Rapporto "Space": quanto sono sovraffollate le carceri italiane ed europee? tpi.it, 2 novembre 2016 Sono più di 54mila i detenuti presenti nelle carceri italiane, a fronte dei 49mila e 600 posti. Questo significa che le prigioni vivono un sovraffollamento del 9 per cento, che varia notevolmente a livello regionale e di singoli istituti. Alcune regioni raggiungono picchi del 37 per cento, come ad esempio Puglia o del 92 per cento a livello di singolo istituto, come Brescia. Solo 7 regioni e 63 istituti su 193 rispettano la capienza prevista per legge. Sono questi alcuni degli elementi che emergono incrociando i dati del Ministero della Giustizia e del Centro Studi di Ristretti Orizzonti. Allarmante è inoltre il dato che riguarda i suicidi: 900 negli ultimi 16 anni, con aumenti annuali che seguono l’andamento dell’emergenza abitativa. Solo 7 regioni non vivono l’emergenza abitativa (in ordine di virtuosismo: Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Marche, Piemonte, Toscana e Calabria). Le restanti ospitano più detenuti del previsto, con la maglia nera che va alla Puglia con il 37 per cento di sovraffollamento e quasi 900 carcerati in più, seguita da Friuli Venezia Giulia, con il 31 per cento e Lombardia, 30 per cento. A livello di singoli istituti, dei 193 disseminati nel territorio, il 67 per cento registra un sovraffollamento, lasciando solamente 63 carceri a rispettare la capacità prevista per legge. Delle cinque carceri con la situazione peggiore, quattro si trovano in Lombardia e uno in Abruzzo: in testa l’istituto di Brescia (92 per cento di sovraffollamento), seguito da Como, 71 per cento, Vigevano, 66 per cento, Bergamo, 63 per cento e Chieti con il 63 per cento. Rispetto al 2010 le carceri ospitano 14 mila detenuti in meno. La situazione è infatti nettamente migliorata rispetto a qualche anno fa, quando l’emergenza sovraffollamento raggiungeva il 53 per cento a livello nazionale, i detenuti in eccedenza erano quasi 24 mila e nessuna regione rispettava la capacità delle proprie carceri. "La situazione dei detenuti è migliorata negli ultimi sei anni: le opportunità di lavoro o di formazione sono rimasti sostanzialmente invariati, ma ora, esattamente come lo spazio fisico, devono essere condivisi da meno persone, che di conseguenza vivono meglio", afferma Alessio Scandurra dell’Associazione Antigone. La regione che ha registrato il miglioramento più consistente rispetto al 2010 è l’Emilia Romagna: maglia nera sei anni fa con un sovraffollamento dell’89 per cento, l’emergenza abitativa è calata di 75 punti percentuali, assestandosi ad un 14 per cento, poco superiore alla media nazionale. Seguono Trentino (-70 punti percentuali), Calabria (-69), Valle d’Aosta (-63), Veneto (-58), Sicilia (-58) e Piemonte (-55). L’unica regione che non segue il trend nazionale è il Molise, il cui sovraffollamento è aumentato dal 24 per cento al 28 per cento, complice una riduzione della capienza delle proprie carceri di 91 posti. Il quadro della sovrappopolazione carceraria a livello europeo è fornito dal Rapporto Space dell’Istituto di criminologia e di diritto penale dell’Università di Losanna. I dati, relativi al 2014, posizionano l’Italia all’undicesimo posto in Europa; peggio fa l’Ungheria, che guida la classifica con un sovraffollamento del 42 per cento, seguita da Belgio, Macedonia, Grecia, Albania, Spagna, Slovenia, Francia, Portogallo e Serbia. Suicidi e Sovraffollamento - "La situazione di salute dei carcerati è allarmante", afferma Scandurra. "Il 78 per cento elle persone è affetto da almeno una condizione patologica e il 40 per cento da almeno una patologia psichiatrica; inoltre l’epatite B, C e l’AIDS affliggono una percentuale incomparabilmente più alta rispetto a quella che si trova fuori dal carcere". Il sovraffollamento comporta un generale peggioramento della qualità della vita dei carcerati che può portare a conseguenze tragiche quali il suicidio. "Autorevoli studi mettono in evidenza una relazione fra eventi suicidali e l’affollamento degli istituti penali", sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. "Il sovraffollamento non solo limita gli spazi e provoca il deterioramento delle condizioni igieniche, ma pregiudica le relazioni con il personale e limita la possibilità di accedere alle opportunità ricreative, formative e lavorative". I dati sui suicidi in carcere sono raccolti dall’associazione Ristretti Orizzonti attraverso il dossier "Morire di Carcere". Il grafico mostra la correlazione tra sovraffollamento carcerario e il numero di suicidi negli ultimi 15 anni: nel 2009, quando la popolazione carceraria ha subito un’impennata del 41 per cento rispetto ai due anni precedenti, si è registrato il numero maggiore di suicidi, 72. Dato che si è mantenuto elevato nei due anni successivi, quando la media della popolazione carceraria si è assestata ai livelli più alti degli ultimi 15 anni. Da allora, il sovraffollamento è calato e con esso il numero di suicidi in carcere, giungendo a quota 43 nel 2015, livello più basso dal 2000 ad oggi. Dal 2010 ad oggi, inoltre, sono stati quasi 7 mila i detenuti che hanno tentato il suicidio ma che sono stati salvati in tempo. Carceri, l’Associazione Antigone compie 25 anni e si racconta a fumetti di Marta Rizzo La Repubblica, 2 novembre 2016 Antigone ripercorre la propria storia e la contemporaneità italiana in un libro a fumetti, per ricordare i suoi 25 anni di attività costante e capillare nelle carceri del paese. La storia recente d’Italia è anche quella di chi ha pagato, più o meno, per i crimini commessi in questo paese. L’Associazione Antigone, nel suo 25° anno di attività, sostegno legale, psicologico, sanitario e di monitoraggio della vita delle persone recluse, si racconta con un libro a fumetti. La storia per immagini di Antigone. Nella "grafic novel" di Susanna Marietti (collaboratrice dell’Associazione), Antigone. 25 anni di storia italiana vista da dietro le sbarre (Round Robin Editrice) si ripercorre il lavoro dell’unica realtà italiana che ha la possibilità di entrare nelle nostre carceri per studiarne e denunciarne pregi, difetti, mancanze, abusi. La novella ha i disegni di Valerio Chiola. "Da 25 anni Antigone lavora dalla parte dei diritti e delle garanzie nel sistema penale - dice Patrizio Gonnella, direttore dell’Associazione Antigone - Con il graphic novel vogliamo arrivare anche alle nuove generazioni e raccontare, in modo meno consueto, come al centro vadano sempre messe la dignità umana e la persona. Dopo la squadra di calcio e la radio, abbiamo sperimentato un’altra forma di racconto". La storia è anche storia reclusa. Il grado di civiltà di una nazione, si dice, si misura dal grado di civiltà delle sue carceri e dal trattamento che lo Stato adotta verso le persone recluse, le quali, nella inevitabile condizione di dover scontare le colpe dei loro crimini, hanno il diritto di veder tutelata la dignità e di essere accompagnati in un reinserimento sociale di solito negato. Per riflettere sulla necessità di migliorare il tempo e lo spazio della pena, Antigone ragiona, con questo libro, su 3 momenti importanti della storia italiana degli ultimi 25 anni: Terrorismo, Mafia, Immigrazione. E va da sé che, nei momenti di passaggio di un paese, le carceri ingurgitano coloro che sono vittime e/o carnefici di quelle trasformazioni. I movimenti degli anni 70, con la reazione estrema di costringere troppe persone a lunghe reclusioni. Le stragi mafiose anni ‘90 e il conseguente inasprimento del regime carcerario rappresentato dalla rinascita delle obsolete isole penitenziarie. Il carcere del grande internamento primi anni 2000, degli stranieri e dei tossicodipendenti, stipati uno sull’altro. Sperimentare per migliorare la condizione carceraria. "Mi è sempre piaciuto sperimentare nuove forme di comunicazione per arrivare a persone sempre diverse con il messaggio che Antigone propone: quello della dignità umana inviolabile, dei diritti di tutti, di una giustizia penale residuale - dice l’autrice del libro, Susanna Marietti - L’ho fatto, insieme a Patrizio Gonnella, attraverso la trasmissione radiofonica musicale "Jailhouse Rock" e scrivendo il libro "Il carcere spiegato ai ragazzi", l’ho fatto contribuendo a creare la squadra di calcio Atletico Diritti, di cui sono presidente, composta da giocatori immigrati e detenuti. In questo graphic novel i bellissimi disegni di Valerio Chiola rendono emozioni, dolori, vittorie e sconfitte che hanno attraversato questi primi 25 anni di Antigone e tre decenni di storia, carceraria e non, italiana. Il terzo dei 3 racconti si ferma al momento della sentenza Torreggiani, attraverso cui la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti in relazione alle proprie carceri. È l’alba di una nuova storia. Speriamo di non fare passi indietro". L’Ucpi parteciperà alla marcia per l’amnistia e l’indulto organizzata dai Radicali a Roma camerepenali.it, 2 novembre 2016 L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, parteciperà alla marcia per l’amnistia e l’indulto, organizzata dai Radicali il 6 novembre a Roma. Il processo - già ferito a morte - sta ricevendo il colpo di grazia con il termine di prescrizione infinito. Le carceri tornano ad affollarsi. Amnistia e Indulto sono ormai l’unica strada da percorrere insieme a riforme organiche. L’opinione pubblica deve sapere che già è in atto, nel nostro Paese, un’amnistia di fatto. È talmente enorme il numero dei fascicoli pendenti che in alcune Procure della Repubblica, per alcuni reati, ritenuti privi di allarme sociale, non si effettuano più indagini. Le Corti di Appello non riescono a provvedere in tempo sulle impugnazioni. Una Giustizia a macchia di leopardo che crea gravi disparità di trattamento rispetto all’Ufficio Giudiziario competente. Ogni circondario di Tribunale, ogni distretto di Corte di Appello, reagisce in maniera diversa all’emergenza. La soluzione non può essere dilatare il termine di prescrizione e quindi i tempi del processo, già troppo lunghi se si pensa che il dibattimento si celebra dopo molti anni dai fatti e vi sono numerosi rinvii delle udienze, dovuti all’eccessivo carico di lavoro. Solo l’amnistia, accompagnata da una riforma organica, potrà riportare il processo penale sui binari della legalità. Anche l’indulto è necessario, perché nelle nostre carceri, nonostante si sia in parte intervenuti sul sovraffollamento, la situazione generale non è mai migliorata ed oggi il numero dei detenuti è in continua crescita. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha messo, nei giorni scorsi, nuovamente sotto accusa l’Italia (e l’Ungheria) per le criticità del sistema penitenziario, confermando che permane il "problema strutturale". Il carcere deve essere visto come estrema scelta e la strada da coltivare è quella di sanzioni diverse e un maggiore ricorso a misure alternative. Solo incidendo in maniera definitiva sul sovraffollamento, si potrà avviare un’effettiva nuova politica della pena. I giudici e le "leggi dell’umanità" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2016 Uno dei "ricordi più cari" di Piero Calamandrei riguarda un presidente di Corte con più di quarant’anni di carriera. Quel giudice gli raccontò che, durante un processo d’appello, il Pubblico ministero si lanciò in una durissima requisitoria contro l’imputata - una domestica accusata di aver rubato una posata d’argento (assolta in Tribunale per non aver commesso il fatto) - "inveendo violentemente" contro la donna, che, "accasciata sul banco degli imputati, piangeva silenziosamente". Mentre "l’accusatore continuava nelle sue invettive", il giudice chiamò l’usciere e gli sussurrò qualcosa all’orecchio; l’usciere, "come se portasse un’ambasciata", andò a riferirlo all’imputata "e quella si asciugò gli occhi e smise di piangere". Quando la Corte si ritirò in camera di consiglio per decidere, un signore del pubblico che aveva assistito alla scena si avvicinò all’usciere e gli domandò che cosa gli avesse detto il presidente. "Mi ha detto: vai a dire a quella donna che smetta di piangere perché l’assolveremo". Elvio Fassone, nel libro "Fine pena: ora" (Sellerio, 2015) racconta la corrispondenza durata ventisei anni tra un ergastolano e il suo giudice (lo stesso Fassone), dopo un maxi processo alla mafia catanese celebrato nel 1985 a Torino e durato due anni. Salvatore, a dispetto della sua giovane età, fu giudicato uno dei capi dell’associazione mafiosa e condannato al "fine pena mai", ma con lui il presidente della Corte stabilì subito un rapporto di reciproco rispetto e fiducia, e dal giorno dopo la sentenza cominciò a scrivergli, e a ricevere risposte, per non abbandonare quell’uomo che avrebbe trascorso in carcere il resto della vita, tra il desiderio di emancipazione - attraverso studio e lavoro - e lo sconforto, sfociato in un tentativo di suicidio quando arrivò il durissimo regime del 41 bis. Giancarlo De Cataldo, giudice della Corte d’assise d’appello di Roma e famoso scrittore, è stato da giovane anche magistrato di sorveglianza e in quel periodo ha conosciuto il detenuto Salvatore Buzzi. Lo risente anni dopo, quando Buzzi ha già scontato la pena, è stato riabilitato e viene considerato dal mondo istituzionale, politico e sindacale un esempio di reinserimento sociale, nonché punto di riferimento romano delle cooperative di recupero di ex carcerati. I due si scambiano alcuni sms, spesso ironici, fino a due mesi prima che Buzzi finisca al centro dell’inchiesta della Procura di Roma su Mafia capitale. Un coinvolgimento di cui De Cataldo era del tutto ignaro. Domanda: c’è, forse, nel comportamento di questi tre giudici qualcosa di "socialmente disdicevole"? C’è una caduta di prestigio o di credibilità, personale e della magistratura? O addirittura: queste tre storie sono forse espressione della "questione morale" che attraversa anche le toghe? Il primo giudice violò platealmente il segreto della camera di consiglio, anticipando addirittura la sentenza all’imputata; il secondo stabilì subito con il suo condannato un rapporto di intimità, qual è uno scambio epistolare ultraventennale; il terzo ha accettato un rapporto confidenziale con un ex detenuto, ormai riabilitato: in effetti, c’è un filo rosso che, malgrado i diversi contesti storici, attraversa le tre vicende. Ma è, per dirla con Calamandrei, "il rispetto delle leggi dell’umanità". Nessuno dei tre giudici ha esitato a riconoscere - non solo a parole, ma nei fatti - la dignità di persona a chi, nell’immaginario collettivo (anche di parte della magistratura), dovrebbe invece essere declassato a persona di serie B, condannato a un "fine pena mai" per essere finito nelle maglie della giustizia, un marchio indelebile che non consentirebbe aperture di credito, meno che mai contatti con chi rappresenta la Giustizia. Dunque, tre esempi virtuosi di giudici. E tuttavia, il Csm, o almeno una parte, non sembra pensarla così, visto che il caso De Cataldo-Buzzi è finito a Palazzo dei Marescialli e, dopo mesi, ha spaccato il plenum sulla proposta di archiviazione. Al giudice-scrittore non si contestano né "colpe" in senso tecnico né illeciti disciplinari, eppure continua a essere "accusato", in buona sostanza, di aver avuto rapporti telefonici con un "cittadino" che aveva espiato la sua pena, era uno dei simboli della rieducazione dei detenuti, e, all’epoca dei contatti, ancora non si sapeva che fosse indagato. Molti interrogativi sono stati sollevati sulle motivazioni di questo "accanimento": invidia per la sua notorietà di autore, anche di fiction? Resa dei conti fra gruppi contrapposti della magistratura? Attacco a Magistratura democratica sul terreno della "questione morale", che ha colpito in particolare toghe di altre correnti? Forse c’è anche questo, o forse no. Certo, il mercimonio o lo svilimento della funzione giurisdizionale che la cronaca ha via via registrato (al di là delle indagini e persino delle condanne) consiglierebbe al Csm di concentrare lì le attenzioni. Ma tant’è. Qui interessa un altro profilo, quello del "buon giudice", che di solito viene misurato sulla base dei parametri costituzionali dell’autonomia, dell’indipendenza, dell’imparzialità. Il giudice dev’essere, ma anche apparire, indipendente. Vero. Tuttavia, la Giustizia è anche altro, perché affonda le sue radici nel rispetto della dignità umana, il valore dei valori costituzionali. Calamandrei parlava di "leggi dell’umanità". E chi, più e meglio del giudice, deve incarnare il rispetto di quelle leggi? I valori costituzionali non basta declamarli; per tenerli vivi bisogna praticarli. Anche contro un certo senso comune che considera alcune persone di serie B. I giudici sono chiamati a dare l’esempio, dimostrando che la toga non è uno status aristocratico, che magari giustifica frequentazioni borderline, anche se apparentemente di serie A, e ne esclude altre a priori, perché di serie B. La Costituzione non distingue tra persone di serie A e di serie B. Non alza muri ma, semmai, cerca di abbatterli. Altrimenti non avrebbero senso né la presunzione d’innocenza fino alla condanna definitiva, né l’esecuzione della pena finalizzata al reinserimento sociale. Negare con il proprio comportamento questi principi è, quello sì, "disdicevole", soprattutto per chi indossa la toga. D’altra parte, quante mani stringono ogni giorno i giudici senza sapere se sono mani pulite oppure no? E quante di quelle mani, purtroppo, sono state anche mani di colleghi? Ecco perché il caso De Cataldo non solo non è di rilievo disciplinare, ma neppure "socialmente disdicevole" e, meno che mai, emblematico di una "questione morale". È soltanto una delle storie di giudici che sanno rispettare le "leggi dell’umanità" contro quello che lo stesso Calamandrei definiva il "farisaico ossequio alle forme crudeli". Un codice senza "identità". Introdurre un nuovo reato non aumenta la giustizia per la vittima di Claudio Cerasa Il Foglio, 2 novembre 2016 Carla Caiazzo è una donna di 38 anni che, incinta, è stata cosparsa di liquido infiammabile dal compagno e data alle fiamme, a Pozzuoli. È sopravvissuta, e anche la piccola Giulia, che oggi ha nove mesi, grazie all’intervento dei medici del Cardarelli. Non serve nemmeno spiegare in quali condizioni di menomazione fisica e morale Carla viva oggi. Ieri ha scritto al presidente Mattarella, tramite Repubblica, perché "da vittima voglio rappresentare un momento di riscatto e di riflessione per tutte le donne che subiscono, in silenzio, le violenze dei propri uomini". E poi: "Ti scrivo per chiederti di sollecitare il nostro legislatore ad individuare… una nuova figura di reato che punisca severamente coloro che, nel loro intento delittuoso, colpiscono le donne e, soprattutto, le cancellano dalla società civile". Quello che propone Carla, con l’aiuto in legalese del suo avvocato, è di introdurre un nuovo reato: "Con il mio difensore, l’abbiamo denominato ‘omicidio di identità’". "Il mio aggressore mi ha ammazzato lasciandomi viva. Siamo vittime di chi ha voluto cancellarci, distruggere, deturpare il nostro viso". L’uomo che ha tentato di ammazzare (cancellare?) Carla Caiazzo, Paolo Pietropaolo, è in carcere, e il processo si sta celebrando con rito abbreviato. I pm per lui hanno chiesto quindici anni di reclusione per tentato omicidio e stalking. Ma funziona così, la giustizia: nessun giudice può risarcire ciò che non è risarcibile. Ogni tragedia ha, com’è giusto che sia, il suo specifico dolore (in legalese si chiama "fattispecie"), ma il reato, anzi, la sanzione penale connessa a quel reato, non può essere personalizzato. I reati per cui sarà condannato Pietropaolo sono già codificati. Il reato di femminicidio ha reso un’aggravante lo stalking e gli atti violenti contro il coniuge (2013), ma ha consegnato più giustizia a quelle donne? Aggiungere un diritto all’identità violata, è un maquillage giuridico. Come per l’omicidio "stradale". Omicidio stradale, principio di affidamento: limiti stretti di applicazione Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2016 Circolazione stradale - Omicidio - Condanna - Principio di affidamento - Limiti di riconoscimento. L’utente della strada, nel caso di infortunio subito da un terzo anche per colpa di questi, potrebbe andare esente da responsabilità solo se provi che la sua condotta fu immune da qualsiasi addebito, sia sotto il profilo della colpa specifica, che della colpa generica, sì da presentarsi in tal caso la condotta medesima quale semplice occasione dell’evento. Di conseguenza la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente: il principio dell’affidamento, infatti, nello specifico campo della circolazione stradale, trova un opportuno temperamento nell’opposto principio secondo cui l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente di altri purché rientri nel limite della prevedibilità. • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 20 settembre 2016 n. 39050. Circolazione stradale - Omicidio stradale - Causalità - Principio di affidamento - Successione di posizioni di garanzia - Comportamento non corretto del primo dei garanti - Affidamento nel comportamento del secondo garante - Sussistenza di responsabilità anche del primo garante. In caso di successione di garanti non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione. Di conseguenza qualora, anche per l’omissione del successore, si produca l’evento esso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l’evento. (Nel caso di specie la questione era se colui che aveva violato la regola cautelare di cui all’ articolo 21 del Cds fosse o meno sollevato da responsabilità sulla basse delle rassicurazioni di altro soggetto il quale, non avendogli consentito di eseguire la consegna del materiale all’interno della proprietà, lo aveva invitato a depositarlo sul margine della strada dicendo che avrebbe successivamente curato egli stesso il trasporto della sabbia e della breccia dentro la proprietà e che avrebbe comunque provveduto ad apporre i necessari segnali. Il primo soggetto doveva comunque rispettare la regola cautelare pretendendo la consegna in sicurezza o rifiutando di effettuarla). • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 agosto 2016 n. 34522. Circolazione stradale - Omicidio stradale - Concorso di comportamenti negligenti - Principio di affidamento - Interruzione del nesso eziologico - Cause. Ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l’evento (articolo 41 codice penale, comma 2) la causa sopravvenuta, sufficiente alla produzione dell’evento, è quella del tutto indipendente dal fatto del soggetto, avulsa dalla sua condotta, operante con assoluta autonomia, in modo da sfuggire al suo controllo e alla sua previsione. In tale caso si concretizza il principio dell’imprevedibilità che, in ambito di circolazione stradale, tempera il principio di affidamento. (Nel caso di specie gli agenti posero in essere le condizioni perché sì producesse l’evento letale, il quale si verificò, sia pure per il probabile concorso del marciapiede inadeguato, che, però, non essendo imprevisto o fortuito, non poteva considerarsi autonomo, eccezionale o atipico e cioè interruttivo del nesso eziologico). • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 14 marzo 2016 n. 10724. Circolazione stradale - Omicidio stradale - Autovettura in corsia di sorpasso - Spostamento nella corsia di destra - Tardiva segnalazione dello spostamento - Mancato accertamento della provenienza di altri veicoli - Collisione con conducente di motociclo - Decesso del conducente del motociclo - Prevedibilità dell’evento - Sussistenza - Principio di affidamento (Limiti) - Non invocabile. La disciplina relativa alla condotta alla guida, regolata da norme cautelari ben precise (quali quelle del Codice della Strada), esprime nel suo insieme una serie di comandi e divieti che, al di là del valore precettivo, si giustificano sovente in base a possibili rischi di una condotta difforme da parte del conducente, potenzialmente derivanti anche dalla condotta negligente o imprudente altrui. In relazione al principio di affidamento, si legge nella sentenza in esame, la giurisprudenza di legittimità tende a limitare la possibilità di fare affidamento sull’altrui correttezza nell’ambito della circolazione stradale, pur ammettendo che il principio di cui si tratta debba essere in qualche modo riconosciuto anche in tale ambito. Infatti la soluzione contraria non solo sarebbe irrealistica, sostengono i giudici, ma condurrebbe a risultati non conformi al principio di personalità della responsabilità, prescrivendo obblighi talvolta inesigibili e votando l’utente della strada al destino del colpevole per definizione o, se si vuole, del capro espiatorio. In base a tale orientamento è stata recuperata la nozione di "prevedibilità" ed "evitabilità" con la conseguenza che il principio di affidamento non può operare allorquando vi sia la ragionevole prevedibilità della condotta del terzo o della vittima da parte del soggetto attivo. • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 11 febbraio 2016 n. 5691. Bancarotta, correo chi beneficia della distrazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2016 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 31 ottobre 2016 n. 46645. Concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale per l’amministratore della Srl che beneficia dell’attività distrattiva messa in atto dall’amministratore unico di una Spa. La Cassazione (sentenza 46645)conferma la condanna a carico dell’amministratore di una società a responsabilità limitata verso la quale erano confluiti, senza corrispettivo, i beni di una Spa gestita da un amministratore unico, condannato per bancarotta per distrazione in un altro processo. Secondo il ricorrente non c’erano elementi per affermare la sua responsabilità, visto che la condanna si era fondata su documenti rinvenuti presso la Spa dichiarata fallita e gestita da un "manager" condannato, a suo volta, per il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva e documentale. Ad avviso della difesa doveva considerarsi perlomeno plausibile che il materiale "probatorio" fosse non solo di parte ma anche non veritiero perché fornito da un bancarottiere. Di contro nel processo non c’erano documenti della "beneficiaria" delle distrazioni, che con la società "svuotata" dei capitali condivideva oggetto sociale e sede legale. Carte che avrebbe dovuto fornire il suo successore del ricorrente. Per la difesa la condanna per concorso nel reato si basava solo sulla carica rivestita nella Srl, elemento però non sufficiente senza la prova certa e inconfutabile della responsabilità dell’amministratore: il momento consumativo del reato coincide, infatti, con il compimento dei singoli atti distrattivi. Per finire mancava anche l’elemento soggettivo: la volontà di porre in essere operazioni di carattere distrattivo e la consapevolezza di recare un pregiudizio ai creditori. Per la cassazione le prove della distrazione sono evidenti e non hanno bisogno di altri riscontri. La Spa aveva ceduto alla Srl risorse attive per centinaia di migliaia di euro oltre a immobilizzazioni immateriali per più di un milione di euro: tutto senza alcun canone di utilizzo. Nel "pacchetto" passato di mano c’erano anche merci e beni per un ammontare superiore ai 2 milioni di euro, oltre a compensazioni di credito per forniture che non costituivano pagamenti reali, ma semplici alchimie contabili. A queste si univano "sconti" del 30% praticate dalla fallita, in situazione di sofferenza, alla Srl. Per la Suprema corte basta per affermare la responsabilità, le "prove" non si fondavano, infatti, solo sui dati contabili della Spa, ma sulla lettura di questi incrociati ad altri elementi e alle perizie. Accertamenti esaurienti che rendevano superfluo acquisire la documentazione della Srl. La Cassazione precisa che per il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione "il ruolo dell’extraneus nel reato proprio dell’amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell’intraneus, con la consapevolezza che essa determina un deauperamento del patrimonio sociale ai danni del creditore". Mentre non è richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società. Ogni atto distrattivo è rilevante in caso di fallimento a prescindere dalla rappresentazione di quest’ultimo. Da ultimo la Cassazione respinge la tesi del ricorrente, secondo il quale la sua società si era impegnata a pagare i creditori della fallita tentando una politica di reinvestimento. Affermazione smentita dalle sentenze di merito. Cari cattolici, l’amnistia vi riguarda di Angiolo Bandinelli Il Dubbio, 2 novembre 2016 Dunque, la Cei smentisce. Smentisce la "adesione" alla "Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà" indetta dal Partito radicale transnazionale transpartito e non violento per l’ormai imminente 6 novembre. Ce lo assicura una nota non firmata apparsa il 23 ottobre, in cronaca, su L’Avvenire, lo stesso giornale che tre giorni prima, il 23 ottobre, aveva ospitato una lettera a firma mia e di dirigenti del partito. Una lettera indirizzata al direttore Marco Tarquinio, ma anche una sua cortesissima e bellissima risposta, molto aperta verso i "gentili e cari amici" radicali, anche se ferma nel mantenere le divergenze sui temi religiosi tra lui, il suo giornale e i "laici anticlericali" (così si erano definiti i firmatari). La nota assicurava che l’adesione della Cei alla marcia non c’era stata, ed era responsabilità dei radicali e di qualche agenzia stampa l’aver diffuso la - di per sé straordinaria - notizia. La smentita è stata ribadita poi anche, due giorni dopo, da monsignor Nunzio Galantino, che della Cei è Segretario: "Noi siamo responsabili - ha dichiarato - di quello che diciamo e non di quello che ci attribuiscono" Non sarò io a smentire la doppia smentita, non ne ho l’autorità ma nemmeno la voglia. Nella nostra lettera, infatti, non c’era alcuna richiesta di "adesione" rivolta alla Cei o al Vaticano, c’era solo la sollecitazione, diciamo l’auspicio, che l’autorevole giornale cattolico voglia sostenere l’iniziativa, così "dando una mano per il suo buon successo". "Noi pensiamo ? concludeva la lettera ? di poter nutrire questa speranza". Nulla di più, e nulla di meno. Era in primo luogo un segno di stima e rispetto per il giornale, di cui si chiedeva l’appoggio o almeno una limpida e approfondita informazione sulla marcia, anche se indetta da "laici anticlericali". Ma oltre a questo auspicio, che qui rinnovo, la lettera testimoniava ben altro. Ricordava, innanzitutto, due occasioni nelle quali il sostegno cattolico a nostre iniziative era stato importante, serio e profondo: la prima fu la campagna per la lotta alla fame nel mondo con le sue grandi Marce di Pasqua, un obiettivo che ci univa alle ansie verso i diseredati della terra di papa Giovanni Paolo II, il quale ce ne diede pubblicamente atto; e ugualmente sentimmo l’attenzione del mondo cattolico per le iniziative di Pannella - in primo luogo - sulle condizioni inumane delle carceri, sulla situazione disastrosa della giustizia italiana, e specificamente per sollecitare una amnistia/indulto (un "atto di clemenza", la definì papa Giovanni Paolo II davanti al Parlamento italiano riunito in seduta congiunta) da cui avviare la riforma della giustizia. Dunque, nulla che possa essere oggetto di una smentita. Anzi, una nuova occasione per ricordare che - stranamente - proprio l’anticlericale Partito pannelliano pone grande e specifica attenzione a temi profondi della religiosità cristiana. E io tengo a confermarla nuovamente, questa particolare attenzione: penso infatti che il cattolicesimo italiano, grazie a papa Francesco, stia affrontando quello che è il tema, il problema fondamentale che si pone all’uomo contemporaneo: la definizione dei valori necessari e urgenti per una umanità globalizzata, non più suddivisa tra religioni, razze o confini nazionali tra etnologia e razzismo, ma unita nella speranza di una condivisione di certezze, significati, "simboli", diritto, validi ovunque e per ciascuno. I grandi movimenti migratori, le tempeste in corso sul web, in un cyberspazio cui non fanno più ostacolo differenze di lingua o d’altro genere, potranno trovare una loro regolazione solo se si troverà un indice, una sorta "decalogo", di valori comuni e condivisi. Nessun "superstato", solo un tacito, comune, silenzioso accordo su pochi, fondamentali principi. E se questa è l’ambizione, o la missione, di Papa Francesco, è anche l’obiettivo delle più recenti battaglie pannelliane. Non è sufficiente questa consapevolezza per far sì che in momenti importanti e utili, nei quali questi temi vengano agitati e promossi, possa esservi una convergenza di iniziative, un sostegno reciproco? Per questo mi permetto, caro Tarquinio, di sollecitare ancora da lei il sostegno del suo giornale alla "Marcia" radicale (e non solo) dell’imminente 6 novembre, cosicché numerosi siano i partecipanti credenti, cattolici. I migliori giudici dei magistrati sono gli avvocati. E viceversa di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 2 novembre 2016 Che l’Associazione nazionale magistrati assuma posizioni critiche verso il governo o verso il Parlamento non è cosa nuova, manifestandosi queste almeno da quattro decenni, con sempre maggior intensità. Sta di fatto comunque che da molto tempo l’Associazione nazionale magistrati è divenuta il più forte partito italiano e che anzi, di fronte all’ormai endemica crisi dei partiti tradizionali - ci cui è testimonianza l’emergere di un non-partito come quello di Grillo - forse è l’unico partito rimasto nel panorama politico italiano. Lo dimostra la circostanza che pochi giorni or sono un comunicato dell’Anm ha stigmatizzato in modo negativo il ventilato desiderio del governo - non ancora formalizzato in alcun disegno di legge ? di rafforzare il ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari soprattutto con riferimento alle valutazioni di professionalità dei magistrati, in quanto si tratterebbe di un "profilo che non attiene al perseguimento degli obiettivi di efficienza del sistema giudiziario" (sic!). Ora, a prescindere dal fatto che non si vede proprio come si possa pensare di separare il problema della professionalità da quello della efficienza, quasi che possa concepirsi un magistrato efficientemente non professionale (che sarebbe una vera sciagura) o, al contrario, uno professionalmente inefficiente (che sarebbe perfino comico), c’è da notare con vera preoccupazione come l’Anm, ragionando in tal modo, manchi di senso della realtà. E ne manca perché sembra proprio non sospettare neppure come in linea di principio non sia possibile immaginare giudici più competenti e scrupolosi degli avvocati nei confronti dei magistrati. Nessuno, meglio e più di un avvocato, è davvero in grado di giudicare l’operato di un magistrato, il suo buon senso, la sua preparazione, la sua equanimità. Nello stesso modo, Giovanni Gentile affermava che chi nel corso di un’ora di lezione non ha imparato nulla dai suoi allievi, non ha neppure insegnato nulla. E dunque pare proprio, come insegna il sagace monito del filosofo, che se non si capisce che fra docente e discente si instaura una dinamica circolare che rende ciascun ruolo tributario dell’altro, non si capisce proprio nulla: si tratta infatti di una dinamica genuinamente antropologica, come tale presente in ogni tipo di rapporto umano. Ecco perché - anche se l’Associazione nazionale magistrati non lo sospetta neppure - fra giudici e avvocati nasce e si alimenta una salutare dialettica in virtù della quale ciascun ruolo si trova nelle condizioni ideali per giudicare l’operato dell’altro. Come gli avvocati soni i migliori giudici dei loro giudici, così questi lo sono di quelli: mi capitò una volta, quando mi trovavo ancora nei ruoli della magistratura, di bloccare un avvocato (di cui non dirò nulla neppure sotto tortura), il quale, per insipienza, per distrazione o per ignoranza, stava letteralmente rovinando senza avvedersene il proprio assistito. Feci bene o male? Penso di aver agito allora nel nome di una superiore istanza di giustizia che vuole appunto il rispetto del principio delle rispettive posizioni processuali e che mi parve in grave pericolo di essere violato dalle parole di quell’improvvido avvocato. Non basta. Infatti, Piercamillo Davigo, Presidente della Associazione, ha rincarato la dose prendendosela con la lobby degli avvocati e sostenendo la necessità del numero chiuso in Giurisprudenza allo scopo di ridurne il numero complessivo. Davigo, evidentemente lontano da questa realtà, non sospetta neppure l’assurdità del numero chiuso nelle facoltà universitarie. Infatti, questo assurdo sistema dice ai giovani che abbiano superato l’esame di maturità e che dunque sono maturi per continuare gli studi presso le Università che invece non è vero e che bisogna superare i test e ciò solo due mesi dopo l’esame di Stato: una pura ridicolaggine. Inoltre, è sotto gli occhi di tutti che di molte professioni da molto tempo esistono potenti lobbies - notai, commercialisti, case produttrici dei farmaci ecc. - ma non certo degli avvocati. Se esistesse davvero una tale potente lobby, molte storture oggi presenti nel nostro sistema non esisterebbero. Comunque sia, una cosa è certa: che cioè Davigo parla, si muove, agisce come un segretario di un forte partito politico, così come hanno fatto del resto in passato i suoi predecessori. Solo che oggi, l’Associazione da lui guidata è il più forte partito e anzi, come dicevo, l’unico rimasto sulla scena. Nulla di male? No, molto di male per il semplice motivo che se i magistrati collaborano a confezionare le norme di legge che poi loro stessi dovranno applicare, viene violato il principio cardine dello Stato di diritto: quello della separazione dei poteri. E quest’effetto, purtroppo, è pericolosissimo, perché potrebbe segnare l’inizio della fine. Ma Davigo lo sa? E se lo sa, che ne dice? Torino: "pestaggi nel carcere di Ivrea", la procura indaga su tre episodi di Paolo Griseri La Repubblica, 2 novembre 2016 La direttrice: "Indignata, c’è chi strumentalizza". Ma il garante per i detenuti: "Segnalazioni purtroppo frequenti". Un pestaggio oltre le sbarre. Denuncia grave, gravissima. Quasi incredibile. Ma supportata da una denuncia, da una lettera pubblica, firmata con nome e cognome da uno dei detenuti. Purtroppo non un caso isolato. "Le segnalazioni di episodi di violenza in questo carcere sono purtroppo frequenti", dice Armando Michelizza, garante dei detenuti del comune di Ivrea. La Procura della repubblica conferma di avere "diversi fascicoli" aperti su episodi di violenza. L’indagine è in corso. "Solo nell’ultimo anno - conferma Michelizza - le denunce di detenuti su episodi di sopraffazione oltre il cancello del carcere sono tre". L’ultimo però è clamoroso. In una lettera pubblicata lunedì sul sito "Infoaut", il detenuto M.P. racconta che la notte del 25 ottobre scorso "le guardie hanno usato violenza indiscriminata. Chiamata la squadra di supporto da Vercelli e riuniti in forza armati di idranti e manganelli hanno distrutto dei compagni detenuti riducendone due quasi in fin di vita". Segue l’elenco dei detenuti picchiati, anche qui con nomi e cognomi. Che il pestaggio ci sia stato lo conferma, pur con tutta la prudenza del caso, lo stesso garante eporediese: "Sono stato in carcere nei giorni successivi e ho incontrato uno dei due detenuti che denunciano di essere stati malmenati. Effettivamente ho visto lividi e ferite al naso". Ma che qualche cosa di grave sia accaduto quella notte lo ammette la stessa direttrice dell’istituto di pena, Assuntina Di Rienzo: "Già il 14 ottobre un gruppo di detenuti aveva incendiato carta e rotto suppellettili nelle celle per protestare contro le condizioni di vita avanzando diverse richieste. Ho esaminato il filmato e ho deciso alcuni trasferimenti di piano come provvedimento disciplinare. La notte del 25 ottobre la tensione è tornata a salire. Il comandante degli agenti è intervenuto insieme ad altro personale e ha riportato la situazione sotto controllo. Ci sono stati tre agenti feriti". Ma i detenuti picchiati? "Sono indignata per la versione che si legge sulla lettera firmata dal detenuto. Gli agenti sono intervenuti con i normali strumenti e lo hanno fatto anche per evitare conseguenze agli altri carcerati". In ogni caso, conclude la direttrice, "ci saranno le inchieste dell’ispettorato a chiarire le responsabilità di quel che accaduto". Non c’è solo l’indagine dell’ispettorato. Ci sono anche i fascicoli aperti dalla Procura. "Certo - dice la direttrice - ma l’inchiesta tuttora aperta in Procura nasce dalla denuncia di un detenuto e siamo stati noi a girare la documentazione ai magistrati". La situazione è comunque molto delicata. Nei mesi scorsi un sindacato degli agenti penitenziari si erano spinto a chiedere esplicitamente la sostituzione della direttrice perché non avrebbe tenuto conto dei rapporti disciplinari scritti dagli agenti contro i detenuti. Ora la tegola delle inchieste che sembrerebbero scaturire non da un polso debole ma, semmai, da un pugno troppo duro. "La situazione di Ivrea emerge in questo periodo come una delle più delicate", dice Bruno Mellano, garante dei detenuti del Piemonte. "Le segnalazioni su quel carcere - aggiunge - sono ricorrenti e preoccupanti. Ho avuto occasione di parlarne anche recentemente con i responsabili dell’amministrazione penitenziaria locale e nazionale. È necessario trovare il bandolo della matassa per imprimere un cambio di passo". Più in generale, osserva Mellano, "la situazione nelle carceri italiane è tornata tesa perché non si intravedono a breve provvedimenti in grado di migliorare la condizione dei detenuti. I progetti di riforma sono da tempo fermi al Senato. In Piemonte è salito recentemente il numero dei detenuti stranieri, oggi il 43 per cento della popolazione rispetto a una media nazionale del 33. Un particolare che ha aumentato le tensioni". Oristano: Massama, la piccola Alcatraz sarda che rischia di diventare Guantánamo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 novembre 2016 45 detenuti hanno scritto al ministro orlando per lamentare le condizioni della struttura. Di nuovo clima di tensione all’interno del super carcere sardo di Massama. Nei mesi scorsi - come già riportato da Il Dubbio - i detenuti avevano inscenato una protesta per denunciare la situazione al limite della sopportazione. Per evitare che la situazione esplodesse, il funzionario ministeriale aveva avviato una mediazione per cercare di riportare la calma dentro il carcere. All’inizio del mese di aprile vi era giunto a far visita anche Mauro Palma, il Garante nazionale dei detenuti e aveva promesso che avrebbe sollevato il problema a chi di competenza. Così aveva fatto, ma le richieste del Garante sono rimaste tuttora inattuate. Per questo motivo 45 detenuti di Massima hanno inviato una lettera al ministro della Giustizia preannunciando nuove proteste. Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione socialismo, diritto e riforme si è fatta portavoce della protesta e denuncia l’aggravarsi della situazione. "Nel carcere di Massama - conferma Maria Grazia Caligaris - convivono 284 detenuti, quasi tutti di altre regioni, e in regime di alta sicurezza, per 260 posti. Si tratta prevalentemente di ergastolani che, nel rispetto della legge sull’ordinamento penitenziario, dovrebbero poter disporre di una cella singola e di un lavoro. Il maggior disagio è legato alla difficoltà di avere un dialogo costante con il direttore". Quello di Massama è una piccola Alcatraz sarda che sorge nel nulla e dove sono ristretti ? grazie ad una direttiva del Dap emanata nel 2014 - molti detenuti condannati per reati legati alla mafia. Il carcere - struttura consegnata alla fine del 2012 - fin dall’inizio aveva evidenziato delle carenze. Risulta che nei muri dei corridoi e di alcune celle sono visibili i segni dell’umidità, in alcune pareti l’intonaco è cadente, alcuni tubi sono arrugginiti. Il carcere è ancora in fase di rodaggio nonostante siano passati quasi quattro anni. Non c’è un posto dove fare attività fisica, la scuola, la biblioteca, il teatro. I detenuti, quasi tutti in regime "ex 41 bis", possono uscire dalla cella per sole quattro ore al giorno. Ma il degrado c’era anche quando vi erano ristretti esclusivamente i detenuti comuni. Nel 2013 cominciarono già le prime proteste. " Questo non è un carcere, ma un lager creato per spersonalizzare il detenuto e non per prepararlo a un graduale reinserimento nella società. Si parla tanto di regimi duri per mafiosi, ma qui il regime punitivo lo subiamo noi", così denunciarono i detenuti comuni appena giunti nel carcere appena consegnato. A lamentarsi però non sono solo i detenuti, ma anche gli agenti della polizia penitenziaria che dicono di non essere in grado ? a causa della carenza di personale ? di far svolgere le attività e puntano anche loro il dito contro la direzione del carcere. Nel frattempo i detenuti denunciano di essere ristretti in condizioni che violano le norme di legge e i regolamenti di esecuzione. In particolare lamentano il sovraffollamento delle celle, che riduce lo spazio disponibile al di sotto dei parametri legali, una regolamentazione dei colloqui con i familiari che penalizza i detenuti provenienti dalle altre regioni, la mancata fruizione di attività ricreative, rieducative e culturali e la totale assenza di contatti con il magistrato di sorveglianza e le associazioni del volontariato. Un carcere completamente abbandonato e privo di funzione riabilitativa. I numeri messi a disposizione dal Dap però non tornano. Secondo i dati reperibili sul sito del ministero della Giustizia, aggiornati al 30 settembre, i detenuti risultano 284 su una capienza regolamentare di 260 posti. Quindi, secondo questi dati, ci sarebbero "solamente" 24 ristretti in più. Ma visionando la scheda completa del carcere di Oristano - sempre reperibile sul sito del ministero - risulta che il numero esatto delle stanze di detenzione che possono ospitare un massimo di due persone, sono 123. Quindi il sovraffollamento risulterebbe maggiore. Ma il dato cresce ancora di più se prendiamo in considerazione gli ergastolani che per legge hanno il diritto - non rispettato nel carcere - a una cella singola. Ecco spiegato perché - come denunciano i detenuti - in una cella adibita a solo due posti letti, è stata aggiunta una terza branda. Se i dati venissero confermati, la piccola Alcatraz assomiglia sempre di più ad una Guantánamo. Le proteste, nel frattempo sono riprese, sperando che arrivi presto una soluzione. Livorno: aperto il bando per la figura di Garante comunale dei detenuti controradio.it, 2 novembre 2016 Aperte le candidature per l’incarico di Garante dei detenuti, con scadenza il 14 novembre. Possibile l’invio via Pec. Da lunedì 31 ottobre a lunedì 14 novembre (entro le ore 12) è possibile inviare la propria candidatura per l’incarico di Garante dei detenuti. La domanda di partecipazione deve riportare nell’oggetto "Candidatura alla nomina di Garante delle persone private della libertà personale." e avere in allegato un dettagliato curriculum, con la dichiarazione del possesso dei requisiti richiesti dal Regolamento. Le candidature possono essere consegnate all’Ufficio di Relazioni con il Pubblico (al piano terra del Palazzo Vecchio), con orario di apertura 9 - 13 (tutti i giorno dal lunedì al venerdì) o anche dalle 15.30 alle 17.30 (martedì e di giovedì pomeriggio). In alternativa è possibile inviare la domanda con la Pec all’indirizzo comune.livorno@postacert.toscana.it. Invece in caso di invio per posta non farà fede il timbro postale. L’Amministrazione si riserva, se necessario, di modificare o revocare l’avviso di selezione, nonché di prorogarne o riaprirne il termine di scadenza, oppure di non dare corso alla presente procedura selettiva in caso di modifiche normative o economico-finanziarie che ne possono impedire la conclusione. L’avviso pubblico e il modello di domanda sono disponibili all’Ufficio Relazioni con il Pubblico e scaricabili anche dal sito web del comune. Venezia: si spara all’ospedale Civile, grave poliziotta penitenziaria di 28 anni Il Gazzettino, 2 novembre 2016 Si punta la pistola alla testa e spara: la drammatica scena si è consumata questa mattina all’ospedale Civile di Venezia, nel padiglione Jona, all’interno di un ascensore verso le 12.30. A spararsi è stata una poliziotta penitenziaria di 28 anni: era andata per un controllo ad una detenuta ricoverata in ostetricia dopo un parto. Eseguito il controllo al Nido (il piccolo era in osservazione e la mamma con lui) la donna è uscita e ha preso l’ascensore. Qui si è sparata. Trasferita all’Angelo di Mestre, sarebbe in gravissime condizioni e in attesa di essere operata alla testa. Drammatica la scena che si è presentata ai soccorritori: l’ascensore dell’ospedale era pieno di sangue e l’agente di polizia penitenziaria giaceva a terra. Il colpo è stato udito da molti pazienti in ospedale. Sconosciute le cause del tragico gesto della donna che è originaria della Calabria. Donato Capece, segretario del sindacato autonomo Sappe, è "davvero sgomento". "Solo nel mese di agosto si erano tolti la vita 2 agenti penitenziari e dal 2000 ad oggi oltre cento sono stati i casi di suicidio nel Corpo di Polizia". Rilevando che al momento non si conoscono le ragioni del gesto ed esprimendo la speranza che l’agente possa salvarsi, Capece fa un richiamo alle situazioni di stress dei lavoratori penitenziari: "Non si può pensare di lavarsi la coscienza istituendo un numero di telefono - peraltro di Roma! - che può essere contattato da chi, in tutta Italia, si viene a trovare in una situazione di particolare disagio. Servono soluzioni concrete". Monza: gli negano il trasferimento e il detenuto tenta due volte il suicidio ilcittadinomb.it, 2 novembre 2016 Ha tentato di togliersi la vita per due volte in una settimana. È un detenuto nella casa circondariale di Monza cui sarebbe stato negato il trasferimento in un altro carcere, una richiesta mai accolta che lo ha spinto a due tentativi di suicidio. Soccorso dagli agenti di sorveglianza. Ha tentato di togliersi la vita per due volte in una settimana. È un detenuto nella casa circondariale di Monza cui sarebbe stato negato il trasferimento in un altro carcere, una richiesta mai accolta che lo ha spinto a due tentativi di suicidio. Lunedì 31 ottobre l’uomo, un collaboratore di giustizia trentenne, si è inflitto ferite alle braccia e al collo con una lametta da barba: soccorso in codice giallo dagli agenti, è stato trasferito non in pericolo di vita all’ospedale San Gerardo. Una settimana prima aveva cercato di impiccarsi alle sbarre della cella con la cintura dei pantaloni. Oltre al trasferimento negato, ad aggravare il suo stato anche l’impossibilità per i collaboratori di giustizia di usufruire del nuovo regime di celle aperte, sperimentato già da diversi mesi in altre zone del carcere, che consente ai detenuti delle altre sezioni di poter uscire liberamente dalle proprie celle. "Già domenica scorsa lo stesso detenuto ha messo in atto un gesto di impiccamento e, ancora una volta, solamente grazie alla prontezza del personale di Polizia Penitenziaria operante nel Reparto, si è scongiurato il peggio", ha detto Nico Tozzi, vice segretario lombardo del sindacato Sappe. Il Sappe evidenzia che, al 30 settembre, "nella Casa Circondariale di Monza erano detenute 600 persone rispetto ai circa 400 posti letto regolamentari: 256 erano gli imputati, 344 i condannati" e che nel primo semestre del 2016, nelle carceri della Lombardia, si sono contati "481 atti di autolesionismo, 54 tentati suicidi, 417 colluttazioni e 51 ferimenti". Salerno: i Radicali visitano carcere "sanità negata, i detenuti devono comprarsi i farmaci" La Città di Salerno, 2 novembre 2016 Il carcere circondariale di Fuorni non è più sovraffollato come in un recente passato. La capienza legale, infatti, e di 380 persone e attualmente dietro le sbarre ci sono "solo" 407 detenuti. Ma, nonostante la diminuzione degli "ospiti" permangono evidenti problemi. Tra le principali pecche del penitenziario cittadino c’è sicuramente un’assistenza sanitaria piuttosto zoppicante. È quanto emerge dall’ispezione effettuata, ieri mattina, dal parlamentare Michele Ragosta, dall’assessore comunale Maria Rita Giordano e dal locale segretario dei radicali, Donato Salzano. I reparti visitati sono stati quelli femminile, che ospita 46 detenute, tra cui una condannata all’ergastolo, la sezione alta sicurezza, in cui si trovano 67 carcerati. La maggiore concentrazione di "ospiti", comunque, è nella sezione reati comuni (circa 250 detenuti). Ma, al di là dei numeri, ciò che balza all’occhio e l’approssimazione dell’assistenza sanitaria. "Per le visite specialistiche - denuncia Salzano - c’è una lista d’attesa di oltre un mese. E la poltrona odontoiatrica da tempo è inutilizzabile". Difficoltà ci sarebbero pure per il reperimento dei medicinali. "Mancano i farmaci - sottolinea Salzano - così capita che i detenuti per curarsi debbano mettere mano al portafoglio e farsi comprare le medicine all’esterno". Non tutta la struttura carceraria, inoltre, è praticabile. "Due cortili esterni - rivela Ragosta - di cui uno polivalente e l’altro attrezzato con giostre per i colloqui delle famiglie con i detenuti, sono inagibili in quanto si è verificato il distacco dei cornicioni. E nel reparto femminile non funziona la cucina". La visita, tuttavia, ha fatto emergere anche delle gradite sorprese. "Il personale della polizia penitenziaria - precisa Giordano -seppur sott’organico, fa un lavoro encomiabile, svolgendo anche il ruolo di assistenza psicologica per i detenuti. E poi ci sono ì corsi dell’Istituto Alberghiero e di ceramica. Infine tra poco entrerà in funzione un cali center che gestirà le prenotazioni al "Ruggi". Torino: l’estetica che cura di Monica Gallo La Repubblica, 2 novembre 2016 All’interno del carcere, la vista è il senso che subisce maggiori privazioni. Tutto è troppo vicino e la linea dell’orizzonte non si riesce più ad afferrare. In queste settimane alcuni alti ponteggi rendono faticoso l’attraversamento dei corridoi del carcere di Torino: è in corso una riqualificazione cromatica. Lo scopo è creare un’estetica colorata in grado di migliorare la qualità della vita all’interno dell’Istituto, utilizzando le potenzialità dei colori. All’interno del carcere, la vista è il senso che subisce maggiori privazioni. Spesso sottoposti ad un altissimo sforzo per poter immaginare oltre il grigio che avvolge la vita, i detenuti sono soggetti dalla "Vista Corta", tutto è troppo vicino e la linea dell’orizzonte non si riesce più ad afferrare. I toni grigi e le fitte griglie scure rappresentano l’universo del carcere privo di stimoli visivi, fattori di condizionamento dell’umore e dell’armonia. La scelta di colori più vari è forse stata pensata per accelerare la lentezza del tempo, concedere maggior benessere alle persone che vivono all’interno e interrompere la monotonia cromatica. Costruito negli anni ottanta, l’edificio del Carcere di Torino sembra esserci da un tempo assai più antico. Le condizioni strutturali sono decadenti e in alcune zone frequenti infiltrazioni d’acqua hanno contribuito ad un rilevante danneggiamento dell’istituto. Numerosi sono gli sforzi dell’Amministrazione Penitenziaria per migliorarne le condizioni e la trasformazione dell’atmosfera cromatica fa parte di questo impegno. I prossimi locali ad essere risanati saranno le zone colloquio con i familiari: quelle ampie stanze dove le famiglie si riuniscono per brevi incontri privi di intimità. Per le celle che, dovremmo chiamare "camere di pernottamento", sarebbe interessante intraprendere un percorso di progettazione cromatica con i tutti i detenuti affinché ognuno possa esprimere le proprie suggestioni visive e colorarsi uno spazio all’interno del quale possa riconoscersi. La cella per molti detenuti rappresenta il territorio intimo all’interno della quale trovano spazio una moltitudine di oggetti di diversi materiali, frutto della creatività e fantasia di chi la abita. Infine si dovrebbe ripensare ai muri dei passeggi. Sandro Bonvissuto, nel suo libro Dentro, descrive con cura cosa rappresentano: "Il muro è il più spaventoso strumento di violenza esistente. Non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto". Tutti i giorni, all’ora d’aria, puoi arrivare a toccarlo col naso "per guardarlo così da vicino da non vederlo più. E il muro non è fatto per agire sul tuo corpo; se non lo tocchi tu, lui non ti tocca. Non è una cosa che fa male, è un’idea che fa male". Forse l’interruzione della monotonia cromatica dei muri dei passeggi potrebbe renderli meno spaventosi e concedere l’illusione di vedere oltre. Terremoto. Quei miliardi degli F35 per ricostruire di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 2 novembre 2016 Dall’epicentro Italia si irradia una condizione di concreta e profonda instabilità materiale, subito fisica e sensoriale prima ancora che di prospettiva sull’incerto futuro per decine di migliaia di persone costrette alla fuga, alle quali è letteralmente cascato il mondo e cascata la terra. E non è un girotondo. Il clima di incertezza è la costante e l’inverno è arrivato nelle aree del terremoto. Ci si chiede che fare di fronte a tanta disperazione. E come, da parte nostra, essere all’altezza di una tale crisi. Così, mentre apprezziamo che ci sia "unità" istituzionale iniziata con la dichiarazione della presidenza del consiglio che "l’unico possibilità è non dividersi ma rispondere insieme alla sfida", tuttavia rimaniamo quantomeno contraddetti dalle iniziative fin qui annunciate. Senza dimenticare che siamo nel clima del referendum il cui voto si approssima, per un plebiscito che - mentre si chiede il concorso di tutti - divide e spacca il paese e soprattutto prepara una "democrazia di nominati", mentre la tragedia del sisma proprio in queste ore mostra invece la necessità di poteri reali, voluti e controllati direttamente dai cittadini; com’è per il ruolo dei sindaci, unica, ancora, vera esperienza di democrazia in Italia. Il consiglio dei ministri annuncia nuove spese per l’emergenza, dopo avere evocato, solo a parole, il progetto di Casa Italia, annunciato due mesi fa dopo il terremoto di Amatrice. Resterà anche questo, è bene saperlo, promessa e lettera morta nonostante ormai rappresenti la vera necessità del Paese ferito che non vuole perdere lavoro e identità culturale. Perché nasce sotto la cattiva filosofia dell’emergenza, della difesa del nostro territorio volta a volta, sotto i riflettori delle tv. Mentre la questione del sisma è strutturale, come dimostra la storia italiana. Dove, ogni volta, c’è "bisogno" di un terremoto perché si metta mano ad un piano che difenda l’assetto storico abitativo del Belpaese. Siamo forse costretti a parlare d’ora in poi di utilità del terremoto? Soprattutto, Casa Italia resterà lettera morta se non si avvia revisione mirata e progettuale della spesa finanziaria. Nel senso che, di fronte alla necessità di Casa Italia, che pretende brigate di ingegneri, battaglioni di geologi e vulcanologi, un esercito di geometri e un’armata di operai, edili e metallurgici, specializzati, mentre subito servono tende e casette, alloggiamenti sulla costa, macchine movimentazione terra, schiere di vigili del fuoco, presidi di medici e assistenti sanitari, ci chiediamo perché questo paese debba avere in finanziaria il costo di 15 miliardi per l’acquisto di 90 cacciabombardieri F-35. Qualcuno, a cominciare dal governo Renzi per favore ci risponda. E non con le chiacchiere che la spesa sarebbe "spalmata per molti anni". La necessità non è il cacciabombardiere ma il soccorso e l’aiuto, l’assistenza e la ricostruzione. L’esempio del costo degli F-35 non sembri capzioso. Il paragone invece viene proprio da paesi distrutti dal sisma: la nuvola di polvere e fumo che si è sollevata dai centri precipitati al momento delle scosse è stata più volte paragonata a quella di un bombardamento. Solo che il sisma è un evento naturale che, certo, è difficile prevedere ma si può e si deve fare prevenzione per salvare vite umane; la guerra invece è un "terremoto" ma voluto e prodotto dagli uomini. L’unica vera difesa dell’Italia è questa, non l’offesa della guerra in territori altrui, come da nostra Costituzione. E ora perché il conflitto con l’Unione europea non sembri una moina per apparire antagonisti in occasione del referendum, cominciamo a modificare i contenuti e la filosofia della finanziaria d’austerità: via il fiscal compact messo nella Costituzione, via ogni vincolo di bilancio. E via la spesa di 15 miliardi per i cacciabombardieri F-35 a fronte di tre miliardi - solo sulla carta - destinati alla ricostruzione e ai terremotati. Se casca il mondo e casca la terra, tutti giù per terra. Ce lo chiede la disperazione dell’epicentro Italia. Il Papa e i migranti: "accoglierli con prudenza, bisogna poterli integrare" di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 2 novembre 2016 "Non dobbiamo spaventarci per l’integrazione delle culture perché l’Europa è stata fatta con una integrazione continua delle culture, di tante culture". "I Paesi che chiudono le frontiere? Non si può chiudere il cuore a un rifugiato". L’aereo che riporta il Papa a Roma si è appena lasciato alle spalle il Baltico, Francesco raggiunge i giornalisti in fondo all’aereo e sorride, "vorrei ringraziarvi per il lavoro che avete fatto e il freddo che avete preso, ma siamo usciti in tempo, dicono che stasera la temperatura scenderà di cinque gradi". Santità, da Siria o Iraq cercano rifugio nei Paesi europei e alcuni reagiscono con paura, c’è chi teme che questo esodo possa minacciare il cristianesimo in Europa. Qual è il suo messaggio anche alla Svezia, che ora comincia a chiudere le sue frontiere? "Prima di tutto, come argentino, come sudamericano, ringrazio tanto la Svezia per la sua accoglienza perché tanti argentini, cileni, uruguaiani sono stati accolti al tempo delle dittature militari. La Svezia ha una lunga tradizione di accoglienza: non solo nel ricevere ma anche nell’integrare, nel cercare subito casa, scuola, lavoro, integrare in un popolo. Mi hanno detto una statistica, che su nove milioni di abitanti 850 mila sarebbero nuovi svedesi, cioè migranti, rifugiati, o il loro figli. In secondo luogo, si deve distinguere tra migrante e rifugiato. Il migrante deve essere trattato con certe regole, migrare è un diritto ma un diritto molto regolato. Invece un rifugiato viene da una situazione di guerra, fame, angoscia terribile. Un rifugiato ha bisogno di più cura, di più lavoro, e anche in questo la Svezia ha sempre dato un esempio. Fare imparare la lingua, integrare nella cultura. Non dobbiamo spaventarci per l’integrazione delle culture perché l’Europa è stata fatta con una integrazione continua delle culture, di tante culture. Cosa penso dei Paesi che chiudono le frontiere? Credo che in teoria non si possa chiudere il cuore a un rifugiato. Ma c’è anche la prudenza dei governanti che credo debbano essere molto aperti nel riceverli ma anche fare un calcolo di come poterli sistemare. Perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di integrazione faccia quanto può, se ha di più faccia di più, ma sempre con il cuore aperto. Non è umano chiudere le porte e il cuore, e alla lunga questo si paga, si paga politicamente, come anche una imprudenza nei calcoli, nel ricevere più di quelli che si possono integrare. Qual è il pericolo? Quando un rifugiato o un migrante non è integrato, si ghettizza, entra in un ghetto, e una cultura che non si sviluppa in un rapporto con un’altra cultura entra in conflitto, e questo è pericoloso. Credo che il consigliere più cattivo dei Paesi che tendono a chiudere le frontiere sia la paura. E il consigliere più buono la prudenza. In questi giorni ho parlato con un funzionario del governo svedese e mi diceva che hanno qualche difficoltà, perché vengono in tanti e non si fa in tempo a sistemarli, a trovare scuola, casa, lavoro, a far imparare la lingua…La prudenza deve fare questo calcolo. Io non credo che se la Svezia diminuisce la sua capacità accoglienza non lo faccia per egoismo o perché ha perso la capacità. Se c’è qualcosa del genere è per quello che ho detto: tanti oggi guardano alla Svezia perché ne conoscono l’accoglienza, ma non c’è il tempo necessario per sistemare tutti". Perché ha ricevuto Nicolás Maduro? "Il presidente del Venezuela ha chiesto un appuntamento perché veniva dal Medio Oriente e faceva uno scalo tecnico a Roma. Quando un presidente chiede, lo si riceve. L’ho ascoltato mezz’ora, gli ho fatto qualche domanda e ho sentito il suo parere. È sempre buona cosa sentire tutte le voci. Il dialogo è l’unica strada per tutti i conflitti, o si dialoga o si grida. Io ce la metto tutta nel dialogo, col cuore, credo si debba andare su quella strada. Non so come finirà perché è complesso, ma la gente che tiene al dialogo è gente di caratura politica importante. C’è Zapatero che è stato per due volte capo del governo spagnolo. Ambedue le parti hanno chiesto alla Santa Sede di essere presente. La Santa Sede ha designato il nunzio in Argentina, monsignor Tscherrig. Il dialogo che favorisce il negoziato è l’unica strada per uscire dai conflitti. Non c’è altra strada. Se si fosse fatto in Medio Oriente, quante vite si sarebbero state risparmiate…". La Svezia ha una donna a capo della Chiesa. È realistico pensare che nei prossimi decenni ci saranno donne prete anche nella chiesa cattolica, e se no perché? I cattolici hanno paura della competizione? "Leggendo un pò di storia svedese ho visto che c’è stata una regina rimasta vedova tre volte. Ho pensato: ma questa è una donna forte! Mi hanno detto che le donne svedesi sono moto forti, molto brave…Ma sull’ordinazione delle donne l’ultima parola, chiara, è stata quella di San Giovanni Paolo II, e questa rimane. (Non è possibile l’ordinazione donne prete, ndr.). Sulla competizione non so. Ma le donne possono fare tante cose meglio degli uomini. Nell’ecclesiologia ci sono due termini, la dimensione petrina di Pietro e del Collegio apostolico, i vescovi, e la dimensione mariana, che è la dimensione femminile della Chiesa. L’ho detto più di una volta: chi è più importante nella teologia e mistica della Chiesa, gli apostoli o Maria? È più importante Maria. La Chiesa è donna, non è "il" Chiesa, è la sposa di Gesù Cristo. È un mistero sponsale e alla luce di questo mistero si capisce il perché di queste due dimensioni. Non esiste Chiesa senza questa dimensione femminile perché lei stessa è femminile". Per sempre mai donne prete? "Se rilegge bene la dichiarazione di san Giovanni Paolo II va in questa linea". Alla vigilia di Pentecoste del 2017 ci sarà un incontro al Circo Massimo per l’anniversario del rinnovamento carismatico. Che cosa spera? "Sono stato dagli evangelici a Caserta, e poi in Torino dai valdesi: sono iniziative di riparazione, di perdono, perché i cattolici, parte della Chiesa cattolica, non si è comportata cristianamente con loro. C’era da chiedere perdono e sanare ferite. L’altra iniziativa è quella del dialogo. A Buenos Aires abbiamo avuto tre incontri allo stadio con fedeli evangelici e cattolici, nella linea del rinnovamento carismatico, ma aperta. Incontri per tutto il giorno, predicava un vescovo evangelico e uno cattolico. In due di questi incontri ha predicato padre Cantalamessa. Abbiamo anche avuto due ritiri spirituali di tre giorni, con pastori e sacerdoti cattolici insieme. Questo ha aiutato molto il dialogo, la comprensione, l’avvicinamento, il lavoro per chi ha più bisogno. A Roma ho già avuto riunioni con alcuni pastori. Si organizza una celebrazione per i 50 anni del rinnovamento carismatico, che è nato ecumenico. Se Dio mi dà vita andrò a parlare lì, al Circo Massimo. Quando il rinnovamento carismatico è nato, uno degli oppositori più forti era chi vi sta parlando, che era provinciale dei gesuiti: proibii ai gesuiti di mettersi in questo e dissi che quando c’era una celebrazione liturgica doveva essere una celebrazione e non una scuola di samba. Ora penso l’opposto e ogni anno in Buenos Aires tenevo una messa per i carismatici. C’è stato un processo di riconoscimento del bene che ha fatto questo rinnovamento, con la figura del cardinale Suenens...". In Svezia secolarizzazione è molto forte, un fenomeno che tocca l’Europa. La secolarizzazione è una fatalità? Di chi responsabilità, dei governi laici o della Chiesa che è timida? "Fatalità no, io non ci credo nelle fatalità. Chi sono i responsabili? Non saprei dire, tu sei il responsabile. Benedetto XVI ne ha parlato tanto e chiaramente. Quando la fede diventa tiepida è perché come lei dice si indebolisce la Chiesa. I tempi più secolarizzati, pensiamo alla Francia per esempio, sono i tempi della mondanizzazione, della corte, quando i preti erano i lacché della corte. C’era un funzionalismo clericale, mancava la forza del Vangelo…Sempre possiamo dire che c’è qualche debolezza nell’evangelizzazione, in tempi secolarizzati. Ma anche c’è un altro processo, un processo culturale, quando l’uomo riceve il mondo da Dio per farlo cultura, per farlo crescere. Ma a un certo punto l’uomo si sente tanto padrone di quella cultura che comincia a fare lui il creatore di un’altra cultura, ma propria, e occupa il posto di Dio creatore. Nella secolarizzazione io credo che prima o poi si arriva al peccato contro Dio creatore, l’uomo autosufficiente. Non è un problema di laicità, ci vuole una sana laicità, la sana autonomia delle cose, delle scienze, del pensiero, della politica. Altra cosa è un laicismo brutto come quello che ci ha lasciato in eredità l’Illuminismo... Ci sono queste due cose, l’autosufficienza dell’uomo di cultura che va oltre i limiti e si sente Dio e anche una debolezza nell’evangelizzazione che diventa tiepida, i cristiani diventano tiepidi. Si tratta di riprendere una sana autonomia nello sviluppo della cultura e delle scienze, ma con la consapevolezza di essere creature, non sentendosi Dio. Il cardinale De Lubac disse che quando nella Chiesa entra questa mondanità è il peggio che può accadere, peggio ancora di quello che è accaduto nell’epoca dei Papi corrotti. La mondanità è pericolosa. Gesù quando prega per tutti noi nell’Ultima Cena chiede una cosa al Padre: non di toglierci dal mondo, ma di difenderci dal mondo, dalla mondanità, che è pericolosissima: una secolarizzazione un pò truccata, travestita, un pò un prêt-à-porter della vita della Chiesa". Qualche giorno fa ha incontrato a Santa Marta Krupp, che si occupa di schiavitù e della tratta di esseri umani. Perché? Ha fatto esperienze in Argentina? "Da prete ho avuto questa inquietudine della carne di Cristo, il fatto che Cristo continui a soffrire e venga crocifisso continuamente nei suoi fratelli più deboli mi ha sempre commosso. Ho lavorato da prete in piccole cose, con i poveri, ma non esclusivamente, da vescovo di Buenos Aires lavoravo anche con universitari cattolici e anche non credenti contro il lavoro schiavo dei migranti, soprattutto in Argentina: prendono loro il passaporto e fanno fare un lavoro schiavo. Ho lavorato con due congregazioni di suore che si occupano di donne schiave della prostituzione - non mi piace dire prostitute, dico schiave della prostituzione -. Una volta l’anno facevamo una messa per queste donne, lavoravamo insieme. In Italia ci sono tanti gruppi di volontariato che lavorano contro ogni forma di schiavitù, sia del lavoro sia delle donne.… Alcuni mesi fa ho visitato una di queste organizzazioni. In Italia si lavora bene, non pensavo. È una cosa bella che ha l’Italia, il volontariato e questo è dovuto ai parroci: oratorio e volontariato sono cose nate dallo zelo apostolico dei parroci". Migranti. Il Papa e l’equivoco da chiarire di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 2 novembre 2016 È la prima volta che il Papa parla di "prudenza" nell’accogliere i rifugiati, e ancor più i migranti. Non è una correzione di rotta, ma una specificazione importante. La paura forse non è la più nobile delle attitudini; ma non è una colpa. Non va alimentata e usata. Ma non va neppure negata e rimossa. Francesco fa bene ad ammonirci a non chiudere il nostro cuore, come ha ripetuto ieri. Ma in passato è accaduto che le sue parole si prestassero a essere confuse con un incoraggiamento a partire verso l’Italia. Un conto è accogliere e integrare; un altro è incoraggiare un flusso imponente, che alimenta anche traffici criminali. Per questo l’intervento a bordo del volo papale di ritorno dalla Svezia serve a dissipare un possibile equivoco. Anche perché, accanto ai sentimenti dei nuovi arrivati, Bergoglio mostra di tener conto anche di quelli degli italiani. Rifugiati e migranti - bene ha fatto il Papa a distinguere - non arrivano in un Paese prospero, coeso, sereno. Si affacciano in un’Italia che vive un vero e proprio dopoguerra. La crisi ha lacerato in modo devastante il tessuto industriale e sociale, soprattutto al Nord, soprattutto in provincia. Il terremoto infinito e diffuso del Centro Italia assorbe risorse ed energie della Protezione civile. In queste circostanze, è quasi miracolosa la generosità con cui il Paese - a cominciare dall’avamposto di Lampedusa - ha salvato e accolto centinaia di migliaia di stranieri, nel disinteresse pressoché totale dell’Europa. L’accordo sulla ripartizione delle quote dei migranti è stato vergognosamente disatteso: un atteggiamento ben più grave delle rivolte sporadiche come quella - fuori luogo - di Gorino. Sui media tende a prevalere una visione irenica e spensierata dell’immigrazione, tipica di un’élite per cui gli stranieri sono colf a basso costo e chef di ristoranti etnici. Il primo Papa sudamericano ha un’altra storia, un’altra autorevolezza. A maggior ragione le parole che abbiamo ascoltato ieri sono preziose. Droghe. La cannabis negli Usa, oltre Clinton e Trump di Luca Marola Il Manifesto, 2 novembre 2016 Nonostante la cannabis non sia al centro della campagna presidenziale, ben nove Stati, l’8 novembre prossimo, chiameranno i propri cittadini ad esprimersi sulla possibilità di legalizzarla, in tutto o in parte. In Maine, Massachusetts, Nevada, Arizona e California, con la vittoria del Sì, si realizzerebbe una situazione simile a quella del Colorado in cui, dal 2014, non è più un crimine possedere modiche quantità di cannabis o qualche piantina e dove, dietro licenza statale, sono state aperte attività di vendita al dettaglio e di produzione all’ingrosso. In Florida, Arkansas, North Dakota e Oklahoma si regolamenterebbe l’accesso alla cannabis terapeutica. Hillary Clinton ha dichiarato di voler proseguire la politica di non ingerenza intrapresa da Obama sulle scelte dei singoli stati, considerandoli "laboratori di democrazia" liberi di sperimentare forme di legalizzazione della cannabis. La candidata democratica ha inoltre annunciato di voler procedere con la riclassificazione nella legge contro gli stupefacenti eliminando la marijuana dalla categoria delle sostanze più pericolose. Nessuna nuova politica, solo una conferma delle scelte di Obama. Sul fronte opposto Donald Trump è rimasto ancora più sul vago. Durante le primarie Trump aveva comunque dichiarato di voler difendere le scelte dei singoli stati dall’ingerenza del governo federale, ma essendo fortemente sostenuto da politici come il governatore del New Jersey e dell’Indiana e dal senatore dell’Alabama Jeff Sessions accomunati da una lunga storia di dura opposizione a qualunque ammorbidimento delle politiche sulla cannabis, è difficile immaginare che una sua presidenza porti significativi cambiamenti. Nei nove stati il dibattito è stato intenso. I quotidiani delle principali città, hanno pubblicamente espresso il loro sostegno così come le principali associazioni per i diritti civili, per i diritti degli afroamericani ed i sindacati. È stata inoltre la campagna più finanziata tra tutte le competizioni referendarie pro cannabis nella storia americana, sfiorando la cifra record dei 40 milioni di dollari raccolti e di cui quasi la metà a sostegno del referendum californiano. È proprio in California che si gioca la partita più importante per la strategia legalizzatrice architettata dalle principali associazioni antiproibizioniste che restano anche i principali finanziatori della campagna. La differenza tra questa tornata referendaria e le precedenti sta nel fatto che per la prima volta l’industria emergente della cannabis legale sia entrata nella competizione: i due terzi dei "grandi donatori" hanno interessi nel business della cannabis. Il fenomeno osservato è ancora marginale e molti attivisti si aspettano un maggior livello di coinvolgimento e contribuzione. Altri, invece, ne scorgono il potenziale rischio. È evidente la trasformazione del movimento pro cannabis che via via sta perdendo la sua connotazione prettamente politico-libertaria e di movimento con l’approdo nella contesa di un settore economico in grande espansione. Intanto l’ultimo sondaggio segnala come il 60% degli Americani sia favorevole alla cannabis legale. È la più alta percentuale in assoluto. Il Sì vince in tutti i gruppi demografici fuorché tra gli over 55 anni, sfonda tra gli indipendenti e gli elettori democratici, diventa maggioranza anche tra i repubblicani. Il risultato della prossima settimana potrebbe innescare un effetto domino inarrestabile in grado di modificare la legislazione federale, di provocare lo stesso processo negli altri stati, e soprattutto di sviluppare, il dibattito per una riforma delle politiche sulla cannabis. Medio Oriente. Intervista ad Abu Mazen: "il governo italiano riconosca la Palestina di Fabio Scuto La Repubblica, 2 novembre 2016 Una politica equidistante e un convinto appoggio alla Conferenza di Pace che la Francia sta cercando di organizzare per facilitare la ripresa del negoziato in Terrasanta. Prova a sorridere mentre parla dell’Italia il presidente palestinese Abu Mazen che oggi a Betlemme incontrerà il presidente Sergio Mattarella, si dibatte in difficoltà che sembrano segnare il crepuscolo di un’epoca. Dodici anni di presidenza senza nessun progresso sostanziale nelle trattative ne hanno intaccato l’immagine, ma anche la stabilità dell’Anp è in bilico. Delusi dalla posizione americana, i palestinesi ora guardano più all’Europa. "Diversi Paesi hanno riconosciuto lo Stato Palestinese, come la Svezia e il Vaticano, ci sono anche 12 parlamenti nazionali, compreso quello italiano, che hanno chiesto ai propri governi di riconoscere il nostro Stato", dice il presidente seduto nel suo ufficio alla Muqata, "chiediamo che ora che questi governi, compreso quello di Roma, riconoscano la Palestina". Signor Presidente c’è molta ansia per il futuro di questa terra. Vista da fuori l’Anp sembra prossima al collasso: dissenso, faide interne, stallo del negoziato di pace. Non si fanno le elezioni e lei non ha un delfino. Come pensa che andrà a finire? "Le cose viste dall’esterno sono diverse, ci sono problemi come in tutti i Paesi sotto occupazione, abbiamo problemi economici. Per quanto riguarda le elezioni, continuiamo a discutere con Hamas perché si voti in tutto il territorio palestinese". E quando possiamo prevedere queste elezioni presidenziali? Il suo mandato è scaduto da tempo... "Prima di tutto il congresso di Fatah il mese prossimo, poi Consiglio nazionale palestinese, ma per le elezioni dobbiamo aspettare di poter votare in tutta la Palestina, in accordo con Hamas". Il tango si balla in due presidente e Hamas non sembra intenzionato... "Se Hamas non vuole ballare questo tango, (sorride) non ci saranno danze". Lei pensa davvero che un giorno Gaza tornerà sotto il controllo dell’Anp? "Noi diciamo niente Stato palestinese senza Gerusalemme e Striscia di Gaza, per questo stiamo lavorando a una riconciliazione con Hamas. Tre giorni fa in Qatar ho incontrato sia Ismail Haniyeh che Khaled Meshaal (i leader di Hamas, ndr), e continueremo questo dialogo attraverso il Qatar". La soluzione dei due Stati al momento è più lontana che mai, al punto di apparire un’illusione. "È sempre nella nostra agenda, come in quella dell’Onu: uno Stato palestinese entro i confini del 1967; noi siamo pronti a una soluzione politica ecco perché sosteniamo anche l’iniziativa del presidente Hollande di organizzare una conferenza internazionale che ci possa aiutare ad andare verso questa soluzione". Voi volete l’internazionalizzazione di questo negoziato, Israele invece preferisce una trattativa bilaterale come avvenne per Oslo... "Non abbiamo preclusioni, io sono anche per un negoziato diretto. Posso fare anche un esempio: quando Putin ha invitato me e Netanyahu l’8 settembre scorso a Mosca per un dialogo diretto. Io ho detto subito sì, è Netanyahu che s’è tirato indietro". La famosa risoluzione dell’Unesco non è stato un clamoroso autogol? "No, non è stato un autogol. L’Unesco parla di Storia e Cultura non di politica o di religione. Voglio ribadire ancora una volta la nostra posizione: Gerusalemme è santa per tutte e 3 le religioni, cristiani, ebrei e musulmani. Quando dico che Gerusalemme Est deve essere aperta a tutte le religioni, dov’è il problema? L’Unesco parla solo di siti archeologici". Lei davvero crede che un giorno gli Usa smetteranno di usare il diritto di veto all’Onu sulle risoluzioni che condannano Israele? "No, purtroppo gli Usa useranno sempre il diritto di veto all’Onu. Chiediamo ogni volta all’America di non farlo, di non essere di parte se vuole avere un ruolo più importante. Gli Usa devono imparare dall’Europa che ha con decisione condannato gli insediamenti che continuano ad essere costruiti in Cisgiordania. Diversi Paesi hanno riconosciuto lo Stato palestinese, come la Svezia e il Vaticano, ci sono anche 12 parlamenti nazionali, compreso quello italiano, che hanno chiesto ai propri governi di riconoscere il nostro Stato, chiediamo che ora che questi governi, compreso quello di Roma, riconoscano la Palestina". Se Netanyahu fosse seduto qui ora cosa gli direbbe? "Vorrei dirgli se non vuoi una soluzione politica per la Palestina: cosa vuoi? Vuoi che la Palestina diventi com’era il Sudafrica, vuoi uno Stato solo o due Stati? Noi crediamo nella soluzione dei due Stati. Adesso c’è questa iniziativa diplomatica della Francia, ma lui rifiuterà anche l’invito francese, io ho preso un’iniziativa personale quando sono andato ai funerali di Peres. Netanyahu non voleva che io andassi, non mi ha invitato, sono andato ai funerali per dire al popolo israeliano: noi siamo per la pace e con la politica di dialogo di Peres". Nell’arco degli ultimi 15-20 anni la politica italiana in Medio Oriente ha preso un profilo diverso dai tempi di Moro, Andreotti e Craxi. Oggi governa la sinistra e le posizioni non sono più le stesse. Lei ha avvertito questo cambio di passo? "I rapporti sono ottimi, il governo italiano ci sostiene e ci finanzia, voglio citare l’esempio positivo del restauro della Natività. Noi non vogliamo che il governo italiano abbia la nostra stessa linea, ma chiediamo che l’Italia sia equidistante fra noi e Israele: se noi sbagliamo vogliamo che l’Italia ci dica "avete sbagliato" e che faccia lo stesso con Israele. Non chiediamo altro". Egitto. Caso Regeni, gli egiziani consegnano i documenti di Giulio La Repubblica, 2 novembre 2016 Il passaporto, due tesserini universitari ed il bancomat consegnati a una delegazione della procura di Roma guidata dal pm Sergio Colaiocco. I documenti di Giulio Regeni, ovvero il passaporto, due tesserini universitari ed il bancomat, sono stati consegnati ad una delegazione della procura di Roma, guidata dal pm Sergio Colaiocco, nel corso di un incontro tenutosi al Cairo con la procura generale egiziana. I documenti erano stati trovati il 24 marzo scorso dalla polizia egiziana. Lo rende noto un comunicato congiunto della procura di Roma e della procura generale egiziana. I documenti del ricercatore universitario italiano sparito la sera del 25 gennaio scorso e ritrovato cadavere una settimana dopo, erano stati trovati nell’abitazione della parente di uno degli uomini indicati in un primo momento dalla polizia egiziana appartenenti ad un presunto gruppo criminale, ucciso in un conflitto a fuoco, autore del sequestro di Giulio. Nel corso dell’incontro, è detto nella nota congiunta, le parti "hanno discusso gli ultimi sviluppi investigativi ed hanno rinnovato l’impegno a continuare la loro proficua collaborazione nel comune intento di assicurare giustizia alla vittima". La procura generale egiziana è stata inoltre invitata a Roma a dicembre per un nuovo approfondimento degli sviluppi sul caso di Giulio Regeni. In quella occasione, oltre ad un ulteriore scambio di documenti di indagini richiesti nell’ambito delle reciproche rogatorie, prosegue la nota, ci sarà "il previsto incontro tra la famiglia Regeni" e la procura generale egiziana. Egitto. L’egiziano torturato nelle carceri di al-Sisi: "verità su Regeni? non c’è speranza" di Brahim Maarad L’Espresso, 2 novembre 2016 Parla Nabil Khalil, che dopo la repressione della rivolta pro-Morsi ha passato due anni e mezzo nelle carceri egiziane. Racconta torture e maltrattamenti a cui vengono sottoposti gli oppositori del regime. E afferma che a suo parere non sarà possibile far luce sul caso del ricercatore italiano ucciso: "Di Regeni ne sono stati uccisi migliaia. Un massacro che è tuttora in corso". Per Nabil Khalil, egiziano 39enne emigrato a Milano, quella del luglio 2013 doveva essere solo l’ennesima vacanza estiva al Cairo. In quei giorni però in Egitto si è scatenato un inferno che ancora brucia. Era passato un anno esatto dall’elezione democratica di Mohamed Morsi, il presidente leader dei Fratelli musulmani. La crisi economica e una discussa riforma costituzionale avevano portato di nuovo in piazza milioni di persone. Dando così la possibilità ai militari, guidati dal generale Abd al-Fattah al-Sisi, di rimuovere e arrestare il presidente. L’ennesimo colpo di Stato che si è trasformato in una feroce repressione. E Nabil Khalil è stato una delle tante vittime. "Quando ho visto la notizia della sparizione di Giulio Regeni, non ho avuto un minimo dubbio su chi fossero i responsabili. Perché quello Stato di criminali mi ha arrestato, interrogato, torturato e imprigionato nei bunker per due anni e mezzo. Sono innocente ma di questo nessuno si è mai preoccupato. Perché la mia colpa è quella di non essere allineato" racconta Khalil all’Espresso. Per quattordici anni a Milano ha portato avanti, con alcuni soci, un’impresa edile. Nel 2013 la sua vacanza al Cairo, interrotta da un golpe militare, si è trasformata in un incubo. Ne è uscito vivo ma fortemente segnato. Fisicamente e moralmente. Cosa le è accaduto in Egitto nel 2013? "Non ci siamo voluti arrendere all’idea che tutto potesse essere di nuovo spazzato via e che sia cancellato quanto conquistato con la primavera araba. Siamo dunque usciti a manifestare per le strade del Cairo. Tantissimi giovani, disarmati, con nessuna intenzione di fare del male. Io sono rimasto coinvolto nella prima rivolta di piazza Ramsis, il 16 luglio 2013. Eravamo in strada a chiedere il ritorno della democrazia. Siamo stati circondati dai militari che hanno cominciato a sparare. Non solo molotov e gas lacrimogeni ma anche proiettili. Decine i morti. Io facevo parte dei 104 arrestati". Con quali accuse? Mi tornano i brividi solo a ripensarci. Ci hanno portati via come dei criminali. Con accuse pesantissime: omicidio plurimo e danneggiamento. In sostanza siamo stati incolpati di avere ucciso chi manifestava al nostro fianco. In realtà tutti sanno che gli assassini sono i militari. Personalmente sono stato accusato della morte di un giornalista, Ahmed Salah, avvenuta durante la manifestazione e di un’altra persona deceduta addirittura il giorno prima. Insomma era lampante la nostra totale estraneità a quanto ci veniva contestato". Che è successo dopo l’arresto? "È iniziato il mio inferno. Un incubo durato due anni e mezzo. Dalla piazza ci hanno portati al commissariato del quinto distretto del Cairo. Ci hanno tenuti quindici giorni in un bunker. Persino per gli animali sarebbe stata una punizione. Eravamo in 23, senza aria e con una luce minima. Non si respirava. Ognuno di noi aveva a disposizione una ventina di centimetri di spazio. Potevamo dormire solo sul fianco, allineati come sardine. Il cibo ce lo buttavano per terra, l’acqua sembrava provenire dagli scarichi. Le temperature superavano i cinquanta gradi, si moriva di caldo. E non era nemmeno la parte peggiore". Cosa può esserci di peggio? "Gli interrogatori. Ciò che ha mostrato l’autopsia di Giulio Regeni in parte l’abbiamo vissuto anche noi. Tutte le volte che sono stato nella stanza degli interrogatori ero sempre ammanettato e bendato. Non potevo vedere nulla. Sentivo solo le voci dei miei torturatori. A loro non sono mai interessate le mie risposte. Avevano già deciso che ero colpevole e che dovevo essere punito. L’interrogatorio era una parte della punizione. La prima e non di certo l’ultima. Alla tortura fisica si sommava quella psicologica. In tutto il tempo passato nel bunker abbiamo sempre sentito le urla delle persone che venivano torturate. Altri innocenti come noi. Quelle voci le ho ancora tutte dentro di me". Passati i quindici giorni al quinto distretto, cosa è cambiato? Siete stati trasferiti? "Per quanto ci poteva sembrare difficile, la nostra situazione andava peggiorando. Ci hanno portati alla prigione di Abu Zaabal, una delle peggiori d’Egitto. Qui le guardie hanno un rito per accogliere i nuovi arrivati. Si dispongono su due file, lasciando un corridoio per il passaggio. Lo hanno fatto anche con noi. Ognuno di loro ci ha colpiti con ciò che voleva: pugni, manganelli, calci, sputi. Per una decina di giorni non abbiamo visto la luce. Ci hanno tenuto negli stanzoni con criminali di ogni genere. E devo confessare che questi sono comunque sempre stati più gentili e umani delle guardie. Inoltre noi ci siamo capitati durante il periodo della rivolta di Rabiaa. Quando è stata sgominata la rivolta con il sangue alcuni manifestanti sono stati portati da noi. Due sono stati uccisi dalle guardie sotto i nostri occhi. In 37 invece sono rimasti rinchiusi nel cellulare della polizia per sei ore all’esterno della prigione. Quando hanno protestato per il caldo sono stati intossicati con i gas. Sono morti quasi tutti". Avevate contatti con il mondo esterno? Era possibile ricevere visite? "Visite? Dieci minuti ogni quindici giorni. Separati dal filo spinato. I miei familiari facevano cinquecento chilometri di strada per potermi vedere dieci minuti. Anche questa è stata una delle torture che abbiamo subito. Una delle peggiori perché coinvolgeva anche la famiglia". Intanto il processo andava avanti? "Dopo tutto questo, non eravamo ancora stati portati davanti a un giudice. Abbiamo passato tre mesi e mezzo ad Abu Zaabal, poi siamo stati trasferiti nel carcere per le indagini, costruito praticamente dagli inglesi. Pioveva dentro le celle, eravamo in 45 in una stanza che dovrebbe ospitare al massimo 15 persone. Ci siamo rimasti sette mesi. Poi è arrivata la condanna: dieci anni. Ed è scattato un nuovo trasferimento. Siamo stati portati a Wadi el Netrun, un complesso di prigioni. Io sono stato destinato al 430. Ero in mezzo ai più pericolosi criminali del Paese. Fisicamente soffro ancora per il periodo trascorso in quella che era a tutti gli effetti una tomba". Com’è finita? "Dopo un anno il processo è stato annullato e siamo stati liberati in attesa che venga ripreso. Sono riuscito a lasciare l’Egitto e a tornare in Italia. Ovviamente, se rimettessi piede al Cairo probabilmente mi riporterebbero di nuovo in quell’inferno. Quattro carceri in due anni e mezzo. Ho visto gente morire sotto i piedi delle guardie. Molti altri sono usciti paralizzati dalle torture. Ora temo ogni giorno ritorsioni per la mia famiglia, considerata anche questa mia testimonianza". Dalla scomparsa di Giulio Regeni sono passati nove mesi, c’è speranza che si arrivi alla verità? "Mi dispiace affermarlo ma non c’è alcuna speranza. Sono dei criminali e purtroppo tutti i governi che continuano a tacere davanti a questi crimini sono complici. Perché di Regeni ne sono stati uccisi migliaia. Un massacro che è tuttora in corso". Iraq. A Mosul libertà più vicina ma la pace sarà fragile di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2016 A Mosul il primo trofeo dell’esercito iracheno contro il Califfato è l’antenna svettante sulla riva orientale del Tigri della tv di Stato. Di quale Stato, passato o futuro, è difficile dirlo se non di quello segnato su una mappa ormai sbranata dai conflitti: gli iracheni da un pezzo non ne hanno uno intero da condividere. Saddam Hussein fu impiccato il 30 dicembre 2006, quando il Paese era già nella morsa del terrore di Al Qaida e delle vendette settarie da cui poi è nato l’Isis di Al Baghdadi. Inoltre una parte del Nord, da Erbil a Kirkuk, è in mano ai curdi di Massud Barzani che con il petrolio si è già fatto il suo mini-stato, fragile ma in buoni rapporti con il potente vicino turco e discreti con gli iraniani. Nessun popolo del Medio Oriente, tranne forse palestinesi e siriani, ha visto tante battaglie quante questa generazione di iracheni. La battaglia di Mosul contro il Califfato è l’ultima di 36 anni di massacri. Si cominciò dalla guerra proclamata da Saddam, con il sostegno finanziario delle monarchie del Golfo, contro l’Iran sciita di Khomeini nel 1980 - in otto anni un milione di morti - poi venne l’invasione del Kuwait e la guerra del 1991, accompagnata dai massacri del regime baathista contro curdi e sciiti (almeno 200mila morti), quindi nel 2003, dopo 12 anni di embargo durissimo e un Paese allo stremo, è stata la volta dell’invasione americana e di oltre un decennio di stragi, forse in tutto un altro milione di morti. In Iraq sono state usate tutte le armi di distruzione di massa tranne quella atomica, dai gas mostarda a quelle chimiche, alle bombe al fosforo bianco, sono stati impiegati proiettili all’uranio impoverito e con migliaia di gradi di calore, si sono visti volare aerei e missili da crociera di ogni generazione. Nei corpi degli iracheni è rimasto inciso ogni ordigno della guerra contemporanea. Ma soprattutto è stata esercitata su corpi e anime una violenza inaudita. A Baghdad in alcune giornate abbiamo contato centinaia di esplosioni: colpi di mortaio, autobombe, kamikaze. Si è decapitato, sgozzato, stuprato, in un’orgia di pulizie etniche e settarie. L’Isis è stato l’apice di questa barbarie, del fanatismo, del declino culturale di un popolo. Gli iracheni a milioni sono diventati profughi all’estero o rifugiati interni: hanno perso figli, parenti, nipoti, case, negozi, affari, studi. Essere poveri e abbandonati in un Paese ricco, con riserve di petrolio superiori a quelle saudite, è quasi una beffa del destino. Eppure gli iracheni ogni volta si risollevano. La sensazione è che questa di Mosul non sarà l’ultima battaglia dell’Iraq. "Il dopo sarà più difficile della conquista" ha detto al Sole in un’intervista qualche giorno fa Brett McGurk, inviato di Obama per la coalizione contro l’Isis. In realtà il dopo è già in corso e gli annunci dell’esercito iracheno, entrato ieri in città, hanno l’obiettivo di far capire agli eserciti concorrenti schierati intorno come una tenaglia che devono essere i soldati di Baghdad i liberatori di Mosul. La città assomiglia un pò alla Berlino del 1945, dove penetrò l’armata rossa sovietica e fu poi divisa in settori. Baghdad vorrebbe prenderla tutta, ma a combattere in questa coalizione a guida americana con il contributo di 7.500 soldati occidentali, tra cui 1300 italiani, ci sono molti competitori agguerriti. Dai peshmerga di Barzani che vedono nelle zone intorno a Mosul l’antemurale delle loro difese, alle milizie sciite che intendono regolare i conti con i sunniti, ai soldati turchi e alle loro truppe locali che vorrebbero scavare nella provincia di Ninive una sorta di mini-stato cuscinetto sunnita. Tutti rivendicano qualche cosa, territori, petrolio, zone di influenza. Ma nessuno può garantire agli iracheni una pace vera.