Mauro Palma: "La visita di Renzi rimette le carceri dentro lo Stato" di Errico Novi Il Dubbio, 3 novembre 2016 "Non vedo un risultato politico immediato, questo no. Ma la visita di Renzi al carcere di Padova apre una pagina nuova dal punto di vista delle culture diffuse. È il chiaro segnale che anche quel pezzo di città, possiamo chiamarlo così, è parte della nazione". A Mauro Palma, presidente dell’Autorità garante per i detenuti, non sfugge la novità del gesto compiuto dal presidente del Consiglio, che venerdì scorso ha varcato la soglia del "Due Palazzi" e incontrato i detenuti. Non gli sfugge neppure che in questi giorni si avverte davvero un linguaggio nuovo attorno al tema dell’esecuzione penale: non solo grazie alla prima visita di un premier in un penitenziario, ma ovviamente anche per il Giubileo dei detenuti previsto per domenica e per la contemporanea marcia dei radicali per l’amnistia. Tutto in pochi giorni, a riempire improvvisamente uno spazio pubblico che la morte di Marco Pannella rischiava di lasciare sguarnito. Ma per il Garante nazionale dei detenuti, "la scelta del presidente del Consiglio pare destinata a incidere più profondamente dei due eventi, pur importanti, di domenica prossima". Perché, presidente Palma? Con il suo prestigio Papa Francesco effonde una luce straordinaria sul tema carcere, e l’iniziativa radicale è di grandissima empatia. Ma per quanto potrà sembrare paradossale si tratta in entrambi i casi di un appoggio esterno, esterno allo Stato intendo dire. È questo che rende più forte l’impatto del gesto di Renzi? Sì, perché quella è una dichiarazione di internità del carcere rispetto allo Stato, è come se Renzi avesse detto di essere presidente del Consiglio anche del mondo carcerario. Viene capovolta la tendenza a rivolgersi verso quel mondo come a un altrove. Cade il tabù del carcere come questione che non porta voti? Si infrange un tabù, certo. E lo si fa in modo a mio giudizio corretto anche considerato che il capo del governo non è andato a Padova ad ammiccare. Mi sta bene che dica di apprezzare chi si interessa del mondo carcerario, come i radicali, ma di non condividerne le posizioni sull’amnistia: di fatto afferma così che il carcere è parte del suo mandato e non nasconde si tratti di una parte problematica. Il fine rieducativo della pena ricaverà benefici da tutto questo? Se ne crea una premessa culturale. L’esigenza di affermare il principio è tanto più forte se pensiamo che il 60-70 per cento dei detenuti ha una pena residua inferiore ai cinque anni, si tratta di persone che ben presto rientreranno nel contesto sociale. Il carcere deve essere innanzitutto un accompagnamento a questo ritorno. Rispettare i diritti e migliorare il percorso trattamentale è anche una convenienza per la società. A cosa si riferisce? Al fatto che se ci si sente vittima di un trattamento inumano si tende a fare meno i conti con quello che si è commesso. Bisogna evitare, nell’interesse della società, che chi entra colpevole già dopo cinque minuti si senta vittima. Lo dica a Davigo: secondo lui gli italiani non rispettano le regole perché prendono meno schiaffi di quanti se ne danno in altri Paesi. Mi dispiace per Davigo ma proprio non è così. Negli ultimi 12 anni mi sono occupato precisamente di controllare l’esecuzione penale in tutti gli Stati d’Europa e posso dire che non esiste l’immagine di un’Italia lassista rispetto ad altri Paesi dove si prendono più schiaffi. Ho monitorato la Gran Bretagna come la Russia e non è vero che dove ci sono i tassi di detenzione più bassi è maggiore il numero di reati. Noi abbiamo una percentuale di detenuti dello 0,9 per mille rispetto alla popolazione, in un Paese notoriamente non lassista come la Germania siamo allo 0,7. Abbiamo punti di forza e elementi di debolezza. Quali sono? Due elementi positivi su tutti: la presenza della società civile nel carcere attraverso il volontariato e la qualità del personale che opera all’interno degli istituti, veramente elevata. E i punti deboli? Una certa incuria dei luoghi: ci sono carceri dove non arriva l’acqua e la fornitura viene assicurata a costi incredibili. E poi c’è una generalizzata sfiducia nel sociale, per cui l’affidare una persona agli operatori esterni è percepita come rinuncia al diritto dovere di reprimere i reati. Torniamo al giubileo di domenica: non è comunque un evento epocale? E dipende da cosa dirà il Papa. Mi aspetterei che facesse emergere per esempio la distonia tra l’idea di misericordia e il fatto che nel nostro sistema penitenziario ci possono essere persone a cui è preclusa la liberazione condizionale. Si riferisce all’ergastolo ostativo? Naturalmente: io parto dal presupposto che ogni singola persona e quindi ciascun detenuto abbia il diritto alla speranza e il diritto a essere rivalutato. Negarli contrasta proprio con l’idea di misericordia. E lei condivide la lotta dei radicali per l’amnistia? Non mi tiro mai indietro rispetto alle ipotesi di arrivare a una minore rigidità dei sistemi ma sono più propenso a riforme strutturali che a interventi eccezionali. Anche in seguito alla sentenza Torreggiani, quando mi sono trovato a presiedere la commissione del Consiglio d’Europa sui provvedimenti, mi sono pronunciato affinché l’Italia rimediasse con misure stabili. Ma su amnistia e indulto c’è un punto su cui agire. Quale? Il vincolo previsto dall’articolo 79, che pone la soglia, di fatto irraggiungibile, dei due terzi. In questo senso la lotta può dare forza a iniziative di legge come quella del senatore Manconi, che propongono di abbassare le soglie. La riforma penitenziaria non tocca l’articolo 4 bis, che regola appunto i casi di pene ostative, senza possibilità di benefici. È così, nonostante qualche fraintendimento: la delega propone di abolire gli automatismi preclusivi salvo nei casi di gravità indicati appunto dall’articolo 4 bis. In pratica l’efficacia del provvedimento è residuale. Ma nella delega ci sono importanti aspetti innovativi, dall’ordinamento penitenziario per i minori all’affettività in carcere. Magari fosse approvata. Pensa sia meglio stralciarla dal ddl sul processo penale? No, ho sempre detto che sistema penale e penitenziario devono procedere insieme. Il secondo è il punto di caduta del primo. Anche se egoisticamente potrei dire il contrario, preferisco si preservi l’omogeneità del sistema. In questi primi mesi il Garante nazionale dei detenuti ha fatti ispezioni ovunque: dove avete trovato le emergenze più gravi? Più che dalle carceri, dove restano i nodi dell’approccio nei trattamenti sanitari e dei trasferimenti, l’allarme viene dai trattamenti sanitari obbligatori, dai rimpatri forzati e dagli uffici di carabinieri e polizia dove si è trattenuti dopo l’arresto. I radicali l’hanno invitata alla marcia? Sì ma ho risposto che pur condividendo lo spirito che la anima, non partecipo ad alcuna marcia o petizione orientata a esercitare sollecitazioni sul potere legislativo, al quale dovrò presentare una relazione annuale. E sarà al giubileo dei detenuti? Sono invitato come istituzione, insieme con altre istituzioni dello Stato. Non solo la libertà, in carcere si perde anche la salute di Lidia Baratta pagina99.it, 3 novembre 2016 Tra celle affollate e strutture di cura che non funzionano, gli istituti di pena sono diventati moltiplicatori di patologie. La denuncia dei medici. Non solo nelle carceri italiane non si guarisce, ma ci si può addirittura ammalare. Dietro le sbarre, c’è in gioco anche la salute dei detenuti. "Alla società viene restituita in molti casi una persona malata", dice Luciano Lucania, presidente di Simspe, società italiana di medicina e sanità penitenziaria. Tra il 60 e l’80% delle persone recluse oggi in Italia soffre di una malattia. In quasi un caso su due si tratta di patologie infettive, mentre tre detenuti su quattro (circa 42 mila) soffrono di disturbi psichiatrici. Secondo i dati della Simspe, dei quasi 100 mila detenuti transitati negli istituti italiani nel 2015, 5 mila sono positivi all’Hiv, 25 mila hanno l’epatite C e 6.500 l’epatite B. Ma si tratta solo di stime, perché circa la metà dei detenuti non sa di essere malato. Tra celle affollate, cure e strutture non sempre all’altezza e stili di vita non adeguati, i contagi sono più frequenti che altrove. La tubercolosi, ad esempio, che colpisce molti stranieri, in carcere si contrae dalle 25 alle 40 volte in più. "Dal 2008 l’assistenza sanitaria penitenziaria è passata dal ministero della Giustizia alle regioni", spiega Lucania. "Ma la fase di passaggio non si è ancora conclusa". Tra competenze in conflitto e diversi inquadramenti contrattuali, il risultato è che oggi non esistono ancora dipartimenti strutturati per la salute penitenziaria nei sistemi sanitari regionali. Tanto meno si sa quanti siano i medici che lavorano in carcere. Da anni si parla dell’istituzione di un osservatorio epidemiologico. Ogni regione dovrebbe farsi il suo e poi unire i dati a livello nazionale, in modo da prevenire i contagi. Ma finora lo hanno fatto solo Toscana ed Emilia Romagna. Come sempre accade nella sanità, anche dietro le sbarre la situazione è a macchia di leopardo. "Alcuni istituti hanno grandi spazi dedicati alla salute, altri solo piccole aree", dice Lucania. "Ma non sappiamo in che stato siano davvero gli ambulatori di sezione e che attività ispettiva venga fatta in questi luoghi". In alcune regioni si fanno gli screening, in altre no. In certi casi i detenuti tossicodipendenti (il 30%) vengono seguiti, in altri no. Intanto, gli anziani difficilmente guariscono. E i giovani rischiano di ammalarsi. Tra promiscuità sessuale, tatuaggi fai-da-te e violenze, le malattie infettive proliferano. Tanto che la stessa Simspe ha promosso da poco un progetto in dieci istituti per migliorare la vita dei sieropositivi dietro le sbarre. Anche perché in carcere siringhe monouso e preservativi non possono entrare. Carcerazione ingiusta, risarcimento negato di Valter Vecellio lindro.it, 3 novembre 2016 Il lettore sappia che il curatore di questa settimanale rubrica che si occupa di giustizia, carcere e dintorni, ardentemente vorrebbe dare, ogni tanto, qualche buona notizia; segnalare qualche passo in avanti, che ci faccia uscire dalla situazione in cui siamo precipitati da anni e anni (il celebre film di Nanni Loy con Alberto Sordi, "Detenuto in attesa di giudizio" ha da poco compiuto i quarantacinque anni: è del 21 ottobre 1971). Invece, purtroppo, ogni giorno, ogni settimana, le notizie che gli giungono sul tavolo riferiscono di ingiustizie, illegalità, sofferenza, dolore, come se da quel giorno in cui nelle sale cinematografiche venne proiettato quel film choccante, le lancette si siano fermate… Quel film racconta di un clamoroso errore giudiziario di cui l’incolpevole geometra Giuseppe Di Noi è vittima; errore frutto di sciatteria, incapacità, stupidità concentrate dell’apparato giudiziario. Storia incredibile, per come ci viene raccontata, ma che non è certamente incredibile se solo si pensa a quello che è accaduto a Lelio Luttazzi, a Enzo Tortora, ai tanti Luttazzi e Tortora che si chiamano Rossi, Bianchi, Verdi. Casi più frequenti di quanto si possa credere, anche se generalmente non fanno "notizia". Non c’è bisogno di dirlo, che quando una persona finisce in prigione da innocente, per sbaglio, ne subisce un danno che non è risarcibile da nessuna somma di denaro. Ad ogni modo, lo Stato stabilisce che per la vittima di un’ingiustizia subita e patita, si ha diritto a un risarcimento economico. In gergo si chiama RID, "Riparazione per Ingiusta Detenzione". Così viene rubricata nei registri della Corte d’Appello. I curatori di un sito specializzato, www.errorigiudiziari.com hanno realizzato uno studio da cui si ricava che dal 1992 (cioè da quando si sono versati i primi risarcimenti per detenzione ingiusta), lo Stato ha pagato qualcosa come circa 650 milioni di euro. Quanti gli indennizzati? Venticinque mila; ed è evidente che chi ha patito una ingiusta carcerazione non sono solo loro. E infatti si calcola che siano almeno trentamila le vittime che si sono viste respingere la richiesta di risarcimento, perché secondo i giudici con il loro comportamento avrebbero in qualche modo contribuito a che l’errore venisse commento. Esattamente come, nella parte finale del film, si dicono il magistrato e l’avvocato: convenendo entrambi che Sordi-Di Noi era un po’ colpevole perché si era limitato a dirsi innocente, e non aveva saputo convincere che effettivamente lo era. Già questo basterebbe; ma no, non finisce qui. Volete sapere se chi ha commesso l’errore in qualche modo "paga"? C’è una legge, per questo, la cosiddetta legge Vassalli, nel 1988 varata in fretta e furia, in seguito al referendum cosiddetto Tortora, con il quale gli italiani hanno reclamato a grande maggioranza l’introduzione della responsabilità civile del magistrato. Volontà popolare completamente disattesa con la legge Vassalli, poi modificata nel 2015. Volete sapere quanti sono i magistrati puniti per i loro macroscopici errori, per le loro evidenti sciatterie, per le loro colpe dolose? Una decina. Vale a dire, neppure tutti i responsabili dei venticinque casi di cui si è riconosciuto il diritto al risarcimento. Poi c’è un altro danno, non meno rilevante e grave; il danno che subisce un qualunque cittadino che ha la sventura di avere a che fare in qualche modo con l’apparato giudiziario, e prima di avere una sentenza definitiva, deve attendere anni e anni. Il presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Piercamillo Davigo, ha una sua ricetta. L’ha esposta a Bologna, nel corso della presentazione de "La tua giustizia non è la mia", il libro scritto assieme all’ex magistrato Gherardo Colombo. Per Davigo la prima cosa da fare per far funzionare meglio la giustizia in Italia sembra sia quella di istituire il numero chiuso nelle facoltà di giurisprudenza. Ora uno a questo punto potrebbe chiedersi: la giustizia funziona meglio, i processi sono più veloci, le sentenze più rapide, le pene più certe, le ingiustizie più sanate, se ci sono in giro meno avvocati? La cosa merita di essere indagata. "Per far funzionare meglio la giustizia", sostiene Davigo, "serve una massiccia depenalizzazione, ma bisogna disincentivare chi fa girare a vuoto la macchina della giustizia. Se dimezzassimo il numero dei processi, si dimezzerebbe anche l’onorario degli avvocati: la politica non è riuscita ad avere ragione della lobby dei tassisti, figuriamoci con gli avvocati. Un terzo degli avvocati dell’Unione Europea sono italiani e oggi il 92 per cento dei laureati in giurisprudenza, visto che la pubblica amministrazione non assume da venti anni e che nelle aziende private ci sono sempre meno sbocchi per i giuristi, diventano avvocati". Che dire? È l’uovo di colombo. Si potrebbe anzi abolire del tutto le facoltà di giurisprudenza, tenerle in funzione solo per chi vuole poi fare il Pubblico ministero. Aboliamolo del tutto l’ordine degli avvocati, così il cittadino rinuncia alla difesa, e allora sì che si fanno processi rapidi; anzi, per risparmiare ancora, passiamo direttamente alla fase dell’esecuzione della pena. Si sta celiando, ovviamente. Siamo sicuri che non è questo, a cui pensa Davigo. E però, questo è il vero Davigo-pensiero: "Gli esseri umani agiscono in base alle loro convenienze e in Italia rispettare la legge non conviene. È vero che all’estero si rispettano di più le regole perché le persone sono più educate. Ma forse lo sono perché sono state educate a forza di sberle". Ecco, modica quantità di avvocati, e al loro posto robusta razione di sberle… Prestiamo ora attenzione a quanto dice il presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe), Luciano Lucania. Ci spiega che a causa delle celle affollate e strutture di cura che non funzionano, le carceri italiane sono diventati moltiplicatori di patologie. Non solo non si guarisce, si contraggono malattie anche gravi: "Dietro le sbarre, c’è in gioco anche la salute dei detenuti. Alla società viene restituita in molti casi una persona malata. Tra il 60 e l’80 per cento delle persone recluse oggi in Italia soffre di una malattia. In quasi un caso su due si tratta di patologie infettive, mentre tre detenuti su quattro (circa 42 mila) soffrono di disturbi psichiatrici". Secondo i dati della Simspe, dei quasi 100 mila detenuti transitati negli istituti italiani nel 2015, 5mila sono positivi all’HIV, 25mila hanno l’epatite C e 6.500 l’epatite B. Ma si tratta solo di stime, perché circa la metà dei detenuti non sa di essere malato. Tra celle affollate, cure e strutture non sempre all’altezza e stili di vita non adeguati, i contagi sono più frequenti che altrove. La tubercolosi, ad esempio, che colpisce molti stranieri, in carcere si contrae dalle 25 alle 40 volte in più: "Dal 2008 l’assistenza sanitaria penitenziaria è passata dal ministero della Giustizia alle regioni", spiega Lucania. "Ma la fase di passaggio non si è ancora conclusa". Così, tra competenze in conflitto e diversi inquadramenti contrattuali, il risultato è che oggi non esistono ancora dipartimenti strutturati per la salute penitenziaria nei sistemi sanitari regionali Tanto meno si sa quanti siano i medici che lavorano in carcere. Da anni si parla dell’istituzione di un osservatorio epidemiologico. Ogni regione dovrebbe fare il suo, per poi unire i dati a livello nazionale, in modo da prevenire i contagi Finora lo hanno fatto solo Toscana ed Emilia Romagna. "Alcuni istituti hanno grandi spazi dedicati alla salute, altri solo piccole aree", dice Lucania. "Ma non sappiamo in che stato siano davvero gli ambulatori di sezione e che attività ispettiva venga fatta in questi luoghi". Ancora: in alcune regioni si fanno gli screening, in altre no. In certi casi i detenuti tossicodipendenti (il 30 per cento) vengono seguiti, in altri no. Tra promiscuità sessuale, tatuaggi fai-da-te e violenze, le malattie infettive proliferano. Per questa settimana fermiamoci qui, che ce n’è abbastanza. Marcia per l’Amnistia, 12mila detenuti digiunano di Giuseppe Rippa tellusfolio.it, 3 novembre 2016 Insieme ai dati, molto significativi, di adesione alla "Marcia per l’Amnistia" del prossimo 6 novembre nel giorno del giubileo dei carcerati e che vedono a cinque giorni dalla sua effettuazione la partecipazione di regioni come Piemonte, Basilicata, Calabria oltre che numerosi Comuni e sindaci e l’iniziativa dello sciopero della fame di compagne e compagni del partito radicale, un evento emerge come uno dei più clamorosi e quindi indigesto per il sistema politico-istituzionale: sono circa dodicimila (e numerose sono le lettere ancora da aprire per dare un dato definitivo) i detenuti che hanno deciso, come segno di adesione alla marcia a cui non possono partecipare, di realizzare per il 5 e 6 un’azione nonviolenta di sciopero della fame. Qualcosa di "inaccettabile" per una classe dirigente che è figlia dello stato-nazione italiana formatasi sul "rito del sangue". La disobbedienza civile, la politica dei diritti civili che si muove sulla coscienza e sulla responsabilità della persona è garantismo e libertarismo combinato, come ha sempre ripetuto Marco Pannella. Questo Stato non può permetterselo. La nonviolenza è rivoluzionaria. Il nostro tempo non vuole recuperare in termini laici la componente "religiosa" dell’odierna possibilità di fare politica in forma alternativa alla pulsione di sangue e di morte che è nello Stato contemporaneo. La classe di potere non può accettare che la "subburra" della nostra società, il carcere, i carcerati, ladri, assassini e quanto di peggio ci possa essere divenga, nella sua nuova e possibile consapevolezza un avamposto di speranza nonviolenta. È per questo che il servizio pubblico, ma anche l’informazione cosiddetta privata, non dà la notizia che un quinto (ma solo quelli che sono riusciti a sapere) dei carcerati hanno dato vita ad una azione nonviolenta in occasione della marcia. C’è bisogno di violenza e lo Stato vuole essere egemone... Quindi paura, emergenza, per inculcare domanda di necessità di difesa con aggressione... L’informazione di regime fa il suo mestiere. Non ha altri strumenti culturali e pensare alla deontologia professionale è un eufemismo. Come si può pensare che una notizia come quella che vede la "feccia" (secondo la loro rappresentazione) dell’umanità diventare attore positivo e nonviolento possa essere divulgata? La sfida dei Radicali: "In marcia per l’amnistia". Intervista a Maurizio Turco di Dimitri Buffa Il Tempo, 3 novembre 2016 Parla Turco: "Ormai l’ingiustizia è strutturale e le riforme non arrivano. Così tramonta lo Stato di diritto" La sfida dei Radicali: "In marcia per l’amnistia. Da Regina Coeli al Vaticano. Per il 6 novembre i Radicali stanno preparando la marcia per l’amnistia dedicata a Papa Francesco e Marco Pannella. Uno dei suoi esponenti più importanti, Maurizio Turco, ci spiega le ragioni di questa marcia e parla anche dei "problemi" con Emma Bonino e nel partito. Quattro conferenze stampa per promuovere questa marcia per l’amnistia del sei novembre. Perché? "Perché i media negano il diritto dei cittadini di conoscere per decidere e gli impongono i temi e le proposte". L’Avvenire dice che i cattolici non possono marciare coi radicali e di fatto si dissociano dal papa che pronunzia la parola amnistia. Che c’è sotto? "Credo che sotto non ci sia che un sano dibattito, ad Avvenire, nella CEI, in Vaticano. La risposta che ci ha dato Marco Tarquinio, sull’Avvenire di cui è direttore, è ben racchiusa nel titolo "Carceri umane e ri-umanizzanti, la stereofonia di cattolici e radicali". Si preferisce amplificare il rumore di altri. Così si parla d’altro e non delle "Carceri umane e ri-umanizzanti". Credete davvero che in Italia si debba fare un’amnistia? "L’amnistia è indispensabile. Lo Stato dell’ingiustizia è strutturale. Il Comitato dei Ministri ha scritto che la lentezza delle procedure giudiziarie mette in pericolo lo stato di diritto; e rileva che è un problema che va avanti sin dalla fine degli anni 80. E poi c’è il silenzio sull’amnistia di fatto: le prescrizioni". Riforme: perché sulla giustizia e sulle carceri si fanno passi da lumaca? "Il bilanciamento dei poteri in Italia è la bilancia di un potere, quello giudiziario a causa di una classe dirigente e burocratica, non solo politica, che non è all’altezza del compito. Il compito è quello del rispetto dello Stato di Diritto". Si è appena concluso il congresso di Radicali italiani, con un forte antagonismo. Come va a finire? "È già finita che il Congresso del Partito Radicale che si è riunito ai primi di settembre nel carcere di Rebibbia, ha deciso, con il doppio dei votanti del precedente congresso e i due terzi dei voti, di procedere alla liquidazione del Partito qualora non si riescano a raggiungere i tremila iscritti nel 2017 e nel 2018. Non ci siamo fatti sconti: è il triplo degli iscritti che all’incirca abbiamo avuto ogni anno negli ultimi dieci anni. E abbiamo riproposto l’agenda radicale del Partito Radicale di Marco Pannella. Emma Bonino ha ammonito "Nessuno si senta vero erede di Pannella". Posso garantire, a costo di apparire presuntuoso, che non era il Partito Radicale quello che a Piazza Navona si vendeva la bara di Marco per quattro voti". La Bonino che la definisce "unumviro" e che chiama "quadrumviri" lei, Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Antonella Casu, secondo lei vuole farsi il proprio partito con il simbolo Radicali? "Nell’ultima direzione segretario e tesoriere avevano preparato alcune modifiche statutarie, tra le quali quella di cancellare "italiani" e di prevedere la possibilità di partecipare alle elezioni. Lei li ha stoppati perché... non ci sono elezioni all’orizzonte. D’altronde il 1° aprile, con tre amici, ha convocato una conferenza, ha presentato un simbolo in cui campeggiava a caratteri cubitali "radicali" ed hanno comunicato che presentavano liste al Comune di Roma e Milano. E nonostante il comizio sulla bara di Marco gli esiti sono stati elettoralmente disastrosi. Per non dire di quelli politici. E tacere delle conclusioni milanesi". Si arriverà alla temuta scissione dell’atomo? "L’energia e la radioattività in circolo dimostrano che c’è stata da alcuni anni, ed è stata registrata dal momento in cui è avvenuta. Mi interessa però far sapere che ci sono alcuni compagni del Partito Radicale che sono costretti alla clandestinità politica, dal 9 ottobre fanno lo sciopero della fame, e sono, tra gli altri, Rita Bernardini, Maurizio Bolognetti e Irene Testa. E il 5 e 6 novembre si uniranno in digiuno oltre 11mila detenuti. Se uno solo di loro salisse sul tetto di un carcere e ci rimanesse per più di dieci minuti ci sarebbe la diretta a reti unificate". Un’esperienza di misericordia. La Bibbia nelle carceri di Don Antonio Tarzia Famiglia Cistiana, 3 novembre 2016 Grazie al Gruppo San Paolo e all’associazione Cassiodoro la parola di Dio viene distribuita in 40 case circondariali. Vi raccontiamo la gioia dei detenuti nel ricevere un dono che invita alla speranza. Nel suo celebre commento al Salterio, lo scrittore cristiano Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, tra V e VI secolo, definisce il Cristo "misericordia del Padre". Papa Francesco, nella prima riga della bolla giubilare Misericordiae vultus, scrive: "Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre". Conclude poi il secondo paragrafo con un’altra definizione: "Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato". Ma il paragrafo più sconvolgente di questo documento di indizione del Giubileo straordinario della misericordia è il terzo ove "le Porte sante attraversando le quali si guadagnano le indulgenze giubilari si moltiplicano e dalle quattro tradizionali delle basiliche romane diventano migliaia e migliaia: ogni santuario, ogni cattedrale, ogni cella di carcere, ogni cappella di ospedale ove la gente sosta o è trattenuta". A partire da queste premesse l’associazione centro culturale Cassiodoro, che da alcuni mesi aveva varato l’operazione La Bibbia nelle tue mani con l’impegno volontario di portare nelle carceri il Testo sacro, ha trovato un più urgente e specifico motivo di misericordia nel suo apostolato di diffusione della parola di Dio ai fratelli reclusi. In collaborazione con la San Paolo Edizioni e la Periodici San Paolo ha così intensificato la visita ai carcerati: un nobile gesto che, in compagnia del vescovo diocesano, si trasforma in liturgia giubilare. Si celebra la Messa con il presule, il cappellano e qualche socio di Cassiodoro, si parla della parola di Dio che perdona e della parola dell’uomo che accusa, giudica e spesso condanna senza misericordia. Si testimonia la fede e si invita alla speranza, alla fiducia nel Dio della misericordia. Ed è ancora papa Francesco, nella Misericordiae vultus, a ricordare che Gesù prima di istituire l’Eucaristia nell’Ultima cena cantava come liturgia dell’evento il salmo 136, che gli ebrei chiamano il Grande hallel e in cui si ripete per ben 26 volte la lode a Dio "perché eterna è la sua misericordia". Ad oggi La Bibbia nelle tue mani è giunta in 16 carceri, da Vibo Valentia, Catanzaro, Cosenza, Bari a Salerno, passando per Napoli, Chieti e Ancona, dove il cardinale Edoardo Menichelli ha impartito anche la Cresima a un gruppo di detenuti. Per un giorno la cappellina del carcere si è tramutata in cattedrale, con un coro a rendere più suggestiva e solenne la celebrazione. A memoria dell’incontro e del rito condiviso viene data a ogni partecipante - fino a 100-150 persone alla volta - una copia della Bibbia. L’edizione è quella promossa da papa Francesco all’Angelus della prima domenica di ottobre 2015. Il volume, quasi 1.400 pagine in carta india, brossurato con copertina morbida, include anche sussidi, introduzioni, appendici, note scientifiche e un atlante biblico. Gli ospiti accettano il dono con gratitudine e commozione. Qualcuno, tramite il cappellano, dà a sua volta un proprio manufatto, come un dipinto, un oggettino in cuoio. Un detenuto del carcere di Vasto ha donato una splendida madonnina in pietra dura della Maiella, scolpita con le sue mani, e ora esposta, per volere dell’arcivescovo Bruno Forte, nel museo di Cassiodoro a Squillace. A Siano-Catanzaro i detenuti hanno imbandito una tavolata di pasticcini vari. I carcerati dell’isola di Gorgona a Livorno, molti dei quali frequentano corsi di agraria, meccanica e cucina, hanno imbandito per monsignor Giusti e i soci della Cassiodoro presenti, un pranzo frugale ma buonissimo con le verdure dell’orto e i frutti della fattoria interna alla casa circondariale. La Bibbia nelle tue mani continua: le prossime carceri a essere visitate a novembre e inizio dicembre saranno Palmi-Reggio Calabria, Le Sughere a Livorno e poi Siracusa e Noto, fino ad arrivare a quaranta entro la prossima Pasqua. La lettera del Card. Edoardo Menichelli Nella diocesi di Ancona-Osimo ci sono due strutture carcerarie e da sempre esse sono un luogo dove il ministero della misericordia viene offerto e presentato da vari volontari e associazioni. In questo Anno della misericordia la vicinanza con i fratelli detenuti si è molto diversificata e per quanto mi riguarda si è fatta più presente e spiritualmente più significativa. Ringrazio il Signore perché per una felice combinazione si è potuto abbinare il passaggio della Porta santa con un dono singolare dato ai detenuti: si è incrociata la celebrazione della Porta con l’iniziativa di don Antonio Tarzia di offrire la Bibbia a nome dell’associazione Cassiodoro e della San Paolo Edizioni. La celebrazione dell’Eucaristia, l’ascolto della Parola, la spontaneità della preghiera, la santa Comunione e la consegna personale della Bibbia hanno rappresentato per tutti un momento di grande intensità spirituale che ha riempito di interiore serenità i presenti. Personalmente mi sono convinto ancora di più di come le persone, in privazione di libertà e in sofferenza di emarginazione, gradiscono il dono di un libro che non hanno mai posseduto e, per curiosità o per fede ritrovata nella situazione di pena, vogliono leggere. Nella speranza di trovare un aiuto, un senso al dolore, una via al perdono da chiedere e dare. Custodisco in me la commozione e gli occhi lucidi di quanti hanno ricevuto nelle loro mani la parola di Dio, prolungamento dei Sacramenti celebrati: Cresima per alcuni e santa Eucaristia. Ho sentito che il grazie non era formale, ma nasceva da un cuore toccato dalla bontà misericordiosa di Dio. Quanto è stato vissuto insieme si è fatto medicina per la solitudine che comunque alberga nella vita, ma che nel carcere tocca misure alte che portano a volte a sfiducia e depressione. "L’avete fatto a me", dice Gesù quando parla della misericordia esercitata verso gli altri: nella circostanza vissuta quel giorno nel carcere, sono certo che Gesù si sia rallegrato e ci abbia benedetto. Intervista al ministro Orlando: "solo con vittoria del Sì proseguiranno le riforme" di Francesco Cundari L’Unità, 3 novembre 2016 L’accusa di voler rinviare il referendum per paura di perderlo "non sta in piedi", assicura Andrea Orlando. "A parte il fatto che a Palazzo Chigi non mi pare ci sia mai stata questa intenzione - spiega il ministro della Giustizia - faccio notare che lo stesso ministro Alfano ha avanzato la proposta a nome del suo partito, subordinandola poi all’accordo delle opposizioni". La risposta, insomma, era già contenuta nella domanda: se non c’è accordo, non c’è neanche la proposta. Ma la polemica è indicativa del clima. Ministro, si torna a guardare con preoccupazione allo spread. C’è chi dice che la ragione sia l’incertezza sul risultato del referendum. Che pensa? "Può piacere o meno, ma all’esito del referendum è legata la possibilità di proseguire una stagione di riforme. Una vittoria del No segnerebbe un colpo al governo Renzi e alla sua agenda, ipotesi avvertita con inquietudine a livello internazionale. Questo non autorizza ricatti morali: gli italiani devono pronunciarsi sulla base delle loro convinzioni. E tuttavia, se il Pse e Barack Obama auspicano la vittoria del Sì, non credo lo facciano perché hanno simpatia per Renzi. Lo fanno perché evidentemente lo ritengono lo scenario migliore anche per il rilancio dell’Europa". A questo proposito, ha destato scalpore la presa di posizione di Mario Monti a favore del No. Cosa pensa delle sue motivazioni? "Ho letto. Che posso dire? A me pareva già sufficientemente strana la posizione di coloro che votano No alla riforma della Costituzione perché contrari alla legge elettorale. Sono stati superati da Monti, che vota No perché contrario alla legge di stabilità". Un altro argomento che va molto forte nel fronte del No è quello secondo cui si tratterebbe di una riforma dettata dalla finanza internazionale, e in particolare dalla Jp Morgan. "Se ne dovrebbe concludere che non solo questo tentativo di riforma, ma anche ognuna delle numerose commissioni parlamentari che si sono confrontate su questi temi negli ultimi trent’anni, essendo giunte più o meno alle stesse conclusioni, sono state ispirate tutte dalla Jp Morgan. Mi pare uno dei tanti esempi della cultura complottista diffusa in una parte del paese". Un’altra obiezione diffusa, più di merito, è che il Senato che viene fuori dalla riforma sarebbe un pasticcio, e che sarebbe meglio abolirlo del tutto. "Non capisco perché dovremmo passare da un’anomalia all’altra. Siamo il solo paese, con la Romania, ad avere il bicameralismo paritario. Così saremmo l’unico ad avere una sola camera. Tutti hanno due camere differenziate. Del resto anche la Costituente del 1947 non stabiliva le modalità di elezione del Senato, diceva solo che andava eletto su base regionale. Ma nessuna Costituzione contiene al suo interno la definizione di tutte le procedure applicative delle proprie norme. Discutiamo piuttosto di come costruire un Senato eletto secondo le indicazioni del testo costituzionale sulla base di procedure condivise". Stefano Parisi ha detto che dopo la vittoria del No si può fare un’assemblea costituente. "Capisco che si cerchi di nascondere il fatto che se vince il No le riforme istituzionali diventeranno tabù per un lungo periodo, ma questo è un dato che non può essere cancellato da nessun escamotage propagandistico. Se non dovessero passare nemmeno interventi così meditati e sostanzialmente condivisi da tutti, e basta guardare i programmi delle diverse forze politiche per averne conferma, figuriamoci se qualcuno si azzarderebbe a proporne di nuove. Semmai ci sarebbe una rincorsa a cavalcare quel risultato come santificazione dello status quo". Sta dicendo che è una sfida tra vecchio e nuovo? "Gli schemi bianco/nero non mi convincono mai. Primo perché finiscono per lacerare ulteriormente un paese che ha bisogno di ritrovare un elemento di unità, e secondo perché lasciano sempre qualcosa fuori. Se ad esempio nel vecchio ci può anche stare un certo sindacalismo, avrei difficoltà a mettere la Confindustria nel nuovo tout court. Molto laicamente, la vittoria del Sì tiene aperta una prospettiva di riforme, compresa una possibilità di ulteriore innovazione su alcuni temi che questa riforma non tocca, come l’attuazione dell’articolo 49 (la democrazia interna ai partiti, ndr), e più in generale su come rivitalizzare la democrazia, che attraversa una fase di crisi. Se vince il No, tutto questo diventa più difficile. Qui per me sta il punto di fondo, che mi pare ben più importante anche del fatto, comunque inconfutabile, che una vittoria del No se la intesterebbero Grillo e Salvini". Ciò non toglie che nel fronte del No c’è un bel pezzo di movimenti, sindacati e associazioni di area progressista, dalla Cgil all’Anpi. Per il Pd questo è o non è un problema? "Sì, anche se non è una novità assoluta. Sin dai tempi dei Ds, tra movimenti e associazioni da un lato e partito dall’altro, c’erano state tensioni, proprio su questi temi. Ad esempio ai tempi della Bicamerale e poi con i girotondi". A cosa attribuisce questa lacerazione? "Probabilmente da un lato si paga un certo arroccamento di una parte dei corpi intermedi, che c’è stato e non solo su questi temi, dall’altro limiti nella nostra capacità di includere. Perché ci sono moltissimi iscritti alla Cgil o all’Anpi che votano Sì, ma non avere ricercato fino in fondo il dialogo li ha resi più deboli". Anche un pezzo della minoranza Pd sembra ormai schierata per il No. "Io ho sempre trovato comprensibile la loro preoccupazione, che condivido, sulla legge elettorale. Quello che trovo incomprensibile è che proprio ora, quando nella commissione che abbiamo appositamente costituito si profila la possibilità concreta di raggiungere l’obiettivo, molti di loro, con l’eccezione di Gianni Cuperlo, non vogliano nemmeno andare a vedere". L’accusa è che sia solo una messa in scena per tenerli buoni fino al referendum. "Riforma costituzionale e legge elettorale sono certo cose distinte, e tuttavia io penso anche che il tema di una inadeguatezza dell’Italicum nello scenario tripolare esista. Proprio per questo mi lascia perplesso la ritrosia dinanzi all’occasione di cambiarlo. Credo che tutte le forze che condividono questa impostazione dovrebbero provare a convergere e a dare un contributo, tanto più che la possibilità di un’intesa mi risulta essere molto vicina. E mi pare ovvio che se un simile accordo fosse raggiunto, dal giorno dopo saremmo tutti vincolati dall’impegno a trasformare quell’indicazione politica in norma di legge". La prescrizione è garanzia di giustizia, i pm la trasformano in un mostro giuridico di Annalisa Chirico Il Foglio, 3 novembre 2016 Tribunale che vai, giustizia che trovi. L’incidenza della prescrizione nella fase predibattimentale, prima del processo, passa dal 40 percento di Torino allo 0,1 di Pordenone, dal 13,7 di Milano al 3,6 di Firenze, dall’8,5 di Bari al 9,9 di Barcellona Pozzo di Gotto (40 mila abitanti nel messinese…). Non va meglio a processo avviato: il divario di efficienza si contrae ed espande come una fisarmonica, dal 51 percento del tribunale di Tempio Pausania allo 0,2 di Aosta, dal 33,1 di Spoleto al 2 di Milano, con Salerno, Venezia e Palermo che oscillano tra i 13 e 14 punti percentuali. Sul territorio nazionale lo stato fornisce un servizio "a macchia di leopardo", con differenze vistose e stridenti da ufficio a ufficio, a parità di norme e, in molti casi, di risorse. Sul sito web del movimento "Fino a prova contraria", compare l’analisi statistica licenziata dal ministero di via Arenula lo scorso maggio. Grafici e tabelle fotografano lo stato della prescrizione in Italia, un’autopsia fortemente voluta dal capogabinetto del ministero, il magistrato Giovanni Melillo. Notoriamente parco di esternazioni mediatiche, Melillo si lascia andare a un fugace commento: "Non contano le norme ma gli uomini". È l’elemento umano, le "guarnigioni" di Karl Popper, a decretare lo iato di efficienza tra situazioni pure assimilabili per dotazione di organico e normativa vigente. Forse per questa franchezza assai poco corporativa dalle parti del Csm, che già una volta gli ha sbarrato la strada nella corsa a procuratore capo di Milano, il dottor Melillo non è amatissimo, additato piuttosto come archetipo della toga "collaborazionista", sedotta dal potere politico. Dai dati ministeriali riaffiora l’eterno grattacapo: è giusto rimediare alla lentezza dei processi con l’allungamento ipertrofico della prescrizione? Il rischio di vivere sotto la spada di Damocle di un processo interminabile grava sul cittadino. E, come ha ricordato pochi giorni fa il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, la prescrizione è "un istituto di garanzia per il sistema. Ha senso condannare oggi per una corruzione commessa vent’anni fa?". I tempi ragionevoli, questi sì che sarebbero una conquista di civiltà per innocenti e colpevoli. Secondo l’analisi ministeriale, negli ultimi dieci anni le prescrizioni si sono ridotte del 40 percento, passando dagli oltre 213 mila procedimenti estinti nel 2004 a circa 132 mila nel 2014. Il 58 percento delle estinzioni per prescrizione avviene nella fase preliminare del giudizio, un ulteriore 4 percento delle sentenze dichiaranti l’avvenuta prescrizione sono emesse da gip e gup. Vi è poi un 19 percento di casi in primo grado, 18 percento in Corte d’appello mentre solo una volta su cento la prescrizione matura in Cassazione. En d’autres mots, nel 62 percento dei casi la prescrizione incombe prima del processo, nella fase delle indagini preliminari, quando il pm è dominus e l’avvocato è spettatore inerme. Il 62 percento è la riprova che l’obbligatorietà dell’azione penale resta una chimera: il pm decide discrezionalmente quali fascicoli far avanzare e quali abbandonare lungo il sentiero dell’estinzione per decorrenza dei termini. L’appello rappresenta la fase con l’incidenza più elevata, tra il 2014 e il 2015 si è registrato un consistente calo delle prescrizioni in Cassazione. Quanto alle categorie di reato, nel 2014 quelli legati alla circolazione stradale presentano il maggior tasso d’incidenza, lo scorso anno invece primeggiano i reati legati al traffico e consumo di stupefacenti, seguiti da quelli contro il patrimonio. L’incidenza della prescrizione sui definiti si attesta all’1,3 per i reati di violenza sessuale, al 5,6 per i reati ambientali, al 5,9 per lesioni e omicidi colposi, al 9,1 per i reati di truffa, al 12,5 per i reati contro la Pubblica amministrazione. Su base geografica l’incidenza della prescrizione sulle definizioni nelle corti d’appello spazia dal 48 percento di Venezia al 12 percento di Milano. Napoli, Reggio Calabria e Caserta si stagliano al di sopra della media nazionale. Sassari, Catanzaro, Potenza e Messina viaggiano al di sotto. Nel penale, su cento procedimenti 9,5 si prescrivono, tra questi 5,7 nella fase delle indagini preliminari, 3,8 nel corso dei tre gradi di giudizio. Tribunale che vai, giustizia che trovi. Nella speranza che giustizia sia. Intercettazioni, sui costi niente risparmi (per ora) di Claudia Morelli Italia Oggi, 3 novembre 2016 Niente risparmi del 50% dei costi sulle intercettazioni. Almeno al momento, palazzo Chigi preferisce glissare. Il disegno di legge Manovra 2017 bollinato dalla Ragioneria e presentato, ieri, alla camera dei deputati ha perso "pezzi" con riguardo alla giustizia. Niente intervento sulle intercettazioni (in senso restrittivo sotto il profilo dei costi); niente sistema di gestione accentrata delle risorse proveniente dalle procedure concorsuali ed esecutive; niente contenimento generale dei costi per spese legali della pubblica amministrazione. Delle cinque disposizioni contenute nella bozza originaria del testo, ne è stata preservata solo una, contenuta all’articolo 62 del provvedimento che inizia il suo iter parlamentare in questi giorni. Da una parte la norma estende da centoventi giorni a sei mesi il termine per l’esecutività dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e che comportano l’obbligo per la p.a. di pagamento di somme di danaro nei casi di esecuzione di titoli giurisdizionali pronunciati in favore di una pluralità di soggetti nell’ambito di contenziosi seriali per omogeneità delle posizioni. I creditori dovranno attestare la mancata percezione di somme per lo stesso titolo ovvero il mancato esercizio di azioni legali concorrenti. La norma stabilisce inoltre un criterio di parametrazione dell’ammontare degli onorari dei legali nei contenziosi seriali, nell’ottica di un ragionevole contenimento delle spese legali a carico dalle amministrazioni interessate. Il nuovo sistema varrà anche agli atti notificati anteriormente alla data di entrata in vigore della Manovra. La seconda disposizione riguarda le videoconferenze, ampliandone il ricorso (ma non nei termini previsti dalla riforma del processo penale e criticati dall’Ucpi) nei confronti di testimoni e collaboratori di giustizia, fuoriusciti dallo speciale programma di protezione e anche in assenza di situazioni di pericolo per la loro incolumità. L’obiettivo è quello di ridurre l’impiego del personale preposto agli accompagnamenti e le relative spese di missione. Dal punto di vista generale la missione Giustizia propriamente intesa, con questa Manovra va in pari: lo stanziamento previsionale di 7miliardi e 800milioni di euro circa ricalca (con un leggero aumento), quello del 2016: stessi fondi per le spese di giustizia (465 milioni, di cui 230 destinati alle intercettazioni), per la legge Pinto (172 milioni). In un epoca di tagli non è poco, anche se per le assunzioni di personale (anche di magistratura) e per nuovi investimenti in Processo telematico occorrerà bussare alla porta della presidenza del consiglio, che ha assunto su di sé la gestione dei fondi per il personale e per la innovazione tecnologica per conto di tutti i ministeri. Md, il destino della corrente di sinistra sul piatto del congresso di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 3 novembre 2016 In discussione il ruolo di Magistratura democratica dentro la coalizione Area. Ma il presidente uscente De Chiara esclude una rottura. Quello che si apre oggi a Bologna è, per Magistratura democratica (Md), un congresso decisivo. Dopo anni di progressivo arretramento di consensi fra le toghe, la corrente di sinistra di giudici e pm è di fronte a una scelta sul proprio destino. Il nodo è il ruolo di Md dentro la coalizione Area, cioè l’unione con il Movimento per la giustizia, gruppo del procuratore di Torino, Armando Spataro, e del numero uno dell’antimafia Franco Roberti. Una questione organizzativa, dietro alla quale si celano divergenze sul ruolo dei magistrati progressisti. Da una parte c’è chi teme che una Md annacquata in Area significhi la fine dell’eresia dei giudici "rossi", capaci di critica non solo nei confronti di qualunque governo, ma anche dello stesso potere giudiziario - si tratti di gestione delle carriere o di atti repressivi ai danni di movimenti sociali e soggetti deboli. Dall’altra c’è chi denuncia il rischio della cacofonia, e quindi della perdita di credibilità, se la voce di Md continuerà a sovrapporsi a quella del soggetto unitario, l’unico che dovrebbe intervenire pubblicamente su tutto ciò che riguarda l’autogoverno della magistratura. Posizioni che dovranno conciliarsi nel corso delle assise bolognesi, trovando un equilibrio finalmente stabile e condiviso, oppure sfidarsi apertamente. "Ma non ci sarà nessuna rottura": Carlo De Chiara, presidente uscente di Md, getta acqua sul fuoco. "La dialettica interna è normale, c’è voglia di partecipare e nessuno ha intenzione di sciogliere la corrente". La preoccupazione che l’investimento nell’alleanza con il Movimento di Spataro e Roberti sia culturalmente a perdere si fonda su episodi come quello dello scorso febbraio alla Scuola della magistratura, quando si scatenò un putiferio attorno al corso sulla "giustizia riparativa". Motivo: la presenza annunciata degli ex br Adriana Faranda e Franco Bonisoli per raccontare il loro percorso di riconciliazione con Agnese Moro. L’incontro saltò: decisiva la levata di scudi di molti magistrati, fra cui lo stesso Spataro. A difendere l’opportunità del confronto mancato, invece, buona parte di Md, in testa il giudice di sorveglianza e membro dell’esecutivo uscente Riccardo De Vito: "Al di là dei molti punti che accomunano le due correnti progressiste riunite in Area, Md deve continuare il suo percorso politico-culturale senza rinunciare al punto di vista esterno alla corporazione e alla sua tradizionale scelta in favore del garantismo". La Md che si ritrova a Bologna, in campo per il No al referendum costituzionale e impegnata sui dossier profughi, reato di tortura e Turchia, è lontana dai tempi in cui era egemone: con soli due consiglieri al Csm è attualmente la meno rappresentata fra le correnti "storiche" dentro l’organo di autogoverno. E anche le più recenti elezioni per il parlamentino dell’Anm sono state una battuta d’arresto per tutta Area. Fra le toghe fanno breccia le posizioni "sindacali" e "apolitiche", incarnate dalla nuova corrente Autonomia e Indipendenza di Piercamillo Davigo, megafono (da destra) del disagio che serpeggia per carichi di lavoro enormi e carenze di personale, di fronte alla sostanziale indifferenza del governo. Per Md, invece, i magistrati non devono essere corporativi, e le risposte ai loro problemi devono essere coerenti con un sistema giudiziario visto come servizio ai cittadini, soprattutto quelli più deboli. "Anche la giurisdizione deve rispondere all’imperativo dell’articolo 3 della Costituzione: rimuovere le diseguaglianze. Ed è questo - afferma De Chiara - il grande tema che mettiamo al centro del congresso: è una questione planetaria, in realtà, che dovrebbe preoccupare le istituzioni di tutti i Paesi. Apprezziamo il governo italiano quando contrasta l’austerità in Europa, lo critichiamo duramente quando fa scelte che vanno in un’altra direzione, come il jobs act". No alla tenuità del fatto dal giudice di pace di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2016 Cassazione - Sezione V - Sentenza 2 novembre 2016 n. 45996. La non punibilità per la particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis del codice penale non può essere applicata ai procedimenti davanti al giudice di pace. L’estensione è da escludere soprattutto in considerazione del fine conciliativo al quale è ispirato il rito del giudice di pace, al quale si applica la norma sulla particolare tenuità prevista dall’articolo 34 del Dlgs 274/2000. La sentenza 45996 della quinta sezione penale della Cassazione di ieri, arriva a poco più di un mese di distanza dalla sentenza 40699, con la quale i giudici della quarta avevano dato il via libera all’applicazione dell’articolo 131-bis anche nella giurisdizione del giudice di pace. In entrambe le sentenze, ovviamente, sono chiariti i motivi della scelta. Ieri i giudici hanno negato la non punibilità ad un ragazzo condannato per lesioni dal giudice di pace con l’avallo del tribunale. Il ricorrente contestava la mancata applicazione dell’articolo 131-bis, introdotto dal Dlgs 28/2015. Per la Cassazione però il "beneficio" è previsto solo nel procedimento davanti al giudice ordinario, per diverse ragioni. La particolare tenuità, come disegnata dall’articolo 34, non ha un riferimento alla pena detentiva, a differenza dell’articolo 131-bis che fissa per l’applicazione il limite a 5 anni. I due istituti si distinguono anche per i presupposti, ma la separazione più evidente riguarda la definizione del ruolo della persona offesa, alla quale l’articolo 34 attribuisce una facoltà inibitoria, mentre per l’articolo 131-bis il dissenso delle parti non è vincolante. Secondo i giudici della quinta al giudice di pace è istituzionalmente assegnato il compito di favorire, per quanto possibile l’accordo tra i soggetti coinvolti. I giudici escludono poi categoricamente che il Dlgs 28/2015 abbia tacitamente abrogato l’articolo 34. Sul terreno sostanziale l’applicabilità dell’articolo 131-bis è ostacolata anche dall’articolo 16 del codice penale che nega la possibilità di "utilizzare" la norma codicistica nei reati di competenza del giudice di pace. Per la Suprema corte è, infatti, evidente che la finalità conciliativa di tale giurisdizione verrebbe inevitabilmente compromessa dall’applicabilità della causa di non punibilità prevista dal codice penale e svincolata dai particolari profili dell’articolo 34. Diametralmente opposta la conclusione raggiunta il 29 settembre(sentenza 40699) dai giudice della quarta sezione penale. La Suprema corte aveva supportato il sì all’applicazione, partendo da una sentenza delle sezioni unite (13681 del 2016) con la quale il supremo collegio, pur non affrontando in particolare il tema, avevano sottolineato il carattere generale dell’istituto previsto dall’articolo 131-bis. Inoltre la tesi negativa - secondo la quarta sezione - non è supportata da nessuna norma, mentre proprio la differenza tra i due istituti dovrebbe spostare l’ago della bilancia verso l’applicazione della norma di maggior favore prevista dall’articolo 131-bis, applicandola, con i soli limiti previsti dalla norma, a tutti i reati compresi quelli di competenza del giudice di pace. Secondo quanto affermato nella sentenza 40699, sarebbe altamente irrazionale e contrario ai principi generali che la disciplina sulla tenuità del fatto - ispirata proprio dal procedimento davanti al giudice di pace- non sia "utilizzabile" per i reati attribuiti a quel giudice, con l’obbligo di fare riferimento alla quella specifica e più stringente dell’articolo 34. Il singolo episodio non basta a provare il reato di maltrattamenti di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2016 Tribunale di Genova - Prima sezione penale - Sentenza 20 giugno 2016, n. 3938. Commette il reato di appropriazione indebita il conduttore di un appartamento che, alla scadenza del contratto di locazione, asporti dall’immobile alcuni degli oggetti presenti nella casa. E per far configurare il reato non è necessaria la formale richiesta di restituzione da parte del locatore. Nel caso deciso dal Tribunale, è stato condannato l’inquilino che aveva portato via un armadio dall’appartamento a lui locato con comodato gratuito di alcuni arredi. Bancarotta fraudolenta documentale quando la contabilità finisce nella spazzatura di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 2 novembre 2016 n. 45998. Bancarotta fraudolenta documentale per l’imprenditore che - per evitare la ricostruzione di operazioni che hanno poi portato al fallimento societario - decida di disfarsi delle carte contabili gettandole nel cassonetti della spazzatura. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 45998/2016. La Corte, nella fattispecie, si è trovata alle prese con un imprenditore che era stato condannato dalla Corte di appello di Perugia per il reato di bancarotta fraudolenta documentale quale amministratore unico di un srl. Il ricorso dell’imprenditore. Contro la sentenza l’imprenditore ha proposto ricorso per Cassazione evidenziando come non fossero stati considerati i testimoni. Questi ultimi, infatti, avrebbero confermato che i documenti fiscali erano contenuti in scatoloni unitamente ad altro materiale cartaceo di nessuna rilevanza e nel fare un trasloco, tali scatoloni erano stati gettati nei cassonetti dell’immondizia. I Supremi giudici hanno ritenuto il ricorso inammissibile per una serie di ragioni. Prima fra tutte non hanno compreso perché il soggetto, sentito come testimone ed estraneo all’azienda, avesse di propria iniziativa, gettato via quanto il personale della ditta aveva avuto cura di sistemare in scatoloni, senza prima controllarne accuratamente il contenuto e senza consultare l’amministratore o altra persona che potesse autorizzarlo a ciò. Unica risposta possibile è che la "mossa" fosse stata a lungo meditata e, quindi, frutto di un comportamento necessariamente doloso. Il precedente. A tal proposito va ricordata anche la precedente sentenza n. 9746/2014 secondo cui configura il delitto di bancarotta fraudolenta documentale la condotta di un ex amministratore di società dichiarata fallita che non aveva consegnato la documentazione contabile al curatore per evitare che la stessa fosse utilizzata in suo pregiudizio in un processo penale già in corso, posto che il principio del "nemo tenetur se detegere" comporta la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva. È del tutto evidente come nell’attuale sentenza i giudici abbiano individuato nel comportamento dell’amministratore una precisa volontà di disfarsi di quelle carte che avrebbero rappresentato la prova evidente della propria responsabilità penale. Inammissibile pertanto il ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 2000 euro in favore della Cassa delle ammende. "Caro Orlando, io so che tu sai" di Rita Bernardini Il Dubbio, 3 novembre 2016 Lettera aperta di Rita Bernardini al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a pochi giorni dalla Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà di domenica 6 novembre, dedicata a papa Francesco e a Marco Pannella. La Bernardini, in sciopero della fame da 25 giorni insieme ad altri esponenti radicali, nella lettera a Orlando elenca tutti i problemi delle carceri italiane. "Io so che tu sai", scrive e conclude con un "piena fiducia in te, proseguo - proseguiamo - lo sciopero della fame". Caro ministro della Giustizia, caro Andrea Orlando, in vista della Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà che si terrà domenica prossima 6 novembre e che sarà dedicata a Papa Francesco e a Marco Pannella, oggi è per me - e per i miei compagni del Partito Radicale Irene Testa, Maurizio Bolognetti e Paola Di Folco - il 24° giorno di sciopero della fame, mentre 11.463 detenuti (e le adesioni stanno crescendo) sostengono con due giorni di digiuno (5 e 6 novembre) l’obiettivo dell’amnistia e del nostro sciopero. Noi tutti chiediamo che, per non vanificare l’ottimo lavoro prodotto dagli Stati Generali dell’esecuzione penale da te fortemente voluti, si stralci dal disegno di legge sul penale, in discussione al Senato, la parte riguardante la Riforma dell’ordinamento penitenziario "per l’effettività rieducativa della pena che deve riguardare tutti i detenuti, nessuno escluso". È una questione di tempi, che non possono più essere disattesi se non vogliamo che l’esecuzione penale continui ad essere in violazione dei principi costituzionali italiani ed europei. Io so che tu sai: - che il sovraffollamento carcerario è molto superiore a quello ufficiale (105%) in quanto ci sono almeno 5.000 posti indisponibili per lavori in corso o perché inagibili; così come sai che a fronte di istituti quasi vuoti, ce ne sono altri super-affollati; - che ci sono istituti dove i detenuti sono costretti a svolgere i loro bisogni davanti ai loro compagni o agli agenti perché i wc sono a vista (vedi esposto da me presentato in Procura sul carcere di Pisa); - che molti istituti versano in condizioni strutturali che definire fatiscenti è poco, al di fuori di ogni regola di sicurezza sia per i detenuti che per chi in carcere lavora; le relazioni che semestralmente presentano le ASL sono puntualmente disattese; - che la salute in carcere è gravemente compromessa e il diritto alle cure è spesso negato (vedi recente congresso dei medici di medicina penitenziaria); - che la popolazione detenuta è composta in gran parte di tossicodipendenti e malati psichiatrici che andrebbero curati, seguiti e aiutati piuttosto che ristretti in cella con enorme aggravamento delle loro patologie; - che nel corso del 2015 sono transitate all’interno dei 195 istituti penitenziari italiani quasi centomila detenuti, per l’esattezza 99.446 soggetti. Sulla base di numerosi studi nazionali di prevalenza puntuale, si stima possano essere circa 5.000 gli HIV positivi, circa 6.500 i portatori attivi del virus dell’epatite B e circa 25.000 i positivi per il virus dell’epatite C (Congresso Nazionale Simspe-Onlus "Agorà Penitenziaria" 14 e 15 settembre scorso) - che la percentuale di detenuti che lavorano è bassissima e che i "fortunati" svolgono mansioni non professionalizzanti, percependo merce di infime e solo per un paio di mesi all’anno. Che sono non più di 1.600 (meno del 3%) in tutta Italia i detenuti che svolgono lavori veri e formativi come quelli che hai potuto mostrare al Presidente del Consiglio Renzi nel carcere di Padova; - che le possibilità di studio per i detenuti sono alquanto ridotte in numerosi istituti penitenziari; - che c’è una forte carenza di educatori, di psicologi (categoria ormai in via di estinzione), di direttori (molti di loro dirigono più istituti; non si fanno più concorsi da quasi vent’anni!), di assistenti sociali: come si può fare rieducazione e accesso alle pene alternative senza queste figure fondamentali? - che i magistrati di sorveglianza, anche loro sotto organico assieme al personale ausiliario e di cancelleria, non sono in grado di svolgere il loro lavoro e le prescrizioni previste per il loro ruolo dall’Ordinamento penitenziario totalmente disattese; - che la figura del mediatore culturale per gli stranieri è quasi inesistente, così compromettendo i loro diritti fondamentali in quanto non possono comunicare con nessuno; - che un’alta percentuale di detenuti vive lontano dai propri familiari, il principio della territorialità della pena è disatteso, la sofferenza che patiscono detenuti, figli anche minori, congiunti stretti, è incalcolabile. L’affettività è negata. - che le telefonate dei detenuti ai congiunti e agli avvocati sono concesse con il contagocce; che spesso e volentieri i detenuti devono scegliere se chiamare i familiari o l’avvocato; che mentre i telefoni fissi sono ormai un’eccezione nella vita degli italiani, si ostacola l’uso dei telefoni cellulari, unico mezzo per molti ? e ancor di più per gli stranieri ? di tenersi in contatto con i propri affetti; le chiamate visive a mezzo Skype costituiscono l’eccezione di alcuni istituti. - che quasi tutte le carceri sono prive del Regolamento d’Istituto prescritto dall’ordinamento penitenziario; pertanto i detenuti non sono messi a conoscenza dei loro diritti e doveri e sono sottoposti all’arbitrio di regole orali che cambiano di volta in volta; - che migliaia di detenuti dell’Alta Sicurezza sono esclusi da percorsi trattamentali di lavoro e di studio nonché privati del diritto all’affettività essendo costretti a vivere a centinaia di chilometri di distanza dai propri familiari; per non parlare dei detenuti al 41-bis per i quali, anche per decenni, è stato ed è inesistente l’art. 27 della costituzione; - che l’ergastolo, tanto più nella sua forma ostativa, è contrario a quanto sancito dalla nostra Costituzione e non è un caso che proprio Papa Francesco lo abbia abolito dall’ordinamento Vaticano, definendolo "una pena di morte mascherata"; Caro Andrea Orlando, caro Ministro, mi limito a questo elenco, trascurando il ruolo istituzionale che per legge dovrebbe svolgere l’Uepe nell’aiutare gli ex detenuti a reinserirsi nella società, compito ormai da anni abbandonato. Come pensi di voler corrispondere alla nostra richiesta di dialogo? Come pensi di corrispondere alle belle parole che hai riservato a Marco Pannella e a Papa Francesco? Si tratta di due personalità che non hanno avuto remore a pronunciarsi per ciò che è giusto sia dal punto di vista cristiano che da quello laico e democratico: Marco ha rischiato più volte la sua vita per chiedere il rientro immediato nella legalità costituzionale invocando un provvedimento di Amnistia (e di Indulto); in continuità con Papa Giovanni Paolo II, Papa Francesco, nel discorso pronunciato un anno fa, affermava che "il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande Amnistia". Piena di fiducia in te, proseguo ? proseguiamo ? lo sciopero della fame. Un abbraccio. Rita Bernardini P. S.. Qui http: //amnistiaperlarepubblica.it/, puoi leggere tutte le adesioni alla Marcia per l’Amnistia. Come puoi vedere, c’è una massiccia adesione dal mondo cattolico, da istituzioni comunali e regionali che verranno con i loro gonfaloni, da associazioni di volontariato che vivono la realtà penitenziaria, di parlamentari e del mondo forense quasi commovente. L’ultima ricetta di Davigo. Rieducare la gente. Come? "A sberle" di Piero Sansonetti Il Dubbio, 3 novembre 2016 Nell’Anm, per ora, dilaga il silenzio. Non si è alzata ufficialmente neanche una voce contro il proclama del Presidente Davigo, il quale propone di educare gli italiani "a sberle" (citazione letterale dal suo discorso) e di dimezzare i redditi degli avvocati e anche il numero degli avvocati. Davigo evidentemente pensa che per mandare più gente possibile in prigione, la cosa migliore sia quella di fare in modo che gli imputati restino senza avvocati o comunque che debbano ricorrere ad avvocati malpagati, poco motivati, e possibilmente poco dotati, e dunque non in grado di dare fastidio ai Pm. Sono concetti non nuovissimi per il capo dell’associazione nazionale magistrati, e del resto non è nuova neppure la sua idea secondo la quale un paese come l’Italia è composto essenzialmente da mascalzoni e poi da un gruppetto esiguo di gente per bene la quale ha diritto ad essere protetta dai mascalzoni. Il problema - secondo la filosofia di Davigo - è che una selva di leggi complesse rende difficile la condanna di tutti i sospetti, e questi - che sicuramente sono colpevoli - quasi sempre la fanno franca. Se si riuscisse ad individuare un meccanismo per mandare in galera i sospetti, la società funzionerebbe molto meglio. L’ostacolo sono le leggi e la Costituzione, concepite a favore dei rei e non dei pochi Giusti. Forse ho schematizzato un po’ troppo la posizione di Davigo, ma non credo di averla stravolta. Del resto lui stesso, nel libro scritto a quattro mani con il suo ex collega Gherardo Colombo, e in aperta polemica proprio col suo collega, si è dichiarato "giansenista", cioè seguace di quella setta religiosa che nel seicento - in contrasto con la Chiesa romana - proclamò la "colpevolezza" di tutti gli esseri umani, i quali nascono malvagi, e dei quali solo un ristretto gruppo si salva e si purifica attraverso la grazia regalata da Dio. La colpa, nell’ideologia giansenista e ora davighiana, è una caratteristica dell’essere umano. Un’impronta evidente e indelebile. Dunque non c’è nessun bisogno di dimostrarla. Casomai sta al sospettato dimostrare che lui invece ha ricevuto la grazia e fa parte della schiera piccolissima degli "innocenti". Sicuramente il giansenismo in salsa davighiana non ammette neppure l’ipotesi che tra "gli innocenti" possa esserci qualche politico (tranne, forse, Grillo...). In una breve nota, che pubblichiamo in prima pagina, Andrea Mascherin, che è il presidente degli avvocati italiani, ironizza sulle facoltà mentali di Davigo e sul suo equilibrio psichico. Difficile dargli torto. Probabilmente però il problema è ancora più grave. Non ci troviamo di fronte a una situazione eccezionale, dovuta al fatto che per "errore" i magistrati hanno eletto alla testa della propria associazione un estremista, o un reazionario d’altri tempi, o un professionista dall’equilibrio intellettuale assai incerto. Se fosse così, sarebbe ragionevole aspettarsi una rivolta almeno di una parte consistente dei magistrati italiani, indignata per le alzate d’ingegno del loro presidente. E invece, come si diceva all’inizio, per ora nell’Anm dilaga il silenzio. Ieri abbiamo ascoltato un collaboratore stretto di Davigo, e ci ha confessato di pensare anche lui che talvolta il suo presidente sbaglia i toni e le parole. E però ha confermato che i problemi che pone Davigo sono giusti e urgenti. L’impressione è che in una parte maggioritaria della magistratura italiana l’idea dominante sia esattamente quella che ci ha rivelato il collaboratore di Davigo. I toni son sbagliati ma la denuncia è giusta. E cioè, l’Italia soffre di un eccesso di diritti della difesa, gli avvocati sono l’espressione di questo eccesso, l’unica riforma giusta della giustizia è una riforma che riduca i diritti della difesa e lo faccia nel modo più semplice: ridimensionando in vari modi il mondo degli avvocati. Una società più giusta passa di qui: dal contenimento dei diritti, dal ridimensionamento della difesa e dunque dalla messa in mora dell’avvocatura. Non è una idea che vince solo in Italia. Oggi gli avvocati sono sotto tiro in molti paesi. In Turchia, per esempio, dove è in atto una svolta autoritaria. In Pakistan, dove - come abbiamo documentato nei giorni scorsi - sono stati uccisi 3500 avvocati, considerati un ostacolo alla vita ordinata di quella società. Davigo non è un frutto avvelenato: Davigo è l’espressione di una idea neo-autoritaria che è ben radicata nel mondo della magistratura e che sta conquistando posizioni vincenti in gran parte della politica, del giornalismo, dell’intellettualità, e in genere dell’opinione pubblica. Il pericolo di una involuzione non-democratica della società, e di una messa in discussione dello Stato di diritto, è squadernato di fronte a noi in modo assai chiaro. Per non vederlo bisogna essere ciechi, o fingersi ciechi. La battaglia non è tra Davigo e gli avvocati. È tra l’ideologia delle sberle e l’ideologia dei diritti. Ed è una battaglia dalla quale dipende il futuro della nostra civiltà. Possibile che nella magistratura non esitano pensieri, idee, sentimenti, valori, che entrino in rotta di collisione col davighismo? E possibile che se esistono restino silenti? Non è così in nessun altro anfratto del potere. Matteo Renzi, che oggi è potentissimo, ha mezzo partito che gli grida contro. Silvio Berlusconi, che per 20 anni è stato il dominus della politica italiana, ha subito quattro o cinque scissioni. Persino Matteo Salvini ha nel suo partito ampie sacche di dissenso. Ed è così nelle scuole, nei giornali, nelle università, nei vertici delle imprese. Persino nella Chiesa, dove la fronda a Francesco è vasta e palese. Solo la magistratura fa eccezione? Chi dissente pensa che per ora sia opportuno tacere? Quando capirà che non è opportuno tacere, purtroppo, forse, sarà troppo tardi. La trattativa stato-mafia e i danni causati dai servi sciocchi delle procure di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 3 novembre 2016 L’impianto argomentativo della sentenza assolutoria di Calogero Mannino smantella la costruzione accusatoria della cosiddetta trattativa stato-mafia. Da coautore (insieme con Salvatore Lupo) di un saggio critico sull’argomento, pubblicato da Laterza due anni fa, potrei molto compiacermene e andare alla ricerca delle coincidenze tra i miei argomenti critici e le ragioni poste a fondamento della sentenza del giudice Marina Petruzzella. Ma rinuncio a questa esercitazione perché, oltretutto, considero la Trattativa un tema ormai archiviato (i miei attuali interessi di studioso si rivolgono ad altro). Piuttosto, ritengo opportuno richiamare qui l’attenzione sull’atteggiamento del sistema mediatico rispetto al processo sulla Trattativa, che si è andato caratterizzando secondo movenze tali da confermare in maniera emblematica una relazione gravemente patologica, una sorta di perversione sistemica, riscontrabile da qualche decennio nel contesto italiano: alludo, com’è facile intuire, alla relazione incestuosa tra buona parte dei media e gli uffici di procura. È un dato di fatto inconfutabile che il processo-trattativa costituisce una esemplificazione straordinaria di un processo inscenato nei media e potentemente alimentato da stampa e televisione, specie nelle sue fasi iniziali: con un bombardamento informativo continuo e drammatizzante, tendente ad assecondare come verità assodata ipotesi accusatorie ardite e basate (tanto più all’inizio) su teoremi storicopolitici preconcetti, affondanti le radici in "precomprensioni" soggettive e - purtroppo - costruiti anche in vista del perseguimento di impropri obiettivi lato sensu carrieristici. Certo è che senza la grancassa televisiva, fatta di acritico sostegno e di facile suggestione per il sensazionalismo complottistico, il processo sulla Trattativa non avrebbe avuto la stessa parvenza di legittimità e la stessa risonanza. Ma la responsabilità non è tutta del sistema mediatico. Come in ogni relazione bilaterale, le colpe vanno ricercate sul versante di entrambi i protagonisti: sono infatti stati molto abili anche i magistrati d’accusa a sfruttare le risorse della televisione come palcoscenico in cui dare suggestivamente per dimostrata una indecente Trattativa ancora tutta da dimostrare nelle aule di giustizia. Per scienza privata, maturata in una consuetudine ormai lunga di studioso col mondo della giustizia penale, so che qualche pubblico ministero considera più rilevante, in vista del successo di un’indagine o di un processo, l’efficacia della narrazione mediatica rispetto alla stessa fondatezza giuridica della tesi accusatoria. Da qui anche la tendenza a privilegiare l’intervento o l’intervista giornalistica, come sede decisiva di discussione, rispetto alla più tradizionale dissertazione nelle riviste giuridiche specialistiche: con quanto impoverimento e banalizzazione delle questioni di diritto sul tappeto è facile immaginare! A sostegno dell’esigenza di mediatizzazione, qualche pubblico ministero ritiene perfino che il processo penale abbia scopi che trascendono l’accertamento dei reati e l’eventuale condanna, rientrando tra i suoi presunti obiettivi legittimi - tra l’altro - la ricostruzione degli eventi storico-politici, siano o meno ravvisabili ipotesi criminose: anzi, un procuratore aggiunto di Palermo ha esplicitamente sostenuto che il magistrato d’accusa è in condizione di ricostruire la storia meglio di uno storico di mestiere grazie al fatto che il magistrato dispone di strumenti coercitivi di accertamento della verità di cui lo storico non può disporre. Una tesi, questa, che non credo abbisogni di particolari commenti. Dopo l’enorme suggestione creata intorno alla Trattativa in particolare dalla televisione, l’attenzione mediatica è però andata progressivamente attenuandosi man mano che il castello accusatorio ha cominciato a sbriciolarsi per effetto dei colpi inferti dalla duplice assoluzione del generale Mori in due processi paralleli per favoreggiamento pur sempre inquadrabili entro il presunto ampio orizzonte trattativistico. Queste assoluzioni, indigeste per quanti avevano mediaticamente enfatizzato il turpe patto stato-mafia o vi avevano creduto in buona fede, hanno finito non a caso con l’essere relegate nelle ultime pagine di cronaca o tra le notizie del tutto secondarie da contenere in smilzi trafiletti. Un fenomeno analogo, e forse ancora più marcato, si sta verificando in occasione della netta smentita della Trattativa nel primo processo tutto incentrato su di essa. Della recente assoluzione di Mannino, ad esempio, un giornale come il Corriere della Sera non risulta sino ad ora abbia dato alcuna notizia di rilievo. Repubblica invece, pur essendosi distinta fra i quotidiani che più hanno pompato il processo palermitano, ha dedicato il giorno dopo alla pronuncia del gup due articoli (uno collocato tra le ultime pagine della cronaca nazionale e l’altro in quella locale), ma in termini piuttosto sobri, quasi a voler ridimensionare la plurima valenza dell’evento assolutorio. O per la stessa Repubblica la vicenda-trattativa non merita più grande attenzione perché reputata priva ormai di vitalità giudiziaria e quindi morente? Quanto poi al Fatto quotidiano, il più dogmatico ed entusiasta fiancheggiatore dei magistrati d’accusa, non sorprende che abbia mostrato ancora più self restraint, non solo allontanando la notizia a pagina 12, ma preoccupandosi di avvertire - che cronista scrupoloso! - che il testo di sentenza pubblicato è pieno di refusi e imprecisioni ancora da correggere. Questa avvertenza sottende, forse, la speranza che la sentenza in veste definitiva possa risultare meno critica nei confronti dei pm? Come osservatore delle patologie della giustizia penale, auspicherei che il processo sulla Trattativa diventasse un oggetto esemplare di studio all’interno di un laboratorio multidisciplinare competente a formulare diagnosi approfondite e a fornire indicazioni terapeutiche: allo scopo innanzitutto di recidere i mostruosi intrecci che da anni legano informazione e giustizia, e ciò sino al punto che hanno finito col riscuotere populistico credito organi di stampa pregiudizialmente vocati a operare come "gazzetta delle manette" (e sui quali, aggiungo incidentalmente, scrivono o rilasciano interviste anche illustri magistrati, senza peraltro porsi il problema se sia opportuno alimentare uno stile informativo che tiene programmaticamente in dispregio fondamentali garanzie costituzionali a tutela di ogni persona umana, indagati e imputati compresi). Detto in altre più semplici parole: sarebbe finalmente il caso di prendere spunto dal processo sulla Trattativa per processare larga parte del sistema mediatico; ma sarebbe, nel contempo, auspicabile che siano i giornalisti a fare autocritica e a processare se stessi. In vista di un recupero della funzione critica della stampa e della capacità di indagare autonomamente sui fatti, senza essere servi sciocchi o interessati delle iniziative non sempre ponderate delle procure. Piemonte: sovraffollamento e spazi angusti nelle carceri di Cuneo, Asti e Novara di Jacopo Ricca La Repubblica, 3 novembre 2016 Una decina di segnalazioni ogni mese. A tanto ammonta il numero di richieste d’intervento che l’associazione Antigone riceve per le condizioni carcerarie piemontesi. L’organizzazione che da 25 anni si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale in Italia monitora costantemente gli istituti di pena della regione e da tempo aveva denunciato i problemi di quello di Ivrea: "La situazione eporediese è quella più esplosiva, ma si registrano diversi problemi anche a Cuneo e Novara" racconta Michele Miravalle, uno dei coordinatori dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione degli adulti. Le loro schede, aggiornate ogni anno, lo confermano: "Ci sono state segnalate diverse anomalie: a Novara in particolare riguardano i rapporti con i famigliari - spiega Miravalle. Ci sono difficoltà nei colloqui, ma anche nella possibilità di far arrivare i pacchi. A Cuneo poi sono state abolite da poche settimane le ispezioni personali, con i detenuti che venivano fatti spogliare completamente davanti agli agenti per verificare che non nascondessero oggetti non consentiti. Un metodo che non dovrebbe esistere dagli anni Settanta, ma che invece si è continuato ad usare". I problemi maggiori riguardano però il sovraffollamento e l’assenza o la limitatezza dei cosiddetti spazi di socialità: "Sono tutti elementi che aumentano la tensione all’interno della struttura, la miccia che scatena le violenze. Abbiamo ancora sezioni a cella chiusa, cioè dove la possibilità di movimento è limitatissima per gran parte della giornata". La scheda per Cuneo di Antigone descrive questo scenario: "Sebbene le attività proposte siano molteplici e quindi il tempo effettivo passato in cella nella media sia limitato da questo fattore, le celle sono chiuse salvo le ore d’aria e di socialità". Da qualche mese poi il numero dei detenuti nelle carceri piemontesi è tornato a crescere. Il dato al 31 ottobre parla di 3836, tra uomini e donne, contro una capienza massima consentita di 3835. una situazione sicuramente migliore del 2009 quando si sforava di quasi 1500 unità: "Dopo diversi anni dove eravamo in calo, solo tra settembre e ottobre si è registrata una crescita di un centinaio di presenze" conferma Anna Rossomando, deputata democratica piemontese. Miravalle sostiene che questo sia uno dei punti su cui intervenire: "Un carcere dove c’è tensione fa male a tutti, ai detenuti prima di tutto, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria. Bisogna lavorare sulle attività dentro al carcere, sui momenti di socialità, ma in Piemonte tutti i fondi per le attività di risocializzazione arrivano da fondazioni private, compagnia di San Paolo in primis, mentre il pubblico non investe nelle funzioni rieducative della pena". Proprio in questi giorni è attesa la sentenza della Corte europea dei diritti umani sulle presunte torture nel carcere di Asti. In primavera i giudici avevano respinto la richiesta del governo di composizione amichevole e ora dovrebbe arrivare una pesante condanna per l’Italia. Lì ora la situazione è migliorata, anche perché quello di Asti è stato trasformato in un carcere ad alta sicurezza e i detenuti comuni, come quelli oggetto di quei pestaggi, non possono più essere ospitati: "Ad Asti si era creata una dinamica molto simile a quella denunciata dai reclusi di Ivrea - denuncia Miravalle - Speriamo che tutto questo non si ripeta, attendiamo il pronunciamento della procura, ma è importante che non si spengano le luci su un carcere vecchio e dove la gestione è stata, negli ultimi tempi, quantomeno poco efficace". Ivrea (To): pestaggi ai detenuti, nel carcere arrivano gli ispettori del ministero di Jacopo Ricca La Repubblica, 3 novembre 2016 Ispettori nel carcere di Ivrea per verificare la situazione. Dopo le denunce di alcuni detenuti sui presunti pestaggi e l’apertura di diversi fascicoli da parte della procura di Ivrea ora arrivano anche gli inviati del Dap, il ministro di Giustizia, Andrea Orlando, ha chiesto una relazione urgente al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per chiarire cosa sia avvenuto nelle settimane successive alla rivolta del 14 ottobre. A inviarli è stato il provveditore di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Luigi Pagano, che assicura di voler fare chiarezza. La Procura ha acquisito immagini che potrebbero chiarire quanto accaduto. Ieri mattina intanto la consigliera regionale di M5s, Francesca Frediani, ha potuto incontrare alcune delle presunte vittime, oltre che la direttrice del carcere, Assuntina Di Rienzo, che ha nuovamente smentito qualsiasi tipo di violenza gratuita: "Almeno uno dei detenuti che ho incontrato aveva evidenti segni di violenza: se la dinamica sia quella che ha raccontato lui o quella riferita dalla direttrice dovrà chiarirlo la magistratura" racconta Frediani. La parlamentare democratica Anna Rossomando ha presentato un’interrogazione parlamentare a Orlando perché ricostruisca cosa è successo. Anche il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, è stato ieri nel carcere di Ivrea: "Mi sono confrontato coi diversi protagonisti e sono racconti molto lontani - afferma - Il dato di fondo è il fortissimo disagio su cui bisogna intervenire ancor prima della chiusura delle indagini". Sull’episodio hanno preso posizione anche i radicali che parlano di "tensione sopra il livello di guardia". Mellano oggi sarà a Cuneo dove è stato trasferita una delle presunte vittime del pestaggio: un’altra è stata invece spostata a Novara. Ivrea (To): "violenze in carcere", da gennaio 13 episodi di Giampiero Maggio La Stampa, 3 novembre 2016 Ma la notte della rivolta le telecamere del carcere non funzionavano. Sui 221 agenti di polizia penitenziaria previsti, a Ivrea gli effettivi sono solo 150. Da tempo il sindacato Osapp denuncia le difficoltà: "Una polveriera pronta ad esplodere". Alta tensione nel carcere di Ivrea, dove alcuni detenuti denunciano di essere stati picchiati dalla polizia penitenziaria. Uno di loro, Matteo Palo, in una lettera aperta affidata al sito "Infoaut", e riferendosi ad una rivolta accaduta la notte tra il 25 ed il 26 ottobre poi sedata dalla polizia penitenziaria, parla di "protesta stroncata con un pestaggio ai limiti della sopportazione". Non sarebbe la prima volta. Si scopre, infatti, che in procura a Ivrea sono almeno 13 gli esposti arrivati in un anno, 5 i fascicoli aperti contro ignoti per lesioni. Al momento non ci sono indagati. Il procuratore capo, Giuseppe Ferrando, conferma: "Sono episodi che conosciamo e sui quali stiamo lavorando da tempo". Il garante del carcere per il Comune di Ivrea, Armando Michelizza, parla apertamente "di un clima non bello". Accusa: "Ho visto i lividi sul viso di un detenuto e posso dire che non era certamente caduto dalle scale". Francesca Frediani, consigliere regionale del Movimento 5 stelle, dopo aver letto la denuncia pubblica di Palo, ieri è stata all’interno dell’istituto per un sopralluogo. "I detenuti con i quali ho parlato hanno raccontato di essere stati colpiti con i manganelli, uno di loro, l’ho visto con i miei occhi, aveva lividi sul volto ma anche sul corpo". Un passaggio, questo, che la direzione del carcere smentisce con forza: "Quella notte è stato autorizzato soltanto l’uso di caschi e scudi perché la situazione stava diventando pericolosa, nessuno ha usato manganelli". E poi c’è chi racconta di tensione che sale la sera e soprattutto la notte, quando manca la presenza della direttrice, Assuntina Di Rienzo. "Il carcere ostaggio di 3 o 4 agenti più anziani? Ma non è vero nulla" taglia corto la numero uno dell’istituto. Insomma, versioni contrastanti sulle quali toccherà alla polizia giudiziaria fare chiarezza. Non potranno aiutare le immagini delle telecamere presenti alla sezione del quarto piano, dove la sera del 25 ottobre era esplosa la vibrante protesta dei detenuti, poi sedata dagli agenti. L’impianto di videosorveglianza c’è, ma non funziona. Anche questo uno dei tanti aspetti che caratterizza, purtroppo, molti istituti di pena in Italia, costretti a far fronte con risorse risicate e personale ridotto al minimo. L’esempio di Ivrea è calzante: su un impianto organico previsto di 221 unità, gli effettivi in servizio sono 150, manca un comandante di reparto effettivo, gli ispettori sono pochi. Tutti aspetti denunciati dai sindacati, in particolare dall’Osapp che periodicamente stila l’elenco delle cose che a Ivrea non funzionano e in più occasioni aveva parlato di "polveriera pronta ad esplodere". E allora bisogna stare alle versioni, contrapposte, di quella notte, ma partendo prima ancora dalla protesta del 14 ottobre, quando i detenuti si arrabbiarono per la mancanza della televisione nelle celle. Sono gli stessi che rimasero coinvolti nella rivolta del 25 e nei presunti pestaggi. Sul caso intervengono anche i coordinatori dell’associazione del partito radicale. Adelaide Aglietta: "Le denunce contenute nella lettera del detenuto sono circostanziate e gravissime; il fatto che contengano nomi e cognomi dei protagonisti rende la vicenda ancora più inquietante". Anna Rossomando, parlamentare Pd, ha presentato, ieri, un’interrogazione al ministro della Giustizia. "I fatti denunciati pubblicamente nella lettera di un detenuto richiedono, anche alla luce delle immediate smentite della direttrice dell’istituto, che venga fatta al più presto chiarezza". Gonnella (Antigone): "Si indaghi attorno alle denunce di violenza" "Chiediamo alla magistratura e all’Amministrazione Penitenziaria di indagare, nel più breve tempo possibile, attorno alle denunce di violenze nei confronti di detenuti nel carcere di Ivrea. Già in passato ad Antigone erano arrivate denunce di violenze da questo carcere per le quali eravamo stati in visita più volte, in particolare nel reparto di isolamento, disposizione di cui si è fatto un grande utilizzo all’interno dell’istituto. Durante una delle recenti visite avevamo anche registrato un clima generale piuttosto teso. Non molto tempo fa - e precisamente nell’aprile del 2016 - il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura in visita in Italia aveva deciso di recarsi per l’appunto nel carcere di Ivrea, al fine di verificare le condizioni detentive di quell’istituto e, in particolare, di quello che accadeva proprio in isolamento. In quell’occasione esponenti di Antigone sono stati auditi dagli ispettori di Strasburgo. Infine ricordiamo che per altri episodi analoghi Antigone, tramite il suo difensore civico Simona Filippi, aveva già presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Ivrea". Roma: l’evasione da Rebibbia con le telecamere spente di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 3 novembre 2016 Un’evasione fin troppo facile, organizzata nei dettagli o forse troppe favorevoli coincidenze che hanno permesso ai tre albanesi di scappare quasi indisturbati. La fuga dal carcere di Rebibbia di mercoledì scorso di Basho Tesi, 35 anni, Mikel Hasanbelli, 38 anni, e Ilir Pere, 40 anni, desta molte perplessità agli inquirenti. Un nuovo grattacapo per l’aggiunto Michele Prestipino e il pm Nadia Plastina è la questione telecamere. Il sistema di videosorveglianza che scruta il perimetro esterno del penitenziario era ko. Un semplice blackout, un guasto che dura da tempo oppure qualcuno ha spento momentaneamente l’impianto? È questo un fatto su cui gli inquirenti vogliono fare chiarezza. Insomma si cerca di capire se i tre hanno avuto qualche aiuto all’interno del carcere. Penitenziario in cui però si sono verificate in passato altre evasioni. Lo scorso febbraio era stata la volta di due romeni, una fuga terminata col rientro volontario in cella di uno e l’arresto dell’altro. Dopo quella evasione il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) aveva redatto una relazione sulle criticità di Rebibbia poi consegnata in procura. Documento che ora il pubblico ministero Plastina ha intenzione di acquisire agli atti della sua inchiesta proprio per capire se le zone vulnerabili indicate nel rapporto siano state oggetto di un intervento. Ma la priorità per magistrati e forze dell’ordine è acciuffare quanto prima i tre fuggiaschi. Latitanti che non sono dei semplici criminali. Sulle teste di uno dei tre, Tesi, pende una condanna per omicidio. E tutti, a vario titolo, devono scontare pesantissime pene per reati che vanno dallo sfruttamento della prostituzione fino al traffico di armi. Roma: da Rebibbia a San Pietro per il Giubileo dei carcerati di Christian Giorgi romasette.it, 3 novembre 2016 Don Guernieri, coordinatore dei cappellani del carcere: "Pronti dopo un cammino di riflessione sulla misericordia. Siamo in cerca di speranza". "Nelle cappelle delle carceri potranno ottenere l’indulgenza, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa". Scriveva così, Papa Francesco, all’arcivescovo Rino Fisichella, per sottolineare la volontà di rendere il Giubileo della Misericordia occasione, per tutti i detenuti, di "trasformare le sbarre in esperienza di libertà". Verranno resi noti oggi, giovedì 3 novembre, i numeri della giornata dedicata agli ospiti delle Carceri italiane. Il Giubileo dei carcerati, fortemente voluto dal papa, si celebrerà nella Basilica di San Pietro domenica 6 novembre. Alle nove del mattino un momento con alcune testimonianze di persone recluse, alle 9.30 il rosario in preparazione alla Messa che sarà presieduta da Francesco alle 10. A mezzogiorno l’appuntamento in piazza per la preghiera dell’Angelus. Saranno una ventina i detenuti di Rebibbia che si recheranno a San Pietro, "siamo ancora in attesa che ci comunichino i nominativi, ma tutto è pronto" dice al telefono don Roberto Guernieri, il coordinatore dei cappellani del Nuovo Complesso maschile. Tra i detenuti è ancora vivo il ricordo dell’aprile del 2015, quando Francesco decise di passare il Giovedì Santo con i carcerati di Rebibbia. "Non c’era niente di scontato in quella visita, il Papa - ricorda don Roberto - ha parlato, occhi negli occhi, con molti di loro, ha voluto conoscere le storie, le angosce e le speranze di chi abita questo luogo di disperazione. Il fatto che abbia voluto dedicare, ancora una volta, una giornata ai detenuti ci riempie di gioia". Si sono preparati con lo studio e con la preghiera a questo speciale Giubileo, "abbiamo portato avanti diverse riflessioni sull’importanza della misericordia, su come chiederla, ottenerla e, cosa non meno importante, conservarla". È forse questa la cosa più difficile dietro le sbarre, aggiunge don Roberto: "essere capaci di mantenersi misericordiosi. E per farlo c’è solo la via che passa attraverso la richiesta, sincera, di perdono. In molti, nelle nostre Messe, pregano per questo: chiedono perdono alle persone cui hanno fatto del male. È questa la grazia più grande qui dentro". La "vera misura del tempo - ha scritto il Papa ai detenuti di Velletri - si chiama speranza", ma "quanto è difficile mantenere accesa questa luce - riflette don Roberto. Fanno tantissima fatica, vengono da situazioni di difficoltà enormi, infanzie distrutte passate ai margini di una strada, negli orfanotrofi. In molti di loro erano soli quando hanno varcato la soglia del carcere e lo saranno ancora di più quando avranno finito di scontare la pena". Una volta usciti "troveranno indifferenza e poca compassione. Il reinserimento in società è davvero difficile anche per colpa di quei tanti cristiani che non sono in grado di accogliere questi fratelli che hanno sbagliato". "Noi cappellani cerchiamo di ascoltarli, accompagnarli dentro e fuori, prendendo in carico la loro disperazione, mantenendo viva la speranza". Ma sono davvero tanti; come tante altre carceri italiane, anche a Rebibbia si vive in una situazione di sovraffollamento. Ci sono 600 detenuti in più rispetto a quelli che può contenere. "Nonostante ciò, in carcere si è soli. Per questo è importante stare dentro alla struttura, respirare la loro stessa aria, condividere gioie e angosce, camminare al loro fianco". Bologna: il coro Papageno esce dal carcere della Dozza e canta per il Papa di Emanuela Giampaoli La Repubblica, 3 novembre 2016 Uscire dalle sbarre della Dozza e cantare di fronte a Papa Francesco. È uno dei miracoli di Claudio Abbado e del suo Coro Papageno invitato domenica alle 9 nella basilica di San Pietro in Vaticano, a dare il via al Giubileo dei carcerati, uno degli appuntamenti più significativi dell’anno santo. Diretti da Michele Napolitano, i membri del Coro Papageno si esibiranno prima della messa solenne celebrata dal pontefice alle 10 nel loro repertorio che attraversa culture e tradizioni, spaziando da "Ave Verum" di Mozart a brani come "Onissawurè" preghiera del candomblé afrobrasiliano. Non è la prima volta che la platea è importante. Nello scorso giugno si sono esibiti a Palazzo Madama, stavolta però sono al centro del Giubileo della Misericordia, in un evento che più di altri rende palpabile davanti agli occhi del mondo il valore del progetto voluto da Abbado. "La musica è necessaria alla vita, può cambiarla, migliorarla e in alcuni casi può addirittura salvarla" per dirla con le parole del Maestro scomparso. "Mio padre - sottolinea Alessandra Abbado, presidente dell’Associazione Mozart14 - si è impegnato ad avvicinare le persone alla musica, in luoghi dove non entra abitualmente. Il Coro Papageno della sezione maschile e femminile della Casa Circondariale Dozza di Bologna, è una delle sue iniziative. Fu fondato da mio padre nel 2011. Oggi, a cinque anni di distanza, grazie anche ad alcune testimonianze dei detenuti, constatiamo che la musica davvero cambia la vita e, in quanto linguaggio universale, avvicina tra loro le persone". In San Pietro ci sarà anche il sindaco Virginio Merola, a coprire le spese della trasferta sarà invece l’Arcidiocesi di Bologna insieme a Camst. Viaggeranno una quindicina di detenuti (sui trenta che compongono il coro) che grazie a un permesso premio avranno davanti a sé l’intera giornata. Uomini e donne provenienti da ogni parte del mondo, da ogni credo e idioma, con alle spalle fatiche, reati, violenze, che però grazie alla musica si sentiranno, almeno per un giorno, di nuovo persone. Asti: domani la XV edizione del Premio letterario nazionale "Emanuele Casalini" atnews.it, 3 novembre 2016 Ogni anno, i Promotori e la Giuria del Premio letterario nazionale "Emanuele Casalini" compiono un viaggio simbolico verso i Detenuti delle varie carceri; per questa XV edizione è stata scelta la sede di Asti al fine di ricordare nella Sua città Giorgio Faletti, che aveva fatto parte della Giuria del Premio con la disponibilità e la generosità che Gli erano proprie. Questo Premio letterario "riservato" ai Detenuti, che si terrà venerdì 4 novembre alla Casa Circondariale di Asti, presenta le voci di coloro che di solito non hanno voce, che preferiamo dimenticare e rimuovere dalla nostra realtà. Le letture dei brani sono affidate all’attore Aldo Delaude. Da sempre i detenuti hanno scritto molto e questo Premio, che si compone di una sezione Prosa e di una sezione Poesia, vuole essere un incentivo alla scrittura che può rappresentare un’importante forma di introspezione e può aiutare a comprendere se stessi, le proprie azioni e magari i propri errori. Ogni anno, le opere migliori sono pubblicate nel volume "L’altra Libertà": è la libertà dei propri sentimenti, delle proprie idee che gli "scrittori" vogliono difendere; sono gli affetti e le speranze di figli, di padri, di amanti, espressi talora con voci semplici e dirette, talora con forme accurate ed alte. Il Premio è promosso da: Università delle Tre Età delle Case di reclusione di Porto Azzurro e di Volterra, Salone Internazionale del Libro di Torino, Presidi del Libro del Piemonte, con il Patrocinio della Biblioteca Astense Giorgio Faletti. Firenze: cinema nel carcere di Sollicciano con i film usciti nelle sale cittadine di Gaia Rau La Repubblica, 3 novembre 2016 Buio in sala, a Sollicciano. Il carcere fiorentino si trasforma in sala cinematografica grazie a un accordo con le case di distribuzione italiane pensato per rendere i detenuti partecipi della vita culturale della città e per favorire la socializzazione e l’integrazione in ambito carcerario. Primo appuntamento venerdì 4 novembre alle 16.30 con "Io, Daniel Blake", il nuovo film di Ken Loach, Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes. Da sempre vicino ai temi sociali e attivo in prima linea nel portare all’attenzione dell’opinione pubblica le istanze della giustizia attraverso il grande schermo, Loach racconta in questo lungometraggio la storia di un falegname inglese sessantenne costretto, a causa di un cavillo burocratico, a cercare un impiego nonostante l’indennità dovuta a una grave crisi cardiaca, e del suo incontro con una giovane madre single e disoccupata. Il progetto, a cui seguiranno in futuro altre prime visioni, è ideato e organizzato dalla Fondazione Stensen con il contributo della casa di distribuzione Cinema Srl, che ha concesso i diritti di proiezione del film, e la collaborazione di FST - Lanterne Magiche, fondazione della Regione impegnata in percorsi di alfabetizzazione negli istituti di pena. Radio Carcere: 11.715 persone detenute in sciopero della fame del l’amnistia Ristretti Orizzonti, 3 novembre 2016 Ultima puntata di Radio Carcere, la trasmissione di Riccardo Arena su Radio Radicale: 11.715 persone detenute in sciopero della fame il 5 e il 6 novembre per la Marcia "Amnistia & Giustizia". Le adesioni di tante Camere Penali e del coordinamento Cgil della polizia penitenziaria del Lazio. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/490613 Migranti. Italia sotto accusa: pestaggi negli hotspot ed espulsioni illegali di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 novembre 2016 In un rapporto diffuso ieri mattina, Amnesty International ha denunciato come le pressioni dell’Unione europea affinché l’Italia usi la "mano dura" nei confronti dei rifugiati e dei migranti abbiano dato luogo a espulsioni illegali e a maltrattamenti che, in alcuni casi, possono equivalere a vere e proprie torture. Il rapporto, basato su quattro missioni di ricerca svolte durante il 2016 e su oltre 170 interviste a migranti e rifugiati, mostra come il cosiddetto "approccio hotspot" promosso dall’Unione europea per identificare migranti e rifugiati al momento dell’arrivo non solo abbia compromesso il loro diritto a chiedere asilo ma abbia anche alimentato agghiaccianti episodi di violenza. L’approccio hotspot, introdotto nel 2015 su raccomandazione della Commissione europea, prevede che l’Italia prenda le impronte digitali a tutti i nuovi arrivati. Sotto le pressioni dei governi e delle istituzioni dell’Unione europea, l’Italia ha adottato misure coercitive per prendere le impronte digitali, soprattutto nei confronti di chi volendo chiedere asilo in altri paesi - magari perché lì ha già legami familiari - cerca di non prendere le impronte digitali dalle autorità italiane, per non rischiare di essere rimandato in Italia ai sensi del cosiddetto sistema di Dublino. Amnesty International ha ricevuto denunce concordanti di arresti arbitrari, intimidazioni e uso eccessivo della forza fisica per costringere uomini, donne e anche bambini appena arrivati a farsi prendere le impronte digitali. Su 24 testimonianze di maltrattamenti raccolte da Amnesty International, in 16 si parla di pestaggi. Una donna di 25 anni proveniente dall’Eritrea ha riferito che un agente di polizia l’ha ripetutamente schiaffeggiata sul volto fino a quando non ha accettato di farsi prendere le impronte digitali. In alcuni casi, migranti e rifugiati hanno denunciato di essere stati colpiti con bastoni elettrici. Questa è la testimonianza di un ragazzo di 16 anni originario della regione sudanese del Darfur: "Mi hanno dato scosse con il manganello elettrico, diverse volte sulla gamba sinistra, poi sulla gamba destra, sul torace e sulla pancia. Ero troppo debole, non riuscivo a fare resistenza e a un certo punto mi hanno preso entrambe le mani e le hanno messe nella macchina [per registrare le impronte digitali]". Un altro 16enne e un uomo di 27 anni hanno riferito di aver subito umiliazioni sessuali e dolore agli organi genitali. L’uomo ha raccontato ad Amnesty International che a Catania gli agenti di polizia l’hanno picchiato e sottoposto a scariche elettriche, poi lo hanno fatto spogliare e lo hanno colpito con una pinza dotata di tre estremità: "Ero su una sedia di alluminio, con un’apertura sulla seduta. Mi hanno bloccato spalle e gambe, poi mi hanno preso i testicoli con la pinza e hanno tirato per due volte. Non riesco a dire quanto è stato doloroso". Sebbene nella maggior parte dei casi il comportamento degli agenti di polizia rimanga professionale e la vasta maggioranza delle impronte digitali sia presa senza incidenti, le conclusioni del rapporto di Amnesty International sollevano gravi preoccupazioni e mettono in luce la necessità di un’indagine indipendente sulle prassi attualmente utilizzate. Queste prassi prevedono che i nuovi arrivati in Italia siano esaminati al fine di separare i richiedenti asilo da coloro che sono considerati migranti irregolari. Ciò significa che persone spesso esauste e traumatizzate dal viaggio e senza accesso a informazioni adeguate o a consigli sulle procedure d’asilo, devono rispondere a domande che possono avere profonde implicazioni per il loro futuro. Sulla base di interviste estremamente brevi, agenti di polizia che non hanno ricevuto una formazione adeguata sono chiamati a prendere a tutti gli effetti una decisione sui bisogni di protezione delle persone che hanno di fronte. In base alle nuove procedure, anziché limitarsi a domandare se intendono chiedere asilo, gli agenti devono chiedere ai nuovi arrivati di spiegare perché sono arrivati in Italia. Poiché lo status di rifugiato non è determinato dal motivo per cui una persona è arrivata in un paese ma dalla situazione cui andrebbe incontro in caso di rimpatrio, questo approccio è fondamentalmente difettoso. Coloro che sono giudicati privi di un motivo per chiedere asilo ricevono un ordine di espulsione, incluso il rimpatrio forzato nel paese di origine, che può esporli a gravi violazioni dei diritti umani. Ed ecco il terzo grave elemento di denuncia contenuto nel rapporto di Amnesty International: le espulsioni. Sempre più incalzata dall’Unione europea, l’Italia sta cercando di aumentare il numero dei migranti rinviati nei paesi di origine, anche negoziando accordi di riammissione con paesi le cui autorità hanno commesso terribili atrocità. Uno di questi accordi è stato firmato nell’agosto 2016 tra le forze di polizia di Italia e Sudan. Consente procedure d’identificazione sommarie che, in determinate circostanze, possono essere espletate persino in Sudan a espulsione avvenuta. Anche quando l’identificazione avviene in Italia, si tratta di una procedura talmente superficiale e così fortemente delegata alle autorità sudanesi da non poter garantire un esame individuale per determinare se, nel caso specifico, una persona sarà o meno a rischio di subire violazioni dei diritti umani al suo rientro in Sudan. Vi sono già stati casi di espulsioni illegali. Il 24 agosto 2016, 40 cittadini sudanesi - tra cui persone provenienti dal Darfur - sono stati rinviati in aereo dall’Italia in Sudan. In sintesi, conclude Amnesty International, l’approccio hotspot, elaborato a Bruxelles e applicato in Italia, ha aumentato anziché diminuire la pressione sugli stati di frontiera e sta causando agghiaccianti violazioni dei diritti di persone disperatamente vulnerabili. Violazioni per le quali le autorità italiane portano una responsabilità diretta e i leader europei una responsabilità politica. Amnesty International ha ripetutamente chiesto chiarimenti al ministro dell’Interno Angelino Alfano, proponendogli un confronto sulle preoccupazioni contenute in questo rapporto, ma finora non ha mai ricevuto risposta. Migranti. Abusi e violenze, l’inferno degli hotspot italiani di Matteo de Bellis* Il Manifesto, 3 novembre 2016 La denuncia di Amnesty International. Salih aveva solo 10 anni quando le milizie hanno attaccato il suo villaggio nella regione del Nord Darfur, in Sudan. "Era sera. Sparavano e davano fuoco alle nostre capanne. I miei genitori sono stati uccisi ma io sono riuscito a scappare". È arrivato da solo fino a Khartoum, dove è rimasto fino all’inizio di quest’anno, quando suo zio che vive nel Regno Unito gli ha mandato dei soldi per raggiungerlo. Ha impiegato più di un mese per viaggiare attraverso il deserto in Libia e poi verso nord fino alla costa, dove ha pagato il viaggio attraverso il Mediterraneo su una barca sovraffollata. "La Croce rossa ci ha salvati e ci ha portati a terra" mi ha detto Salih, che ora ha 16 anni ed è ancora un bambino, quando l’ho incontrato a Ventimiglia, a luglio. Ma invece di essere aiutato a ricongiungersi con lo zio, si è ritrovato intrappolato ai confini dell’Europa. E invece di trovare sicurezza sulle coste europee, ha detto di essere stato picchiato dalla polizia italiana, appena poche ore dopo l’arrivo. Dopo il suo salvataggio, Salih e altri nuovi arrivati sono stati portati in autobus al così detto "hotspot" di Taranto. L’approccio hotspot, introdotto nel 2015 su raccomandazione della Commissione europea, è un sistema creato per identificare tutti i nuovi arrivati, valutare velocemente i loro bisogni di protezione e incanalarli nelle procedure d’asilo oppure rinviarli nel loro paese d’origine. Il punto cruciale è che questo prevede che l’Italia identifichi e rilevi le impronte digitali di tutti i nuovi arrivati. Ma persone come Salih, che vogliono chiedere asilo in altri paesi europei dove sono i loro parenti, hanno un forte interesse a evitare che gli vengano prese le impronte digitali dalle autorità italiane. Farlo significherebbe poter essere rimandati in Italia - paese di primo ingresso - se tentassero di continuare il viaggio nell’Unione europea. "Non volevamo che ci prendessero le impronte digitali ma quattro poliziotti ci hanno trascinati fuori dall’autobus e fino all’ufficio, dove hanno cominciato a picchiarmi" mi ha detto Salih. "Mi hanno colpito almeno quattro volte con un manganello e poi ho sentito una scossa elettrica sulla schiena. Sono collassato e ho iniziato a vomitare. Dopo 10 minuti sul pavimento ho accettato di dare le impronte digitali". L’esperienza di Salih non è unica. Quest’estate ho incontrato due dozzine di rifugiati e migranti - uomini, donne e bambini - che mi hanno detto di essere stati picchiati, colpiti con le scosse dei manganelli elettrici o minacciati dalla polizia dopo aver rifiutato di farsi prendere le impronte digitali. Un ragazzo di 16 anni e un uomo di 27 hanno descritto come la polizia li abbia costretti a spogliarsi e abbia inflitto loro dolore ai genitali. Una donna di 25 anni mi ha detto che è stata trattenuta a Lampedusa per mesi e poi schiaffeggiata ripetutamente per spingerla a dare le impronte digitali. Questi abusi, che in alcuni casi costituiscono tortura, sono un aberrante effetto collaterale della strategia di "condivisione dell’irresponsabilità" dell’Europa. Mentre la condotta della maggior parte della polizia rimane professionale e la grande maggioranza dei rilevamenti delle impronte digitali avviene senza incidenti, i risultati dettagliati nel nuovo rapporto di Amnesty International pubblicato oggi fanno sorgere gravi preoccupazioni circa il comportamento di alcuni agenti. Il rapporto mette in luce anche le carenze fondamentali delle politiche migratorie dell’Europa. Infatti, le impronte digitali dell’Europa sono ben visibili sulla scena del delitto. Nessuno ha riassunto questo aspetto più chiaramente di un interprete che lavorava in un hotspot, citato da un uomo di 22 anni che ho incontrato: "Mi spiegò che dovevamo dare le impronte digitali altrimenti l’Italia avrebbe ricevuto una multa. Mi dissero che c’erano altri agenti europei che controllavano se alle persone erano state rilevate le impronte digitali. E che quelli che si rifiutavano sarebbero stati picchiati dalla polizia italiana". L’arrivo di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, in fuga da conflitti, violazioni dei diritti umani e povertà, grava fortemente sull’Italia, che guida gli sforzi per salvare le vite in mare. In assenza di canali sicuri e legali di accesso in Europa, rifugiati e migranti hanno viaggiato in maniera irregolare e con un alto rischio per le loro vite. Nel tentativo di ridurre la pressione sull’Italia e sugli altri stati in prima linea, l’approccio hotspot era stato abbinato a un programma di ricollocazione dei richiedenti asilo in altri paesi dell’Unione europea. Tuttavia, la componente di solidarietà dell’approccio hotspot si è dimostrata ampiamente illusoria: a oggi, 1.200 persone sono state ricollocate dall’Italia, a fronte delle 40.000 che erano state promesse, mentre quest’anno oltre 150.000 persone hanno raggiunto l’Italia via mare. Sotto la pressione dell’Unione europea, l’Italia ha cercato di aumentare il numero di migranti rinviati nei loro paesi d’origine. Questo ha significato anche la negoziazione di accordi di riammissione con governi che hanno commesso terribili atrocità. In applicazione di uno di questi accordi, lo scorso agosto, 40 persone, identificate come sudanesi, sono state messe su un aereo dall’Italia verso Khartoum. Amnesty International ha parlato con due uomini del Darfur che erano su quel volo e hanno raccontato che le forze di sicurezza li hanno aspettati al loro arrivo a Khartoum per interrogarli. L’approccio hotspot, progettato a Bruxelles e messo in atto in Italia, ha causato gravi violazioni dei diritti di persone disperate e vulnerabili. Le autorità italiane hanno la responsabilità diretta, i leader europei quella politica. Nel frattempo, orfani come Salih sono lasciati a cavarsela da soli. Dopo quattro giorni nell’hotspot di Taranto, Salih è stato portato alla stazione ferroviaria e lasciato lì. "Nessuno mi ha chiesto se volevo chiedere asilo o nient’altro" mi ha detto. "Voglio andare via dall’Italia. Voglio stare con mio zio e la sua famiglia, in Inghilterra". *ricercatore di Amnesty International Hawaii (Usa): la "terapia della vergogna", detenuti costretti a vedere film sugli stupri di Arianna Finos La Repubblica, 3 novembre 2016 Il direttore di un carcere delle Hawaii ha creato una terapia per uomini e donne detenuti facendo vedere loro film con scene di stupro e con sedute di "analisi" a base di insulti. Ora è in causa con una assistente sociale del carcere che lo accusa di aver umiliato e discriminato le donne. È stata battezzata la "terapia della vergogna" e sembra uscita dritta dal finale di Arancia meccanica in cui Malcolm McDowell era costretto a vedere immagini devastanti legati alla sua amata musica classica. Ha fatto il giro del mondo l’idea del direttore di un carcere delle Hawaii chiamato a rispondere di un programma di sua ideazione destinato ai detenuti: mostrare film sulla violenza sessuale per "curare" i carcerati dalla violenza. Si chiama Naal Wagatsuma, il direttore del Kauai Community Correctional Center Warden che è stato chiamato a testimoniare in un processo intentato da una ex assistente sociale dell’istituto penitenziario che lo accusa di aver umiliato e discriminato le detenute. Già a metà degli anni 1990 erano girate voci sul fatto che il direttore avrebbe mostrato film pornografici, ma in realtà erano pellicole che, secondo lui, farebbero avrebbero avuto fini terapeutici. Film come In cerca di Mr. Goodbar, il dramma americano del ‘77 firmato da Richard Brooks con Richard Gere e Diane Keaton, liberamente ispirato al romanzo di Judith Rossner in cui la protagonista femminile alla fine viene violentata e uccisa. Film e libro attingevano alla vera storia dell’insegnante newyorkese Roseann Quinn, assassinata nel 1973 a 29 anni da un suo amante occasionale. Il vice Procuratore Generale Bosko Petricevic ha detto ai giurati i film sono stati mostrati per scoraggiare detenuti maschi dal commettere stupri e di insegnare alle detenute come ridurre i rischi di diventare vittime. Ma l’ex assistente sociale Carolyn Ritchie testimonia che le detenute sono lamentati con lei del fatto che il direttore le avrebbe costrette a guardare i video di stupri e poi raccontare il loro passato sessuale. "La terapia della vergogna significa parlare di cose che appartengono al profondo di una persona, quindi affrontando anche il proprio passato", ha spiegato il funzionario. E quindi gli insulti durante le sessioni, "puttana" o "batuna" (termine dello slang hawaiano riservato alle donne che fanno sesso in cambio di droga), sarebbero stati usati in contesti appropriati e "a fin di bene". Il direttore del carcere ha rivelato di aver creato il programma "della vergogna" senza avere alcuna esperienza o background in psicologia, ma attingendo alle proprie esperienze di vita. "Prima di trovare la mia strada ho avuto una vita davvero difficile," ha dichiarato l’uomo, che si è definito "un disadattato sociale". Il funzionario è anche accusato anche di aver negato le stesse possibilità di lavoro o permessi di uscita a uomini e donne. Tre Stati africani "dichiarano guerra" alla Corte penale internazionale Panorama, 3 novembre 2016 Burundi, Sudafrica e Gambia hanno lasciato l’Icc, la Corte Penale Internazionale che interviene sui casi di violazioni dei diritti umani, chinini di guerra, genocidi. I tre paesi imputano alla Corte di essere animata da "pregiudizio contro gli africani e i loro presidenti, ignorando i gravi atti di leader non di colore". Il presidente del Burundi è accusato di violazione dei diritti umani; quello del Gambia è al potere dal 1994 tra sparizioni di oppositori politici, repressione della libertà d’espressione ed ergastolo per gli omosessuali. A gennaio l’Unione Africana (AU) aveva discusso il ritiro degli stati dalla Corte su proposta del presidente del Kenya, accusato di crimini contro l’umanità. A stupire è il Sudafrica, nel continente l’unico paese democratico, politicamente ed economicamente stabile: ancora più scioccante se si pensa che fu Nelson Mandela, una volta presidente della Nazione Arcobaleno, ad avere un ruolo attivo nella stesura del Trattato di Roma dal quale prese vita la Corte con sede all’Aia. Che cosa hanno scritto - Per la rivista di geopolitica Limes l’Unione Africana "ha dichiarato guerra all’Icc". La Bbc si chiede se sia in atto un "esodo africano dall’Icc" e la risposta è che il quadro è più complesso, con alcuni stati avversi al tribunale permanente e altri, come il Botswana o il Senegal, che hanno confermato il loro supporto. Il New York Times smonta le motivazioni dei tre paesi africani e ricorda che "la Corte sta indagando sui crimini di guerra in Georgia e sui soldati inglesi accusati di torture in Iraq, e ha inviato un team in Israele per i crimini a Gaza"; e fa poi notare come la maggior parte dei giudici dell’Icc non siano bianchi. Il sudafricano Daily Maverick afferma che il paese fa un brusco passo verso l’isolamento dalla comunità internazionale. Che cosa succederà - Queste decisioni sono un segnale grave. È vero che al momento l’attività della Corte ha procedimenti quasi esclusivamente relativi all’Africa. Ma nella maggior parte dei casi il suo intervento è stato richiesto dallo stesso Stato interessato, come in Uganda, o Costa d’Avorio. Per Libia e Darfur c’è stata invece una richiesta da parte del consiglio di Sicurezza Onu. Il processo contro il presidente keniano e i mandati di arresto del presidente sudanese Al Bashir, per i crimini commessi in Darfur, sono alla base del malcontento contro l’Aia. In particolare preoccupa la posizione del Sudafrica.