I giovani avvocati: "ddl riforma processo penale da rifare, troppi i rischi per i cittadini" di Orlando Sacchelli Il Giornale, 30 novembre 2016 Intervista a Michele Vaira, presidente dell’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati). Diecimila iscritti, 120 sezioni territoriali, si occupa di formazione professionale e da sempre pungola parlamento e governo sui temi più caldi della giustizia. A febbraio l’Aiga sarà negli Usa per un meeting internazionale sulla scienza nei processi. Nei giorni scorsi a Milano si è svolto il consiglio direttivo nazionale dell’Aiga, l’associazione che raccoglie i giovani avvocati. Numerosi i temi discussi dai 350 professionisti che hanno partecipato ai lavori: dalla formazione alla riforma della giustizia, dalle pensioni al problema annoso delle carceri. Ne abbiamo parlato con il presidente Michele Vaira. Presidente, ci può spiegare con poche parole cos’è l’Aiga e che importanza ha oggi, in Italia, un’associazione come la vostra? L’Aiga è una delle associazioni riconosciute dal Consiglio nazionale forense (Cnf) quali "maggiormente rappresentative" dell’avvocatura. Attualmente, è di gran lunga la più rappresentativa, essendo diffusa capillarmente su tutto il territorio nazionale, con circa 120 sezioni territoriali istituite presso le sedi dei vari tribunali italiani (da Ragusa a Trento), e conta circa 10.000 iscritti tra giovani avvocati e praticanti, con un limite di età di 45 anni. Dalla sua fondazione (1966) si è sempre occupata di formazione professionale dei giovani professionisti, anche specialistica; negli ultimi 20 anni, l’associazione si è anche inserita nel mondo della politica forense, tutelando la giovane avvocatura anche sul piano dell’interlocuzione con il parlamento e il governo. Buona parte dell’attuale legge sull’ordinamento professionale trae origine da storiche battaglie di avanguardia dell’Aiga (rotazione delle cariche, tutela delle minoranze e della parità di genere, obbligo di formazione continua). Numerosi giovani avvocati si sono riuniti a Milano per il consiglio direttivo nazionale dell’Aiga. Di cosa si è discusso? Al Consiglio direttivo nazionale Aiga di Milano abbiamo affrontato la questione del ricongiungimento dei contributi versati dai giovani avvocati alla Gestione separata Inps, nel tentativo di impedire la duplicazione nel versamento dei contributi previdenziali, prevedendo quale unico destinatario Cassa Forense; abbiamo anche parlato della proposta di detrazione fiscale delle spese legali, nonché della corretta attuazione dell’art. 492 bis c.p.c. Abbiamo commentato l’audizione in Commissione Giustizia Senato sul ddl S 2473 sull’Elezione degli Ordini, a seguito della quale l’Aiga ha visto accogliere le proprie proposte in materia di equilibrio di genere e tutela delle minoranza. Abbiamo lanciato la proposta di innalzare la soglia anagrafica di esenzione dall’obbligo di formazione continua agli avvocati con oltre 40 anni di anzianità. Oltre a organizzare convegni e promuovere iniziative di formazione, sia a livello locale che nazionale, l’Aiga tiene anche i rapporti con il mondo della Giustizia, sia a livello politico che nei tribunali. C’è qualche iniziativa interessante che bolle in pentola? Da tempo di modificare radicalmente la disciplina transitoria relativa all’accesso all’Albo degli avvocati abilitati al Patrocinio innanzi alle Magistrature Superiori. Abbiamo anche proposto la regolamentazione del rapporto del c.d. "collaboratore di studio" o "avvocato mono-committente", argomento che fino a qualche anno fa era considerato un vero e proprio tabù all’interno dell’avvocatura ma che è diventata una delle battaglie della nostra associazione, ottenendo l’importante sostegno del Cnf. In collaborazione con l’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia organizzeremo una serie di incontri in ogni Corte di Appello per analizzare le prospettive di effettiva tutela dei minori alla luce delle modifiche contenute nel DDL a.c. 2953/ a.s. 2284, che prevedono la soppressione dei Tribunali per i Minorenni, ed a suggerire eventuali proposte di intervento sullo stesso disegno di legge. Stiamo lavorando anche all’esame del Ddl 2233 A.S - c.d. Jobs Act lavoratori autonomi - che pare contenere disposizioni di natura fiscale vantaggiose per i liberi professionisti e per gli avvocati, e concreto sarà l’impegno della nostra associazione volto a sostenere quelle disposizioni che prevedono l’attribuzione di nuove competenze lavorative ai Professionisti e agli avvocati al fine, in particolare, di eliminare le disuguaglianze intergenerazionali ed intra-generazionali e gli squilibri di genere che oggi esistono nel mondo professionale. Di recente avete partecipato alla "Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà", promossa dal Partito Radicale, per porre l’attenzione dei cittadini sui diritti delle persone detenute, sui decessi in carcere e su problemi di questo tipo. Voltaire diceva che "la civiltà di un popolo si misura dalle sue carceri". Pensa che il nostro sia un popolo civile? Se appunto valutiamo la civiltà del nostro popolo sulla base delle condizioni delle carceri italiane, dovrei rispondere: "assolutamente no". Numerosi sono i decessi che ancora oggi avvengono in carcere ed altrettanto numerosi sono i detenuti nelle carceri italiane in attesa di giudizio per troppi anni, in condizioni spesso inumane, in strutture fatiscenti dove lo Stato e i diritti costituzionali alla vita, alla salute, alla libertà di culto, cessano di esistere. Ecco perché rispetto a questo tema l’Aiga è particolarmente sensibile, e si impegna quotidianamente in modo concreto. La partecipazione alla marcia ha certamente un forte valore simbolico; dal punto di vista pratico ha sensibilizzato la cittadinanza, spesso travolta da un’ondata di becero populismo giudiziario, e che riesce ad apprezzare la cultura del garantismo e del diritto solo quando tocca un proprio famigliare. Il prossimo febbraio lei parteciperà a un meeting internazionale, a New Orleans (Stati Uniti), organizzato dalla American Academy of Forensis Sciences. Una bella vetrina per lei ma anche per l’Aiga. Ci può anticipare quale tema affronterà? Una vetrina, certo, ma anche un banco di prova serissimo, su un tema su cui l’Italia sconta distanze siderali rispetto agli Stati Uniti. La scienza oggi è fondamentale in moltissimi processi, anche di alto profilo, ma i nostri strumenti processuali sono del tutto inadeguati, così come la preparazione specifica dei protagonisti del processo. Il Meeting dell’Aafs riunisce i più grandi esperti mondiali in materia, e l’Aiga consentirà a un gruppo di giovani professionisti ad accrescere le proprie competenze in materia. Quest’anno parleremo degli effetti positivi del lavoro in carcere e del trattamento psicologico rispetto alla recidiva dei detenuti. Parleremo anche della Quinta Mafia Italiana (garganica) e del caso di Yara Gambirasio. Avvocato, mi tolga una curiosità: da anni si dice che in Italia ci sono troppi avvocati. Ma è proprio così? Questo danneggia (potrebbe danneggiare) gli avvocati e i cittadini? Il dato numerico è allarmante, certo. Ma è anche vero che questo consente, specie nel penale, di ottenere difese dignitose a costi contenuti, grazie al sacrificio di molti giovani difensori di ufficio. I veri problemi della Giustizia derivano da chi la amministra: la selezione (oggi meramente correntizia) delle posizioni direttive, l’organizzazione degli Uffici, la produttività dei Magistrati. Anche la copertura degli organici del personale di cancelleria è un problema serissimo, cui sta dando risposta il ministro della Giustizia con un ambizioso piano di assunzioni. L’edilizia giudiziaria, infine, è altro elemento di sicura inefficienza, così come la separazione delle carriere dei magistrati. Ma meriterebbero una monografia, non una risposta. L’unico che in Italia pensa che la quantità di pioggia deriva dal numero di ombrelli, purtroppo, è il rappresentante della magistratura associata. L’Ordine degli Avvocati di Milano destina ogni anno un ingente somma per il funzionamento del Tribunale. Normale collaborazione o c’è qualcosa che si è inceppato nel sistema? Anomalia del sistema e vanto dell’avvocatura al contempo. Cosa chiedono i giovani avvocati al governo? Una su tutte: rinunciare al ricorso sull’annullamento del regolamento specializzazioni ed emanazione del nuovo regolamento. La strada per la giovane avvocatura è la specializzazione, il superamento dello studio "monocratico", una fiscalità di vantaggio per le società. E poi: ripensamento dell’accesso alla professione, con criteri rigidamente meritocratici. Ingresso "laterale" dell’avvocatura all’esercizio della funzione giurisdizionale, superando (o rivoluzionando) il modello obsoleto della Magistratura Onoraria. Un’ultima cosa: se domani il ministro Orlando le chiedesse di indicarle il problema più grave della giustizia italiana, quello da affrontare subito, con urgenza, lei cosa gli risponderebbe? Per l’attualità, e per le gravi ricadute sui diritti fondamentali dei cittadini, scelgo il DDL di riforma del processo penale. Va ripensato integralmente. Nella formulazione attuale vi sono inaccettabili compressioni di fondamentali diritti difensivi. Uno su tutti: la partecipazione dell’imputato al processo. Nei sistemi accusatori (cui noi ci ispiriamo) la presenza è obbligatoria. Da noi, in certe circostanze, addirittura vietata. In un Paese democratico (e il rapporto tra libertà e autorità in una democrazia si misura proprio osservando il processo penale) questo è semplicemente inaccettabile. Braccialetti elettronici, ecco il nuovo bando del Viminale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 novembre 2016 "Gara tra una o due settimane". Oggi il convegno con penalisti e radicali. È questione di giorni e il ministero dell’Interno dovrebbe pubblicare il bando per assicurare "un numero decisamente più elevato di braccialetti elettronici per l’esecuzione delle misure fuori dal carcere". Si calcola che già oggi almeno 700 detenuti potrebbero usufruire degli arresti domiciliari. Sul tema, l’Unione delle Camere penali ha indetto per oggi la "Giornata dei braccialetti" che si terrà presso il nuovo palazzo della giustizia di Firenze. Le prime notizie risalgono alla scorsa primavera. All’epoca in cui il ministero dell’Interno fece sapere che la questione braccialetti elettronici sarebbe stata risolta: esauriti i 2000 dispositivi previsti dalla fornitura Telecom, si sarebbe provveduto a indire una nuova gara. Dal Viminale fanno sapere che il momento è arrivato: ottenuto il via libera dal ministero dell’Economia, il nuovo bando dovrebbe essere pubblicato nel giro di pochi giorni. Una settimana o due. Si tratterà di una gara europea, con cui il governo si assicurerà "un numero decisamente più elevato di braccialetti elettronici per l’esecuzione delle misure fuori dal carcere". Non viene confermata l’indicazione circolata ad aprile, secondo cui stavolta i dispositivi acquistati sarebbero cinque volte quelli del precedente appalto, ben diecimila dunque. Ma è plausibile che si tratti di quell’ordine di numeri. "In ogni caso predisporremo il bando sulla base del fabbisogno indicato dal ministero della Giustizia", si limitano a spiegare dal dicastero guidato da Alfano. Il riserbo è necessario, si aggiunge, perché "la quantità di dispositivi da acquistare è un’informazione decisiva, nella gara: non sarebbe corretto verso le compagnie aderenti quantificare la cifra in anticipo". Certo si tratterà di una fornitura di diverse migliaia di apparecchi, il che conferma l’idea di una svolta clamorosa da parte del ministero della Giustizia e del Dap riguardo alle misure cautelari. Certo, bisogna tener conto che la compagnia aggiudicatrice sarà tenuta a fornire le apparecchiature in un arco temporale di due anni, cioè per il biennio 2017-2018. In ogni caso si profila una svolta, per la custodia cautelare, che verrebbe eseguita a questo punto ai domiciliari anziché negli istituti di pena per una percentuale assai più significativa che in passato. Dal Viminale si apprende anche che l’orientamento dell’amministrazione è di "stabilizzare la procedura: un bando per i dispositivi verrà aperto a intervalli biennali, in modo che il Dap non si trovi mai privo di dispositivi com’è accaduto in quest’ultima fase". In effetti l’appalto precedente, assegnato a Telecom, prevedeva la fornitura di duemila braccialetti in un arco temporale assai più esteso, dal 2012 al 2018. La "scorta" è stata esaurita con circa due anni di anticipo. I casi segnalati dai Radicali. "Nel carcere di Catania e in quello di Caltagirone molti detenuti potrebbero stare fuori con provvedimento del magistrato già esecutivo ma mancano i braccialetti elettronici", ricorda l’esponente dei radicali Rita Bernardini. Lo conferma anche l’avvocato Giuseppe Lipera, difensore dei fratelli Antonino, Alessandro e Marco Pepi, rispettivamente di 42, 38 e 26 anni, e del loro padre, Gaetano, di 70, detenuti per l’omicidio di Giuseppe Dezio, 64 anni, ucciso a coltellate nelle campagne del Vittoriese, in Sicilia. Gaetano Pepi si è autoaccusato del delitto che avrebbe commesso, sostiene il suo legale, per difendere suo figlio Alessandro. Dal 24 ottobre scorso dovevano uscire di cella e posti agli arresti domiciliari, ma restano ancora in prigione perché appunto non ci sono i braccialetti elettronici che il gip ha indicato debbano indossare. Di casi se ne potrebbero elencare tanti. In base alle ordinanze già emesse, si calcola che già oggi almeno 700 detenuti potrebbero usufruire degli arresti domiciliari se solo ci fossero i braccialetti elettronici. L’urgenza era ben nota al ministro dell’Interno, che aveva però bisogno del definitivo via libera da parte del ministero dell’Economia. Nelle ultime ore la situazione si è definitivamente sbloccata: ora il Viminale sa di poter contare sulle risorse necessarie. Anche da questo punto di vista non ha senso indicare cifre. Si può solo ricordare che nella precedente occasione il costo per apparecchio era stato fissato in 12 euro giornalieri, per un totale di 521 milioni. Il braccialetto elettronico, che si applica alla caviglia, è dotato di una centralina, che ha la forma di una radiosveglia e che va installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la condanna. Un device che riceve il segnale dal braccialetto e lancia l’allarme per eventuali tentativi di manomissione e in caso di allontanamento del detenuto. Sul tema, l’Unione delle Camere penali ha indetto per oggi la "Giornata dei braccialetti" che si terrà presso il nuovo palazzo della giustizia di Firenze. Ci saranno gli interventi di Rita Bernardini, del responsabile Osservatorio carcere dell’Ucpi, Riccardo Polidoro e del sostituto procuratore di Firenze Christine Von Borries. Probabile che si discuta delle notizie in arrivo dal Viminale e di come questa nuova disponibilità di apparecchiature possa incidere sull’esecuzione delle misure cautelari, aspetto decisivo anche per affrontare in modo efficace il dramma del sovraffollamento nelle carceri. Ue. Mancato recepimento di direttive comunitarie, Italia inadempiente per 73 volte di Claudia Morelli Italia Oggi, 30 novembre 2016 Immigrazione e rifiuti. Fisco e economia. Sono questi gli ambiti di governance dove l’Italia segna il passo rispetto al diritto della Unione europea. Sono settantatré le procedure di infrazione aperte dalla Commissione europea per violazione del diritto comunitario oppure per mancato recepimento delle direttive. Procedure tuttora pendenti o concluse con una sentenza di condanna. La contabilità delle infrazioni vede coinvolti soprattutto i ministeri dell’ambiente (14 procedure) e sviluppo economico (12 procedure), dell’economia (11 procedure), dell’interno (7 infrazioni). I dati, aggiornati al 30 settembre scorso, sono stati resi noti in parlamento dal sottosegretario alla presidenza del consiglio per le politiche e affari europei Sandro Gozi, con la relazione trimestrale. L’Italia negli ultimi anni ha recuperato l’ampio gap nel recepimento delle direttive che abitualmente contrassegnava i rapporti con la Unione; ma la lista delle direttive "non rispettate" o comunque non recepite è sempre significativa. Alcuni casi hanno tenuto banco per tanti mesi. È il caso, per esempio, della Xylella che ha colpito gli oliveti in Puglia e che è valsa all’Italia una messa in mora complementare (cioè reiterata) nel giugno scorso per violazione del diritto comunitario, in quanto non avrebbe agito con tempestività per fermare l’epidemia. Poi ci sono questioni molto controverse come quelle relative all’immigrazione, tema caldo che vede contrapposta l’Italia al Consiglio europeo. La lista delle direttive non rispettate è abbastanza lunga: per la Commissione Ue l’Italia non avrebbe recepito correttamente le direttive sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in Italia; con riguardo ai minori non accompagnati richiedenti asilo o al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, per le quali è messa in mora dal 2014. Qualche procedura di infrazione riguarda gli enti locali: il comune di Roma è in mora per l’affidamento del servizio pubblico di trasporto turistico e Bari per violazione della normativa in materia di appalti per la cittadella giudiziaria. Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l’imputato in galera di Rocco Vazzana Il Dubbio, 30 novembre 2016 Negli ultimi due anni il Csm ha censurato 113 magistrati. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le "sentenze di non doversi procedere" e 124 le "ordinanze di non luogo a procedere". L’illecito disciplinare riguarda "il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario". Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l’ammonimento, un semplice "richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato", seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: "perdita dell’anzianità" professionale, che non può essere superiore ai due anni; "incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semi-direttivo"; "sospensione dalle funzioni", che consiste nell’allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla "rimozione" dal servizio. C’è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d’ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell’autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all’occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d’anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d’ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d’ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda "provvedimenti privi di motivazione", come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per "illeciti conseguenti a reato". Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da "comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc..". Intercettazioni, l’allerta del ministero ai pm: "sicurezza da migliorare" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 30 novembre 2016 Circolare a tutte le Procure: significative criticità nei rapporti con i fornitori privati. Più attenzione ai rapporti con le società private che forniscono alle Procure gli apparati per le intercettazioni: perché "le acquisizioni in corso di ulteriore verifica" sullo "stato delle tecnologie e delle prassi applicative" hanno "evidenziato che l’attuale assetto del sistema registra il rischio concreto di significative dimensioni di criticità, con riferimento a plurimi profili infrastrutturali, organizzativi e metodologici", e impongono "la necessità di ulteriore, significativa implementazione dei livelli di sicurezza". In una circolare inviata in queste ore a tutte le Procure italiane, il ministero della Giustizia chiede ai pm di alzare la soglia di allerta sulla "sicurezza dei sistemi informativi delle intercettazioni", e addita un cambio di passo anche rispetto a quella che pur ritiene di rivendicare come "fase di approfondita analisi" di questi temi già "dal maggio 2015". Difficile al momento pesare quanto l’"opportunità di proporre un miglioramento dei livelli di sicurezza" sia accelerata da segnali d’allarme quali quelli emersi casualmente da un guasto a Trieste: l’intoppo che ha consentito alla locale Procura di accorgersi che sul pc locale di una dipendente di una società informatica privata con sede vicino a Malpensa, azienda fornitrice dei server e incaricata di una teleassistenza a distanza, permanessero i dati di migliaia di intercettazioni di una decina di Procure, dati che per legge devono stare sul server delle Procure e che invece presumibilmente erano finiti nel pc della società privata come conseguenza della possibilità tecnica di quel tipo di software di "scaricare" dati dal server giudiziario durante la manutenzione. La circolare di 7 pagine indica almeno sei direttrici, incentrate su "una diversa interazione coi fornitori". Alle Procure "si sottopone una prima bozza di contratto standard con i fornitori" privati di servizi informatici, per "il necessario e urgente adeguamento delle prestazioni" nei "requisiti minimi essenziali all’innalzamento dei livelli di sicurezza dei sistemi". Ai fornitori andrà inoltre chiesta "una dichiarazione di responsabilità", a "ulteriore rafforzamento delle specifiche contrattuali" e del "pieno e integrale rispetto delle prescrizioni del Garante della Privacy". Le Procure sono sollecitate a indicare il personale interno da formare come "amministratori dei sistemi informatici" in aggiunta ai 42 operatori che già frequentano un corso sulla sicurezza delle intercettazioni. Negli "interventi normativi in definizione" si prefigura poi "la previsione di obbligatorietà di trasmissione cifrata delle comunicazioni telematiche intercettate dal punto di loro estrazione dalla rete del gestore fino agli apparati riceventi". All’interno della "Direzione generale per i servizi informativi automatizzati" del ministero, guidata da Pasquale Liccardo, è istituito "un centro di competenza" per "dare supporto" alle Procure nelle soluzioni "alle criticità denunciate dalle unità periferiche". E il "tavolo tecnico" presso l’ufficio del capo di gabinetto Gianni Melillo (fra gli altri con il Garante della Privacy, la VII commissione del Csm, il pg della Cassazione, il procuratore nazionale antimafia, le forze di polizia) continuerà a valutare l’evolversi delle potenziali falle in un tipo di sicurezza, quella informatica, che "costituisce una condizione non statica ma mobile, chiamata a misurarsi con l’avanzamento delle tecnologie, il contesto criminale d’interesse dell’azione investigativa, il valore delle informazioni custodite, il mutamento dei fattori di rischio". Mafia capitale. L’avvocato Placanica: "il rischio è la giurisprudenza creativa" di Sara Menafra Il Messaggero, 30 novembre 2016 Intervista a Cesare Placanica, presidente della Camera penale di Roma. Appena eletto e avvocato nel processo Mafia capitale, lei, avvocato Placanica, ha avuto modo di guardare a questo processo da una doppia prospettiva. Qual è stato l’impatto sul tribunale di Roma? "Premetto che come presidente della Camera penale, guardo a questo processo come a tutti gli altri, rappresentiamo i colleghi allo stesso modo. Devo notare però che in questo caso si sono sviluppati, in vitro, problemi che ci preoccupano e che rischiano di avere impatto su tutta la nostra azione". Il più grave? "Per la prima volta si è provato a fare un uso massiccio della videoconferenza. All’inizio del dibattimento, il tribunale proponeva che tutti gli imputati partecipassero solo in video, senza essere presenti in aula. Può sembrare un dettaglio ma provate voi a vedere un tribunale decidere della vostra vita in video, potendo comunicare coi difensori per telefono. Alla fine, il numero di persone in videoconferenza è stato ridotto ma il tentativo è sintomo di una tendenza autoritaria". Addirittura? È sicuramente una giustizia che si pone come il buon padre che dice al figliolo "farò io quel che è giusto per te". Quanto è difficile gestire un maxi processo? "Molto se, come in questo caso, si fissa un calendario di 4 udienze settimanali. Un fatto positivo dal punto di vista dei detenuti ma un problema per gli avvocati che non riescono ad essere sempre presenti. La corte è stata esentata da ogni altra udienza, i pm si dividono il lavoro in tre, e qui a ben vedere si apre un’altra questione più generale. Solo alla fine vedremo se le accuse in campo erano davvero tanto pesanti, ma quello che possiamo dire fin d’ora è che nel frattempo sono state distolte energie da un tribunale, quello di Roma, che ha 50mila pendenze in corte di appello e dove processi per colpe mediche, truffe o droga aspettano anche tre anni tra la fine delle indagini e l’inizio del dibattimento. Una sorta di amnistia strisciante, in cui i processi meno importanti languono fino alla prescrizione, senza i benefici che una vera amnistia comporterebbe". Quali effetti vanno al di là del caso Roma? "Un elemento di riflessione, precursore di una tendenza più generale, è relativo a quanto il rapporto e l’attenzione dei media possano accrescere il valore di quel che accade all’interno del processo. E, più in generale, temo che Mafia capitale rischi di accentuare la tendenza a costruire una giurisprudenza creativa di nuove figure di reato. Invece di verificare se un fatto storico aderisce ad un dato reato, assistiamo al tentativo di adattare una figura, quella dell’associazione mafiosa ad altri fatti. Una operazione pericolosa che sta prendendo piede nella giurisprudenza italiana ed europea. Visto il consenso sociale che l’accusa, anche grazie ai media, ha suscitato il nostro problema sarà chiedere atto di coraggio a tribunale". Intervista a Ilaria Cucchi: "di indifferenza si può morire" di Giovanni Zucconi orticaweb.it, 30 novembre 2016 La sorella dello sventurato Stefano ci racconta l’odissea giudiziaria ed umana per ottenere la verità. "Io sono Ilaria Cucchi. Io non sono nessuno. Sono una normale cittadina come ognuno di voi. Qualcuno ha sentito parlare di me per via di mio fratello Stefano. È lui quello famoso. In realtà neanche Stefano Cucchi era nessuno, ed è diventato famoso, a 31 anni, per il modo in cui è morto, e per tutto quello che è successo dopo la sua morte. Mio fratello è diventato, purtroppo, un simbolo di quella che noi definiamo "normale ingiustizia". Oggi voglio raccontare, ancora una volta, la storia di Stefano Cucchi, perché ogni occasione è preziosa per invitare tutti, ma proprio tutti, a riflettere." La dolorosa vicenda di Stefano Cucchi, è di quelle destinate a non chiudersi mai. È di quelle dove la Giustizia, per vari motivi, è fisiologicamente impossibile da raggiungere nella sua forma più completa. Per questo continuerà ad alimentare, ancora per molto tempo, delle battaglie civili che bisognerà continuare a sostenere per evitare che la rassegnazione prenda il posto dell’indignazione. Per chi non ricorda il caso, Stefano Cucchi morì il 22 ottobre 2009, durante una custodia cautelare, decisa dopo il suo arresto e la perquisizione che gli trovò addosso 21 grammi di hashish e della cocaina. La sua morte ha dato origine ad un caso giudiziario che ha coinvolto agenti di Polizia penitenziaria, medici del carcere di Regina Coeli, e alcuni Carabinieri. Anche se nessuno di noi potrà mai dimenticare la terribile foto di Stefano Cucchi che giace, morto con gli occhi tumefatti, su un tavolo dell’obitorio, a mantenere viva la fiamma dell’indignazione ci pensa, da sempre, la sua battagliera sorella, Ilaria Cucchi, che è stata uno degli ospiti più attesi nell’interessantissima manifestazione organizzata la scorsa settimana a Cerveteri: "È la democrazia, bellezza". La signora Cucchi ha risposto, con pacatezza e determinazione, alle domande dei giornalisti. Oggi parleremo di democrazia. Ma Ilaria Cucchi ci crede ancora? "Io ci credo ancora, e non ho mai smesso di crederci. E forse oggi ci credo ancora più di prima. Quello che abbiamo vissuto io, la mia famiglia e il mio avvocato, è stata una vera e propria battaglia, ma non abbiamo mai smesso di crederci, anche se eravamo da soli contro tutto e tutti. Ma ora siamo arrivati al momento in cui quello che è successo a mio fratello è stato finalmente riconosciuto" Contro chi avete dovuto lottare? "Un istante dopo quelle morti, si innesca un meccanismo che io, da semplice cittadina, non avrei mai immaginato. Un meccanismo di difesa, di omertà, e di chiusura totale delle istituzioni nei confronti del cittadino, che rimane da solo, abbandonato, a doversi fare carico di quelli che dovrebbero essere i compiti di uno Stato. Noi abbiamo sostenuto da soli, con le nostre forze e con l’aiuto del nostro avvocato, una vera battaglia nelle aule di giustizia, dove giorno dopo giorno si svolgeva quello che di fatto era un vero e proprio processo al morto". Ritenete che la battaglia per suo fratello sia stata vinta? "Oggi possiamo dire che abbiamo vinto, perché finalmente si riconosce cosa è accaduto veramente a mio fratello. Abbiamo anche costretto la Giustizia a guardare dentro se stessa". Secondo lei noi stiamo facendo abbastanza? Abbiamo veramente raccontato tutto del caso di Stefano Cucchi? "Stiamo facendo abbastanza. Io sono convinta che c’è sempre un senso in tutto ciò che ci accade, anche se a volte è difficile trovarlo. Se vogliamo dare un senso al dolore patito da mio fratello e dalla mia famiglia, dobbiamo fare in modo che quella morte possa servire per evitarne altre, ma soprattutto per fare aprire gli occhi e le coscienze a tutte le persone". Secondo lei, come è stato possibile che sia accaduto tutto questo a suo fratello? "Nella nostra società siamo di fronte ad un enorme problema culturale. È quello che ha spinto tantissime persone, tutte quelle che in quei giorni sono entrate in contatto con lui, a non avere la capacità di guardare oltre il pregiudizio. Noi abbiamo contato ben 140 pubblici ufficiali. Io vorrei che su questo si riflettesse. È vero che Stefano era stato trovato in possesso di droghe. Lui aveva violato la legge, e per questo era stato arrestato. Ma tutto quello che è successo dopo l’arresto è completamente sbagliato. Nessuno è stato capace di vedere in quella persona, in quel detenuto, in quel tossico, in quel ragazzo di 31 anni, quello che mio fratello era: cioè un essere umano. Se solo una dei quelle 140 persone avesse fatto questo, quella catena di eventi che ha portato Stefano alla morte, si sarebbe immediatamente interrotta. Lui non sarebbe morto, e io non starei qui oggi a raccontarvi la sua storia. Invece non è stato così. Non solo nessuno ha compiuto un gesto di pietà verso quell’essere umano, ma non ha nemmeno compiuto il proprio dovere di pubblico ufficiale, che è quello di denunciare comportamenti illegali. Il problema culturale di cui ho accennato, si riassume nella testimonianza dell’agente che ha accompagnato Stefano all’ospedale. Ha raccontato che mio fratello gli aveva detto di essere stato picchiato, ma lui poi ha dichiarato al giudice: "Da quel momento in poi io ho deciso di prendere le distanze, perché ognuno deve stare al suo posto". Ma io mi chiedo: quale è il posto, il ruolo di un pubblico ufficiale che riceve una chiara denuncia da parte di un detenuto indubbiamente pestato? Evidentemente io e quell’agente la pensiamo in maniera diversa. Lui, e tutte le altre 140 persone, hanno pensato che il loro compito fosse quello di prendere le distanze. Per questo è stato possibile che mio fratello, a 31 anni, morisse in quella maniera". A chi l’accusa di essere contro le forze dell’ordine, lei risponde sempre che è una cittadina che ha profondo rispetto per le istituzioni e per le forze dell’ordine. "Chiaramente io non credo che tutti i poliziotti e che tutti i carabinieri siano dei picchiatori. I miei migliori amici sono poliziotti e carabinieri. Conosco benissimo il valore del lavoro enorme che compiono queste persone. Ma c’è una domanda che io non posso non fare: per quale motivo, queste persone in cui credo profondamente, nel momento in cui un loro collega sbaglia, e parliamo di sbagli che costano la vita alle persone, per quale motivo tutti i colleghi onesti e per bene, non fanno la cosa più logica da fare, cioè condannare certi comportamenti? Ricordiamolo sempre, la stragrande maggioranza delle forze dell’ordine sono persone per bene, che svolgono il loro lavoro nel nostro interesse. Per quale motivo invece scatta il meccanismo inverso? La prima cosa che scatta immediatamente è lo spirito di corpo". Un’ultima domanda. Cosa la spinge a continuare la sua battaglia? "Con la morte di mio fratello, ho capito che di indifferenza si può morire. Per questo io sento il dovere di fare tutto quello che posso, tutto quello che è in mio potere, per cambiare anche di poco tutto quello che può portare a quelle situazioni. Io posso dire che la Giustizia oggi è una Giustizia malata. Per questo non posso fermarmi. Come dicevo prima, io devo dare un senso alla morte di Stefano, che comunque è riuscito ad avere, tramite noi, una voce e due processi. Ma ci sono tanti altri che non hanno la possibilità di avere questa voce, perché normalmente a chi capitano queste vicende sono persone che solitamente definiamo "ultimi". E degli "ultimi" non importa mai niente a nessuno. Noi invece non ci dobbiamo mai dimenticare che ci sono molte altre persone, che si trovano nelle stesse situazioni in cui si è trovato mio fratello, a cui dobbiamo dare voce. Se vogliamo che la nostra sia una società civile, questo deve essere un impegno di tutti". Caso Eternit, il processo sarà smembrato. "È il fallimento della giustizia" di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 30 novembre 2016 Amianto. Modificata l’accusa per l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny: da omicidio volontario a colposo. Dichiarati prescritti un centinaio di casi. Un cupo silenzio ha accolto a Casale Monferrato la derubricazione dell’accusa da omicidio volontario a omicidio doloso per l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, decisa dalla Gup di Torino Federica Bompieri. La piccola cittadina dell’alessandrino vede sempre più lontano il giorno in cui potrà dire che ha ottenuto giustizia per gli oltre mille e duecento casi di mesotelioma pleurico che hanno fatto strage di una generazione. Una mattanza che non ha ancora raggiunto il picco massimo d’incidenza, previsto nei prossimi anni. I tricolori con la scritta nera "Eternit: giustizia!" punteggiano come una lebbra le vie della città. Per ogni bandiera, un morto. O due, o tre, alcune famiglie sono state decimate nel tempo. E altri drappi sia aggiungeranno nei prossimi anni. La gup ha dichiarato prescritti tre casi e, quanto agli altri, ne ha ordinato la trasmissione per competenza territoriale alle procure di Reggio Emilia, Vercelli e Napoli. A Torino restano soltanto due procedimenti, per i quali il processo si aprirà il 14 giugno. La decisione, che lascia attoniti i famigliari delle vittime, è stata salutata dalla difesa come "un grande vittoria". Astolfo Di Amato, avvocato difensore, assieme a Guido Alleva, del magnate svizzero ha commentato: "La costruzione dell’accusa è crollata, il processo per omicidio colposo sarà più sereno ma emergerà la totale innocenza del mio assistito. Schmidheiny - aggiunge il legale - era a capo di un grande gruppo industriale e non era presente nei singoli stabilimenti. A lui risultava che la soglia di polverosità era al di sotto dei limiti imposti dalle norme. E aveva dato l’input ai dirigenti di investire, e di continuare a investire, sul miglioramento sulle condizioni di sicurezza. Per lui non c’è né colpa né dolo". Non di questo avviso Bruno Pesce, presidente dell’Associazione vittime dell’amianto, che dà voce all’amarezza di un’intera comunità colpita da infiniti lutti: "A chi conosce la situazione dell’Eternit, i fatti e le testimonianze risulta evidente che la cultura giuridica non è ancora matura per digerire il dolo nella criminalità d’impresa, anche se provoca migliaia di morti. Ci vorranno ancora molti anni prima che lo sia". Per tutti i casi che sono statti trasferiti, oltre duecento, la prescrizione è molto più che un’ipotesi: le indagini tornano alla fase preliminare. Rimangono in piedi i due casi torinesi, che potrebbero portare a una condanna per il magnate svizzero. Obbiettivo minimo a questo punto, anche se difficile da raggiungere. La sindaca di Casale Monferrato, Titti Palazzetti, ha dato voce allo sgomento che ieri sera, come da molti anni, attraversava la città: "Sono sconcertata per la soluzione prospettata dalla giudice ma comunque soddisfatta per la decisione di rinviare a giudizio Schmidheiny, seppure preoccupata per lo spacchettamento in diverse sedi del processo". La procura di Torino in serata si è detta pronta a impugnare la sentenza della gup Federica Bompieri sul processo Eternit. È quanto si apprende in ambienti giudiziari. Il pm Gianfranco Colace studierà la documentazione e prenderà le iniziative necessarie. Tra pochi giorni a Torino si celebrerà il nono anniversario della strage ThyssenKrupp, l’acciaieria dove persero la vita sei operai. Anche per quel caso è in corso in processo travagliato, che per molti versi rinfocola a ogni udienza il dolore dei famigliari. Il processo Eternit volge verso una mesta chiusura, dopo decenni di morti e pianti. Riciclaggio, sanzioni anche alla banca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 24255/2016. La banca risponde con il dipendente per la mancata segnalazione di un’operazione a rischio riciclaggio. La Corte di cassazione, con la sentenza 24255, respinge il ricorso di un istituto di credito contro le sanzioni amministrative che le erano state inflitte, in solido con il direttore della filiale, per la mancata segnalazione da parte di quest’ultimo di una serie di operazioni sospette. I movimenti "fumosi" riguardavano l’emissione di circa 300 assegni da parte di una società correntista, tutti di importo inferiore ai 20 milioni di lire, "tetto" fissato allora dalla legge antiriciclaggio 197/1991, per un importo totale di circa 5 miliardi e 800 milioni di lire. Secondo la banca, la società correntista, una ditta che commerciava in agrumi, era solida e le "movimentazioni" degli assegni, tutti con l’ordine di pagamento "a me stesso", erano connessi ad esigenze aziendali mentre non c’erano elementi per presumere che il denaro non fosse "pulito". La corte di merito avrebbe affermato un obbligo di segnalazione basandosi sul solo dato oggettivo delle operazioni, caratteristica entità e natura, azzerando così il margine di discrezionalità che la legge attribuiva all’operatore nel valutare il fatto. Tra l’altro, l’istituto faceva presente che le operazioni in questione erano "solo" 300, nell’arco di 5 anni, su un totale di 5376 "movimenti": e in ogni caso non c’era dolo o colpa grave. La banca lamenta anche la violazione dell’articolo 6 della legge 689/1981, sulla solidarietà per le violazioni commesse dai dipendenti, contestando l’affermazione di una responsabilità diretta senza fare alcun distinguo sulla diversa posizione dell’intermediario abilitato. Per finire l’istituto ricorrente precisa che neppure l’apposito software (il cosiddetto sistema Gianos) aveva segnalato anomalie nel periodo esaminato. La Cassazione, nel respingere il ricorso, ricorda l’obbligo da parte del direttore di filiale o del dipendente di segnalare al legale rappresentante o al suo delegato, il sospetto che il denaro o gli altri beni oggetto di operazioni possano essere finalizzate al riciclaggio, basandosi sull’entità o sul profilo del cliente. Il legale rappresentante a sua volta deve esaminare la segnalazione e, se la considera fondata, la deve trasmettere alle autorità competenti. La violazione del duplice obbligo è dunque ugualmente sanzionato. È evidente - sottolinea la Cassazione - che la verifica dell’opportunità di trasmettere o meno la segnalazione del dipendente spetta al titolare dell’attività, mentre il primo gode di un margine di discrezionalità più ridotto e ha il dovere di indicare "ogni" operazione sospetta di riciclaggio. Per la Suprema corte c’era più di un segnale sospetto: l’emissione di 300 assegni, nell’arco di circa 4 anni, tutti per un importo inferiore ai 20 milioni di lire, doveva indurre il bancario a pensare che il cliente conoscesse le norme di contrasto al riciclaggio e intendesse aggirarle per evitare controlli. Dal canto suo la banca aveva dimostrato, secondo il giudice di merito, "una radicata tolleranza verso un modus operandi del cliente improntato all’elusione della normativa antiriciclaggio". A conforto della conclusione c’era l’indagine della Guardia di finanza che aveva verificato che ai movimenti di denaro non corrispondeva un movimento della merce. Non è offensivo definire una persona "omosessuale" Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2016 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 29 novembre 2016 n. 50659. Nel presente contesto storico è da escludere che "il termine omosessuale abbia conservato "un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto". Lo sottolinea la Cassazione spiegando che questa parola - diversamente da altri "appellativi" che invece mantengono un carattere denigratorio - è entrata nell’uso corrente e attiene alle "preferenze sessuali dell’individuo", assumendo di per sé un carattere neutro e per questo non è lesiva della reputazione di nessuno, anche nel caso in cui sia rivolta a una persona eterosessuale. Con questa motivazione, la Suprema Corte - con la sentenza 50659 che cancella ogni pregiudizio dal significato della parola "omosessuale" - ha annullato senza rinvio la condanna per diffamazione inflitta il venti marzo del 2015 dal Giudice di pace di Trieste nei confronti di un uomo che aveva usato questo termine in un atto di querela rivolgendosi a un avversario eterosessuale con il quale era in lite per motivi legati alla moglie nell’ambito di una causa non meglio specificata. "La tipicità della condotta di diffamazione - scrive la Suprema Corte - consiste nell’offesa alla reputazione: è dunque necessario che i termini dispiegati o il concetto veicolato, nel caso di comunicazione scritta o orale, siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto" al quale sono rivolti. Fatta questa premessa, i supremi giudici affermano che "è innanzi tutto da escludere che il termine "omosessuale" utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto". "A differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente, il termine in questione - prosegue il verdetto - assume un carattere di per sé neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell’uso comune". Inoltre, gli ‘ermellinì escludono che la mera attribuzione della qualità di ‘omosessualè, "attinente alle preferenze sessuali dell’individuo", abbia di per sé "carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell’evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività". Con parole chiare, la sentenza conclude dicendo che "il termine utilizzato non può ritenersi effettivamente offensivo" nemmeno se pronunciato o scritto con "intento denigratorio". L’inadempimento del contratto di leasing rende confiscabili i beni di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 29 novembre 2016 n. 50733. Piena confiscabilità di due autocarri in leasing per appropriazione indebita dei mezzi, quando all’inadempimento contrattuale i beni non vengano restituiti al legittimo proprietario, ma trattenuti come propri. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 50733/2016. I fatti - Alla base della vicenda la conferma da parte del Tribunale di Catanzaro di un decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari nei confronti dell’indagato per il reato di appropriazione indebita di due autocarri, dei quali il reo aveva la disponibilità sulla base di un contratto di leasing. Quest’ultimo ha presentato ricorso per Cassazione evidenziando come la titolarità del diritto di querela sarebbe spettato solo alla società proprietaria iscritta al Pra e non al nuovo acquirente che non risultava dai registri dato che non era stata effettuata la trascrizione. La Corte ha respinto il ricorso ricordando quella che è la figura del leasing e la funzione della trascrizione al Pra. Il reato di appropriazione indebita di un bene in leasing è integrato dalla mancata restituzione del bene da parte dell’utilizzatore, che per l’appunto invece di mantenere l’esclusivo possesso e di restituire i mezzi se non adempie, eserciti sul bene un diritto uti dominus. Nel caso concreto il soggetto utilizzatore non solo non aveva più onorato il pagamento dei canoni di leasing ma non aveva voluto nemmeno restituire il bene. E sul punto - chiariscono i Supremi giudici - il passaggio della proprietà sussiste solo in presenza dell’incontro del consenso tra parte venditrice e acquirente che determinano la traditio del bene. Effetti della trascrizione - La trascrizione nel pubblico registro automobilistico ha semplicemente una funzione dichiarativa e, in forza del principio della continuità delle trascrizioni secondo la priorità temporale, è idonea a dirimere il conflitto eventuale insorto tra più acquirenti dallo stesso cedente rispetto al medesimo bene. Ne consegue che la mancata trascrizione del trasferimento della proprietà di un autoveicolo o motoveicolo presso il Pra, a parte l’infrazione disciplinata prevista dal Testo unico sulla circolazione stradale, non rende inoperante il concluso contratto né influisce sull’acquisto del relativo diritto reale. Quindi è legittima ed efficace la confisca di un motoveicolo acquistato dal condannato senza avere provveduto alla trascrizione del titolo presso il competente Pra. Un uomo ombra semilibero di Carmelo Musumeci carmelomusumeci.com, 30 novembre 2016 "(…) concede a Carmelo Musumeci il beneficio della semilibertà consentendogli di prestare un’attività di volontariato presso una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, al servizio di persone gravate da handicap". (Tribunale di Sorveglianza) Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita. Penso che più di credere a me stesso ho scelto di credere negli altri. E forse questa è stata la mia salvezza. Mi hanno notificato l’esito positivo della Camera di Consiglio sull’istanza della semilibertà. Uscirò dal carcere al mattino e rientrerò alla sera per svolgere, durante il giorno, un’attività di volontariato presso la Comunità Papa Giovanni XXIII. Quando arrivo in cella con l’Ordinanza del Tribunale di Sorveglianza tra le mani mi gira la testa. Il mio cuore batte forte. Respiro a bocca aperta. Lontano da occhi indiscreti, appoggio la testa contro il muro e mi assale una triste felicità. In pochi istanti rivivo questi venticinque anni di carcere con i periodi d’isolamento, i trasferimenti punitivi, i ricoveri all’ospedale per i prolungati scioperi della fame, le celle di punizione senza libri né carta né penna per scrivere, né radio, né tv, ecc. In quei periodi non avevo niente. Passavo le giornate solo guardando il muro. Poi ad un tratto scrollo la testa. Smetto di pensare al passato. Mi faccio il caffè. Mi accendo una sigaretta. E, dopo la prima tirata, medito che adesso dovrei smettere di fumare perché ora la mia unica via di fuga per acquistare la libertà non è più solo la morte. Alzo lo sguardo. Guardo tra le sbarre della finestra. Osservo il muro di cinta. Per un quarto di secolo ho sempre creduto che sarei morto nella cella di un carcere. Penso che una condanna cattiva e crudele come la pena dell’ergastolo, che Papa Francesco chiama "pena di morte mascherata", difficilmente può far riflettere sul male che uno ha fatto fuori. Io credo di essere rimasto vivo solo per l’amore che davo e che ricevevo dai miei figli e dalla mia compagna. Sono stati anni difficili perché non avevo scelto solo di sopravvivere, ma ho lottato anche per vivere. Proprio per questo ho sofferto così tanto. Non ho mai pensato realmente di farcela e forse, proprio per questo, ce l’ho fatta. Adesso mi sembra tanto strano vedere un po’ di felicità nel mio futuro. Mi commuovo di nuovo. E il mio cuore mi sussurra: "Per tanti anni hai pensato che l’unica cosa che ti restava da fare era aspettare l’anno 9.999; invece ce l’hai fatta! Sono felice per te… e anche per me". Quello che rimpiango maggiormente di questi 25 anni di carcere è che non ho ricordi dell’infanzia dei miei figli. Mi consolo pensando che adesso mi rifarò con i miei nipotini. Poi penso che senza l’aiuto di tante persone del mondo libero che mi hanno dato voce e luce, non ce l’avrei mai fatta. Ho trascorso buona parte della mia vita godendo dell’unico privilegio di essere rimasto libero di pensare, di scrivere e di dire quello che pensavo: adesso che sono diventato un uomo ombra semilibero non smetterò certo la mia battaglia per l’abolizione dell’ergastolo. Volterra (Pi): detenuto 39enne muore in cella, indagini in corso per stabilire le cause Il Tirreno, 30 novembre 2016 Erano le 11.30 di domenica 27 novembre quando Andrea Sbaraglia, secondo le ricostruzioni da convalidare con l’autopsia, ha avuto un malore ed è morto di fronte agli agenti della polizia penitenziaria. Il corpo dell’uomo, 39enne originario di Roma, non presentava segni di violenza. I soccorsi del 118 sono stati allertati e il medico è giunto a destinazione, ma una volta nella struttura carceraria non ha potuto far niente perché era già sopraggiunto l’ultimo sospiro. Il magistrato di turno in Procura ha richiesto il trasferimento presso l’istituto di medicina legale di Pisa. Una volta terminate le analisi, si potrà dire con certezza la causa della morte. Non erano presenti segni di violenza sul cadavere. Roma: evadono in tre dal carcere di Rebibbia, ma le punizioni sono per tutti (i rimasti) di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2016 Il 27 ottobre scorso tre uomini sono evasi dal penitenziario romano di Rebibbia Nuovo Complesso. Ancora non sono stati rintracciati. Si capirà un giorno la dinamica esatta della fuga. Nel frattempo, l’amministrazione penitenziaria ha preso una serie di provvedimenti restrittivi riguardanti la gestione dell’istituto e degli altri detenuti che si trovano in quel carcere. Alcuni di essi mi paiono quanto meno discutibili. Fosse solo per la difficoltà che riscontro nel vedere un nesso tra quanto accaduto e questi stessi provvedimenti. Ne cito uno: è impedito ogni ingresso dopo le 15.30 ai volontari che svolgono attività in quel carcere. I volontari sono persone come tutte le altre, tendenzialmente impegnate in attività lavorative. Difficile quindi, per molti di loro recarsi in carcere di mattina o nel primissimo pomeriggio. Così le attività svolte da questi operatori vengono interrotte. La direzione ha assicurato che entro Natale tutto tornerà come prima. Ci auguriamo che accada davvero. Cito un’altra decisione presa dall’istituto, se possibile ancor meno comprensibile: ci è stato riferito come ‘Papillon’, la nota biblioteca dell’istituto da sempre molto fornita e curata egregiamente dai detenuti stessi, sia stata gettata per aria durante una perquisizione notturna che ha lasciato le stanze con migliaia di libri gettati alla rinfusa sul pavimento, ammassati, mischiati, buttati negli angoli e ai piedi degli scaffali. Come ogni bibliotecario ben sa, e come ogni persona che mai abbia frequentato una biblioteca ben può intuire, ci vorrà tantissimo tempo per ritrovare la collocazione di ciascun volume e permettere di nuovo il loro utilizzo da parte dei detenuti. "E che ce ne importa, peggio per loro, potevano evitare di andare in galera così leggevano tutti i libri che volevano". Già immagino molti pensieri e molte risposte in merito. Bene. Ma allora esplicitiamo tutti i passaggi di questo ragionamento. Se non ci importa che i detenuti leggano libri, ammettiamo che non vogliamo un carcere che punti alla rieducazione e alla reintegrazione sociale del condannato. Peggio per noi: ci terremo i delinquenti a scapito di tutta la società. Però diciamolo apertamente. Se invece crediamo che il carcere, oltre a costituire una ovvia punizione, debba anche avere un ruolo costruttivo, allora non riesco a trovare un solo motivo per cui rendere inutilizzabile una biblioteca penitenziaria possa essere utile nel prevenire future evasioni. Roma: il Garante dei detenuti "la chiusura di Rebibbia è uno scandalo che deve finire" Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2016 Dichiarazione di Stefano Anastasia, Garante dei detenuti della Regione Lazio. "Il carcere chiuso alla società esterna ha un aspetto spettrale. Ieri pomeriggio sono stato a Rebibbia nuovo complesso per respirare di persona il clima del più grande carcere romano, uno dei più grandi d’Italia, durante il divieto di ingresso al volontariato stabilito dalla direttrice reggente, la dott.ssa Santoro, a causa della carenza di personale di polizia. Chiuse le attività laboratoriali, interrotti i colloqui con gli enti di assistenza, impedita l’attività degli sportelli di informazione legale, non è più semplice il lavoro dei poliziotti in servizio, ciascuno costretto a inseguire decine di detenuti che altrimenti avrebbero avuto altro da fare e altri a cui rivolgersi. La chiusura di Rebibbia nelle ore pomeridiane è uno scandalo che deve finire. All’indomani della decisione la direttrice mi aveva assicurato che si sarebbe trattato di un provvedimento tanto eccezionale quanto temporaneo e che nel giro di una decina di giorni avrebbe avuto dall’amministrazione centrale il personale richiesto per assicurare la ripresa di tutte le attività. Sono passate due settimane e la situazione è tal quale. A questo punto non si può che ribadire che le carenze di personale e organizzative dell’amministrazione penitenziaria non possono essere scontate dai detenuti, già sottoposti a dure perquisizioni che hanno reso inagibile la biblioteca centrale dell’istituto e che sono state seguite da cervellotiche disposizioni come quelle sul numero massimo di scarpe e di cesti di plastica da tenere in stanza o sui divieti di stendere panni in finestra e di affiggere foto e giornali sui muri. Non è questo il carcere di cui abbiamo discusso negli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando; non può essere ridotto in questo modo un istituto come quello di Rebibbia, a lungo luogo di sperimentazioni di aperture e innovazioni nella gestione penitenziaria". Lucca: tutti i detenuti del carcere di San Giorgio in cella singola Il Tirreno, 30 novembre 2016 Conclusi i lavori per il rifacimento della sala incontri con i figli, in via di attivazione i corsi di formazione per il reinserimento lavorativo, ampliamento della fascia oraria per l’incontro con i parenti, un nuovo padiglione per le attività sociali e per il refettorio: sono i dati principali emersi ieri dal sopralluogo della terza commissione del consiglio regionale al carcere San Giorgio. Hanno partecipato il presidente della commissione sanità Stefano Scaramelli, e i consiglieri Stefano Baccelli, Nicola Ciolini e Ilaria Giovannetti, che si sono confrontati anche col direttore della struttura Francesco Ruello e con il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Franco Corleone. Proprio Corleone ha sottolineato come, "dopo anni di denunce di condizioni insopportabili finalmente c’è un cambio di passo, favorito anche dalla diminuzione dei detenuti presenti. Certo, resta il grave problema dei tossicodipendenti, che non usufruiscono delle misure alternative". Come spiegato dal direttore della casa circondariale di Lucca Ruello, a oggi i detenuti sono 78, di cui 6 ammessi al regime di semilibertà. Detenuti ubicati tutti in una unità per stanza. Un’accoglienza possibile perché le presenze rientrano nella capienza della struttura, che si attesta sulle 70 unità: "Questa struttura in passato aveva ospitato oltre 200 detenuti - ha proseguito Ruello - negli anni siamo passati dai 220 detenuti del 2012 a una media di 105 negli ultimi due anni. Dati del sistema informativo della direzione evidenziano che su un totale di 78 detenuti, 42 soggetti sono in posizioni giudicabili, 5 appellanti, un ricorrente, 30 condannati". Sulle condizioni di salute, invece, si rileva che su 78 detenuti i tossicodipendenti accertati sono 33. Venezia: la Cgil denuncia "situazione drammatica nel carcere femminile della Giudecca" veneziatoday.it, 30 novembre 2016 Il sindacato parla di "situazione drammatica" nella struttura della Giudecca e dichiara lo stato di agitazione delle lavoratrici: "Vivono in uno stato di sconforto e abbandono". Al carcere femminile della Giudecca i rischi per le dipendenti e per le donne rinchiuse sono all’ordine del giorno. Lo denuncia Cgil, che parla di "frequenti incidenti dovuti al fatto che le detenute, spesso incinta, si provocano abrasioni per ottenere un ricovero ospedaliero o un certificato di gravidanza a rischio per accelerare il differimento della pena". "Le conseguenze negative - spiegano Gianpietro Pegoraro, coordinatore Veneto polizia penitenziaria Fp Cgil, e Stefano Vanin della segreteria Regionale Fp Cgil - sono evidenti per il personale, che opera in continuo stato di allerta e in una situazione d’incertezza per la programmazione dei servizi, con ricadute anche nella vita privata e famigliare". "Abbiamo più volte segnalato al ministro, al capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) e ai vari dirigenti la situazione drammatica in cui versa il personale femminile della casa reclusione di Venezia. Nonostante questo istituto penale sia considerato dall’amministrazione penitenziaria come il fiore all’occhiello per le tante attività che vi vengono svolte, dall’altra parte si assiste al depauperamento di personale di polizia penitenziaria. Risultano amministrate 87 unità, a fronte di un organico previsto di 107. Questo significa una riduzione notevole dei servizi ordinari". Per Pegoraro e Vanin si tratta di fattori che "gettano lo sconforto e il senso di abbandono tra il personale in servizio, ancor oggi è scioccato dal grave fatto accorso ad una poliziotta durante il proprio servizio". "Siamo consapevoli - continuano - che le risorse di personale all’interno del distretto sono risicate, ma siamo altrettanto consapevoli che vi è stata una maldestra assegnazione di personale femminile fatta a livello centrale e questa sta penalizzando maggiormente la casa di reclusione di Venezia e altri istituti femminile del distretto del Triveneto". "Riteniamo - concludono - che il danno che è stato fatto nell’assegnare unità di polizia penitenziaria femminili in istituti maschili vada immediatamente riparato da parte dell’amministrazione penitenziaria: un primo passo sarebbe quello di far rientrare le unità di polizia penitenziaria poste in distacco; e rivedere tutte quelle situazioni di distacco poste da anni ma mai verificate". Visto tutto questo, il sindacato ha quindi dichiarato lo stato di agitazione del personale di penitenziaria femminile del carcere veneziano. Cgil si dice pronta a "trovare le soluzioni più idonee al raffreddamento del conflitto. Viceversa, se entro giorni 8 non saremo convocati dal provveditore, ci vedremo costretti a mettere in atto tutte le forme di protesta legalmente riconosciute". Milano: Manzelli (direttrice S. Vittore) "oltre tre mesi e mezzo per accedere a una Rems" Dire, 30 novembre 2016 Audizione della Sottocommissione carceri del Consiglio comunale di Milano. La direttrice del carcere milanese: "Per queste persone il carcere è assolutamente incompatibile". Nel carcere di San Vittore, a Milano, i detenuti che hanno gravi problemi di salute mentale e che, prima della riforma degli Opg, sarebbero stati destinati ad un ospedale psichiatrico giudiziario, "aspettano oltre tre mesi e mezzo" prima di poter accedere alle Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (Rems). "Sono persone che dovrebbero uscire immediatamente dal circuito penale ordinario, ma così non avviene", ha denunciato Gloria Manzelli, direttrice di San Vittore, durante l’audizione della Sottocommissione carceri del Consiglio comunale di Milano di oggi. "È l’effetto non voluto della riforma che ha portato al superamento degli Opg, ma per queste persone il carcere è assolutamente incompatibile". All’audizione sono intervenuti anche il provveditore regionale alle carceri, Luigi Pagano, e il direttore dell’istituto di Bollate, Parisi. Per Luigi Pagano è diventato ormai "urgente" risolvere il problema dell’Icam, l’istituto creato per ospitare fuori dal carcere le detenute madri con figli piccoli. "Si rischia di dover chiudere, i tempi stringono", ha sottolineato Pagano. La soppressione della Provincia, infatti, ha creato un vuoto dal punto di vista amministrativo e finanziario che non è stato colmato dalla Città metropolitana. Di fatto quindi l’Icam è senza fondi. Dall’audizione è emerso anche che all’istituto penale per minori Beccaria si è registrato negli ultimi mesi un aumento dei minori stranieri non accompagnati. Su 52 ragazzi attualmente reclusi, il 20% è straniero, giunto in Italia senza genitori. "Sono i casi più problematici - ha spiegato Olimpia Monda, direttrice reggente dell’Istituto, perché spesso non parlano italiano e non hanno alcun rapporto con il territorio". Treviso: il Sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore visita il carcere di Santa Bona trevisotoday.it, 30 novembre 2016 Migliore ha visitato anche l’Istituto per minorenni prima di incontrare una delegazione di agenti di polizia penitenziaria, alcuni detenuti e gli educatori". Il Sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, nella giornata di martedì, ha visitato le due strutture penitenziali di Santa Bona (il carcere per adulti e l’Istituto per Minorenni) dove sono presenti attualmente 193 detenuti su una capienza massima di 140 e 11 ragazzi minorenni su massimo di 25. Il Sottosegretario ha così visitato le due sezioni della casa circondariale, oltre all’area sanitaria, le aule di insegnamento e laboratorio, la sezione dedicata alla formazione lavoro per gli adulti gestita dalla cooperativa Alternativa e l’area esterna, compresi il campo da calcio e la recente fungaia. Migliore ha poi incontrato una delegazione di agenti di polizia penitenziaria e gli educatori, garantendo che il Governo ha stanziato fondi per 11mila nuove assunzioni, le quali sono ormai bloccate da 20 anni. Gennaro Migliore ha poi riconosciuto che la realtà trevigiana è molto positiva, sia per il clima tra i dipendenti all’interno, la gestione dei detenuti, la formazione e l’area riabilitativa, sia per le importanti collaborazioni con le realtà istituzionali ed educative esterne. Da quando ha assunto l’incarico di Sottosegretario alla Giustizia, Migliore ha comunque già visitato circa 30 strutture penitenziarie in tutta Italia ed è rimasto piacevolmente colpito dalla realtà trevigiana, raccogliendo però le giuste osservazioni, che anche l’On. Floriana Casellato gli aveva anticipato, ossia della necessità di riorganizzare la struttura dell’IPM, che serve tutto il Triveneto e che non dovrebbe dividere gli spazi, già minimi, con il carcere per adulti, oltre ad una necessità di modernizzazione di una struttura generale che risale ormai agli anni 40. Montesilvano (Pe): solidarietà dietro le sbarre, i bambini conoscono la realtà del carcere cityrumors.it, 30 novembre 2016 Promuovere la cultura della legalità nei ragazzi e far conoscere loro il difficile mondo del carcere e della rieducazione dei detenuti: questi gli obiettivi dell’incontro "Solidarietà dietro le sbarre" che si è tenuto questa mattina a Palazzo Baldoni. È stato il primo degli incontri previsti dall’iniziativa, giunta alla sua terza edizione,che vede una stretta collaborazione tra la casa circondariale di Pescara e l’Istituto comprensivo Troiano Delfico. All’incontro hanno partecipato il sindaco Francesco Maragno, il dirigente dell’Istituto Nino Traini e il direttore della casa circondariale di Pescara Franco Pettinelli. Sono 25 le classi di scuola primaria e secondaria di primo grado coinvolte nel progetto, curato dalla docente Lorena Di Serafino. "Il carcere - ha spiegato l’insegnante ai ragazzi intervenuti, volontaria proprio presso la casa circondariale di Pescara - è lo specchio negativo della società. Una persona non può essere identificata con il reato che ha commesso. Dopo aver espiato una pena, ognuno torna ad essere una persona libera. Ecco, se comprendiamo tali principi, allora assumono una valenza importantissima tutti i progetti portati avanti proprio per favorire il reinserimento nella società dei detenuti". "Solidarietà dietro le sbarre" vedrà dunque l’esposizione all’interno della scuola Fanny Di Blasio di manufatti realizzati all’interno del carcere, ed un successivo incontro dei ragazzi con alcuni detenuti. "Con questi incontri - spiega il direttore Pettinelli - vogliamo far capire ai giovani l’importanza di non infrangere le regole. Queste occasioni sono soprattutto dei momenti di sensibilizzazione per alcune problematiche quali le dipendenze da droghe o alcool che possono colpire soprattutto i ragazzi. Nel nostro carcere, su 300 detenuti, 1/3 ha problemi di tossicodipendenze. All’interno della casa circondariale promuoviamo numerosi progetti, come attività formative, corsi professionali, laboratori di hobbistica o ancora, per assecondare una delle finalità principali di un carcere, ossia la rieducazione del condannato". "Il filosofo Karl Popper - ha dichiarato Nino Traini, dirigente dell’Istituto che al suo interno ha anche attivato uno sportello socio educativo per sostenere i ragazzi e i genitori nell’ascolto delle difficoltà quotidiane, grazie al personale del consultorio Ucipem di Pescara che lavora su territorio in diversi ambiti - diceva che la vita è una catena di problemi da risolvere. Penso che ognuno debba avere la forza ma soprattutto il senso di responsabilità per affrontarli. Con queste iniziative vogliamo insegnare a voi ragazzi proprio questo". Il sindaco Maragno poi rivolgendosi agli studenti ha aggiunto "queste giornate sono molto importanti per la vostra formazione, dunque approfittate per carpire quanto più possibile dalle testimonianze dirette dai detenuti, ma anche dai volontari e da tutte le persone che lavorano all’interno del carcere di Pescara, impegnandosi affinché i detenuti ricostruiscano il loro futuro. In questa direzione si colloca anche il progetto che il Comune di Montesilvano ha avviato in collaborazione con il carcere di Pescara e che vede un detenuto impegnato in lavori di piccola manutenzione e cura a Montesilvano colle. Ci auguriamo di poter implementare ulteriormente questa convenzione". L’incontro è poi proseguito con una serie di domande poste dagli studenti al direttore Pettinelli sulla vita all’interno del carcere. Volterra (Pi): tornano le cene galeotte, chef e detenuti insieme ai fornelli Intoscana.it, 30 novembre 2016 Dal 16 dicembre tornano a Volterra le "Cene galeotte", l’iniziativa unica nel suo genere in Italia che coinvolge i detenuti del penitenziario volterrano e chef: dalla prima edizione, nel 2005, a oggi, ha totalizzato 14mila partecipanti e più di 120mila euro devoluti a progetti umanitari. Su prenotazione si potranno gustare, grazie a cene aperte al pubblico nella casa circondariale di Volterra, i piatti preparati dai detenuti iscritti all’istituto alberghiero attivo dal 2013 all’interno del carcere e da grandi cuochi. Tra le novità di questa edizione il coinvolgimento degli chef anche per lezioni di cucina ai reclusi. In una ventina di casi l’esperienza delle "Cene galeotte" si è tradotta inoltre in vero impiego presso ristoranti locali. L’evento, reso possibile grazie a Unicoop e realizzato in collaborazione con ministero di Giustizia, rinnova anche il suo scopo solidale, con il ricavato (35 euro a persona) devoluto alla Fondazione Il cuore si scioglie Onlus e ai progetti che, dal 2000, vengono realizzati in collaborazione con il mondo del volontariato laico e cattolico. Tra gli chef coinvolti nella nuova edizione - sei appuntamenti da dicembre ad agosto 2017 - Nicola Schioppo, Alessandro Liberatore, Beatrice Segoni, Daniele Pescatore con Romualdo Rizzuti, Entiana Osmenzeza, Daniele Sera. Per il programma completo: cenegaleotte.it. "Un germoglio tra le sbarre", un libro e un convegno a Roma sul carcere di Giancarlo Capozzoli huffingtonpost.it, 30 novembre 2016 "Un germoglio tra le sbarre" è il titolo di un libro sul carcere, che è stato presentato a Roma nei giorni scorsi e che ha rappresentato l’occasione di un incontro-convegno sul carcere presso la Sala dell’Istituto Santa Maria in Aquiro, del Senato della Repubblica. A questo incontro hanno partecipato come relatori oltre ai due curatori del volume Angelica Artemisia Pedatella e Paolo Paparella, anche il Senatore Manconi, Marco Braghero, ricercatore presso la Jyvaskyla Unversity in Finlandia, alcuni giornalisti televisivi, Giampaolo Cadalanu giornalista di La Repubblica e l’ispettore della polizia penitenziaria della III casa Fabrizio Collevecchio. "Dal disagio personale al disagio sociale, tra carcere e libertà" è il sottotitolo di questo ulteriore e importante convegno, che è come detto ha preso spunto dal libro edito da Pioda Imagine Editore. Il libro è diviso in tre "celle", capitoli, e in ognuno si declina in maniera precisa e responsabile la dura realtà del carcere e dell’incontro di un gruppo di studenti del Convitto Nazionale e un gruppo di detenuti. Incontro avvenuto proprio a partire dalla scrittura e dalla successiva/precedente riflessione su determinati argomenti, su cui questi due mondi altrimenti incomunicabili, hanno iniziato a confrontarsi. C’è da dire che questa determinazione che si è detta, di argomenti, sembra, appare, più una indeterminatezza spontanea, nel senso che gli argomenti più diversi sono emersi tra i due gruppi, in maniera del tutto spontanea, proprio a partire cioè da argomenti quotidiani, semplici, dati, immediati: lo sport, la cultura, lo studio, il tempo, la libertà. Come può uno studente comprendere l’essenza della sua libertà nella indeterminatezza della sua giovane età? Come può un detenuto declinare l’essenza dei suoi limiti nella determinatezza delle sue condizioni, attuale di recluso e di partenza di escluso? Già solo per questo primo domandare immediato, un incontro su tale tema, mostra l’importanza del suo porsi e del suo fondarsi. Da una parte, l’apertura degli studenti verso il mondo totalmente non-conosciuto della realtà del carcere e dei carcerati. Mondo escluso e "chiuso" in una rap-presentazione falsata, pre-giudicata, mis-conosciuta. Pre-giudicata perché sconosciuta. D’altra parte l’incontro dei detenuti (soggetti attivi di questo incontro) con il mondo aperto, innocente, benestante, borghese degli studenti superiori. Studenti che hanno aperto l’incontro con il racconto di questi scambi epistolari, diffidenti prima, e poi sempre più socievoli, liberi, intimi, con i detenuti della Casa Circondariale di Rebibbia. Le parole che si sono imposte in questo scambio, nello sguardo e nelle parole raccontate da questi giovani studenti, hanno raccontano della sorpresa di questa esperienza e delle parole stesse che sono diventate l’oggetto di questo loro scriversi: il disagio inenarrabile. Il carcere. Il tempo. Il pregiudizio. La passione. E la libertà. La declinazione di ognuno di questi paradigmi è stata per loro l’occasione di comprendere, capire e approfondire quello che è il mondo che scorre ai margini della realtà che essi (noi) stessi vivono. Quel mondo cioè che non si vede, ma c’è. Non si vede perché nascosto dietro l’alto muro del carcere. Non si vede perché è escluso prima e recluso, poi. Recluso ed escluso allo stesso tempo. Hanno imparato che il carcere è di coloro che lo abitano, i carcerati. Hanno letto di questo loro tempo-non-tempo lasciato scorrere senza-senso. Hanno compreso nel profondo il senso dell’assenza di tempo, come assenza di una progettualità, di un progetto, dunque come assenza di personalità, assenza di persona. Eppure i carcerati sono persone. Che persona è una persona senza un progetto proprio? Hanno scoperto passioni e intuito l’importanza della parola e della irrinunciabilità della parola libertà. Questi esperimenti, questi incontri oltre ad aprire la gabbia dell’anima dei detenuti reclusi, hanno questo aspetto che è davvero fondante e fondamentale: sensibilizzano l’altro, i giovani in questo esempio, rispetto a questioni che risulterebbero altrimenti distanti, lontane, dimenticate. Serve ad aprire gabbie, anche se solo quelle dello spirito. Le parole di alcuni degli studenti presenti all’incontro hanno ben raccontato come questa esperienza di scriversi con un detenuto abbia fatto emergere anche in se stessi questioni fondamentali, per una fondazione nuova, quasi, del loro essere stessi come persone. Questioni che hanno a che fare con l’esistere e l’esistenza di ciascuno di loro, di noi, evidentemente. Si è detto della importanza di un pro-gettarsi. Si è detto della essenza di questo tempo-non-tempo. Tempo sottratto, si potrebbe dire. Tempo tolto alla declinazione effettiva di affettività familiare. Tempo tolto a sessualità. Tempo sottratto che è isolamento dal mondo e dal mondo di tutti gli altri. Le parole di questi giovani studenti hanno mostrato il loro aver intuito e capito a fondo l’importanza del confronto con l’altro, il distante-da-sé, il diverso. Lo hanno intuito, percepito e assimilato come arricchimento e crescita. Arricchimento di pensieri e di punti di vista. Non di soldi. Arricchimento non è diventare-più-ricchi, semplicemente. Questa parola assume e apre a nuovi significati, nuovi sensi. Nuove prospettive. Piccoli semi di una libertà nuova. Ricompresa. Riconquistata. Semi seminati nei ragazzi e nei ragazzi-detenuti. Seminati come occasione per liberarsi da pregiudizi, dunque. Ed è il primo decisivo passo se si vuole rendere il carcere come luogo aperto, un luogo cioè, dove, nonostante il restringimento della libertà personale di uomini che hanno lacerato il loro rapporto con il resto del corpo sociale, il tempo non sia semplicemente non-tempo, sottratto, dunque, ma sia piuttosto l’occasione di quel riscatto, di quella rieducazione che la legge fondamentale dello Stato sancisce. Ed è proprio a questa legge fondamentale che si rifà l’opera e l’agire quotidiano di uno degli ispettori di Rebibbia, L’ispettore Collevecchio, il quale ha ideato, messo in opera, e costruito un gruppo musicale di detenuti, agenti e volontari esterni. Attraverso la pratica musicale, attraverso la passione per la musica, attraverso accordi e disaccordi non solo musicali, quotidianamente, mette in atto quella comprensione, quella accettazione, quella inclusione di cui sto dicendo. Il carcere visto in questo modo non è più una vendetta contro chi ha agito contro la legge. Non può essere una vendetta. Deve piuttosto, se e quando necessario, tendere quanto più alla riparazione del tessuto sociale lacerato dalla commissione del reato. Recupero che è anche un riassestamento della dignità della persona che può e deve partire, prendere le mosse dalla cooperazione delle persone in questa relazione: vittima e colpevole, innanzitutto. A partire dall’ascolto reciproco. L’intervento finale del senatore Manconi ha proprio messo in evidenza la relazione tra ascolto, dialogo e comunicazione. Ciò che la comunicazione "reale" deve contribuire a dare è tentare, almeno, di dire ciò che il carcere è davvero al fine di squarciare quel velo di ipocrisia e finzione che circonda questo mondo come un ulteriore muro di cinta. La comunicazione, l’informazione ha il compito di indirizzare il senso comune, il sentire comune, l’opinione corrente verso la realtà data del carcere. Libri e esperienze come questo convegno sono perciò determinati in questo senso. Dicono qualcosa di un mondo di cui non si sa davvero nulla, o poco e male e in maniera davvero superficiale. È necessario stabilire un rapporto, una relazione tra il dentro e il fuori del carcere, come con gli studenti di cui si è detto. È necessario dire di questo dentro, di cosa significhi realmente, crudelmente, quotidianamente stare esclusi, reclusi e costretti. È necessario provare a raccontare, a dire di questo stare stretti, in sovrannumero in pochi metri quadrati. La comunicazione è tutto, evidentemente. O molto. La comunicazione è molto anche per chi, i detenuti, raccontano la loro storia disegnandola sulla propria pelle. I tatuaggi raccontati da Manconi diventano allora, e lo sono davvero, simboli di identità e di appartenenza. Ma sono anche la forma immediata di espressione e comunicazione per chi sa comunicare poco. Per chi è poco alfabetizzato. O quasi. Questo aspetto del comunicare è un aspetto determinante. Basti pensare all’episodio, richiamato dal Senatore, dei migranti che, nel Cie di Ponte Galeria, alle porte di Roma, si cucirono le bocche in segno di protesta, vista la impossibilità di farsi sentire, di dire parole. Cucirsi la bocca per privarsi della capacità di dire parole. Ecco: il carcere è l’ orrore di episodi di questo genere, frequenti e innumerevoli. Il carcere è un non-luogo in un non-tempo, per usare le parole del Senatore. Una doppia negazione che nega la persona stessa del carcerato. Un non-luogo dove è bene ripeterlo gli atti di autolesionismo sono quotidiani. Un non-luogo in un non-tempo che è assenza-di-essere. E spossessamento di capacità individuali a partire da quella del comunicare. Scrivere e raccontare di carcere è allora fondamentale al fin di limitare questo sentimento di ostilità verso questo mondo. Raccontare serve a guardare più da vicino per contribuire ad abbatterne la separatezza. "Cristo dentro". La prefazione del Papa a un libro di carcerati di Paola Pastorelli La Stampa, 30 novembre 2016 "Cari amici, san Pietro e san Paolo, i fondatori della Chiesa di Roma, della quale sono Vescovo, hanno conosciuto la prigionia. Sono stati carcerati. Ogni volta che varco la porta di un carcere, guardando i volti delle persone che incontro, penso sempre: perché loro e non io? Siamo tutti peccatori, bisognosi della misericordia di Dio che ci solleva, ci perdona e ci dà speranza. Grazie per il dono di questo libro, Vi abbraccio, vi sono vicino, vi porto tutti nel cuore, vi benedico, prego per voi e per le vostre famiglie. Chiedo a voi di pregare per me". Papa Francesco Pronto, sono Francesco. Ho pensato che possiamo fare più in fretta se la mia prefazione ve la detto al telefono... ha carta e penna per scrivere?". Usando un termine abusato dalla politica, si potrebbe dire che Dio è anche Signore della semplificazione. Non hanno dubbi, infatti, gli autori che dietro al loro libro ci sia il Suo zampino e non tanto per ragioni evidenti, essendo un testo che, a modo suo, tratta di Lui ma proprio per le modalità con cui l’opera è nata. Gli indizi sono disseminati lungo il percorso che ha portato a Cristo dentro (Itaca editore), libro firmato da Francesca Sadowski (medico chiavarese, direttore di Fisiosport a Villa Ravenna, presidente di Cdo), Pino Rampolla (fotografo) e don Eugenio Nembrini e che a torto si definirebbe solo fotografico, anche se racconta per immagini il rapporto di alcuni detenuti con la fede, attraverso i loro tatuaggi. "Un giorno Massimiliano - racconta Francesca Sadowski - un detenuto con il quale avevo avuto alcuni incontri, mi fece vedere che aveva corretto il proprio tatuaggio: da "Meglio schiavi all’inferno che padroni in Paradiso" aveva cambiato la scritta in "Meglio schiavi in Paradiso che padroni all’inferno". Mi disse che la prima frase non lo rappresentava più e che nel suo percorso di ricerca di sé, desiderava capovolgere quel messaggio che portava scritto sull’avambraccio". Fu un episodio molto significativo - racconta Francesca - anche tenuto conto della difficoltà in un ambiente come il carcere di "correggere" un tatuaggio, nato da una volontà profonda di invertire il senso della propria vita. Dopo quell’episodio e dopo aver letto tante lettere di Massimiliano e di altri detenuti, Francesca e don Eugenio si sono resi conto che noi stavamo guardando Dio all’opera e che sarebbe stato bello farlo vedere anche agli amici. E così una sera a Roma abbiamo proposto all’amico Pino Rampolla di fotografare i tatuaggi a tema religioso e di aiutarci a raccogliere, dove possibile, le testimonianze di chi aveva impresso sulla pelle e nel cuore la domanda di Dio". E qui arriva la telefonata del Papa a cui era stata chiesta un’introduzione buttando un po’ il cuore oltre l’ostacolo. E così quel progetto nato come esperienza personale sul campo, ha preso invece le fattezze di un libro, che pagina dopo pagina racconta, con il linguaggio delle immagini, la faticosa ricerca di redenzione di uomini e donne che hanno commesso errori e che hanno visto nella fede l’ancora a cui aggrapparsi. Crocifissi, volti di Cristo, effigi di Maria, è ricco il campionario di preghiere incise sulla pelle, indelebili richieste di aiuto, che narrano in un intensissimo racconto comune la difficoltà di essere uomini e quindi fragili. "Estetica della giustizia penale". Gabbie e recinti, scempi antiestetici della giustizia penale di Guido Vitiello Il Foglio, 30 novembre 2016 L’incubo comune di ritrovarsi nudi in mezzo a persone vestite di tutto punto, su cui si sofferma Freud, trova nella vita diurna il corrispettivo più adeguato nella condizione dell’imputato di un processo penale. "In aula, l’imputato è così solo che non si stenta a riconoscerlo", notava Dante Troisi nel "Diario di un giudice". Gli occhi di tutti sono puntati su di lui, ansiosi di indovinargli in volto i segni della colpa o dell’innocenza. Se farfuglia, lo si prende per pentito; se piange, per simulatore; se ha un eloquio troppo forbito, si sospetta che abbia mandato a mente la lezioncina del difensore. Ma la sua solitudine può prendere forme più terribili. "C’è una norma di altissimo valore estetico nell’art. 474 del nostro codice di procedura penale: "L’imputato assiste all’udienza libero nella persona anche se detenuto, salvo che siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza". Lo scrive Ennio Amodio, avvocato penalista e professore emerito di Procedura penale a Milano, e la scelta di quell’aggettivo stupirà qualcuno. Può, una norma, avere valore estetico? Sì, se si accetta la definizione di "estetica giudiziaria" proposta da Amodio, che non allude a una scienza del bello ma alle forme visibili che illustrano, nella prassi, i valori del giusto processo. È un’accezione simile a quella usata dai liturgisti, perché nel rito religioso, come in quello giudiziario, la bellezza degli arredi, degli abiti, dei gesti e dei paramenti non ha nulla di ornamentale. "Estetica della giustizia penale", pubblicato da Giuffrè, descrive i modi in cui la giurisdizione legittima si intreccia - producendo scempi antiestetici - alla giurisdizione parallela del circo mediatico e alla giurisdizione immaginaria del cinema e della fiction. È lo studio più organico finora dedicato a questi temi, e non si potrà prescinderne. Della miniera di esempi che riporta non esplorerò che un filone. Nella nostra prassi, nota sconsolato Amodio, il principio dell’articolo 474 è ribaltato: di regola, l’imputato in custodia cautelare partecipa al dibattimento rinchiuso in gabbia, anche quando non ce n’è necessità. In altri paesi, le gabbie metalliche sono state sostituite da strutture di vetro, sperimentate per la prima volta in Israele nel processo Eichmann (da noi c’è stato il caso della "gabbia acquario" del processo Bossetti). In Inghilterra e in Canada sopravvive il dock, il recinto di legno collocato davanti al banco del giudice, ma molti lo ritengono lesivo della dignità dell’imputato. Per questo è stato pressoché abolito dalle aule giudiziarie statunitensi: nel 2005 la Corte suprema federale ha stabilito che qualsiasi forma di coercizione visibile o marchio di segregazione contrasta con la presunzione d’innocenza. Amodio cita poi un altro caso ritenuto illegittimo dalla Corte suprema, quello di un imputato che indossava in udienza la tuta da detenuto; e decisioni analoghe le ha prese la Corte europea dei diritti dell’uomo, la cui giurisprudenza insiste sull’uso degradante delle "gabbie in udienza". Grandi teli bianchi vennero usati per nascondere alla stampa straniera le gabbie in aula del processo Ruby, presto rimossi per processare una banda di rumeni. Il nostro rito giudiziario è tra i più arretrati, e anche la cultura penalistica, su questo, è latitante. Ho chiesto ad Amodio se non fosse il caso di ripartire da una vecchia idea di Troisi, secondo cui anche l’imputato dovrebbe indossare la toga: "Con la toga, forse, egli, colpevole o innocente, si vedrà simile a chi lo giudica e lo difende. Sennò questo segno serve unicamente a incutere paura e ad alleggerire le tasche". O a preservare dal contatto con esseri contaminati, come osservava Antoine Garapon rintracciando le radici sacrificali del processo. Mi ha risposto che l’idea confliggerebbe con l’estetica del giusto processo, perché l’imputato non è vincolato agli obblighi degli officianti - per esempio, gli è consentito di mentire. Eppure, non riesco a pensare una via più felice per uscire dall’incubo. L’inferno senza fine ora tocca ai poveri migranti di Giuseppe Tucci Gazzetta del Mezzogiorno, 30 novembre 2016 Sull’immigrazione, l’Europa di oggi, rischia di scrivere una nuova pagina di disumanità, come avvenne per la Shoah di ieri. Lo sostiene, in una recente intervista a "l’Avvenire" del 23 novembre u.s., Guido Raimondi, il giurista italiano Presidente della Corte europea dei diritti dell’ Uomo di Strasburgo, ricordando i respingimenti alle Frontiere ed i muri eretti contro i Migranti, praticati da numerosi Stati europei come risposta ad una crisi umanitaria senza precedenti. Le cifre di questa ecatombe umana sono impressionanti (4.164 migranti, morti nel Mediterraneo sino al 22 novembre u.s., secondo il comunicato dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). La strage nel Mediterraneo - e non solo in esso - non si ferma mai. Le violazioni quotidiane dei più elementari diritti umani riportano alla memoria, secondo il Presidente Raimondi, gli orrori di settanta anni or sono. Coscienza - Nel secondo dopo guerra del secolo scorso, la coscienza dell’orribile negazione della dignità umana, che si verificò con l’Olocausto, ha contribuito ad affermare l’idea che la protezione dei diritti inviolabili dell’Uomo si dovesse imporre sulla sovranità nazionale, fino ad allora mai contestata. Senza quella diffusa indignazione e quella drammatica presa di coscienza, mai gli Stati nazionali europei avrebbero consentito alle rilevanti limitazioni della loro sovranità, contenute nella Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. L’Europa contemporanea, di fronte ad una sfida epocale dell’intera civiltà, sotto certi aspetti più complessa del razzismo nazista dei Campi di sterminio, sembra aver smarrito il senso di quell’insegnamento. Non avendo poteri di intervento di ufficio, il Giudice di Strasburgo può solo rilevare che gran parte dei comportamenti, tenuti dagli Stati europei di fronte alle nuove emergenze, violano clamorosamente la Convenzione dei diritti dell’Uomo e i molti altri strumenti, nazionali e sovranazionali, che, nell’immediato dopo guerra, hanno inteso limitare i poteri degli Stati a difesa dei diritti dell’Uomo. Ma quello stesso Giudice, nello stesso tempo, deve constatare che, proprio nelle società europee e nell’intero Occidente, si è pericolosamente appannato quel "sentimento del diritto", che rende viva ogni Istituzione giuridica degna di questo nome. In tutti i momenti più importanti, in cui si realizza l’Esodo globale delle grandi Migrazioni, dalle condizioni delle strutture di accoglienza, ai tempi ed ai modi, con cui vengono gestite le identificazioni e le domande di asilo, alla tutela dei minori migranti senza i loro genitori, le risposte, in termini di legalità, sono chiare ai Giudici già sin da ora. Manca, però, la domanda di giustizia, che sia in grado di mettere in moto le sofisticate tutele, che la civiltà giuridica del secolo scorso, ammaestrata dall’Olocausto e dagli orrori della seconda guerra mondiale, è stata capace di elaborare. Le ragioni di questo drammatico smarrimento dell’Europa e dell’intero Occidente sono molteplici, ma non possono essere ignorate. Appare chiara la profonda crisi della democrazia rappresentativa e dello stesso strumento del suffragio universale, che si trascina da tempo proprio nei Paesi, che hanno elaborato e praticato questi strumenti di controllo dei poteri. La perdita di ogni carattere formativo, oltre che informativo, della politica e la progressiva identificazione del suo messaggio con lo slogan pubblicitario sono fenomeni che risalgono a tempi ormai lontani. Ancora nei primi anni quaranta del secolo scorso, un grande storico, Ernesto Bonaiuti, in una polemica biografia dell’allora Pontefice Pio XII, rilevava che vero profeta dei tempi moderni era ormai non più il Papa, ma il Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt. Oggi, sono le diagnosi e le denunce del Pontefice romano a farci comprendere il senso di ciò che sta trasformando la nostra intera vita. Le grandi migrazioni contemporanee non sono un problema soltanto di Regioni particolari, ma dell’intero mondo, poiché trovano la loro causa in un sistema socio economico ingiusto ed in guerre che non hanno certo creato le vittime che subisco no lo sradicamento dalla loro patria, ma quelli che si rifiutano di riceverli. In tutti gli angoli della terra, masse sterminate di esseri umani sono costrette a fuggire dalla propria Patria. Trafficanti - Questo dramma si raddoppia, quando, davanti a quelle terribili circostanze, i migranti si vedono gettati nelle grinfie dei trafficanti di esseri umani per attraversare le frontiere, e si triplica, quando, una volta arrivati nei Paesi, in cui pensavano di trovare finalmente una prospettiva di vita, vengono disprezzati, sfruttati ed il più delle volte schiavizzati nel senso vero della parola. Come spesso proprio il Pontefice romano ricorda, spetta alle Organizzazioni degli esclusi ( si pensi ai Movimenti popolari, di cui si è tenuto il Terzo Congresso proprio in Vaticano) il compito di rivitalizzare e rifondare le democrazie, ormai in profonda crisi. Queste nuove Organizzazioni sono chiamate a garantire la partecipazione dei Popoli alle grandi decisioni, sconfiggendo quelli che sfruttano la paura e la disperazione per diffondere odio e crudeltà in nome di una sicurezza illusoria. Sono questi i problemi, di cui la Politica deve riappropriarsi. Parole come proiettili nel discorso sull’immigrazione di Max Mauro Il Manifesto, 30 novembre 2016 Non solo media. Falsità e travisamenti concettuali nella narrazione dominante dei flussi migratori. La verità non conta, non porta voti. Quanta violenza c’è nel discorso sull’immigrazione? Per discorso intendo un’accumulazione di termini, idee, conversazioni, prassi, azioni concertate e azioni automatiche dello stato e delle strutture democratiche, inclusi i mass media. Tutti assieme, nel corso del tempo, creano un corpo fluido e multiforme che pervicacemente avvolge tutto quello che incontra. Il discorso è potere, perché penetra le (in)coscienze e trascina le azioni verso una direzione. Il discorso è violenza, perché non rispetta ambiti e pertinenze. Si muove al passo della tecnologia informativa, che nell’era dei social media non accetta silenzi né tantomeno riconosce riguardi. Non deve stupire se il discorso prende le forme dell’imprevisto, perché è quello il suo segreto, la sua forza. Il discorso non si fa solo attraverso le parole urlate del politico di turno abbonato alla poltrona degli studi televisivi. Il discorso si manifesta, e si rinnova continuamente, nell’espressione spontanea del cittadino in tutt’altro affaccendato, o dell’esperto che offre opinioni sui temi più diversi. Un esempio? Il 19 novembre il Corriere della Sera pubblica un intervento in favore del referendum costituzionale a firma di Franco Bassanini, già ministro per la funzione pubblica nei governi Prodi e D’Alema. Non mi interessa qui discorrere del SI o del NO al referendum. La cosa che mi ha colpito in quell’articolo è il riferimento sfuggevole al tema dell’immigrazione. Con l’intento di sostenere le ragioni di una maggiore concentrazione di potere nelle mani del governo (è per la stabilità, ça va sans dire!), Bassanini offre un’analisi storica degna di nota. I tempi son cambiati, dice Bassanini e così le migrazioni. Nelle sue parole: "Le migrazioni avvenivano allora per lo più dall’Europa verso le Americhe; oggi invadono l’Europa come effetto dell’esplosione demografica africana e della crisi demografica del Vecchio continente". Ecco, le parole. Le parole e le cose. Invadono. Le migrazioni non sono spostamenti di persone che per le ragioni più diverse si muovono da un punto all’altro del pianeta. Sono invasioni. Eppure nel 2015 l’Italia, per la prima volta in cent’anni ha registrato un saldo demografico negativo. Sono più numerosi coloro che emigrano di quelli che immigrano, e fra quelli che lasciano il paese crescono di numero i figli di immigrati o gli immigrati stessi che hanno acquisito la cittadinanza. Invasione? La Potenza del discorso pubblico popolare. Cosa opporre a tale messaggio tossico utilizzato in forma di "fatto", accidentalmente? Ma non c’è solo l’invasione in questo travisamento concettuale. Nella visione di Bassanini, riflesso del discorso pubblico popolare, le migrazioni hanno una sola causa: l’esplosione demografica africana. Non c’è spazio per la realtà nel discorso onnivoro sull’immigrazione. La verità è una chimera. Non conta. Non porta voti. Anche per questo è giusto insistere e provare a ragionare contro la corrente del discorso dominante. Quindi: c’è solo la crescita demografica dell’Africa a motivare le migrazioni contemporanee? Tutt’altro. Secondo i dati elaborati dall’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, la maggioranza dei migranti arrivati in Italia attraverso il mare nel 2016 sono originari di paesi quali Nigeria, Gambia, Somalia, Eritrea, Guinea. Tra le cause maggiori delle migrazioni dalla Nigeria l’Unhcr identifica la guerra intestina provocata da Boko Haram, ma non andrebbe dimenticata l’espropriazione occidentale della maggiore risorsa nigeriana, il petrolio. Da anni le ricchezze dell’oro nero vengono spartite tra le grandi sorelle dell’industria petrolifera e le élite corrotte delle paese. Senza dire che l’industria petrolifera provoca una perenne emergenza ambientale, come denunciato a suo tempo da Ken Saro-Wiwa. E che dire di Somalia ed Eritrea, il primo un paese non-stato dilaniato da decenni di guerra, il secondo un paese controllato dalla dittatura ultraventennale di Isaias Afewerki? L’occidente non può dirsi neutrale nella genesi delle crisi di questi paesi perché ha giocato un ruolo storico nel destabilizzarli, prima conquistandoli con la forza, definendone le cartografie, e poi sfruttandone le risorse per decenni. Si può dire lo stesso del Gambia, un paese dove il clima di paura creato dal regime di Yahya Jammeh ha alimentato il senso di sfiducia delle giovani generazioni, che costituiscono la maggioranza dei migranti. Dai dati Unhcr risulta anche che tra i primi cinque paesi di provenienza dei richiedenti asilo nel 2015 figuravano il Pakistan e il Bangladesh, certamente non paesi africani. Come si può allora ricondurre il movimento migratorio semplicemente alla "esplosione demografica" dell’Africa, come fa Bassanini? Anche il termine "esplosione" merita attenzione. Esplosione è un termine che trasmette un senso di cambiamento brusco e violento. Perché usare questo termine per un fenomeno, la tendenza demografica del continente africano, che è tutto meno che una sorpresa? Da almeno quindici anni l’Africa subsahariana è caratterizzata da una crescita demografica dovuta essenzialmente, secondo la Banca Mondiale, alla riduzione della mortalità infantile, riflesso dei miglioramenti nelle condizioni di vita, inclusa la sanità pubblica, avvenuti nell’arco di alcuni decenni. Perché allora esplosione? Esplosione e invasione non sono semplici parole. Inserite nel discorso sull’immigrazione sono proiettili sparati da uno strumento di offesa, uno strumento di guerra. Chi le usa dovrebbe esserne pienamente cosciente. Evidenziarle quando vengono usate nei contesti più disparati è un piccolo dovere civico al quale non possiamo sottrarci. Global commission, riformare la politica delle droghe di Giorgio Bignami Il Manifesto, 30 novembre 2016 A ruota dei risultati dei referendum americani sulla cannabis giunge l’ultimo Rapporto 2016 della Global Commission on Drug Policy; cioè di quell’organismo internazionale formato da personaggi di notevole rilievo (come l’ex Segretario dell’Onu Kofi Annan) che da anni si battono per una revisione delle nefaste politiche nazionali e internazionali nel campo delle droghe. Il rapporto esordisce con un aggiornamento sui disastri della guerra alle droghe basata sulla tolleranza zero, con un duro giudizio sulla inerzia dei politici e delle istituzioni a fronte di un quadro a dir poco apocalittico. Su scala planetaria sono oltre 200.000 all’anno i morti di droga, di cui un terzo per overdose; pesanti le ricadute sulla salute pubblica, per infezioni da Hiv e Hcv e varie altre patologie; assurda (oltre l’80%) la quota delle condanne penali per droga irrogate per "reati" di detenzione e uso personale, da cui le carcerazioni di massa, in condizioni spesso disumane, e il grave intralcio al funzionamento della giustizia per reati di ben maggiore gravità. E ancora: i trattamenti coercitivi non di rado si svolgono in situazioni lager ed equivalgono a vera e propria tortura. La discriminazione nelle operazioni di repressione colpisce soprattutto i soggetti delle classi più sfavorite, chiaramente a fini di controllo sociale, contribuendo alla crescita inesorabile delle disuguaglianze. Giù giù sino al dilagare delle esecuzioni extragiudiziali, e non soltanto nelle Filippine, che si aggiungono alla pena di morte tuttora legale e frequentemente applicata in molti Stati. Il rapporto, basandosi sugli esempi del Portogallo, della Repubblica Cèca, dell’Olanda e dell’Australia, passa poi a valutare i benefici della decriminalizzazione del possesso e dell’uso personale di droghe, sia sotto il profilo sanitario, per esempio con la riduzione dei contagi Hiv, che sotto quello dei costi sociali, per la riduzione del numero dei carcerati e l’aumento degli occupati tra i soggetti in precedenza marginalizzati. Interessante la messa in guardia contro la falsa decriminalizzazione in quei Paesi dove le soglie sono talmente basse da vanificare la norma (come in Messico) o le forze dell’ordine sono libere di commettere ogni sorta di arbitri (come in Colombia). È particolarmente interessante per noi la dimostrazione che le sanzioni amministrative sostitutive di quelle penali comportano costi sociali e costi per lo Stato troppo elevati per potersi giustificare. Infine le due coraggiose bordate finali. La prima riguarda l’esigenza di misure alternative a quelle penali per una folta schiera di "attori di basso livello" sulla scena delle droghe, tenendo conto del fatto che il "rifornimento sociale" rappresenta una quota consistente dei livelli più periferici del mercato delle droghe: consumatori/piccoli spacciatori, pesci piccoli tra i corrieri, e altre figure analoghe. In secondo luogo, considerando che tutte le misure sin qui riassunte non indebolirebbero le organizzazioni criminali del narcotraffico, il rapporto, condannando la turlupinatura dell’obiettivo "un mondo senza droghe", si pronuncia decisamente per una regolamentazione dei mercati delle droghe, analogamente a quanto avviene per molti prodotti potenzialmente pericolosi. Infine, prima di chiudere con una ricca bibliografia, il rapporto presenta una decina di testimonianze personali da diversi paesi, per lo più sui drammi di soggetti le cui vite sono state in vario modo calpestate a causa del proibizionismo: un avvertimento sull’esigenza di prestare attenzione ai problemi non solo nel loro insieme, ma anche nella loro specificità caso per caso. Slovacchia. Il sistema delle cavigliere elettroniche ai detenuti per ora è un flop buongiornoslovacchia.sk, 30 novembre 2016 L’attesa rivoluzione nel sistema di supervisione dei carcerati in regime di arresti domiciliari, che si sarebbe dovuto svolgere con l’utilizzo di cavigliere elettroniche, è costata circa 22 milioni di euro, ma quasi tutte le 2.000 cavigliere acquistate sono ancora nelle loro scatole da quasi un anno, e i detenuti sono ancora sorvegliati nelle celle dalle guardie carcerarie. La promessa di liberare dalla detenzione duemila condannati per reati lievi, fatta dal ministro Tomas Borec nel corso della scorsa legislatura, è così rimasta inevasa, scriveva Sme qualche giorno fa. Il ministero della Giustizia ha ammesso, attraverso il suo portavoce, che oggi sono appena 30 i condannati cui è stata concessa la pena alternativa a domicilio, soggetti che vengono controllati da remoto con il sistema di monitoraggio elettronico. Il dicastero, oggi gestito da Lucia Zitnanska (Most-Hid), vorrebbe, secondo il giornale, esaminare l’intera procedura che ha portato alla decisione dell’acquisto facendo intervenire la Corte dei Conti (Nku), che è attesa rivelare i risultati il prossimo anno. Il ministero intende così scoprire se si è trattato di un errore o di una previsione troppo precipitosa. Non è chiara, scrive il giornale, perché il sistema, che vige da anni in altri paesi, sia così difficile da far partire anche in Slovacchia. Il ministero ritiene che la causa sarebbe la decisione dei giudici, che anche se hanno seguito dei corsi di formazione per l’utilizzo delle nuove procedure alleggerite, sarebbero scoraggiati dalle lungaggini burocratiche necessarie. Ad esempio, prima di concedere la detenzione domiciliare è necessario valutare attentamente se il condannato è adatto per un monitoraggio casalingo, o se il distretto nel quale egli risiede sia munito delle necessarie tecnologie di controllo strumentale elettronico, questioni che prendono almeno un mese di tempo. I costi della gestione del sistema, circa 3 milioni di euro annui, si sarebbero risparmiati con l’alleggerimento del carico negli istituti carcerari. Siria. Italiano ostaggio in da 7 mesi lancia appello "salvatemi dall’esecuzione" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 30 novembre 2016 Si chiama Sergio Zanotti. La notizia diffusa dal sito russo Newsfront e confermata dall’intelligence italiana. Fonti dell’intelligence italiana: "Ci sono anomalie". Risultava scomparso da aprile scorso Sergio Zanotti, l’uomo che compare nel video diffuso da un sito russo e chiede al governo italiano di intervenire per la sua liberazione. L’uomo, 56 anni originario di Marone, sul lago d’Iseo in provincia di Brescia, sette mesi fa era partito per una vacanza in Turchia: doveva andare a trovare un amico. Nel giro di qualche giorno però i familiari avevano perso le sue tracce. È stata l’ex moglie ad attivare la Farnesina comunicando di non avere più sue notizie. Da quel momento sono state effettuate verifiche da parte dell’intelligence, ma senza mai ottenere riscontro alla possibilità che fosse nella mani di un gruppo terroristico e nemmeno che fosse stato preso da una banda di criminali. Zanotti vive a Marone con la sorella e ha tre figlie tra i 25 e i 35 anni. Fino a qualche anno fa aveva una piccola azienda meccanica, di cui era stato dichiarato il fallimento. Alle spalle anche una condanna per evasione fiscale. L’appello - Qualche giorno fa, dopo la comparsa del video sono stati riattivati tutti i canali già aperti proprio per cercare di effettuare riscontri a quanto detto dall’uomo nel filmato: "Mi chiamo Sergio Zanotti, da sette mesi sono prigioniero qui in Siria. Prego il governo italiano di intervenire nei miei confronti prima di una mia eventuale esecuzione". Non a caso, il ministero degli Esteri si limita a confermare che "la vicenda viene seguita con attenzione", senza però fornire alcun ulteriore elemento. Il video - Nel video si vede l’uomo, con una lunga barba e vestito con una tunica bianca, in ginocchio all’aperto tra alcuni ulivi. Alle sue spalle un altro, vestito di nero e con il volto coperto, gli tiene puntato contro un fucile mitragliatore. In mano l’uomo inginocchiato tiene un cartello con una data, apparentemente il 15 novembre 2016. In un’altra foto postata dallo stesso sito il presunto ostaggio è in piedi, scalzo, e tiene in mano lo stesso cartello. Poco sotto, nella pagina di News Front viene mostrata la copia del passaporto, intestato a Sergio Zanotti, nato nel 1960 a Marone, in provincia di Brescia e un’altra foto del rapito, entrambe le immagini sono tratte dalla pagina Facebook di Almed Medi. Sequestro anomalo - Secondo fonti dell’intelligence sono numerose le "stranezze" rilevate e dunque ci si muove con grande cautela. Non c’è infatti alcuna rivendicazione, né si fa riferimento ad un eventuale pagamento del riscatto, né - cosa mai accaduta in passato al momento di diffondere il video di un ostaggio - ci sono indicazioni che possano confermare la pista del fondamentalismo o quella che porta a banditi. Nei mesi scorsi ci sono state richieste vaghe giunte in Italia, ritenute "speculative da chi indaga, ma non si è mai avuta la certezza nemmeno che l’uomo fosse in Siria. Il governo ha informato il Copasir, il comitato parlamentare di controllo, della vicenda e continuano gli accertamenti proprio per comprendere che cosa sia davvero accaduto. Lo sfogo della ex moglie: "Lo pensavo morto" - "Pensavo peggio, pensavo fosse morto": è lo sfogo di Yolande Mainer, l’ex moglie dell’imprenditore bresciano. "Non ci sentivamo da maggio, da quando era partito" ha detto la donna che ha raccontato le sue sensazioni vedendo le immagini dell’ex compagno di vita: "Ho visto il video, mi sono impressionata. Non era da lui. Mi hanno impressionato gli occhi". "Mi fido della Farnesina, sono sempre stata in contatto con loro" ha detto la donna. Le indagini dell’Unità di crisi del ministero degli Esteri sono scattate subito. Risulta, invece, aperta da mesi un’indagine della Procura di Roma, un fascicolo a carico di ignoti in cui si ipotizza il reato di sequestro a scopo di terrorismo: gli inquirenti sono a lavoro per chiarire la dinamica e il contesto nel quale sarebbe avvenuto il rapimento. Paraguay. Tra i terroristi amici dei narcos di Emanuele Ottolenghi La Stampa, 30 novembre 2016 A Ciudad Del Este dove Hezbollah ricicla il denaro sporco dei trafficanti di droga. Oltre il ponte tra Foz do Iguaçu e il Paraguay si apre la zona franca di Ciudad Del Este. In pochi isolati grandi gallerie commerciali vendono prodotti di marca a prezzi irrisori. Le vie pullulano di cambiavalute e ambulanti che vendono merci contraffatte. Benvenuti nella capitale sudamericana del contrabbando frontaliero e del narcotraffico, per i quali l’organizzazione terrorista libanese di Hezbollah ricicla denaro sporco. Washington ha colpito molti suoi finanziatori con sanzioni, ma con scarso effetto. Le loro attività coprono tutta la frontiera tra Brasile e Paraguay, complici istituzioni corrotte, forze di polizia con poche risorse, doganieri prezzolati e un vasto territorio poco popolato dove i traffici illeciti la fanno da padroni. A nord di Foz le sigarette prodotte dalla Tabesa, la manifatturiera del presidente paraguayano Horacio Cartes, sono contrabbandate sul fiume che separa i due Paesi. A ovest del fiume passano marijuana e cocaina lungo tutta la frontiera fino a Ponta Porã. La polizia brasiliana è impegnata in una feroce lotta contro i narcotrafficanti. Si fermano i carichi ma non se ne arresta mai il flusso, sostenuto da società che consumano la droga per divertirsi, senza dar peso al devastante impatto di violenza e corruzione che il traffico ha su questi luoghi. E qui entra in gioco Hezbollah. La comunità libanese sciita qui conta 50.000 immigrati. Stanno principalmente tra Ciudad del Este e Foz dove hanno due scuole e due moschee. Nelle aule e sale di preghiera campeggiano foto dell’Imam Khomeini, il defunto leader della rivoluzione iraniana. I ragazzi sono indottrinati dal movimento degli scout Al-Mahdi di Hezbollah e dagli imam dell’organizzazione. Ma i libanesi sono anche a Ponta Porã, varco della cocaina, dove la locale moschea ha documentati legami con Mohsen Rabbani, l’imam iraniano ricercato per la strage del 1994 contro il centro ebraico di Buenos Aires. Il giro di denaro dei traffici illeciti alimenta la corruzione e la violenza che permettono a droga e sigarette di giungere ai loro consumatori. Hezbollah aiuta a riciclarne i proventi miliardari immettendoli nel sistema bancario internazionale grazie a una sofisticata rete dislocata lungo la frontiera, che include università private, grandi magazzini, cambiavalute e improbabili investimenti immobiliari di lusso in una delle zone più povere dell’America Latina. Gli strumenti del riciclaggio sono incongrui con la miseria del paesaggio circostante. Gli immensi centri commerciali della zona farebbero invidia ai nostri outlet. Tutto si trova a prezzi stracciati come le magliette Lacoste fatte in Perù che costano la metà che in Europa. Ma ci sono pochi clienti e per quanto bassi, i prezzi sono comunque fuori della portata dei più. Le autorità ritengono che gli outlet siano usati per riciclare denaro sporco dei narcos. A farla da padrone nei commerci sono i libanesi, attraverso le cui attività, sostiene il tesoro Usa, si riciclano miliardi, con una sostanziosa commissione per Hezbollah. Non mancano gli indizi. Un’inchiesta per riciclaggio di un miliardo e duecento milioni di dollari implica un noto impresario libanese di Ciudad Del Este legato a Hezbollah, che nel 2015 accompagnò il presidente della Camera dei deputati del Paraguay in visita ufficiale in Libano. Il viaggio incluse incontri con clero e parlamentari di Hezbollah. Un progetto per un centro commerciale dove soci erano libanesi della zona e un barone locale della droga recentemente trucidato da una banda rivale. E numerosi casi di evasione fiscale, contraffazione di marche, e arresti in flagrante per droga che coinvolgono la comunità sciita locale. "Hezbollah controlla il Paraná", sostiene il capo di una stazione di polizia della zona, mentre il Primeiro Comando de la Capital, un’organizzazione criminale brasiliana, "controlla la frontiera secca". Il Pcc gestisce il servizio di trasporto dei traffici illeciti, Hezbollah offre i servizi finanziari. Una cosa è certa. In un Paese dove il Presidente produce le sigarette poi contrabbandate, si commerciano principalmente merci contraffatte, i politici si fanno ospitare dagli alti vertici di Hezbollah e l’economia di frontiera si fonda quasi esclusivamente sui traffici illeciti, è difficile credere che le autorità locali dispongano della volontà di cambiare le cose. Egitto: analista, trattenere i Fratelli musulmani in carcere diventa un onere per lo Stato Nova, 30 novembre 2016 Il direttore del centro studi Ibn Khaldun del Cairo, Saadudin Ibrahim, ha affermato che "la permanenza dei Fratelli musulmani nelle carceri egiziane sta diventando un onere per lo stato. È necessario rieducarli e riportarli alla ragione per farli usciti o in alternativa mandarli in una zona desertica del Sahara". Parlando all’emittente televisiva "Rotana Misriya", Ibrahim ha affermato che "i capi dei Fratelli musulmani che sono in esilio in Turchia vogliono la riconciliazione con lo Stato. Purtroppo però esiste una corrente opposta all’interno del gruppo. Ci sono ad esempio i giovani del gruppo che sono contro la riconciliazione".