria, i cappellani e le associazioni che offrono assistenza" ha aggiunto monsignor Fisichella. Al momento sono iscritte 4.000 persone. Il servizio liturgico "sarà svolto dai detenuti e le ostie utilizzate per la messa sono state prodotte all’interno del carcere di Opera di Milano". Sull’altare sarà esposta la statua della Madonna della Mercede, protettrice dei prigionieri. Radio Radicale trasmetterà integralmente la messa papale. "In piazza non potevano non esserci i radicali - ha spiegato Giuseppe Di Leo che curerà la diretta radiofonica. Le parole di Papa Francesco e il suo impegno per i diritti umani dei carcerati sono riusciti a conquistare persino Marco Pannella. Lo ammirava molto. L’ultimo suo atto politico è stata una bellissima lettera inviata a Francesco". Giubileo dei carcerati. Prima della Messa con il Papa quattro testimonianze dal carcere agensir.it, 4 novembre 2016 "Il gruppo più numeroso proviene dall’Italia con cui, fin dai primi mesi del Giubileo, si è potuto realizzare un’attiva collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Grazia e di Giustizia, unitamente all’Ispettorato generale dei Cappellani". Sono i dettagli del Giubileo dei carcerati, in programma il 5 e 6 novembre, diffuso oggi in Sala Stampa vaticana da monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. "Questa fattiva collaborazione ha permesso che i detenuti di tutte le categorie possano essere rappresentati in San Pietro", ha proseguito: "Ci saranno, quindi, minori, persone in alternativa al carcere sul territorio, persone in detenzione domiciliare e detenuti definitivi con condanne diverse… Insomma, una presenza vera che segna un reale impegno per offrire un futuro e una speranza oltre la condanna e la durata della pena". La collaborazione con il ministero di Giustizia ha consentito, inoltre, che sei detenuti svolgessero il loro servizio come volontari del Giubileo: "Un’esperienza intensa vissuta da tutti con spirito di genuino impegno e responsabilità", ha commentato Fisichella. Nella giornata di sabato, i partecipanti avranno la possibilità, nelle chiese giubilari, di confessarsi e di compiere il pellegrinaggio verso la Porta Santa di San Pietro attraversando il percorso di via della Conciliazione, per prepararsi alla celebrazione del giorno successivo. Dalle ore 7.30 sarà possibile entrare in basilica, in attesa della celebrazione della Messa presieduta dal Santo Padre alle ore 10. A partire dalle ore 9, quattro testimonianze: "Un detenuto che in carcere ha sperimentato l’esperienza della conversione, che parlerà insieme alla vittima con la quale si è riconciliato; il fratello di una persona uccisa che si è fatta strumento di misericordia, quindi di perdono; un ragazzo minorenne che sta scontando la sua pena e, infine, un agente della Polizia Penitenziaria, che quotidianamente è a contatto con i detenuti". Le testimonianze saranno intercalate da musiche e canti realizzate dal Coro Papageno, composto da volontari e detenuti della Casa Circondariale "Dozza" di Bologna. Il servizio liturgico sarà svolto dai detenuti, e le ostie che saranno utilizzate per la Messa sono state prodotte da alcuni detenuti del carcere di Opera di Milano. Per questa celebrazione, sarà esposto per la prima volta il Crocefisso restaurato di recente ad opera del Capitolo della Basilica. Si tratta di un Crocefisso ligneo del XIV secolo che, tolto il primo Giubileo del 1300 di Papa Bonifacio VIII, ha di fatto visto tutti i Giubilei della storia fino ad oggi. Accanto alla croce, sarà esposta la statua della Madonna della Mercede, protettrice dei prigionieri. Prima della Messa, il Papa saluterà alcuni carcerati e personalità presenti alla celebrazione. L’Angelus domenicale sarà come sempre recitato dal Palazzo Apostolico e i detenuti vi parteciperanno in un settore della piazza. Giubileo dei Carcerati. Il Papa vicino ai condannati a morte di Ilaria Solaini Avvenire, 4 novembre 2016 Più volte Papa Francesco è stato in contatto telefonico nei mesi scorsi con condannati a morte. La sua vicinanza si esprime anche domenica 6 novembre con la Messa per il Giubileo dei carcerati. "Più volte Papa Francesco è stato in contatto telefonico nei mesi scorsi con condannati a morte. E questa sua vicinanza a loro non finirà con il termine del Giubileo". Lo ha spiegato l’arcivescovo Rino Fisichella, delegato pontificio per l’Anno Santo della Misericordia, presentando il Giubileo dei carcerati. "In San Pietro per l’occasione ci saranno detenuti con condanna definitiva all’ergastolo", ha detto il presule escludendo invece la presenza di condannati a morte "anche perché in Italia non c’è questa pena". Che cos’è il Giubileo dei carcerati - Il Giubileo dei carcerati che si celebra il 5 e il 6 novembre a Roma sono iscritte, al momento, oltre 4.000 persone, di cui più di mille saranno i detenuti, provenienti da 12 Paesi nel mondo: Inghilterra, Italia, Lettonia, Madagascar, Malesia, Messico, Olanda, Spagna, Usa, Sudafrica, tra cui una delegazione luterana dalla Svezia. "Il gruppo più numeroso proviene dall’Italia con cui, fin dai primi mesi del Giubileo, si è potuto realizzare un’attiva collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Grazia e di Giustizia, unitamente all’Ispettorato generale dei Cappellani" ha sottolineato il presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. "Questa fattiva collaborazione ha permesso che i detenuti di tutte le categorie possano essere rappresentati in San Pietro", ha proseguito: "Ci saranno, quindi, minori, persone in alternativa al carcere sul territorio, persone in detenzione domiciliare e detenuti definitivi con condanne diverse… Insomma, una presenza vera che segna un reale impegno per offrire un futuro e una speranza oltre la condanna e la durata della pena". La collaborazione con il ministero di Giustizia ha consentito, inoltre, che sei detenuti svolgessero il loro servizio come volontari del Giubileo. Nella giornata di sabato 5 novembre i detenuti con i loro familiari, il personale penitenziario, i cappellani delle carceri, le associazioni che offrono assistenza all’interno e all’esterno delle carceri avranno la possibilità, nelle Chiese giubilari, di confessarsi e di compiere il pellegrinaggio verso la Porta Santa di San Pietro attraversando il percorso di via della Conciliazione, per prepararsi alla celebrazione di domenica 6 novembre con Papa Francesco. Domenica 6 novembre alle 10 la Messa con Papa Francesco? - "Nei mesi scorsi abbiamo scritto a tutte le Conferenze episcopali del mondo, invitando i vescovi a vivere questa domenica visitando le carceri e celebrando il Giubileo con i detenuti" ha spiegato monsignor Rino Fisichella, precisando che "quanto verrà vissuto domenica 6 novembre in San Pietro, troverà riscontro in tante diocesi del mondo che si uniranno al Santo Padre per celebrare in modo solenne questa giornata con i carcerati". "Nei mesi scorsi abbiamo scritto a tutte le Conferenze episcopali del mondo, invitando i vescovi a vivere questa domenica visitando le carceri e celebrando il Giubileo con i detenuti", ha aggiunto l’arcivescovo Fisichella. Il servizio liturgico sarà svolto dai detenuti, e le ostie che saranno utilizzate per la Messa sono state prodotte da alcuni detenuti del carcere di Opera di Milano. Per questa celebrazione, sarà esposto per la prima volta il Crocefisso restaurato di recente ad opera del Capitolo della Basilica. Si tratta di un Crocefisso ligneo del XIV secolo che, tolto il primo Giubileo del 1300 di Papa Bonifacio VIII, ha di fatto visto tutti i Giubilei della storia fino ad oggi. Accanto alla croce, sarà esposta la statua della Madonna della Mercede, protettrice dei prigionieri. Prima della Messa, Papa Francesco saluterà alcuni carcerati e personalità presenti alla celebrazione. L’Angelus domenicale sarà come sempre recitato dal Palazzo Apostolico e i detenuti vi parteciperanno in un settore della piazza. I Radicali in marcia per l’amnistia e la riforma del sistema giudiziario di Carlo Valentini Italia Oggi, 4 novembre 2016 Vasco Rossi con Papa Francesco. Adesioni trasversali ma ci si divide sul referendum. Al loro interno sono divisi che più non si può. E addirittura si accusano vicendevolmente di essere usurpatori. Quelli del partito radicale transnazionale, guidati da Maurizio Turco e Rita Bernardini, si definiscono i veri discendenti di Marco Pannella e non vogliono saperne dei Radicali italiani, formazione capitanata da Riccardo Magi, Marco Cappato e Roberto Giachetti. Motivo del contendere? Movimentisti i primi, istituzionali arrabbiati i secondi. Oltre a personalismi di vario tipo. Talmente divisi che ai giornali arrivano comunicati al veleno degli uni contro gli altri. Noncuranti di questo ecco arrivare la quarta Marcia per l’amnistia che è (anche) un tentativo di unire (gli altri). Tanto che è stata intitolata a Marco Pannella e Papa Francesco, entrambi raffigurati nel manifesto promozionale. Ma ci sarà anche un tributo a Dario Fo. Si svolgerà a Roma, dopodomani, domenica 6 novembre, partenza (ore 9,30) dalla Casa circondariale di Regina Coeli, arrivo in piazza San Pietro. A organizzarla è il partito radicale transnazionale, con buona pace dei Radicali italiani che non sono stati coinvolti anche se i leader, a cominciare da Giachetti, hanno aderito condividendone gli obiettivi pur nella frattura. A sottolineare il legame ideale con Pannella vi è lo sciopero della fame incominciato quasi un mese fa da Rita Bernardini, che da sempre si occupa della situazione carceraria, Irene Testa, dell’Associazione radicale Il detenuto ignoto, Maurizio Bolognetti, Paola Di Folco, Annarita Di Giorgio: chiedono che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, attui gli Stati generali delle carceri. In una lettera al ministro la Bernardini sottolinea il sovraffollamento negli istituti penitenziari, il diritto alla salute spesso carente, i tossicodipendenti detenuti nelle carceri e non in comunità o strutture sanitarie adeguate, la sempre più scarse possibilità di lavoro, studio e formazione per i reclusi, la carenza di magistrati di sorveglianza. "Occorre una riforma della giustizia- dice Rita Bernardini- che comporti l’affermazione dello stato di diritto, l’introduzione del reato di tortura, l’abolizione dell’ergastolo, una riforma strutturale del sistema penale e civile, l’amnistia. Quest’ultima non va intesa semplicemente e in modo banale come la procedura che metterà in libertà dei carcerati. L’amnistia è quel provvedimento utile a far uscire la Repubblica italiana dal suo stato di flagranza di reato". In tanti sono d’accordo, a giudicare dalle adesioni. A cominciare da quella della Cei, la Conferenza episcopale italiana. Dice il suo portavoce, don Ivan Maffeis: "Diamo una convinta adesione perché si tratta di un’ occasione per sensibilizzare l’opinione pubblica e più in generale il mondo politico sulla situazione in cui il nostro sistema penitenziario versa. L’augurio è che ci sia un’accoglienza delle istanze portate avanti proprio per superare il degrado in cui i detenuti, ma non solo i detenuti, penso agli agenti, ai volontari, agli educatori, oggi si muovono. Intorno a certi temi, possiamo dire scomodi, come l’attenzione verso l’ultimo che abbiamo reso ultimo, o perché per situazioni della vita si è reso ultimo, c’è una capacità di chiusura, una capacità di silenziare anche la parola più alta come quella del Papa". Papa Francesco ha impresso un nuovo corso in Vaticano su queste problematiche, con iniziative concrete: l’abolizione dell’ergastolo, l’abolizione della pena di morte e l’introduzione del reato di tortura. In pratica quanto chiedeva Pannella ai governi italiani e non solo (ma in Europa la pena di morte non c’è). Anche per questo tra i due nacquero stima e amicizia. Un mese prima di morire Pannella inviò una lettera al Pontefice: "Caro Papa Francesco, ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano, vicino al cielo, per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa. Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano". Insieme ai vescovi vi è una variegata compagine. Hanno annunciato la loro presenza alla marcia o comunque la loro adesione Vasco Rossi e Antonello Venditti, la regista Liliana Cavani, il dj Claudio Coccoluto, gli scrittori Erri De Luca e Susanna Tamaro, i giornalisti Furio Colombo, Marcello Masi, Clemente Mimum, Piero Sansonetti, l’editore Florindo Rubbettino, il vignettista e direttore dell’Unità, Sergio Staino. Davvero trasversale la rappresentanza politica. Hanno aderito all’appello all’unità sui temi della giustizia, tra gli altri, i parlamentari Stefano Fassina e Pippo Civati (Sinistra italiana), Ciro Falanga (Ala), Nino D’Ascola (Area popolare), Gianni Farina, Giuseppe Lauricella, Monica Cirinnà, Vannino Chiti (Pd), Luigi Compagna (Conservatori e riformisti), Piero Longo, Antonio Martino, Altero Matteoli, Augusto Minzolini (Forza Italia). Ancora: il sottosegretario del governo Renzi, Simona Vicari (Ncd-Udc), l’ex barricadiero Fausto Bertinotti, Elena Lombardi Vallauri, direttrice del carcere di Asti, Sergio Chiamparino, presidente del Piemonte, Luigi De Magistris, sindaco di Napoli. Poi le Regioni (Basilicata, Calabria, Piemonte), i Comuni (Bologna, Cremona, Napoli, Reggio Calabria), le associazioni (Acli, Gruppo Abele, Comunità di Sant’Egidio, Unione camere penali italiane). L’elenco completo, con anche le informazioni logistiche sulla Marcia, nel sito: radicalparty.org. Matteo Renzi, in una recente visita al carcere di Padova non ha mostrato di gradire l’ipotesi di un’amnistia, ha però sottolineato che intende affrontare il problema della funzione educativa della pena, ora assai carente. Ci sarà dialogo coi marciatori? Dice Maurizio Turco, a capo del partito radicale transnazionale: "L’amnistia è indispensabile. Lo Stato dell’ingiustizia è strutturale. Il Comitato dei ministri ha scritto che la lentezza delle procedure giudiziarie mette in pericolo lo stato di diritto e rileva che è un problema che va avanti sin dalla fi ne degli anni 80. E poi c’è il silenzio sull’amnistia di fatto: le prescrizioni". Aggiunge Roberto Giachetti, sull’altro fronte radicale: "Non è più sopportabile la lunghezza dei processi, la mancanza della garanzia di certezza del diritto per tanti cittadini, c’è il problema di chi si trova in carcerazione preventiva e poi viene assolto. Occorre porre questa situazione all’attenzione della società per creare le condizioni per modificarla". Non sarà estraneo (come potrebbe esserlo?) il tema del referendum. La Marcia si indirizzerà verso il sì o verso il no? I sostenitori del sì sostengono che votando così sarà poi più facile raggiungere gli obiettivi alla base dell’iniziativa: la sola camera potrebbe speditamente mettere mano alla riforma del sistema giudiziario mentre se vincerà il no tutto rimarrà come oggi, vale a dire sarà obbligatorio anche il voto favorevole del Senato. Una tesi non condivisa dai fautori del no, per i quali il problema è la mancanza di una maggioranza a favore della riforma, non il doppio passaggio parlamentare. Insomma, le adesioni sono trasversali e gli organizzatori gioiscono per l’unità d’intenti ma i distinguo e i dissensi tra i marciatori riaffiorano già sull’appuntamento del 4 dicembre. La Marcia è un’occasione per i detenuti, ma non vedo le condizioni per l’amnistia di Walter Verini (Capogruppo Pd in Commissione Giustizia della Camera) L’Unità, 4 novembre 2016 Come in occasione della precedente Marcia del Natale 2013 - l’ultima di e con Marco Pannella - anche stavolta ho deciso di aderire personalmente alla Marcia promossa dal Partito Radicale per l’amnistia e l’indulto che domenica prossima, 6 novembre, partirà da Regina Coeli per arrivare in Piazza San Pietro, dove il Papa celebrerà il Giubileo dei Detenuti e dove all’Angelus le sue parole saranno certamente dedicate anche all’umanità reclusa. Papa Francesco, lo stesso Pontefice che 11 28 marzo 2013, appena quindici giorni dopo la sua elezione al soglio di San Pietro entrò nel carcere minorile di Casal del Marmo dove, in occasione del giovedì santo, lavò i piedi a dodici ragazzi, tra i quali una ragazza musulmana. Papa Bergoglio, che nei primi tre anni di Pontificato ha scelto più volte di far sentire la sua vicinanza ai detenuti: a Poggioreale come a Rebibbia, a Castrovillari come a Ciudad Juárez in Messico o attraverso lettere e interventi. Dico subito che non credo sia attuale e realizzabile la prospettiva di un provvedimento come quello di amnistia o indulto. Non perché non sia giusto e coraggioso parlarne e battersi per questo obiettivo. Ma non ne vedo, per diversi motivi, le condizioni. E ritengo quindi innanzitutto moralmente doveroso evitare di generare troppe aspettative presso la popolazione carceraria. Sarebbero aspettative, allo stato, poco realistiche. Non sarebbe responsabile suscitarle. Tuttavia la Marcia dei radicali e, su un piano diverso ma assolutamente contiguo, il Giubileo dei detenuti scuotono le coscienze e chiamano tutti, a partire da chi ha responsabilità istituzionali e politiche, a misurarsi con il tema della condizione carceraria in Italia. Non è, si sa, un tema facile. In tempi di paure vere. percepite e anche irresponsabilmente indotte, di incertezze, di insicurezze non è questo il primo tema dell’agenda politica. Anche se la visita del Presidente del Consiglio al carcere di Padova ha rappresentato un fatto di grande rilievo e significato non solo simbolico. Così come tutti considerammo di straordinario spessore il messaggio alle Camere del Presidente Napolitano, dedicato alle incivili condizioni delle carceri italiane. Anche per questo la Marcia ha un valore che va ben oltre il tema dei provvedimenti di clemenza. È un’occasione per contribuire a ricordare a tutti come la Costituzione e basilari principi di umanità considerino la pena (che deve essere giusta ed equa per chi ha sbagliato) non come vendetta, ma come occasione di recupero e reinserimento. In questi tre anni l’Italia ha ottenuto risultati importanti. Come Capogruppo Pd in Commissione Giustizia ho seguito passo dopo passo i cambiamenti. Le carceri italiane conoscevano una situazione di drammatico e disumano sovraffollamento. Prima ancora delle incombenti sanzioni europee, dopo la sentenza Torreggiani, a farci vergognare erano quei quattro-sei detenuti costretti in celle da due. Erano quegli spazi interni destinati ad attività sociali occupati da brandine e materassini a terra. Erano la mancanza di prodotti per l’igiene, spesso reperiti grazie a donazioni volontarie. Erano la riduzione quasi al prosciugamento dei fondi per le attività di formazione, studio, lavoro interno. La mancanza di figure professionali specializzate, che affiancassero il lavoro difficilissimo e delicatissimo della Polizia penitenziaria, il cui rilievo è aumentato anche in seguito all’estensione delle esperienze di sezioni aperte e delle conseguenti procedure di vigilanza dinamica. Questo toccavamo con mano in occasione delle visite in carcere. Ora la situazione è migliorata. Grazie a provvedimenti di Governo e Parlamento, a misure legislative che hanno consentito di avviare reali processi di decarcerizzazione per reati di non grave allarme sociale. Grazie all’introduzione e all’intensificazione di misure alternative alla pena in carcere e di messa alla prova. Anche le esperienze di formazione, lavoro, socialità e cultura hanno visto un aumento di risorse finanziarie. È ancora poco, ma la direzione è quella giusta. Il Ministro Orlando, la squadra di Via Arenula e il Dap hanno guidato con determinazione il lavoro e l’esito degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, dai quali sono emerse indicazioni di grande valore civile e di grande concretezza, diverse delle quali contenute nel disegno di Legge di riforma del processo penale che a breve il Senato approverà. Per questo la Marcia dei radicali merita l’adesione. Perché al di là delle questioni dell’amnistia e dell’indulto ha il merito di tenere alta e viva l’attenzione sul tema della pena in Italia e della condizione dei detenuti. Non ci stancheremo mai di ripetere: un carcere dove chi ha sbagliato sconta la giusta pena, ma in condizioni di civiltà, significa rispettare la Costituzione e non significa solo investire in umanità ma anche in sicurezza. Ce lo confermano i dati: chi esce dal carcere con un diploma conseguito, con un mestiere in mano, difficilmente toma a delinquere, a commettere reati. E vuoi dire abbassare le tensioni dentro quelle mura, potenziando le possibilità di affettività con le proprie famiglie, i propri partner. Vuoi dire contrastare le tendenze al suicidio. O monitorare meglio e contenere le stesse potenzialità di "radicalizzazione" da parte dell’estremismo islamico presente negli istituti di pena. Ecco, per me, qualche buon motivo per raccogliere l’appello dei radicali che su questi temi hanno sempre fatto, con Pannella, da apripista per le coscienze. Radicali e penalisti sfidano insieme il tabù dell’amnistia di Errico Novi Il Dubbio, 4 novembre 2016 Di Rita Bernardini si sa tra l’altro che non ama perifrasi: "Vogliamo parlare dei detenuti che hanno il bagno a vista in cella e se ne devono servire davanti a tutti?". Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere penali, le sta di fianco: passa per uno deciso ma diplomatico, invece va oltre: "In quello stesso spazio i detenuti devono cucinarci". Radicali e avvocati sono uniti nell’indignazione. Si ritrovano sullo stesso fronte per l’amnistia, l’indulto e il "ripristino della legalità", come dice il segretario Ucpi Francesco Petrelli. Non è un’alleanza recente, risale almeno ai tempi del processo Tortora: di sicuro per gli eredi di Pannella la piena adesione dei penalisti alla marcia per l’amnistia di domenica è una delle più significative. Nel giorno del Giubileo dei detenuti celebrato a San Pietro da papa Francesco, l’avvocatura penale muoverà da Regina Coeli con il Partito radicale verso il luogo simbolo della cristianità. Migliucci e Petrelli riaffermano "la visione comune sulla giustizia" con Bernardini, Turco, D’Elia e Rossodivita, presenti alla conferenza stampa di ieri. Sfidano tutti insieme anche certe ritrosie cattoliche. Il presidente della Cei Angelo Bagnasco tiene a precisare che "i vescovi hanno aderito al Giubileo dei carcerati ma tutt’altra cosa è la marcia". L’impressione è che per molti chiedere l’amnistia, persino in tempo di misericordia, sia un pò troppo. Ma conteranno le parole del Pontefice: l’iniziativa radicale è intitolata a lui e a Pannella. Molti detenuti vi prendono parte idealmente con lo sciopero della fame di sabato e domenica: "Il loro numero è già oltre quota 12mila". Un’enormità, il 20 per cento dei reclusi di tutta Italia. "In ordine di tempo accogliamo l’adesione dell’Anci e della Regione Piemonte: importantissime", dice Bernardini. La cui iniziativa nonviolenta non finirà a San Pietro. "Andrò avanti finché il ministro della Giustizia Orlando non risponderà alla lettera che gli ho inviato". Il fatto è che la dirigente pannelliana propone al guardasigilli di stralciare la delega sul carcere dal ddl penale. E il ministro non intende spacchettare la sua riforma I provvedimenti "di sistema", ricorda il presidente delle Camere penali, "sono considerati da preferirsi a misure eccezionali come amnistia e indulto: ma se la politica non è in grado di assicurare provvedimenti strutturali, ben venga che ricorra a quelli emergenziali". Sergio D’Elia va dritto al punto: "Non mi risulta che l’Italia, condannata dalla Corte europea, abbia risolto con misure stabili l’emergenza carceraria". Perciò la vera riforma "si chiama amnistia". Difficile controbattere. La legalità, dicono a una voce radicali e penalisti, manca "dai tempi del disperato appello di Pannella e Tortora". I detenuti sono di nuovo 55mila, "e il sovraffollamento è superiore al 105%, considerato che 5.000 celle sono inagibili", ricorda Bernardini. A Orlando va riconosciuto di aver provato a dare una sterzata "anche con gli Stati generali", dice Migliucci. E di Renzi, Bernardini nota "l’importanza della visita al carcere di Padova". Ma non basta: sull’amnistia "con la marcia di domenica inizia un percorso". Anche in vista di una campagna per promuovere la legge firmata da Luigi Manconi sull’abbassamento del quorum dell’articolo 79. "Sostegno alla richiesta di stralcio della delega penitenziaria dalla riforma penale e allo sciopero della fame che Bernardini conduce con altri compagni da 23 giorni", dice il senatore Pd. Senza chiedere nulla in cambio. Carcere e libertà (religiosa) di Tania Careddu altrenotizie.org, 4 novembre 2016 "È garantita a tutti i detenuti e internati la piena libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne i riti", dice l’articolo ventisei della legge 354 del 1975, garantendo la scelta di avvalersi dell’assistenza spirituale in un’ottica di pluralismo religioso. Nell’ordinamento carcerario l’attività dei cappellani cattolici è assicurata da norme specifiche che ne istituzionalizzano la figura anche per le altre confessioni. Che sono tante, fatta salva la distinzione tra quelle che negli anni hanno raggiunto un’intesa con lo Stato italiano (culti ammessi, ndr) e quelle che, di volta in volta, devono chiedere l’intervento di un proprio ministro nella casa di reclusione. Ma è stato comunque riconosciuto il valore positivo che il credo, le pratiche e i legami religiosi possono avere nei percorsi riabilitativi. Posto che i cambiamenti demografici in atto in Italia influenzano inevitabilmente, in modo diretto, la composizione della popolazione detenuta, divenuta complessa e composita, ciò non può non interessare l’aspetto religioso. Se nei primi anni novanta gli stranieri rappresentavano poco più del 15 per cento dei carcerati, oggi raggiungono il 35 per cento del totale. Rappresentato per lo più dalla componente maghrebina - marocchini, tunisini, algerini - e considerando anche i reclusi di provenienza asiatica e dall’Africa nera, si può stimare che più di un detenuto su tre sia di religione musulmana. Accanto ai cristiani di diverse confessioni, indù, sikh e buddisti, il credo islamico è, in percentuale, quello prevalente nelle carceri della Penisola. Oltre che per la sua significativa presenza, anche per la sua sostanzialità: l’elemento che la distingue rispetto alle altre fedi è rintracciabile nelle sue specifiche caratteristiche di proselitismo e radicalismo. È noto che il carcere costituisca un contesto che favorisce, di per sé, processi di radicalizzazione di fronte a una situazione di sopravvivenza; qui l’integralismo religioso offre un forte senso di appartenenza, rappresentando un meccanismo di difesa. A ciò si aggiunga che il rapporto tra la privazione della libertà e l’essere musulmano in un quadro contraddistinto da rigidità burocratiche e vincoli vari, nonché da carenza di risorse, risulta durissimo per loro (e per tutti gli stranieri, complici le difficoltà linguistiche e l’esclusione sociale e culturale di partenza). Tanto più che, a differenza di altri paesi europei, vedi Francia e Inghilterra, secondo quanto si legge nel papier "L’Islam nelle carceri italiane", redatto da ISMU, l’Islam vissuto in carcere non è sovrapponibile a quello del resto della società italiana. L’esperienza della reclusione, la gravità del reato commesso, il senso di colpa, il fallimento del progetto migratorio e il vissuto criminale possono sostenere un (ri)avvicinamento alla fede che può ridare un senso alla loro esistenza. Oltreché un ordine, perché scandisce i ritmi del calendario e della giornata, oltre a collocare i comportamenti in una sorta di griglia simbolica, innescando così un beneficio psicologico e un rafforzamento identitario. Che passa anche attraverso il diritto (riconosciuto) del detenuto a godere di una dieta rispettosa delle prescrizioni della propria fede religiosa. Anna Canepa (Md) risponde a Davigo: le sberle non sono giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 4 novembre 2016 Intervista alla segretaria di Magistratura democratica. "La giustizia è un servizio. Non ha una funzione pedagogica". Anna Canepa, segretaria uscente di Magistratura democratica, è molto chiara: "Non sono d’accordo con Davigo" a proposito delle "sberle" che il sistema giudiziario dovrebbe infliggere agli italiani in quantità più massicce. La pm antimafia interviene così sull’ultima offensiva ultra-giustizialista del leader Anm. E dal congresso di Md, da ieri in corso a Bologna, ricorda la necessità di "riproporre la funzione culturale delle correnti". Non si entusiasma per il conflitto di attribuzioni proposto al Csm contro il governo da Morgigni ("la mozione non è passata al direttivo Anm") e sull’eventualità di lasciare la presidenza a Davigo dice: "È prevista una turnazione annuale". Le sorprese sono almeno due. Magistratura democratica è da ieri a congresso nel Centro Aemilia di Bologna senza una rosa di candidati. Tanto che la segretaria uscente Anna Canepa, pm antimafia, auspica di "vedere farsi avanti qualche giovane". L’altro aspetto è che il gruppo delle toghe storicamente considerato "di sinistra" prova a smentire l’idea delle correnti ridotte a meri gruppi di potere, e propone una scaletta incentrata su disuguaglianze, nuove povertà e migranti. "La funzione dell’associazionismo giudiziario è innanzitutto di elaborazione culturale" e diversamente da quanto sostenuto tre giorni fa da Piercamillo Davigo, "la giustizia non deve esercitare funzioni pedagogiche". Nemmeno a colpi di sberle, come invece pensa il presidente dell’Anm. Volete smentire l’idea dei giudici come élites sganciata dalla società? La magistratura non può essere un’élites. La giustizia è un servizio ed è questa la logica che ispira anche il nostro dibattito congressuale. Sicuramente i conflitti degli anni scorsi hanno avuto un effetto molto penalizzante per l’immagine magistratura. Ed è un processo avvenuto nostro malgrado. Avete subito il conflitto con una parte della politica? Ne abbiamo pagato le conseguenze più di ogni altra componente. Parte dell’opinione pubblica si è convinta che i magistrati sono irriducibilmente schierati. Ora volete riproporre la funzione culturale all’origine delle correnti? L’associazionismo giudiziario è prezioso proprio per l’elaborazione dal punto di vista della riflessione, del pensiero. Le correnti sono nate con questo obiettivo. Ma c’è il rischio si riducano a gruppi in difesa degli interessi di chi ne fa parte? È l’idea che propone chi vuole attaccarci. È un’idea fondata? Va scongiurata la degenerazione del correntismo. È una modalità inconciliabile con la funzione propositiva delle correnti. Che sono importanti anche per indicare delle linee in vista delle riforme di sistema. Sarebbe utile un meccanismo per l’elezione dei togati al Csm che premi anche magistrati non legati alle correnti? Il ministro della Giustizia Orlando ha presentato l’esito dei lavori di una commissione che si è occupata anche di possibili modifiche al sistema elettorale. C’è la massima apertura ma devo dire che mi convince poco l’idea di favorire il singolo magistrato non legato ad alcun gruppo. L’associazionismo giudiziario è utile anche perché rende chiaramente riconoscibile la cultura dell’autogoverno dei candidati. In tal modo si lascia anche meno spazio a protagonismi leaderistici. L’unico consigliere Csm del gruppo di Davigo, Aldo Morgigni, ha proposto di sollevare conflitto di attribuzioni sul trattenimento in servizio dei magistrati. Le norme contenute nel cosiddetto decreto Cassazione mi sono sembrate fin da subito segnate da profili di incostituzionalità. Detto questo la strada indicata da Morgigni era stata già sottoposta al direttivo dell’Anm venerdì scorso e non è passata. Se ne deve prendere atto. Meglio verificare se il governo riporterà la soglia a 72 anni? Premier e guardasigilli si sono impegnati in questo senso nell’incontro con l’Anm del 24 ottobre, vedremo se alle parole seguiranno i fatti. Lei si ricandida alla segreteria di Md? Non potrei: ho alle spalle due mandati consecutivi, il nostro statuto non lo consente. Potrà sembrare curioso ma arriviamo a questo congresso senza una rosa di candidati. Mi auguro si faccia avanti qualche giovane. Il dottor Davigo ha detto che gli italiani rispettano poco le regole perché non prendono abbastanza sberle dalla giustizia: ne servono di più? Non sono d’accordo. La giustizia non ha compiti pedagogici, non è concepita per orientare i comportamenti: è un servizio, di fronte ai reati ha la funzione di comminare sanzioni, ma la pedagogia è un’altra cosa. A proposito di pena: la visita di Renzi al carcere di Padova segna una svolta? Il tema della detenzione passa per essere uno di quelli che non portano consenso, mi pare che il segnale dato dal governo sia a maggior ragione positivo. Sempre Davigo sostiene che per i risolvere i mali della giustizia vanno dimezzati i compensi degli avvocati. L’avvocatura è un soggetto indispensabile nella giurisdizione, esercita una funzione assolutamente necessaria. Ma condivide la linea comunicativa così di impatto proposta da Davigo? Il presidente dell’Anm ha una grande capacità di presenza mediatica. Detto questo, non posso dire di condividere tutte le sue affermazioni. La presidenza di Davigo all’Anm dovrebbe durare un anno: valuterete di lasciarlo al vertice, vista la sua forza mediatica? Dopo le elezioni del marzo scorso si è stabilito di effettuare una turnazione annuale per l’intero quadriennio. Non si è mai parlato di rivedere quell’accordo. E io credo che pacta sunt servanda, ecco. Ha avuto senso e ha senso oggi parlare di magistrati di sinistra? Esiste una componente come la nostra particolarmente attenta al ruolo della giurisdizione rispetto ai problemi dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, alla affermazione dell’articolo 3: da questo punto di vista la specificità di Md resta immutata. Cosa pensava quando vi chiamavano toghe rosse? A Calamandrei e alla sua frase sul fatto che la toga di colore diverso è sempre quella che ti dà torto. E poi al paradosso che l’aggettivo fosse usato anche per Davigo, che ha un orientamento culturale diverso e che non a caso ha creato un proprio gruppo nell’Anm. Ma Md, nata garantista, ha smesso di esserlo a fine anni 80? Conserviamo quella matrice culturale, l’attenzione ai diritti e alle garanzie non l’abbiamo mai persa. Sorpresa: la prescrizione la decide quasi sempre il pm di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 novembre 2016 Lo studio dell’associazione "Fino a prova contraria". Annalisa Chirico, giornalista e fondatrice del movimento "Fino a prova contraria", ha pubblicato ieri sul Foglio un interessante studio dei dati relativi alla prescrizione dei procedimenti penali in Italia. Studio che merita di essere approfondito e commentato, visto che cristallizza in maniera inconfutabile alcune verità che non faranno certamente piacere ai giustizialisti in servizio permanente effettivo. Partendo dalle rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, raccolte in un documento dello scorso maggio, la giornalista ha potuto constatare che circa il 60% delle prescrizioni avvengono nella fase delle indagini preliminari. Quindi nella fase in cui il pubblico ministero è dominus assoluto del procedimento e dove la difesa, usando una metafora calcistica, "non tocca palla". Il dato smentisce una volta per tutte la vulgata che vedrebbe l’indagato ed il suo difensore porre in essere condotte dilatorie per sottrarsi al giudizio. Quella che viene comunemente chiamata "fuga dal processo". Di contro, certifica l’assoluta discrezionalità dell’ufficio del pubblico ministero nella gestione del procedimento. Com’è noto, attualmente, nessuna sanzione è prevista per il Pm che ritarda la definizione di un suo fascicolo oltre il termine delle indagini preliminari. Anzi, la proposta di prevedere l’avocazione del procedimento da parte della Procura generale trascorsi 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini, ha scatenato la rivolta dei pubblici ministeri. L’analisi riserva, poi, altre sorprese. Ad esempio una gestione degli affari penali a "macchia di leopardo". Se esistono uffici virtuosi, in cui la prescrizione è praticamente inesistente e tutti i procedimenti vengono definiti in tempo, di contro in molti tribunali tale istituto raggiunge percentuali veramente sorprendenti. Anche in questo caso, dunque, è molto difficile "scaricare" la responsabilità sull’indagato e sul suo difensore. Piuttosto è un problema di organizzazione dell’ufficio. E non di aree geografiche. Visto che si prescrivono, per fare un esempio, più reati a Parma che a Palmi. In conclusione, il danneggiato è sempre il cittadino che, purtroppo, paga sulla sua pelle le inefficienze del sistema. In salvo le misure cautelari bis di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 4 novembre 2016 Ci vogliono eccezionali motivi per reiterare una misura cautelare diversa dalla custodia in carcere, quando è decaduta per vizi del procedimento. Ma un cavillo non può impedire di rinnovare prescrizioni come l’allontanamento dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Il bilanciamento tra le garanzie per l’imputato e la tutela delle vittime e della collettività è curato dalla Corte costituzionale, che con la sentenza n. 233 depositata il 3 novembre 2016, ha bocciato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 309, comma 10, del codice di procedura penale. La norma rimane così come è e continua a disporre che l’ordinanza che dispone una misura coercitiva, diversa dalla custodia in carcere, che abbia perso efficacia non possa essere reiterata salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate. La perdita di efficacia dipende da vizi formali di procedura: mancata trasmissione degli atti per il giudizio di riesame delle misure o sforamento dei termini per la decisione o il deposito dell’ordinanza. Errori e lungaggini non devono ricadere a carico dell’imputato e non si può una reiterazione pura e semplice della misura decaduta: bisogna che ci siano eccezionali motivi. Se queste sono le norme, alcuni giudici hanno ritenuto che pretendere eccezionali ragioni finirebbe o per indirizzare, con danno per l’imputato, nella scelta della custodia cautelare (per applicare la quale la legge pretende appunto ragioni eccezionali) o per indirizzare, con danno per la collettività, a non applicare nulla, creando una specie di immunità. La Consulta non è stata di questa opinione. La sentenza salva la norma contestata e anche la possibilità di reiterazione di una misura cautelare coercitiva. L’articolo 309, spiega la pronuncia, va interpretato nel senso che impedisce un "copia e incolla" dell’ordinanza che ha perso di efficacia. Questo significa che la misura cautelare, con motivazioni rigorose, può essere reiterata. Come può capitare (gli esempi sono della Consulta) nel caso delle misure dell’allontanamento dalla casa familiare, del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa e del divieto o dell’obbligo di dimora: sono misure che possono contrastare efficacemente il pericolo, anche elevatissimo, che particolari contatti con luoghi o persone, se non impediti, scatenino comportamenti materialmente o moralmente lesivi. In casi del genere, chiude la sentenza, è dunque possibile che il giudice riscontri quelle esigenze cautelari eccezionali, che giustificano, attraverso una specifica motivazione, l’emissione di un nuovo provvedimento cautelare; negli altri casi, invece, un nuovo provvedimento potrà essere emesso solo se sopravvengono ulteriori elementi di pericolosità. Custodia cautelare in carcere per il proselitismo in rete pro-Isis di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 3 novembre 2016 n. 46175. È giustificata la custodia cautelare in carcere per il cittadino marocchino che attraverso Facebook indottrina ai principi dell’Isis e incita a compiere atti terroristici. La Cassazione, con la sentenza 46178, respinge il ricorso della difesa dell’uomo contro la decisione del Tribunale di confermare la misura cautelare più restrittiva. Il provvedimento era seguito alle indagini compiute dalla Digos e da alcune questure, che avevano monitorato la rete Internet in quanto luogo di reclutamento e affiliazione a organizzazioni terroristiche internazionali. Tra gli "amici" social del ricorrente, in Italia da oltre 15 anni, c’erano nomi già noti agli inquirenti come simpatizzanti di gruppi terroristici. Nel suo diario, l’indagato scriveva "ha successo chi muore martire. Chi cancella i peccati versando il sangue entrerà nel paradiso profumato" o "per alcuni sono assassini per le mamme del medio oriente sono eroi" per esortare, infine, alla "jihad". Per il suo legale si trattava dell’innocuo passatempo, seguito al licenziamento, da parte di un soggetto "incosciente e di una immaturità preoccupante", elementi questi che farebbero escludere il dolo richiesto dall’articolo 414 del codice penale sull’istigazione a delinquere. La Cassazione avalla invece la scelta del tribunale che, nel confermare la misura, aveva chiarito quando la libera manifestazione del pensiero e l’apologia diventano un reato. Per integrare il delitto, previsto dall’articolo 114 del codice penale, non basta esternare un giudizio positivo su un crimine, per quanto odioso questo possa apparire alle persone sensibili, serve un passo in più. Occorre, infatti, che chi esprime il suo "pensiero", sia per la sua condizione personale e per le circostanze di fatto nella posizione di determinare un rischio, non teorico ma concreto, di passare ai fatti. Anche l’esaltazione di un fatto o di un reato, finalizzata a spronare gli altri all’imitazione, non è di per sé punibile, a meno che, per le sue modalità, non sia idonea realmente a provocare la commissione di delitti. Un accertamento che spetta al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato. Non passa la tesi sulla scarsa consapevolezza dell’indagato circa la gravità delle sue azioni come conseguenza di una preoccupante immaturità. Per i giudici il dolo è dimostrato dall’accanimento con il quale il ricorrente espletava la sua esclusiva occupazione. Tra l’altro con grande padronanza dei mezzi informatici. No alla particolare tenuità per chi offre 75 euro per non sottoporsi all’etilometro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 3 novembre 2016 n. 46255. Anche in presenza di un danno di speciale tenuità non è scontata l’applicazione dell’articolo 131-bis del codice penale, in quanto l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto deve basarsi su di una valutazione che tenga conto anche della condotta e della colpevolezza. Lo ha stabilito Corte di cassazione, con la sentenza 3 novembre 2016 n. 46255, respingendo il ricorso di un extracomunitario di origine cinese condannato per istigazione alla corruzione, ex articolo 322 comma 2 del codice penale, per aver offerto 75 euro a due agenti della Polizia di Stato per indurli ad omettere i controlli con l’etilometro. La Suprema corte ricorda che la condotta si realizza "anche in presenza di offerta o promessa di donativi di modesta entità". I giudici peraltro hanno ritenuto che l’offerta agli agenti "fosse idonea a determinarli nel prospettato sviamento dell’attività di ufficio". La somma infatti è stata giudicata di "non irrilevante consistenza", ma soprattutto quello che ha giocato a sfavore dell’imputato è che egli l’abbia tratta dalla tasca nel momento in cui la Polizia - visti i rilevanti segni di ebbrezza -aveva chiamato un’altra pattuglia munita dell’etilometro. In questo contesto, prosegue la sentenza, risultano "rispettati tutti i parametri richiesti dalla giurisprudenza di legittimità per valutare la serietà della offerta illecita" Il giudizio sulla particolare tenuità del fatto, spiega infatti la sentenza, richiede una valutazione "complessa e congiunta" che tenga conto (ai sensi dell’articolo 133, primo comma, del Cp), delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza e dell’entità del danno o del pericolo (S.U. n. 13681/2016). La nuova normativa, infatti, "non si interessa della condotta tipica, bensì ha riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena". Ragion per cui il Legislatore ha compiuto "una graduazione qualitativa, astratta, basata sull’entità e sulla natura della pena; e vi ha aggiunto un elemento d’impronta personale, pure esso tipizzato, tassativo, relativo alla abitualità o meno del comportamento". Poi ha demandato al giudice "una ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello di evento, nonché al grado della colpevolezza". Escludendo però fin dall’inizio alcune contingenze incompatibili: motivi abietti o futili, crudeltà, minorata difesa della vittima ecc.. L’esiguità del disvalore diventa così il frutto di una valutazione congiunta di: condotta, danno e colpevolezza. In questo senso potrà certamente accadere di trovarsi in presenza di "elementi di segno opposto da soppesare e bilanciare prudentemente". E da sola la valutazione inerente all’entità del danno o del pericolo non è sufficiente a fondare o escludere il giudizio di marginalità del fatto. Va dunque esclusa ogni sovrapposizione tra la concessione delle circostanze attenuanti, come nel caso accaduto all’imputato, e la causa di esclusione della punibilità: "la prima fondata sulla particolare tenuità del fatto, la seconda sulla particolare tenuità dell’offesa". Cosicché, conclude la Corte, manifestamente infondata risulta la dedotta illogicità tra il riconoscimento della prima e l’esclusione della seconda. Peculato all’incaricato della riscossione tributi che non riversa il denaro al Comune di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 3 novembre 2011. Risponde di peculato il legale rappresentante di una società concessionaria del servizio di riscossione tributi per conto di un Comune. L’uomo non aveva riversato all’ente il denaro ricevuto dai contribuenti a titolo di imposta comunale sulla pubblicità e di diritti sulle pubbliche affissioni. La Cassazione, sesta sezione penale, con la sentenza n. 46235, depositata ieri, riconosce come corretta la decisione dei precedenti gradi di giudizio in cui l’ipotesi avanzata era quella di reato di peculato per appropriazione. L’incaricato di pubblico servizio - Innanzitutto la Cassazione ricorda come l’amministratore e legale rappresentante di una società per azioni che gestisce il servizio di riscossione dei tributi locali riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio a prescindere dalla natura privata della società grazie alla indubbia connotazione pubblicistica del servizio stesso. D’altra parte, lo stesso codice di procedura penale fornisce una definizione allargata dell’incaricato di pubblico sevizio che è colui che, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico, a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con la Pa. La disponibilità del denaro della Pa - Anche se il soggetto è privato quello che conta è la finalità pubblica, insomma. E quando quel soggetto riceve nelle proprie mani delle somme di denaro destinate a finalità pubbliche, in quello stesso momento i soldi entrano nella disponibilità della Pa stessa. Ivrea (To): pestaggi nel carcere. Gli agenti: aggrediti, ci siamo solo difesi di Jacopo Ricca La Repubblica, 4 novembre 2016 Versioni contrastanti su cui gli ispettori del ministero della Giustizia e la procura di Ivrea stanno cercando di fare chiarezza. I racconti degli agenti della polizia penitenziaria e dei detenuti su cosa sia successo nella notte tra il 24 e il 25 ottobre nel carcere di Ivrea concordano su un solo punto: chi è intervenuto indossava caschi e scudi. Su tutto il resto la distanza è enorme: "I colleghi sono intervenuti con scudi e caschi per ripararsi dagli oggetti che i carcerati lanciavano dalle celle, non per picchiarli - racconta Mario Candela, segretario locale del Sappe - Siamo amareggiati perché vogliono farci passare per aguzzini, ma non è così". Dopo le 20 al quarto piano dell’istituto, dove le presunte vittime dei pestaggi si trovavano in isolamento, c’è un solo agente in servizio: "Io non c’ero, ma mi hanno raccontato che quando sono iniziati i problemi il collega ha chiesto aiuto ai colleghi, fuori servizio, che erano in caserma perché gli dessero una mano - spiega Candela - Questi lanciavano oggetti incendiati e facevano rumore era necessario intervenire, è arrivato anche il comandante perché era una situazione critica, ma non ci sono state violenze eccessive". Di tutt’altro tenore è invece il racconto dei detenuti che il garante regionale Bruno Mellano e la consigliera regionale dei 5 stelle, Francesca Frediani, hanno incontrato in questi giorni. "Stavamo sbattendo le cellette per protesta contro quell’isolamento punitivo, qualcuno ha lanciato qualche oggetto in corridoio, ma non era una rivolta - hanno confermato tutti i carcerati presenti - Gli agenti sono intervenuti con gli idranti nelle celle d’isolamento, ci hanno buttato a terra e ammanettati e poi ci hanno picchiato. Una situazione che si è ripetuta anche in corridoio e nell’acquario al primo piano vicino all’infermeria". Alcuni di loro mostrano ancora i segni delle botte di quella notte e i referti medici saranno acquisiti dalla procura che dovrà appurare se quelle violenze fossero proporzionate al pericolo in atto, come sostengono gli agenti. Gli ispettori intanto invieranno i risultati al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che deve consegnare una relazione urgente al ministro Andrea Orlando. Il provveditore, Luigi Pagano, non si sbilancia sull’esito dell’ispezione: "Posso però smentire che ci fossero detenuti in fin di vita e che sia arrivata una squadra in tenuta antisommossa da Vercelli. Avrei dovuto autorizzare io quel trasferimento e non l’ho fatto". Le polemiche però non si placano: "Le prime denunce sulla situazione del carcere di Ivrea le abbiamo fatte nel dicembre 2015" attaccano dall’associazione Antigone. Il sindacato di polizia penitenziaria Sappe però respinge le accuse: "Se ci sono singoli episodi da punire siamo sicuri verrà fatto, ma non si può criminalizzare il personale che, in una situazione di carenza cronica di organico come a Ivrea, lavora ogni giorno per garantire i pasti alle proprie famiglie" dice il segretario regionale Vicente Santilli. Cagliari: Caligars (Sdr) "dopo due anni ancora carenze nel carcere di Uta" cagliaripad.it, 4 novembre 2016 Le problematiche strutturali permangono e anzi si sono acuite per una crescita esponenziale di detenuti, una drastica riduzione di agenti penitenziari e di educatori nonché l’assenza di un Vice Direttore. "È arrivato anche il secondo anno di vita per il Villaggio Penitenziario di Uta, ubicato nell’area industriale di Cagliari dove ha sede la Casa Circondariale intitolata a "Ettore Scalas", ma le problematiche strutturali permangono e anzi si sono acuite per una crescita esponenziale di detenuti, una drastica riduzione di agenti penitenziari e di educatori nonché l’assenza di un Vice Direttore. Fino a due settimane orsono inoltre mancava perfino il Cappellano e si attende la stesura del Regolamento d’Istituto, un documento fondamentale per le garanzie di tutti". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", ricordando che "gli edifici prefabbricati della Casa Circondariale, articolata in 15 sezioni, non garantiscono una completa impermeabilizzazione dall’acqua piovana. Il Padiglione destinato ai detenuti in regime di massima sicurezza (41bis) non solo non è stato completato ma addirittura le opere realizzate e l’infrastrutturazione tecnologica si stanno deteriorando irrimediabilmente, in attesa che il Ministero delle Infrastrutture indica un nuovo bando per concludere i lavori iniziati ormai 9 anni fa". "Il tempo trascorre inesorabilmente ma ciò che si evidenzia dalla condizione dell’Istituto - sottolinea Caligaris - è il totale disinteresse da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per rendere la struttura pienamente idonea alla sua funzione risocializzante. Sembra infatti evidente la volontà di utilizzare gli spazi solo per contenere i reclusi. Non a caso da alcune settimane è stata attivata una sezione di Alta Sicurezza dove attualmente sono collocati oltre una trentina di ristretti. Superata la capienza regolamentare - l’Istituto annovera 588 ristretti (21 donne; 90 in attesa di primo giudizio) per 567 posti - una buona parte delle celle ospitano ormai tre detenuti; in alcune sezioni è stato necessario inserire la quarta branda nonostante le stanze detentive siano state progettate per due persone private della libertà nell’ottica di occuparle solo la notte". "In realtà l’apertura delle celle non coincide con attività lavorative per tutti. La maggior parte dei detenuti trascorre il tempo inattivo sulla branda o nelle salette di socialità. Il lavoro interno è poco qualificato e quello esterno purtroppo scarso, benché la presenza nell’area industriale potesse far presagire una moltiplicazione delle opportunità. A ciò si aggiunga la difficoltà di impiegare utilmente persone con differenti problematiche. Si riscontra infatti un’alta percentuale di tossicodipendenti (circa 40%), molti con doppia diagnosi. Le difficoltà di avviare un percorso realmente riabilitativo - aggiunge la Presidente di Sdr - sono rese ancora più complesse dallo scarso numero di Educatori. Sono infatti rimasti soltanto in 7, compreso il Responsabile dell’Area, prevalentemente impegnati nella stesura di relazioni e attività burocratiche". "Altro punto nevralgico è il numero insufficiente di Agenti della Polizia Penitenziaria. La Casa Circondariale di Cagliari è una struttura complessa, dispersiva, in cui operano 360 Agenti rispetto ai 420 previsti in organico. Una carenza che costringe i lavoratori a turni pesanti per un’attività - conclude Caligaris - che richiede doti umane e professionali di altissimo livello per gestire disperate solitudini, disagi familiari e sociali, tematiche sanitarie. Problematiche che peraltro avrebbero necessità di strutture alternative alla detenzione in carcere". Migranti. Amnesty accusa l’Italia di torture ai profughi. Il Viminale: "È falso" di Nello Scavo Avvenire, 4 novembre 2016 L’organizzazione ha raccolto decine di testimonianze tra i profughi. Netta la smentita dal capo della polizia. Gli attivisti: "Ma Alfano non ci ha mai voluto rispondere. Lo faccia adesso". "Che le forze di polizia operino violenza sui migranti è totalmente falso. Sono rimasto sconcertato nel leggere queste cretinaggini". Lo ha detto il prefetto Mario Morcone, capo Dipartimento immigrazione del Viminale, in merito al rapporto di Amnesty International che parla di casi di pestaggi, maltrattamenti ed espulsioni illegali negli hotspot. "Amnesty - ha aggiunto - costruisce i suoi rapporti a Londra, non in Italia". Il dossier dell’organizzazione ha sollevato un vespaio e c’è chi, come il capo della polizia, arriva a mettere in dubbio che si tratti di racconti raccolti dal vero, parlando "presunte testimonianze" in forma anonima di migranti "che non risiedevano in alcun hot spot". La smentita di Gabrielli - Pertanto, "a tutela dell’onorabilità e della professionalità dei tanti operatori di polizia che con abnegazione e senso del dovere stanno affrontando da lungo tempo questa emergenza umanitaria, smentisco categoricamente che vengano utilizzati metodi violenti sui migranti sia nella fase di identificazione che di rimpatrio", ha reagito Franco Gabrielli, rincuorato anche dalla Commissione europea a cui "non risulta che negli hot spot italiani si sia verificata alcuna delle violazioni dei diritti fondamentali dei migranti, come denunciato nei giorni scorsi da un rapporto di Amnesty International". Le modalità di lavoro di Amnesty sono note. Le testimonianze vengono raccolte dagli operatori, vagliate una per una, infine incrociate con riscontri concreti. La metodologia seguita dai ricercatori viene presentata proprio in apertura del rapporto: "Le informazioni presentate in questo documento sono state raccolte da rappresentanti di Amnesty International durante il 2016, attraverso quattro visite a diverse città e centri di accoglienza in Italia: Roma, Palermo, Agrigento, Catania e Lampedusa (marzo), Taranto, Bari e Agrigento (maggio), Genova e Ventimiglia (luglio), Roma, Como e Ventimiglia (agosto). Alcune informazioni sono basate su precedenti visite in Italia, comprese quelle ai centri di accoglienza di Lampedusa e Pozzallo a luglio 2015". Durante queste visite, Amnesty International ha intervistato 174 rifugiati e migranti e ha avuto conversazioni più brevi con molti altri. Nel corso dell’investigazione gli operatori hanno beneficiato dell’aiuto di numerosi agenti di polizia, tuttavia è stato espresso il rammarico "per il fatto che il direttore centrale per l’immigrazione e la polizia delle frontiere del ministero dell’Interno, prefetto Giovanni Pinto, il cui ruolo è centrale in questo ambito, non abbia potuto rendersi disponibile per un incontro con Amnesty International e non abbia risposto alla lettera che l’organizzazione gli ha inviato a giugno 2016, chiedendo informazioni su screening e iter al quale sono sottoposti i nuovi arrivati". Le lettere al Viminale - Durante l’anno, Amnesty International ha inoltre inviato due lettere al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, "esprimendo preoccupazione in relazione ai risultati provvisori della ricerca e chiedendo informazioni sull’uso della forza e della detenzione per il rilevamento delle impronte digitali dei nuovi arrivati e sulla riammissione di cittadini di paesi terzi, in particolare del Sudan. Il ministro Alfano non ha risposto ad alcuna delle lettere". Tutto questo lo si può leggere nelle prime pagine del report, come dire che se vi fosse stata una maggiore disponibilità delle autorità forse le smentite avrebbero potuto essere motivate prima della pubblicazione. "Siamo dispiaciuti per i toni e per il contenuto di alcune reazioni alla pubblicazione del rapporto "Hotspot Italia" descritto come un insieme di "cretinaggini" e di "falsità" "costruite a Londra e non in Italia". Il rapporto in questione è, al contrario, un lavoro di ricerca molto serio, frutto di centinaia di ore di colloqui con rifugiati e migranti, autorità e operatori di organizzazioni non governative svoltisi in dieci diverse città italiane", spiega in serata Amnesty con una nota ufficiale. "Le informazioni incluse nel rapporto sono state messe a disposizione delle nostre autorità con largo anticipo sulla data di pubblicazione affinché avessero modo di commentarle". Nel rapporto Amnesty International da una parte riconosce, "come già avvenuto in passato, il lavoro straordinario svolto dall’Italia nel salvataggio di vite umane in mare e il fatto che la stragrande maggioranza delle forze di polizia si siano comportate in maniera professionale, dall’altra fornisce i resoconti di alcuni casi di maltrattamento che avrebbero avuto luogo sulla terraferma e di alcuni casi di espulsioni verso paesi in cui vi è il rischio che le persone rimpatriate diventino vittime di gravi violazioni dei diritti umani". Di fronte alla gravità degli episodi denunciati ci aspettiamo approfondimenti e risposte, come quello molto fruttuoso che abbiamo avuto oggi pomeriggio in occasione di una lunga riunione con il Garante dei diritti delle persone private della libertà. A partire dalle raccomandazioni contenute nel nostro rapporto, Ci aspettiamo non dinieghi a priori. Ci aspettiamo, una riflessione sui limiti del c.d. approccio hotspot che, oltre a mettere a rischio i diritti umani di rifugiati e migranti, sta dando frutti davvero esigui". "Dopo tre giorni mi hanno portato nella "stanza dell’elettricità". C’erano tre agenti in divisa e una donna in borghese. A un certo punto è entrato nella stanza anche un uomo senza divisa che parlava arabo […] i poliziotti allora mi hanno chiesto di dare le impronte digitali e io mi sono rifiutato. Allora mi hanno dato scosse con il manganello elettrico". È la testimonianza di Djoka, un ragazzo di 16 anni del Sudan, arrivato in Italia il 7 giugno 2016. Quando è sbarcato in Sicilia, stando al suo racconto, lo hanno portato in un ufficio di polizia dove è rimasto detenuto. "Mi hanno dato - prosegue il suo racconto - scosse con il manganello elettrico diverse volte sulla gamba sinistra, poi sulla gamba destra, sul torace e sulla pancia. Ero troppo debole, non riuscivo a fare resistenza e a un certo punto mi hanno preso entrambe le mani e le hanno messe nella macchina. Non riuscivo a oppormi". Le autorità italiane - scrive Amnesty - hanno dichiarato che il loro successo nell’aumentare il tasso di rilevamento delle impronte digitali agli arrivi, a partire dalla seconda metà del 2015, è dovuto a una diminuzione degli arrivi di persone di alcune nazionalità che generalmente "rifiutano di dare le impronte digitali, oltre alla capacità della polizia di "negoziare" con le persone appena arrivate e di persuaderle, separando quelli che si rifiutavano e suddividendo le persone o i piccoli gruppi tra diversi uffici di polizia in diverse città". Tuttavia, è evidente "che l’uso di misure coercitive ha fatto la sua parte. La realtà è che, tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, la polizia italiana ha introdotto strategie più aggressive per costringere le persone a fornire le impronte digitali, incluso l’uso di forza fisica e di detenzione prolungata, portando a gravi violazioni dei diritti umani". Il sindacato di polizia della Cgil - Il governo italiano, sotto la pressione delle istituzioni dell’Ue e degli altri stati membri, ha indotto questo cambiamento "forzando la mano, in senso metaforico e letterale". I sindacati di polizia hanno condannato il dossier. Seppure con qualche distinguo. "Il rapporto di Amnesty International sulle presunte violenze commesse dalle forze di polizia a danno dei migranti in Italia è molto grave. Ci auguriamo che gli episodi segnalati, frutto di interviste ai migranti, siano circostanziate e non frutto della disperazione, della frustrazione e dei disagi di persone che hanno patito disagi infiniti", afferma Daniele Tissone, segretario generale del sindacato di polizia della Cgil. "Quando leggiamo che alcuni migranti avrebbero addirittura denunciato l’utilizzo di manganelli elettrici, ci permettiamo di segnalare che non esistono strumenti simili in dotazione alla polizia italiana". Ed anche questo potrebbe essere materia per una inchiesta. Migranti. Amnesty: scariche elettriche e calci ai rifugiati. Il Viminale: sono "cretinaggini" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 4 novembre 2016 Torture sui migranti. Il rapporto di Amnesty raccoglie 174 testimonianze. Anche donne e minori picchiati da poliziotti per le impronte. Si fa presto a definire "cretinaggini" le denunce di Amnesty International sulle violenze, a volte solo botte altre volte più simili a torture, compiute da polizia su migranti e i rifugiati, uomini e donne, minori e adulti, che sbarcano nel sistema hotspot italiano. "Cretinaggini", è così che il capo del Dipartimento immigrazioni e libertà civili del Viminale Mario Morcone ha definito ieri le storie contenute nel rapporto di Amnesty, dicendosi al contempo "sconcertato". Redatto a Londra dopo quattro missioni in centri d’accoglienza di 13 città e 174 interviste a migranti, il dossier è già finito sulle prime pagine dei principali giornali europei. Sono denunce sconvolgenti, in effetti, che riferiscono di un trattamento generalmente brutale e violento riservato dagli agenti in divisa ai migranti, in maggioranza sudanesi e eritrei, con la giustificazione di dover procedere all’identificazione in tempi brevi e prendere le impronte. I racconti anche di ragazzini di 16 anni come Ishaq, "Castro", Ali parlano di calci, pugni, manganellate, mani e dita storte. Ma soprattutto dell’uso delle scariche elettriche dei Taser, le pistole che si vedono nei serial polizieschi americani e che secondo la stessa Amnesty hanno già provocato nel mondo quasi 900 morti. Djoka, sedicenne del Darfur sbarcato a giugno sulle coste siciliane nel tentativo di raggiungere un fratello in Francia, ha detto di essere stato portato per tre giorni nella "stanza dell’elettricità". Alcuni hanno descritto le torture con botte ai genitali, strane sedie di metallo dov’erano obbligati a sedersi per essere pestati. Persino una donna che aveva partorito sul barcone e perdeva ancora sangue è stata schiaffeggiata più volte. Episodi analoghi vengono descritti a Bari come a Crotone, a Torino come a Ventimiglia. E quasi sempre - a parte nell’hotspot di Taranto - i luoghi dove avvenivano - o meglio avvengono - queste pratiche a dir poco brutali sono stazioni di polizia accanto ad aeroporti o stazioni ferroviarie. Oppure direttamente durante i trasferimenti, sugli autobus, per strada sui cofani delle auto di pattuglia. Luoghi dunque per lo più lontani da occhi indiscreti di funzionari dell’Easo, di Frontex o delle agenzie dell’Onu come l’Unhcr. Luoghi di sostanziale impunità visto che in Italia, non solo non esiste una legge contro la tortura, ma neanche un codice di identificazione degli uomini in divisa. Ieri, accanto alle dichiarazioni sconcertate e sconcertanti del prefetto Morcone, anche l’ex capo della protezione civile ora al vertice della Polizia di Stato, Franco Gabrielli, ha smentito "categoricamente che vengano utilizzati metodi violenti sui migranti sia in fase di identificazione che di rimpatrio". Gabrielli fa notare che le "presunte testimonianze" raccolte "in forma anonima" si riferiscono a migranti che "non risiedevano in alcun hotspot", dove esiste una supervisione sulle procedure di un team della Commissione europea. La stessa portavoce Commissione europea, Natasha Bertaud da Bruxelles, ha dichiarato di non essere a conoscenza di gravi violazioni dei diritti umani negli hotspot italiani e ha comunque assicurato che le accuse "verranno prese in seria considerazione". "Lavoreremo con le autorità italiane per chiarire la situazione", ha promesso. Amnesty sostiene di aver scritto due volte al ministro dell’Interno Angelino Alfano durante la scrittura del rapporto, chiedendo informazioni sull’uso della forza nel rilevamento di impronte, e di non aver mai ricevuto risposta. L’ong si rammarica poi di non aver potuto interloquire con il prefetto Giovanni Pinto, che al Viminale dirige la polizia di frontiera e addetta all’immigrazione. Il segretario del sindacato di polizia della Cgil, Daniele Tissone, fa notare che le pistole Taser non sono in dotazione alla polizia italiana. Dimentica di specificare che dal 2014 sono state introdotte "in via sperimentale". Evidentemente la sperimentazione ha bisogno di cavie. Migranti. Noury (Amnesty): "abbiamo chiesto incontro ad Alfano ma non ha mai risposto" di Carlo Lania Il Manifesto, 4 novembre 2016 "Invece che delle smentite mi aspettavo che sarebbe stata avviata almeno un’inchiesta. Il problema è che quando si parla di tortura in Italia è sempre un problema". Riccardo Noury è il portavoce di Amnesty International Italia. Noury, cosa risponde al Viminale che vi accusa di aver scritto un mucchio di falsità? Sono parole pesanti, poco istituzionali. Da anni in questo paese ogni qualvolta si solleva l’esistenza di casi di maltrattamento e tortura la reazione è quella del diniego totale e dell’accusa di falsità. Quando invece noi preferiremmo che ci fossero un confronto e delle indagini. Sarebbe bello fare un passo avanti in questa interlocuzione. Le informazioni che abbiamo diffuso oggi (ieri, ndr) erano state presentate ad agosto al ministro dell’Interno Alfano, ma sembra che queste cose provochino reazioni solo quando finiscono sui giornali e non quando finiscono sui tavoli di chi poi deve reagire. Che significa che vengono lette solo quando vengono pubblicate? Ad agosto Alfano cosa vi ha detto? Nulla. Non ci ha neanche ricevuto. Sono mesi e mesi che chiediamo un incontro, ma non ci arriva nessuna risposta. Quando il tema delle tortura si associa all’Italia è sempre un problema ma dal 2001, da Genova in poi, mi pare che le persone che hanno subìto tortura siano centinaia e questo sarebbe un ulteriore motivo per avere il reato di tortura. Dopo di che noi abbiamo scritto nel rapporto due cose, di cui però nessuno parla: che l’Italia è impegnata da tempo in un’operazione straordinaria di ricerca e soccorso in mare dei migranti e che noi raccogliamo denunce, ma nel farlo diciamo e precisiamo che la maggior parte dei casi che abbiamo riscontrato nelle nostre ricerche in Italia il comportamento delle forze di polizia è stato professionalmente ineccepibile, che nella maggior parte dei casi le impronte digitali sono state raccolte senza incidenti. Le denunce che avete presentato sono però tutte anonime. In tutto abbiamo incontrato 170 persone, un numero superiore a venti ci ha riferito di maltrattamenti e in alcuni casi anche di trattamenti equiparabili alla tortura. È una procedura che Amnesty International segue da oltre mezzo secolo quella di proteggere l’identità delle persone che denunciano qualora lo richiedano e qualora queste persone, come nel caso di quelle che abbiamo incontrato, siano in condizioni di particolare vulnerabilità, perché sono cittadini stranieri, perché sono appena arrivati e perché molti di loro vorrebbero lasciarsi alle spalle l’esperienza avuta l’Italia piuttosto che affrontare un procedimento che li costringerebbe a restare nel nostro paese per non si sa quanto tempo. Queste persone le abbiamo intervistate sappiamo chi sono, non vedo quale sia il problema. Perché non vi siete rivolti alla magistratura denunciando quanto avevate saputo? Il nostro compito non è quello di rivolgerci alla magistratura. Siamo un’organizzazione per i diritti umani che fa ricerche e pubblica rapporti che poi consegna alle istituzioni competenti. Abbiamo presentato quanto saputo al ministero dell’Interno, quanto meno ad agosto le risultanze di una missione fatta a Ventimiglia. Ma anche questa volta non c’è stata risposta. Aggiungo che se la persona non intende denunciare ma vuole raccontare ad Amnesty International non è che poi noi denunciamo per conto di questa persona. Negli hotspot sono presenti anche altre organizzazioni: Unhcr, Oim, Save the Children. Possibile che nessuno abbia saputo niente delle violenze subìte da alcuni migranti? Non abbiamo la pretesa di aver registrato ogni singola intervista che viene fatta negli hotspot. Queste organizzazioni ci sono ma non è detto che partecipino sistematicamente a tutte le interviste che vengono fatte ai nuovi arrivati. Può essere che i casi in cui è andata peggio siano quelli in cui non c’era nessuno e questa è una delle possibili spiegazioni. Aggiungo che quanto abbiamo denunciato non è una novità assoluta perché di maltrattamenti negli hotspot se ne sente parlare da tempo. Anzi, il nostro timore era che avendo fatto una ricerca tanto accurata, tanto attenta e tanto verificata fossimo arrivati per ultimi e che la notizia non ci fosse. Mi pare invece che non sia così. Tre Stati africani "dichiarano guerra" alla Corte penale internazionale Panorama, 4 novembre 2016 Burundi, Sudafrica e Gambia hanno lasciato l’Icc, la Corte Penale Internazionale che interviene sui casi di violazioni dei diritti umani, chinini di guerra, genocidi. I tre paesi imputano alla Corte di essere animata da "pregiudizio contro gli africani e i loro presidenti, ignorando i gravi atti di leader non di colore". Il presidente del Burundi è accusato di violazione dei diritti umani; quello del Gambia è al potere dal 1994 tra sparizioni di oppositori politici, repressione della libertà d’espressione ed ergastolo per gli omosessuali. A gennaio l’Unione Africana (AU) aveva discusso il ritiro degli stati dalla Corte su proposta del presidente del Kenya, accusato di crimini contro l’umanità. A stupire è il Sudafrica, nel continente l’unico paese democratico, politicamente ed economicamente stabile: ancora più scioccante se si pensa che fu Nelson Mandela, una volta presidente della Nazione Arcobaleno, ad avere un ruolo attivo nella stesura del Trattato di Roma dal quale prese vita la Corte con sede all’Aia. Che cosa hanno scritto - Per la rivista di geopolitica Limes l’Unione Africana "ha dichiarato guerra all’Icc". La Bbc si chiede se sia in atto un "esodo africano dall’Icc" e la risposta è che il quadro è più complesso, con alcuni stati avversi al tribunale permanente e altri, come il Botswana o il Senegal, che hanno confermato il loro supporto. Il New York Times smonta le motivazioni dei tre paesi africani e ricorda che "la Corte sta indagando sui crimini di guerra in Georgia e sui soldati inglesi accusati di torture in Iraq, e ha inviato un team in Israele per i crimini a Gaza"; e fa poi notare come la maggior parte dei giudici dell’Icc non siano bianchi. Il sudafricano Daily Maverick afferma che il paese fa un brusco passo verso l’isolamento dalla comunità internazionale. Che cosa succederà - Queste decisioni sono un segnale grave. È vero che al momento l’attività della Corte ha procedimenti quasi esclusivamente relativi all’Africa. Ma nella maggior parte dei casi il suo intervento è stato richiesto dallo stesso Stato interessato, come in Uganda, o Costa d’Avorio. Per Libia e Darfur c’è stata invece una richiesta da parte del consiglio di Sicurezza Onu. Il processo contro il presidente keniano e i mandati di arresto del presidente sudanese Al Bashir, per i crimini commessi in Darfur, sono alla base del malcontento contro l’Aia. In particolare preoccupa la posizione del Sudafrica. Afghanistan. 30 civili uccisi, tra cui donne e bambini, in raid Nato su Kunduz di Giuliano Battiston Il Manifesto, 4 novembre 2016 Nel momento in cui scriviamo, di certo ci sono soltanto i corpi straziati dei civili innocenti, alcuni dei quali trasportati dai famigliari dall’area di Bodee Kandahari, 5 chilometri fuori dalla città, nel centro di Kunduz. Volevano arrivare fin sotto l’ufficio del governatore per chiedere conto della strage, ma gli è stato impedito. Cacciato dalla porta, il grande rimosso della campagna presidenziale Usa torna a bussare alla finestra: la guerra in Afghanistan. E lo fa con ciò che più si cerca di occultare: la morte. Ieri nel Paese centro-asiatico ci sono stati due avvenimenti che rischiano di costringere Hillary Clinton e Donald Trump, sfidanti diversi tra di loro ma ugualmente riluttanti a discuterne, a occuparsi di una guerra dimenticata. Il primo è una strage: sarebbero almeno 30 i civili, tra cui donne e bambini, polverizzati nel corso di un attacco aereo nei pressi di Kunduz, la città settentrionale intorno alla quale si gioca da settimane una feroce battaglia tra le forze governative, sostenute dagli americani, e i Talebani. Le ricostruzioni si sono accavallate per tutto la giornata. Nel momento in cui scriviamo, di certo ci sono soltanto i corpi straziati dei civili innocenti, alcuni dei quali trasportati dai famigliari dall’area di Bodee Kandahari, 5 chilometri fuori dalla città, nel centro di Kunduz. Volevano arrivare fin sotto l’ufficio del governatore per chiedere conto della strage, ma gli è stato impedito. Sulla responsabilità, c’è stata un’altalena di dichiarazioni: alcuni solerti funzionari afghani hanno sostenuto che i colpi provenissero dagli elicotteri dell’esercito di Kabul, ma i portavoce delle forze statunitensi e della missione della Nato hanno poi ammesso di aver condotto raid aerei, in sostegno alle forze afghane finite sotto scacco. Come spesso accade, tutti promettono "verifiche certe" sulle responsabilità. Lo stesso era avvenuto poco più di un anno fa, in seguito alla strage compiuta nell’ospedale di Medici Senza Frontiere, quando nella notte tra il 2 e il 3 ottobre i bombardamenti aerei provocarono la morte di 42 persone. Le indagini hanno portato alla sanzione amministrativa di 16 membri dell’esercito americano. Un esito giudicato insufficiente dall’Organizzazione non governativa, che continua a parlare di un vero e proprio crimine di guerra. Anche se i due candidati alla presidenza evitano di parlarne, in Afghanistan la guerra continua. A rimetterci sono soprattutto i civili afghani, come ricordano i rapporti realizzati dalla missione dell’Onu a Kabul, che segnalano un aumento delle vittime. Ma aumentano anche le vittime tra i militari. Quelli afghani e quelli statunitensi. Sarebbero almeno due i soldati americani morti nel conflitto di ieri intorno a Kunduz. Sembra anzi che i raid aerei siano stati una risposta all’uccisione dei due soldati. Clinton e Trump evitano di parlare di Afghanistan per ragioni diverse: Clinton dovrebbe riconoscere le mancate promesse di Barack Obama, che giurava di "riportare a casa i nostri ragazzi" e invece ha cambiato idea: nel giugno 2016 ha concesso margini operativi molto più ampi ai soldati a stelle e strisce, allargando le maglie anche per i bombardamenti aerei, come quello di ieri, poi ha annunciato che fino al 2017 sul terreno sarebbero restati 8.500 uomini, anziché 5.500 come annunciato in precedenza. Se parlasse di Afghanistan, Trump non potrebbe che appellarsi a un maggior uso della forza. Ma perfino lui sa che la strategia non funziona: in Afghanistan gli americani si sono impelagati nella guerra più lunga della loro storia militare, e non ne usciranno alzando il tiro. Una longevità alimentata da scelte irresponsabili e miopi, dentro e fuori il Paese. Proprio ieri l’Afghanistan Analysts Network, il più accreditato centro di ricerca del Paese, ha reso pubblica un’inchiesta sui detenuti afghani di Guatanamo che dimostra come gli arresti di massa e arbitrari avvenuti nel Paese abbiano concretamente contribuito ad alimentare la guerriglia. Clinton e Trump sono molto diversi, ma entrambi sanno che di Afghanistan è meglio non parlare. Altrimenti, bisognerebbe ammettere che la guerra è persa. Flavio Sidagni, top manager dell’Agip: "le mie prigioni nell’inferno del Kazakistan" di Ferruccio Pinotti Sette del Corriere, 4 novembre 2016 Ha passato sei anni nelle galere dell’ex repubblica sovietica. Per uno spinello. E con il sospetto di essere vittima di un complotto. Immaginate di essere un top manager di un grande gruppo petrolifero, con un prestigioso incarico all’estero, uno stipendio da 15.000 euro al mese, una casa da favola con vista sul Mar Caspio e una bellissima compagna con gli occhi verdi e i tratti asiatici. E di ritrovarvi dalla sera alla mattina in un carcere kazako da incubo, tra detenuti violenti, a scontare una pena di sei anni senza possibilità di appello, abbandonato dal mondo. È vero che la vita riserva ad ognuno batoste e rovesci, ma l’esperienza vissuta da Flavio Sidagni, 60 anni, di Crema, ne supera tante quanto a intensità e stranezza. Sidagni quei sei anni di carcere li ha appena finiti di scontare e a Sette - tra i pochi a occuparsi di lui già quattro anni fa - accetta di raccontare il suo calvario. Una vicenda che è anche un giallo: restano infatti misteriose le ragioni per cui il 20 aprile 2010 la polizia irruppe senza preavviso in casa sua. Sidagni viene tratto in arresto con un capo d’accusa pesantissimo: traffico internazionale di stupefacenti, spaccio e induzione all’uso di droghe. La Procura kazaka chiede una condanna a 16 anni di carcere; gliene comminano 6, da scontare in un carcere da incubo. Chi aveva detto alla polizia che in quella casa il manager italiano aveva il necessario per fumarsi uno spinello? Chi ha voluto colpire il manager del dipartimento Finanza e controllo della Agip Kco, sussidiaria dell’Eni in Kazakistan? Perché? Sidagni, da poco rientrato a Crema, spiega a Sette: "Sono stato venduto, questo è certo: forse da qualcuno che doveva salvarsi da situazioni contingenti. Certo è che i Servizi kazaki avevano trovato il pesce grosso. Mi risulta che qualcuno in contatto con me sia stato seguito e vessato psicologicamente da loro, che volevano informazioni per incastrarmi", mormora Sidagni. Il caso Shalabayeva. Sidagni rifugge dalle dietrologie. Ma in molti si sono chiesti se quell’arresto fosse un segnale in codice all’Eni, una minaccia agli interessi italiani in un’area energetica di valore strategico. In Kazakistan c’è un enorme giacimento di gas e petrolio (il più grande scoperto negli ultimi trent’anni a livello mondiale). Il business che ruota attorno al giacimento è gigantesco: 1,2 miliardi di tonnellate di petrolio, ma anche il più grande giacimento di gas del Paese, con 1,35 trilioni di metri cubi di gas. Forse proprio per gli enormi interessi in gioco, i rapporti tra il nostro Paese ed il Kazakistan sono intensi, come dimostra una vicenda di tre anni successiva a quella di Sidagni: il 30 maggio 2013 Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, veniva imbarcata a forza con la figlia su un aereo diretto in Kazakistan. Il 16 dicembre 2013 la Procura di Roma apriva un’indagine in seguito alle dichiarazioni "coperte" rese alla trasmissione Report da un dirigente Eni. Nell’inchiesta di Paolo Mondani "L’ostaggio", infatti, il manager raccontava: "L’ambasciatore kazako chiama Scaroni e gli dice: guarda che questa storia me la dovete risolvere voi di Eni". Un’inchiesta della Procura di Perugia ha ipotizzato che l’Eni avrebbe messo a disposizione dei kazaki, attraverso una sua società, aereo e pilota per la "extraordinary rendition" della Shalabayeva. Ma l’allora amministratore delegato Paolo Scaroni ha smentito: "Siamo estranei alla vicenda". L’intervento di Berlusconi. Per Sidagni l’Eni si è attivato: "Il gruppo ha speso 35.000 euro in avvocati kazaki. Ma dopo la condanna a 6 anni sono stato buttato in un carcere, con la prospettiva di essere trasferito al carcere di Semey, una prigione da incubo di origine zarista dove fu carcerato anche Dostoevskji. Solo l’intervento di Berlusconi, che ne parlò con Nazarbayev, mi ha evitato quella esperienza tremenda". In carcere, Sidagni ha dovuto subire pestaggi, ricatti e richieste di denaro dagli altri detenuti. "Nelle celle vivono da 4 a 8 detenuti". Pochissimi i contatti esterni concessi, a parte quelli con mia moglie Irina, metà kazaka, metà ucraina: "Ci siamo separati nel 2015, anche per lei era una situazione troppo dura". Mentre i mesi passavano - "i primi 13 sono stati un inferno" - il silenzio scendeva a poco a poco sulla vicenda. Per sopravvivere al carcere, Sidagni ha dovuto dare fondo a risorse personali: "In una prigione kazaka qualsiasi cosa ha un prezzo, dal cibo alle sigarette, all’evitare la violenza degli altri: ho dovuto comprare tutto. Mi hanno letteralmente munto. Nei primi quattro anni e mezzo di carcere duro ho speso 200.000 euro". Gli ultimi due anni di prigionia Sidagni li ha passati in condizioni più accettabili: "Eravamo una ventina ad avere il regime misto di carcere e lavoro, il 70% dei quali condannati per corruzione". Inutili i tentativi di ottenere una riduzione della pena: "Mi fu detto che servivano altri 20.000 dollari di avvocati e che il giudice, per rilasciarmi sulla parola, doveva ricevere 3.000 dollari. Ho soprannominato il Kazakistan The Kingdom of corruption". In questi anni chi lo ha aiutato? "In concreto solo Berlusconi. Monti, al quale avevo scritto ricordandogli che ero un bocconiano, non si è mosso, so che la lettera con la richiesta di grazia a Nazarbaiev è rimasta a lungo sul suo tavolo senza essere firmata. Letta e Renzi hanno fatto qualcosina, la Bonino si è attivata di più". A seguire con passione la vicenda di Sidagni, e a non fargli mancare mai il suo supporto umano e professionale, è stato invece un penalista specializzato in casi difficili, l’avvocato Carlo Delle Piane di Milano: "Ho seguito la vicenda di Sidagni sin dall’inizio e posso dire che il suo è stato davvero un calvario, al quale è un miracolo che sia sopravvissuto. Abbiamo inviato dei documenti al collega che lo ha assistito in loco, da cui risultava l’incensuratezza di Sidagni al fine di poter ottenere una condanna più lieve. Purtroppo la mancanza di un trattato sul trasferimento dei condannati tra l’Italia ed il Kazakistan - la legge è stata approvata solo nel giugno 2015 ed è operativa da settembre 2015, in sostanza fuori tempo massimo perché Sidagni potesse usufruirne, dati i tempi non rapidi di tali procedure - ci ha impedito di muoverci efficacemente. Ci parlavamo ogni tanto con un telefonino che lui riusciva a procurarsi in carcere; il mio più grande rincrescimento era quello di non potergli dare buone notizie. Ho cercato di stargli vicino e di non spezzare quel filo con la libertà che, spesso, noi difensori, rappresentiamo". Nonostante l’esperienza vissuta, Sidagni non sembra rancoroso verso il mondo kazako: "Ho incontrato anche gente stupenda lì, persone bravissime che hanno ancora fiducia in me". Il manager ha scoperto di avere tanti amici tra i colleghi kazaki del settore petrolifero: "Per 176 settimane mi hanno inviato pacchi di cibo, caffè, cose di ogni genere. Non lo dimenticherò mai". Tornato in Italia, Sidagni ha trovato ad attenderlo solo l’anziana madre, 87 anni, che non ha mai smesso di lottare per lui. "A Crema ho ritrovato alcuni vecchi amici. Pensi che tra loro c’era Beppe Severgnini, giocavamo a pallone assieme e scrivevamo per la Provincia di Cremona. Il mio sogno era quello di diventare giornalista sportivo. Poi la laurea in Bocconi e la vita mi hanno portato verso altre strade. Anche Beppe mi ha dato una mano, come ha potuto". Nonostante la dura esperienza, Sidagni non si dà per vinto: "Mi sono proposto per incarichi negli Emirati Arabi, in Africa, Asia, ho spedito 200 curricula. Ora, per conto di una società inglese, sto elaborando un progetto per l’implementazione di un software di gestione aziendale finalizzato all’ambito gasiero e petrolifero. I profitti saranno pertanto possibili solo se il contratto ci verrà assegnato dopo la gara. La vita ci bastona, ma non bisogna mai perdere la speranza di avere una seconda chance". Russia. Nella colonia penale IK-7 a Segeža: le torture subite dall’attivista Il’dar Dadin eastjournal.net, 4 novembre 2016 L’attivista russo Il’dar Dadin, detenuto ora nella colonia penale IK-7 a Segeža, a nord di San Pietroburgo, ha scritto una lettera alla moglie Anastasija Zotova, in cui denuncia le torture subite da lui e da altri detenuti. Dadin è l’unico cittadino russo condannato in virtù dell’articolo 212.1, aggiunto solo nel 2014 al Codice Penale russo, per i ripetuti sit-in di protesta organizzati senza permesso. Questo articolo sancisce il reato di "ripetuta violazione delle regole in materia di svolgimento di manifestazioni pubbliche", le quali sono diventate via via più restrittive dopo gli eventi di piazza Bolotnaja nel 2012. L’attivista russo si era reso colpevole di partecipazione a manifestazioni pacifiche, ma non autorizzate, e nel dicembre del 2105 è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione. La lettera è stata scritta il 31 ottobre 2016 dall’avvocato di Dadin, Aleksej Lipcer, che ha trascritto le sue parole. Qui in seguito riportiamo una traduzione della lettera, la cui versione originale è stata pubblicata da Meduza. "Nastja! Se deciderai di pubblicare informazioni su quel che mi sta succedendo, cerca di diffonderle il più possibile. Questo aumenterà le mie possibilità di rimanere vivo. Sappi che nella colonia IK-7 c’è un’intera mafia, alla quale appartiene tutta l’amministrazione: il capo della colonia - il capo dei servizi interni Sergej Leonidovic Kossiev e l’assoluta maggioranza dei dipendenti della colonia, inclusi i medici. A partire dal mio arrivo nella colonia, il 10 settembre 2016, mi hanno subito portato via praticamente tutto e ci hanno messo due lamette, che poi hanno "trovato" durante l’ispezione. Questa è una pratica generale - usata per mandare i nuovi arrivati nel reparto di isolamento punitivo, affinché capiscano subito in che inferno sono capitati. Nel reparto di isolamento mi ci hanno mandato senza alcuna delibera, ma mi hanno tolto tutto, incluso il sapone, lo spazzolino da denti, il dentifricio, addirittura la carta igienica. In risposta a queste azioni illegali ho intrapreso uno sciopero della fame. L’11 settembre 2016 è venuto da me il capo della colonia Kossiev con tre collaboratori. Hanno iniziato a picchiarmi tutti insieme. Quel giorno mi hanno picchiato in tutto quattro volte, 10-12 uomini alla volta, mi prendevano a calci. Dopo la terza serie di percosse mi hanno infilato la testa nel gabinetto, direttamente nella cella del reparto di isolamento. Il 12 settembre 2016 sono venuti alcuni collaboratori, mi hanno legato le mani dietro la schiena e mi hanno appeso per le manette. Questa posizione causa un dolore terribile ai polsi, inoltre si girano i gomiti e senti un dolore assurdo alla schiena. Sono stato appeso così per mezz’ora. Dopodiché mi hanno tolto le mutande e hanno detto che avrebbero portato un altro detenuto e che lui mi avrebbe violentato, se non avessi interrotto lo sciopero della fame. Dopodiché mi hanno portato nell’ufficio di Kossiev, il quale, alla presenza di altri collaboratori, ha detto: "Ti hanno ancora picchiato poco. Se darò disposizione ai funzionari, ti picchieranno molto più forte. Se provi a lamentarti, ti ammazzeranno e ti seppelliranno al di là del muro". Mi picchiavano regolarmente, un paio di volte al giorno. Percosse costanti, vessazioni, umiliazioni, insulti, condizioni di detenzione intollerabili - tutto questo succede anche agli altri detenuti. Tutte le misure disciplinari e le deportazioni nel reparto di isolamento sono state costruite e basate su menzogne palesi. Tutti i video in cui mi comunicavano le misure disciplinari erano delle messe in scena: prima di girarli mi dicevano come dovevo comportarmi e cosa dovevo fare, non discutere, non ribattere, guardare il pavimento. Altrimenti - dicevano - mi avrebbero ucciso e nessuno lo avrebbe scoperto, perché nessuno è al corrente di dove mi trovo. Non posso mandare lettere aggirando l’amministrazione e quest’ultima ha giurato di uccidermi se scriverò lamentele. Nastja, nella mia prima lettera dalla colonia IK-7 ti ho scritto a riguardo della Corte Europea dei diritti dell’uomo, per aggirare la censura e dare comunque una minuscola allusione al fatto che qui non va tutto bene e che mi serve aiuto (non mi è arrivata nessuna delle lettere di Il’dar dalla colonia - nota di Anastasija Zotova). Ti prego di pubblicare questa lettera, perché in questa colonia c’è un vero e proprio muro dell’informazione e non vedo altre possibilità di romperlo. Non chiedo di tirarmi fuori di qui e di trasferirmi in un’altra colonia: più di una volta ho visto e sentito come picchiano gli altri condannati, per questo la coscienza non mi permette di scappare da qui - ho intenzione di lottare per aiutare quelli che sono rimasti. Non ho paura della morte e più di tutto ho paura di non resistere alle torture e di arrendermi. Se in Russia non è ancora stato abolito il "Comitato contro le torture", chiedo il loro aiuto nell’assicurare, a me e agli altri detenuti, il diritto alla vita e alla sicurezza. Chiedo di rendere pubblico il fatto che il maggiore Kossiev minaccia direttamente di morte, se ci sono tentativi di lamentarsi di quel che succede. Sarò felice se riuscirai a trovare un avvocato che potrà essere costantemente a Segeža e potrà prestare supporto legale. Il tempo gioca contro di me. I video dalle telecamere di sorveglianza mostrerebbero le torture e le percosse, ma le probabilità che i video ci siano ancora sono sempre meno. Se ora mi sottoporranno ad altre torture, percosse e stupri, è improbabile che resista più di una settimana. In caso di mia morte improvvisa ti potranno dire che la causa è stata suicidio, un incidente, fucilazione durante un tentativo di fuga o una rissa con un altro detenuto, ma questa sarebbe una bugia, sarebbe un omicidio pianificato dall’amministrazione con l’obiettivo di far fuori un testimone e una vittima delle torture. (Traduzione a cura di Maria Baldovin). Svizzera. Tubercolosi in cella, detenuto non mangiava da un mese tio.ch, 4 novembre 2016 Che qualcosa non andava, i compagni di cella di E.S. lo avevano notato da inizio settembre. E lo avrebbero segnalato più volte a chi di dovere. "Era dimagrito, aveva smesso quasi totalmente di mangiare, e la tosse non passava". Alla fine, il cedimento. La voce è corsa in fretta: tubercolosi. E ora è panico tra i detenuti della Stampa. I primi sintomi, secondo le testimonianze, sarebbero comparsi "circa un mese e mezzo fa". Il ricovero però risale soltanto a metà ottobre. In isolamento - L’Ufficio del medico cantonale, da noi contattato, non fornisce per ora indicazioni sulle condizioni dell’uomo, che è stato posto sotto isolamento al Civico di Lugano. Né si conoscono i risultati degli esami ambientali - condotti cioè sulle persone vicine al detenuto - per escludere il rischio di contagio. Ritardi nella diagnosi - A preoccupare i detenuti, intanto, sono le tempistiche. "Quello dei ritardi nei controlli medici è un problema persistente, non solo alla Stampa, lo abbiamo segnalato più volte" avverte Pierangelo Casarotti, detenuto e autore del blog giustizialismo.ch che a marzo scorso ha sporto una denuncia al riguardo alla Commissione di vigilanza sanitaria (vedi 20 minuti dell’1.4.2016). "Niente panico" - La Direzione del carcere non commenta, in quanto "non competente per i controlli medici". Anche il professor Enos Bernasconi, responsabile del Servizio Malattie infettive del Civico, non si esprime sul caso specifico. Ad ogni modo, sottolinea, "in queste situazioni occorre non drammatizzare: si tratta di una malattia che conosciamo bene e che siamo preparati ad affrontare, anche perché l’incidenza di recente è aumentata in modo visibile in Ticino". L’importante però è che venga diagnosticata in tempo. Casi in aumento - Va detto che i casi di tubercolosi negli ultimi anni sono in aumento tra la popolazione ticinese. Nel 2016 sono stati una dozzina i pazienti ricoverati presso l’Ospedale Regionale di Lugano, ma "è da alcuni anni che assistiamo a un incremento" precisa Bernasconi, che sottolinea come "il fenomeno è comunque sotto controllo". I fattori sono diversi: "Anzitutto l’uso sempre più frequente di farmaci immunosoppressivi che predispongono i pazienti a una riattivazione della malattia contratta molti anni prima, un problema importante specie negli anziani. Poi l’immigrazione da paesi dove la tubercolosi è fortemente endemica".