Morire di carcere, i dati choc dei suicidi negli istituti di pena italiani di Marta De Nicola Il Centro, 29 novembre 2016 Uno ogni sette giorni. Questa è la frequenza dei suicidi nelle carceri italiane dal 1992 ad oggi. A rivelarlo è uno studio di Openpolis sulle statistiche del ministero della giustizia che ha registrato ben 1046 casi di detenuti suicidi per gli anni 1992/2015. Ai dati del governo si affiancano quelli dell’associazione per i diritti dei detenuti "Ristretti Orizzonti" che, allo scopo di raccogliere maggiori informazioni sui profili di chi si suicida durante la detenzione, ha registrato nel suo dossier "Morire di carcere" cifre addirittura superiori a quelle ministeriali. La differenza si spiega tenendo conto del fatto che l’associazione prende in considerazione, oltre i suicidi accertati, anche le morti meno chiare, comunque legate al disagio della detenzione. Colpisce il dato relativo ai casi di decessi auto-procurati tra gli agenti di custodia che, secondo fonti sindacali, si attesterebbe a 100 dal 2000 ad oggi. I dati dell’associazione. Secondo quanto riportato dal dossier, i detenuti suicidi dal 2009 al 31 agosto 2016 sarebbero ben 423. Di questi, 326 si sarebbero procurati la morte con l’impiccagione, 64 con il gas, 20 con l’avvelenamento e 6 con il soffocamento. La fascia di età su cui le sofferenze del carcere hanno avuto maggiore incidenza è quella tra i 30 e i 44 anni. Sono 66, infatti, i casi di suicidi in età compresa tra i 30 e i 34 anni, 66 tra i 25 e i 29 anni, 65 tra i 35 e 39 e 63 tra i 40 e i 44. Le fasce meno colpite quelle tra i 17 e 19 anni (5 casi) e dai 60 in su (9 casi). L’amara classifica degli istituti penitenziari con più suicidi vede al primo posto Napoli Poggioreale; (19 casi), seguito da Firenze Sollicciano(17) e Rebibbia a Roma (14), all’ultimo Palermo Pagliarelli (9 casi). Statistiche a confronto. Il confronto tra i dati registrati dal Ministero della giustizia con quelli riportati nel dossier dell’associazione "Ristretti Orizzonti" rivela non poche differenze. Guardando al numero dei casi di suicidio per anno, l’associazione registra cifre più elevate di quelle ufficiali con un picco nel 2010: 11 casi in più rispetto ai dati del Governo. Per un totale di 888 casi di morti auto-procurate negli anni 2000/2015 a fronte degli 840 ufficialmente accertati. Numeri alla mano l’anno con il maggior numero di detenuti suicidi sarebbe il 2001 per il Ministero (69 casi) e il 2009 per l’associazione (72 casi). Al contrario, l’anno con il più basso tasso di morti auto-procurate sarebbe il 2013 per il primo (42 casi), il 2014 per la seconda (44 casi). Emergenza carceri. Le statistiche del ministero rivelano una coincidenza tra gli anni in cui si è concentrata la più alta frequenza di casi di detenuti suicidi e quelli in cui si sono registrati i più alti tassi di affollamento. È il caso, ad esempio del 2010. In quell’anno, infatti, gli istituti di pena, mentre ospitavano addirittura 151 persone ogni 100 posti letto, registravano ben 55 casi di morti auto-procurate. A seguito di tali accadimenti, i diversi provvedimenti adottati dai governi che si sono succeduti hanno riportato le statistiche verso numeri vicini a quelli di paesi con statistiche migliori. Nel 2015, infatti, il tasso di affollamento delle carceri italiane globalmente considerate scendeva al 105% (105 detenuti ogni 100 posti letto), mentre diminuiva a 39 il numero dei suicidi. Secondo i dati raccolti dal ministero, al 30 giugno 2016 il tasso di affollamento delle carceri italiane si attesta al 108%. Nei 193 istituti penitenziari italiani si contano, infatti, 54.072 persone detenute per 49.701 posti letto disponibili. Questi dati hanno portato i politici italiani a considerare risolto il problema dell’emergenza carceri. Tuttavia, basarsi sul tasso di affollamento nazionale per comprendere se il problema del sovraffollamento nei singoli istituti è stato risolto è fuorviante. Il dato, infatti, è il rapporto percentuale tra numero di detenuti e posti letto disponibili nell’intero paese e, dunque, il frutto di una media che non tiene conto del fatto che i posti disponibili in un istituto penitenziario poco utilizzato non compensano quelli mancanti in uno sovraffollato. Se si calcola il tasso dei singoli istituti penitenziari risulta che circa i 2/3 hanno meno posti disponibili di quanto il numero dei detenuti richiederebbe. È il caso di Brescia "Nerio Fischione" Canton Mombello, che, con un tasso di affollamento pari al 191,53%, ospita quasi 90 detenuti in più rispetto alla disponibilità. A questo seguono Como, con un tasso pari al 181,45%, Lodi, con il 180,00% e Taranto, con il 173,53%. Sesti su sette. Se si confrontano i "benevoli" tassi di affollamento nazionale europei, il risultato italiano non è dei migliori. Tra i 25 Paesi considerati, infatti, il nostro rientra nei soli 7 che dispongono di un numero di posti letto inferiore a quello dei detenuti. Tra questi 7 quello con il sistema carcerario meno sostenibile è il Belgio, che registra un tasso pari al 131,10%. A questo seguono la Grecia, (119,30%), la Francia 113,90%), la Slovenia (112,70%), Cipro (109,60), ed infine l’Italia, con un tasso del 108%, accompagnata dalla Romania (104,30%). Per quanto riguarda i restanti 18 Paesi, tutti con sistemi sostenibili, la medaglia d’oro va ai Paesi Bassi che, registrando un tasso dell’80,20%, dispone di circa 19 posti letto in più rispetto al numero dei detenuti. Medaglia d’argento alla Lettonia che, con un tasso dell’81,10%, potrebbe accogliere altri 18 detenuti circa. Bronzo al Belgio il cui tasso di sovraffollamento nazione si attesta all’81,60%. Premio "Goliarda Sapienza". Detenuti-scrittori oltre le sbarre in cerca di felicità di Leonardo Lodato La Sicilia, 29 novembre 2016 "Qui dentro è facile entrare. Quel che è difficile è uscire". Lo dice una guardia carceraria di Regina Coeli, mentre cerchiamo di guadagnare l’uscita al termine della cerimonia. Lo dice nel suo accento romanesco che ricorda un po’ Thomas Milian e un po’ "Romanzo criminale" e che ci fa quasi venir da ridere. Ma la sua non è una battuta, è un’amara verità. Al "gabbio" è facile entrare. Compiere un crimine, qualunque esso sia, grave, gravissimo o veniale, è più facile che reprimerlo. La prima cosa che impariamo alla cerimonia conclusiva della VI edizione del Premio letterario Goliarda Sapienza, è che quella sottile linea che separa il Bene dal Male, è talmente sottile che basta un alito d’aria per farti cadere dalla parte sbagliata. Lo sanno bene i detenuti che, ogni anno, partecipano al Premio ideato dalla giornalista e scrittrice Antonella Bolelli Ferrera e promosso da inVerso Onlus, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Dipartimento per la Giustizia minorile e Siae. Beviamo un caffè al bar all’angolo di via della Lungara. Dall’ingresso vediamo qualche persona che, da una porta secondaria, si avvia all’interno della Casa circondariale. È l’ingresso riservato ai visitatori. Noi entriamo a Regina Coeli dal portone principale. E ci guardiamo intorno. Siamo circondati da un pubblico selezionatissimo che, tra poco, assisterà alla presentazione di autori e tutor dei 25 racconti finalisti selezionati, e alla premiazione dei primi tre classificati delle sezioni "Adulti" e "Minori e Giovani adulti". Un pomeriggio fuori dalle righe o, forse, fin troppo dentro le righe. Quelle righe che disegnano il cielo, la luce, che, per dirla con Goliarda Sapienza, rischiano di "fermare la fantasia", ucciderla "come si farebbe col peggiore dei nemici". Dall’alto della sala, siamo osservati dai detenuti della Casa circondariale romana che, attraverso le vetrate, assistono alla cerimonia come si può assistere ad un’opera lirica dalla piccionaia. Nelle prime file sfilano, invece, le autorità. Il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, originario di Gangi, in provincia di Palermo; il capo dipartimento per la Giustizia minorile Francesco Cascini, il sottosegretario di Stato del ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri. Poi, ci sono i tutor, i giurati guidati da Elio Pecora; Angelo Pellegrino che di Goliarda Sapienza è stato marito. E soprattutto loro, i 25 finalisti. Salgono sul palco accolti da Antonella Bolelli Ferrera e da Serena Dandini, padrona di casa e "madrina" ineccepibili. "È la seconda volta che Serena conduce la cerimonia - spiega l’ideatrice del Premio - Ci siamo conosciute grazie a Pino Corrias che oltre ad essere uno dei tutor di vecchia data, è anche l’ideatore dei corti che realizziamo grazie a Rai Fiction". C’è molta Sicilia in questa edizione del Premio. Antonio, di Acireale, tutor Erri De Luca, è il primo classificato della sezione "Minori e Giovani adulti". Il suo racconto si intitola "Il biglietto di Rosa Parks". Racconta la sua storia e quella dei suoi "compagni di sventura", Scrive: "Voglio lavorare, giocare a calcio, fare tante passeggiate, guardare il mare, andare a trovare i miei amici. Un giorno mi piacerebbe tornare nella casa dove sono nato. Il mio futuro è un segreto". C’è, poi, Salvatore Torre, di Barcellona Pozzo di Gotto che, con il suo "Parafrasi di un lutto diversamente elaborato" (tutor Alessandro D’Alatri), conquista il terzo posto tra gli adulti. "Salvatore - spiega Antonella Bolelli Ferrera - è un fine pena mai. Scrive benissimo, ha partecipato diverse volte ed è veramente un fenomeno". Non conquista il podio, ma si deve accontentare, come tutti i 25 detenuti-scrittori, di vedere pubblicato il suo racconto nel libro "Così vicino alla felicità - Racconti dal carcere" (Ed. Rai Eri) e di un computer portatile, il comisano Biagio Crisafulli che, con il tutor Pino Corrias, scrive "Un altro io": "Un giorno mi svegliai di soprassalto e mi venne in mente che, poco dopo il mio arresto, avevo scritto un elenco di nomi di persone a cui volevo bene e che mi ricordavano gli intrecci della mia vita. Mi alzai, lo cercai tra quella marea disordinata di libri, carte e appunti che riempiva la mia cella. Lo trovai e lessi tutti quei nomi lentamente, uno a uno: in cima alla lista vi erano quelli dei miei genitori, di mia moglie e dei miei figli. Poi tornai a letto e mi riaddormentai...". Gli altri vincitori: Michele Maggio, primo classificato della sezione "Adulti", con "Cemento urlante", tutor Sandro Ruotolo, Stefano Lemma, secondo, con "L’orto delle fate", tutor Ricky Tognazzi e Simona Izzo. Mentre alle spalle di Antonio, nella sezione "Minori e Giovani adulti", ci sono Unknown (tutor Luca Barbarossa) con "Perdonate l’emozione" e Raffaele Amabile (tutor Federico Moccia) con "C’è Anna". Un altro tocco di sicilianità arriva dalla generosità dell’ideatrice del premio. "Quest’anno - racconta ancora Antonella Bolelli Ferrera - abbiamo rinunciato alle targhe, per devolvere la cifra ai bambini del Convento del Rosario di Scicli. Non togliamo niente ai detenuti e utilizziamo, invece, questo denaro affinché si possa creare una biblioteca per i bambini. Anche i proventi del libro verranno utilizzati per finanziare progetti culturali. Oltre a far crescere questa biblioteca mi piacerebbe portare a Scicli scrittori, giornalisti, attori a fare delle letture insieme ai bambini, per offrire loro la possibilità di crearsi una coscienza sociale e civile, condannati come sarebbero, altrimenti, a vivere una vita di strada". E mentre lasciamo Regina Coeli, ci si intrecciano tra occhi e mente il volto candido di Letixia e gli occhi desiderosi di cambiamento di Adelmo Battistini. Lui si è presentato con il racconto "La partita del cuore". Si stringe al suo tutor Massimo Lugli, si emoziona raccontando come, figlio di un componente della Banda della Magliana, abbia vissuto da sempre una vita criminale, "entrando e uscendo continuamente di galera". "Adesso - dice - ho voglia di cambiare". Ci allontaniamo, gettiamo lo sguardo nella grande bellezza del Lungotevere. Abbiamo provato, per un attimo, a camminare anche noi su quel filo sottile fatto, stavolta, di parole scritte. Di pensieri oltre le sbarre. Reinserimento dei detenuti. Competenze digitali uguale inclusione sociale? techeconomy.it, 29 novembre 2016 Nei prossimi due anni, grazie ad un protocollo siglato tra Ministero della Giustizia e Cisco, Confprofessioni, Vodafone, Fondazione Vodafone e Cooperativa Universo, oltre 200 detenuti avranno la possibilità di frequentare un corso di formazione di base sulle tecnologie di rete all’interno di 10 istituti di pena scelti su tutto il territorio nazionale. Scopo dell’accordo, che rientra nel piano d’investimento Digitaliani Cisco, è offrire ai detenuti, anche minorenni, l’opportunità di acquisire competenze digitali utili per il proprio percorso di reinserimento sociale e nel mondo del lavoro. Un percorso che ha dimostrato di ottenere ottimi risultati nelle prime esperienze supportate da Cisco, riducendo a zero il tasso di recidiva di coloro che hanno frequentato nel caso del carcere di Bollate. In oltre dieci anni sono stati più di 500 i detenuti che hanno frequentato i corsi e oltre un centinaio quelli che hanno ottenuto la Cisco Certified Network Associate, con l’80% di questi che ha trovato un impiego dentro o fuori dal carcere (a fronte di un dato medio di recidiva nelle carceri italiane del 70%). Nel corso del 2017 saranno coinvolti i carceri di Bollate e Opera nel milanese, il carcere minorile di Firenze, il carcere di La Spezia, l’istituto di Rebibbia a Roma e l’istituto minorile di Nisida a Napoli per poi eventualmente estendere l’attività anche negli istituti di pena di Palermo, Bologna, Castrovillari e Cagliari. Il corso IT essentials fa parte del Programma Cisco Networking Academy, una iniziativa formativa internazionale che dal 1997 viene realizzata in scuole, università, realtà del non profit ed enti pubblici. L’Italia è stato tra i primi Paesi in cui il format è stato sperimentato all’interno delle carceri, con un percorso di formazione ad hoc attivato nel 2002 presso il Carcere di Bollate ed esportato poi negli anni successivi nei territori della Toscana, Calabria e Sardegna. "Quando arrivano in carcere i detenuti mi dicono: Io non conosco i computer, li ho sempre e solo rubati" racconta divertito Lorenzo Lento che insegna nel carcere di Bollate. È lui che dal 2001 è il punto di riferimento per centinaia di detenuti. Lorenzo è un libero professionista che lavora come volontario (quasi a tempo pieno) alla Cisco Networking Academy all’interno del carcere milanese. La Direzione della Casa di Reclusione di Bollate ha individuato, ormai da anni, nella formazione sulle ICT un’importante opportunità di qualificazione professionale per i detenuti e per questo, in collaborazione con Cisco Systems e SIAM, ha deciso di creare una Cisco Networking Academy all’interno del penitenziario permettendo ai detenuti di conseguire la certificazione CCNA (Cisco Certified Network Associate), riconosciuta in tutto il mondo. I partecipanti al progetto vengono selezionati per individuare una classe di studenti il più possibile omogenea e con buone potenzialità per arrivare con successo al termine del percorso formativo. I corsi, partiti nel gennaio 2003, hanno coinvolto un gruppo di detenuti individuati in base alle competenze, alla motivazione e al periodo di fine pena. I risultati anche in termini di recidiva e rieducazione sono incoraggianti. "Gianluca e Giuseppe - racconta ancora Lento - hanno completato l’intero percorso Cisco Networking Academy CCNA e sono i primi istruttori in Europa certificati all’interno di una casa di reclusione. Oggi oltre a Gianluca e Giuseppe, altri compagni di corso hanno ottenuto le certificazioni Cisco e sono coinvolti in progetti con le scuole o realtà no profit e pubbliche dell’hinterland milanese per le attività di installazione e manutenzione dell’infrastruttura di rete". La best practice made in Italy - Il corso impegna gli studenti utilizzando una metodologia di apprendimento innovativo basato, oltre che sulle lezioni in aula, sull’apprendimento online grazie alla trasmissione di conoscenza generata attraverso la rete. Il programma prevede lezioni frontali accompagnate da esercitazioni pratiche in laboratorio, simulazioni effettuate utilizzando la piattaforma di e-learning dedicata, strumenti di Virtual Desktop e uso del software didattico Packet Tracer di Cisco, di cui si servono gli studenti delle Networking Academy di tutto il mondo. In questo modo, i discenti possono accedere ai contenuti educativi anche via web, nel rispetto dei propri ritmi di apprendimento e approfondendo la conoscenza delle tecnologie studiate. Gli studenti hanno modo di applicare le nozioni appena apprese in aula direttamente in attività laboratoriali grazie alla costante e motivante supervisione e incoraggiamento di Lorenzo Lento che, in occasione dell’Academy Conference di Johannesburg del 2013, è stato premiato come miglior istruttore Cisco Networking Academy. Da Bollate il progetto si è esteso ad altre realtà della penisola ed oggi ha finalmente raggiunto il modello inglese a cui si ispirava e dove già nel 2002 era stato firmato un accordo con il ministero della Giustizia per le carceri. Ad oggi sono circa 30 gli istituti di pena che hanno attivato percorsi di reinserimento di questo tipo che fanno pensare che formazione possa far rima con inclusione (sociale e non solo). Religioni in carcere: praticare la propria fede è un diritto di Andrea Lastella retisolidali.it, 29 novembre 2016 È una partita da giocare quella tra i detenuti stranieri, che non possono praticare il loro credo, e il sistema penitenziario italiano, spesso indifferente. Solo nell’ultimo decennio in Italia sono state denunciate le condizioni di vita dei detenuti in carcere, condizioni che sono progressivamente peggiorate a causa del sovraffollamento. Recentemente un intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha sanzionato l’Italia per trattamento inumano e degradante, sollecitando la soluzione di tale problema. Se di carceri quindi si è iniziato a parlare, sono ancora molte, però, le questioni d’emergenza ignorate o spesso non condivise e tra queste c’è il diritto all’assistenza religiosa. Proprio lo scorso 30 marzo 2016, in merito ad un ciclo di corsi organizzati a Milano sul tema delle religioni in carcere, è intervenuto così il segretario provinciale della Lega Nord di Milano, Davide Boni: "Sarebbe bene che queste persone scontino la pena nel proprio paese di origine […] I corsi dovrebbero essere fatti non agli agenti, ma agli stessi stranieri, insegnando loro quali siano i valori fondanti della nostra società, che devono essere rispettati per potere vivere onestamente in questo Paese". Il diritto all’assistenza religiosa - Cos’è il diritto all’assistenza religiosa ce lo spiega Massimo Rosati, professore di Sociologia generale dell’Università di Roma Tor Vergata, con l’articolo del 7 gennaio 2013, Religioni in carcere, pubblicato nel blog online "Reset". Al dicembre 2013 i detenuti in Italia sono 62.536. I nati all’estero sono il 36%. I detenuti stranieri provengono da soprattutto da Marocco e Tunisia, nonché da Romania e Albania. Il professore, sul tema delle religioni in carcere, ha spiegato così il significato: "Di cosa parliamo? Della possibilità di pregare secondo le regole del proprio culto, che non sempre rimettono la preghiera al solo foro interiore della coscienza, ma chiedono tempi e spazi precisi, difficili da armonizzare con tempi e spazi della vita del carcere; della possibilità di celebrare liturgie specifiche; della possibilità di seguire norme alimentari specifiche; della possibilità di vedere trattato il proprio corpo - in carcere si sa, tutto impatta sul corpo - secondo norme particolari (dalle cure igieniche a quelle mediche); della possibilità di avere assistenza spirituale e/o relative all’applicazione di norme religiose in un contesto così difficile mediante il rapporto con un ministro di culto della propria tradizione o con un rappresentante della propria comunità; della possibilità di avere accesso ai testi sacri o ad altri simboli religiosi considerati sacri; della possibilità stessa di venire informati in modo completo ed esauriente circa le condizioni del diritto al culto dietro le sbarre". Religioni in carcere: qualche dato - Per comprendere la vastità del problema è bene conoscere qualche dato in più. L’Istat al 31 dicembre 2013 ha censito 62.536 persone detenute nelle carceri italiane. I detenuti nati all’estero rappresentano il 36%. I detenuti stranieri provengono per la maggior parte dall’Africa (46,3%), in particolare dal Marocco e dalla Tunisia (18,6% e 12% rispettivamente), nonché dall’Europa (41,6%), soprattutto dalla Romania e dall’Albania (16% e 13%), cui seguono quelli provenienti dalle Americhe e dall’Asia. In Italia manca completamente una legislazione organica e il tema delle religioni in carcere è giocato tutto su intese precarie. Nel quadro della multiculturalità che contraddistingue la popolazione straniera in Italia, tra il 2011 e il 2012 la fede cristiana è la più diffusa tra i cittadini stranieri (56,4%, pari a poco più di 2 milioni e 56 mila individui dei 3 milioni e 639 mila cittadini stranieri residenti), con il 27% di individui che si professano ortodossi, il 25,1% cattolici e il 2,7% protestanti. Poco più di un quarto è di fede musulmana (26,3%), molto più contenuta è la presenza di buddisti (circa il 3%) o di seguaci di altre religioni (5,6%). Gli stranieri che si dichiarano atei sono il 7,1%. Oltre uno straniero su due attribuisce alla sfera religiosa un’elevata importanza nella propria vita. Circa l’80% dei cittadini stranieri, che dichiarano un’appartenenza religiosa, prega o recita formule sacre al di fuori dei riti religiosi almeno qualche volta l’anno: il 38% tutti i giorni, il 17% qualche volta alla settimana, il 9,9% qualche volta al mese e il 9,4% qualche volta l’anno. Il 20,2% non prega mai (o mai recita formule sacre) al di fuori dei riti. L’attuale quadro normativo in Italia - Per gettare ora uno sguardo al quadro normativo, possiamo dire che il sistema penitenziario italiano risulta ancora non in grado di affrontare una sfida nell’adottare un sistema pluralista dei credi all’interno delle carceri. Il sistema penitenziario italiano prevede infatti l’implementazione del diritto al culto in due modi: attraverso la presenza e il lavoro dei cappellani cattolici, che sono a tutti gli effetti parte dello staff di un istituto penitenziario, o attraverso la presenza di ministri di culto o rappresentanti di altre religioni la cui possibilità di ingresso e intervento è regolata dalle specifiche forme di accordi che lo Stato italiano ha volta per volta con le singole comunità religiose. Si può quindi certamente affermare che la totale assenza di una legge organica sulla libertà religiosa e l’esistenza di intese precarie fa sì, che oggi il diritto alle religiosità è affidato all’etica volontaristica e umana di tutti gli operatori coinvolti, nell’accontentare e nell’acconsentire alle richieste di ogni singolo detenuto. Quale possibile scenario di cambiamento? - Un’educazione che funga da garanzia alle libertà e all’uguaglianza dei diritti civili e sociali dei cittadini, e che renda possibile ad ogni cittadino di non privarsi di quei fondamenti identitari caratteristici di ognuno di esso potrebbe far intravedere possibili scenari di cambiamento. Si deve ammettere che l’indifferenza che propaga nella nostra società sembra trovarsi anche in quelle istituzioni che come tali dovrebbero, invece, educare e sostenere un’etica di inclusione e un educazione democratica. Giustizia. È record di "pentiti", ma le loro rivelazioni contano meno di Marco Grasso e Matteo Indice La Stampa, 29 novembre 2016 6.300 sotto protezione tra collaboratori e familiari. L’investigatore: "Non sono più i tempi di Buscetta". Vicino all’ingresso sta installando le stesse telecamere che aveva appena smontato dall’alloggio segreto affittato dal ministero dell’Interno, la madre nella stanza accanto non sta bene e ogni tanto lo chiama. "Nessuno, qui, può e deve sapere chi sono". Sul portone saluta i vicini, si è presentato come il nuovo inquilino con cui dividere una porzione di terrazzo. "Tonino" Fasano prepara il caffè e guarda sotto al lavandino: "Quando stavo con i casalesi avevo così tanti soldi che tenevamo le banconote nei sacchetti della spazzatura: pacchi di contanti, ne pescavi un po’ per comprarti la macchina nuova o qualsiasi altra cosa. D’altronde, consegnavo 300mila euro al mese di stipendi, chiamiamoli così: gregari, affiliati, avvocati…". Pausa. "Cambiavo casa ogni tre giorni per paura d’essere ammazzato, a ogni rumore gli occhi finivano sui monitor della videosorveglianza, da posizionare in ogni posto in cui dormi. Mi convinse a fare il salto un ufficiale dei carabinieri che i miei compagni volevano uccidere". Oggi ha 46 anni ed era fino al 2009 il luogotenente ad Aversa del boss Giuseppe Setola, legato all’ala stragista dei casalesi che nel 2008 compì il massacro di Castelvolturno: sei ghanesi falciati a colpi di kalashnikov per dare un segnale a chi contestava il loro strapotere, un punto di non ritorno nella storia criminale italiana. Il rapporto del Viminale - Fasano è stato nel 2015 uno dei 1253 pentiti presenti in Italia, il massimo storico. Mai così tanti e lo conferma l’ultima relazione del Servizio centrale di protezione del Viminale, che a breve sarà consegnata al ministro dell’Interno Angelino Alfano e poi presentata al Parlamento. La cifra è quasi raddoppiata in un decennio (erano 790 nel 2006), e la "popolazione protetta" inclusiva dei familiari raggiunge quota 6.300, ulteriore record. A cosa è legata l’escalation? Sono ancora figure così importanti? Con quali risorse rispondono i governi, che tengono un atteggiamento perlomeno contraddittorio? E perché i testimoni di giustizia, loro sì vittime delle cosche e costrette a vivere sotto scorta dopo averle denunciate, restano molto inferiori? La storia di "Tonino" Fasano aiuta a calarsi in un ragionamento più complessivo, su un tema che per sua natura resta quasi inabissato. Lo abbiamo incontrato in due degli appartamenti nei quali ha vissuto fra Lazio, Alto Adige e Lombardia, in un caso dopo la recente uscita dal programma di protezione. "Sono stato prosciolto dall’accusa di aver fatto parte del commando, da poco un’altra testimonianza mi ha rimesso in mezzo". Eccoci. "Ho fatto il collaboratore di giustizia per sette anni e partecipato a dieci processi. Lo Stato mi ha assistito e aiutato, penso che le mie rivelazioni siano state importanti. A un certo punto qualcosa si è rotto e ho avuto meno di ciò che mi era stato garantito. Ho subito pressioni dagli agenti delegati al rapporto con figure come la mia, non hanno rispettato gli accordi. So che siamo degli impresentabili, agli occhi di tutti. Ma il patto, se si crea, dovrebbe funzionare fino in fondo". Quant’è accettabile un’affermazione del genere, sebbene sia indubbio che il sistema stia raggiungendo un livello di saturazione non semplice da gestire? L’offensiva dello Stato - Andrea Caridi è nato in Calabria e ha fatto per una vita l’investigatore, soprattutto a Palermo, e da un anno è il capo del Servizio centrale di protezione: "È una fase diversa rispetto alla metà degli Anni 90, i pentimenti dei big di Cosa Nostra come Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo o Pino Marchese. Oggi siamo davanti a gregari di medio livello provenienti perlopiù dalla camorra (il 45%) che si consegnano perché rimasti in un vicolo cieco". Il boom nel numero dei pentiti ha per lui una chiave di lettura semplice: è l’effetto delle indagini che disarticolano i clan, rendendo la collaborazione unica via d’uscita al carcere o alla morte. "Per la ‘ndrangheta è diverso. Essendo una mafia cementata sui legami familiari, smarcarsi significherebbe denunciare fratelli, padri, sorelle. Ecco perché accade di rado". L’ufficio che dirige in un palazzone dell’Eur a Roma è un posto abbastanza strano, e nei corridoi capita d’incrociare vecchi sicari a fare anticamera per ottenere un piccolo incremento nell’assegno, un nuovo documento di copertura, un aiuto sulle spese scolastiche dei figli. "Il 90% degli assistiti è insoddisfatto e non mi sorprende - aggiunge - Parliamo di gente assuefatta a esistenze da milionari, anche se magari vivevano in quartieri popolari. Non è facile adattarsi. Da un giorno all’altro vieni sradicato per ragioni di sicurezza, e sperimenti le condizioni economiche di tanti italiani che devono far quadrare i conti". La macchina è complessa: insieme a un ex criminale vengono mantenuti in media cinque suoi familiari, saldati affitti e parecchie spese sanitarie. Senza dimenticare che le identità fittizie, quando richieste e concesse, vanno rese compatibili con i vari database nazionali. Lo "stipendio" mensile (dai 900 euro in su in base al numero dei parenti a carico) è prelevato in contanti attraverso un bancomat speciale da utilizzare solo in sportelli prestabiliti. "I miei omologhi russi e americani assistono un numero di persone simili al nostro - chiude Caridi - ma parliamo di Paesi molto più vasti e con risorse differenti". Il rischio "inflazione" - Non tutti sono convinti che l’apporto dei collaboratori resti fondamentale "ed è sempre più difficile trovarne qualcuno che fornisca notizie interessanti". A parlare è un carabiniere del Ros specializzato da quindici anni nel contrasto alla ‘ndrangheta, che chiede l’anonimato: "Verificare le notizie è un impegno notevole, spesso le informazioni contraddicono quelle fornite da altri fuoriusciti. Non significa che mentano, magari non sanno abbastanza. Il paradosso è che la comparazione delle nuove rivelazioni può complicare il nostro lavoro, invece di snellirlo". Napoli, dove Fausto Lamparelli dirige la squadra mobile della polizia, è la città dove si registra il picco di pentimenti: "Perquisizioni e arresti tolgono respiro ai clan, ecco perché alcuni membri decidono di collaborare. L’erosione del potere mafioso è all’origine del crollo nell’età media dei camorristi, la cosiddetta "paranza dei bambini". Sono giovanissimi dal percorso improvvisato, più violenti ma meno autorevoli e durano poco: o vengono ammazzati o finiscono all’ergastolo in un paio d’anni. La base investigativa è sempre più solida e spesso le rivelazioni degli ex non aggiungono novità sostanziali. Certo, il punto di vista interno rimane utile". L’intelligence cresce, grazie alla base fornita dai pentiti in passato; ma questo avanzamento rende meno essenziale l’apporto dei nuovi, certificando una sorta d’inflazione. Perciò lo Stato, pur garantendo sulla carta il mantenimento di risorse "adeguate", taglia. Lo ha fatto con la legge di stabilità 2015, che ha ridotto del 30% netto gli stanziamenti "ordinari" al Servizio di protezione. "Attenzione a non fraintendere - spiega il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico (Pd), al vertice della Commissione sui collaboratori - poiché in corso d’opera garantiamo ogni spesa extra". Tradotto: l’esecutivo drena a monte e i dirigenti del Servizio si barcamenano, grazie all’acrobatica spending-review di funzionari più simili a manager che a burocrati. Sono state cancellate le mediazioni immobiliari, contenuti i compensi per i legali dei collaboratori ("di fatto li difendono già i pubblici ministeri", spiegano al Viminale) e quasi azzerato il budget dei soggiorni in albergo nella fase intermedia di vigilanza, dal primo giorno di pentimento fino all’assegnazione dell’alloggio vero e proprio. Può pure capitare che si faccia qualche debito, poi ripianato fra novembre e dicembre grazie ai fondi "in assestamento" con i quali si fa rientrare dalla finestra ciò che non era passato dalla porta principale. Chi torna a delinquere - Uno dei massimi sponsor dell’utilità dei collaboratori fu Giovanni Falcone. E anche per questo le "ricadute" periodiche del supertestimone per eccellenza Tommaso Buscetta furono un capitolo amaro nella lotta antimafia. Quei personaggi non ci sono più, ma i deragliamenti non mancano (ogni anno in 15 vengono espulsi dal programma). Di recente è successo a Sebastiano Cassia, da protagonista di Mafia Capitale a teste chiave, intercettato con un passamontagna e un coltello fuori da una gioielleria; o a Salvatore Caterino, ex camorrista che denunciò le collusioni dell’ex sottosegretario all’economia Nicola Cosentino (da poco condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa), scoperto a fare estorsioni per posta. Quant’è concreto il rischio che si torni a delinquere? Prova a rispondere Francesco Messina, che ha combattuto la mafia siciliana nei Servizi segreti, i casalesi da questore di Caserta e da poco guida la polizia a Perugia. "La figura del pentito si sta un po’ svalutando, ne abbiamo troppi e spesso di scarsa qualità. Ce lo riferiscono le Procure, che hanno una visione d’insieme e valutano attendibilità e costi. Ritengo che il rischio d’una regressione sia correlato al valore del singolo: se era ai vertici del clan e racconta cose davvero importanti, difficilmente tornerà indietro". Tonino Fasano, entrato e uscito dalla protezione, ha appena finito il caffè: "Non ricomincerò a delinquere, ma è difficilissimo dopo aver vissuto in quel modo". Lo sguardo si posa ancora sulla porta, lo stesso gesto paranoico d’un tempo, senza mazzette da pescare nell’immondizia. Una volta imboccata la strada opposta, le preoccupazioni e le frustrazioni - così recitava l’ex boss in un famoso film di mafia - diventano quelle di tutti: "Mi tocca fare le code e mangiare male, come qualsiasi "normale nullità". Giustizia. L’antimafia e quell’esercito di 6.300 tra "pentiti" e loro familiari di Michele Capano* Il Dubbio, 29 novembre 2016 Nel 2015 i collaboratori di giustizia sottoposti a misure di protezione raggiungono, insieme ai familiari, la bella cifra di 6.300 unità. Non sono un po’ troppi? Non sarebbe ragionevole rivedere la legge? Nelle parole di Wikipedia Dairago è un "comune italiano di 6.167 abitanti situato nella città metropolitana di Milano, in Lombardia, a circa 32 chilometri a nord-ovest dal capoluogo, nell’alta pianura al limite con la provincia di Varese, in un territorio ancora in parte coperto da boschi, non lontano dai fiumi Olona (che scorre a 5 chilometri a levante) e Ticino (distante 10 chilometri a ponente)". Che c’entra Dairago con i collaboratori di giustizia? C’entra, c’entra eccome, perché la Relazione del Servizio Centrale di Protezione presso il Viminale ci informa che nel 2015 i collaboratori di giustizia sottoposti a misure di protezione (ben 1253, raddoppiati nel corso dell’ultimo decennio) raggiungono, insieme ai familiari ammessi allo stesso programma di protezione, la bella cifra di 6300 unità: gli abitanti del comune di Dairago. Dobbiamo immaginare, dunque, che tutti: dall’amministrazione comunale ai consiglieri di opposizione, dal personale della scuola elementare a quello del supermercato, dai giocatori della squadra di calcio giù giù fino a medici, farmacisti, benzinai, per finire ai novantenni e ai neonati in carrozzina, proprio tutti gli abitanti di Dairago fruiscano della protezione statale con il sussidio, le provvidenze legali, i cambi di identità. E poi dobbiamo chiederci se ne sia valsa la pena, a venticinque anni dalla legge sui pentiti di mafia e a quindici dalla riforma con cui si tentò di correggerne alcune storture e che il Presidente del Senato Pietro Grasso, all’epoca Procuratore capo della Repubblica a Palermo, il 18 marzo del 2001 in un’intervista al Corriere della Sera liquidò così: "Se fossi un mafioso, non mi pentirei più" (fosse stato per lui, insomma, non parleremmo di 6300 beneficiari di programmi di protezione, ma di almeno dieci volte tanti). Davanti a organizzazioni criminali ancora o nuovamente vitali, dobbiamo chiederci se è valsa la pena di dare vita a un vero e proprio "paese" di persone protette a mezzo di una legislazione che ha premiato ? in nome della necessità di disarticolare la criminalità organizzata ? pluriomicidi disposti a un patto con la Repubblica in virtù del quale più o meno robusti benefici sul piano economico finanziario e dell’esecuzione della pena sono stati barattati (con rispetto parlando per il nobile istituto del baratto) con rivelazioni su fatti, circostanze e responsabilità personali criminali. Dobbiamo chiederci se è valsa la pena di affrontare vicende dolorose, come quella di Enzo Tortora e degli altri cittadini che - per "pentito" dire - hanno sacrificato, pur essendo innocenti, anni di vita, la reputazione, la carriera, qualche volta la pelle sull’altare del Dio dell’Antimafia militante. Dobbiamo chiederci se è valsa la pena di rinunciare all’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge in nome di una "guerra" alla criminalità organizzata che imponeva e impone un "diritto di guerra" nel quale - sul piano penitenziario come su quello delle misure cautelari, sul piano del diritto penale sostanziale come su quello dell’uso investigativo dei "premi" alla collaborazione di giustizia - non è possibile star lì a sottilizzare, a cincischiare. Bisognava debellare mafia, ‘ndrangheta, camorra. Venticinque anni or sono. Appunto. L’impegno di Radicali Italiani, in continuità con la difesa dello Stato di diritto che Marco Pannella è stato in grado di assicurare anche nei momenti giuridicamente più bui della nostra Repubblica, è diretto a ricondurre a razionalità e "ordinarietà" quell’ "enclave" caotica - sul territorio del nostro ordinamento giuridico - che è ormai divenuta il diritto "antimafia". *Tesoriere di Radicali italiani Giustizia. Intercettazioni dei pm dal server delle Procure all’azienda informatica di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 novembre 2016 Oltre 20 pagine di dati trovati sul pc di un’impiegata di una delle società che forniscono alle Procure i server per le intercettazioni. Al momento non c’è alcun sospetto di fughe di notizie mirate. Ma preoccupa il meccanismo tecnico. Oltre 20 pagine di dati di intercettazioni di parecchie Procure (come Reggio Calabria, Napoli, Catania, Trento, Busto, Torino, Milano, Roma, Trieste) trovati sul pc dell’impiegata di una delle società private che forniscono alle Procure i server per le intercettazioni: numeri e nomi di intercettati, loro interlocutori, durata, posizionamento, testi degli sms, sintesi e commenti della polizia giudiziaria sull’importanza delle varie intercettazioni, tutti dati che per legge devono invece stare solo sui server delle Procure. E adesso i pm di Trieste e Busto Arsizio, il Garante della Privacy, il Consiglio superiore della magistratura e il ministero della Giustizia sono impegnati a capire se tra le società private esista la potenzialità tecnica, nel momento in cui svolgono l’assistenza a distanza chiesta dalle Procure sui propri server per la manutenzione ordinaria o per specifici guasti, di invece "scaricare" dati e farli risiedere fisicamente e poi trattenerli sui propri computer locali. Per di più con l’ulteriore possibilità tecnica di farlo anche senza che la Procura abbia richiesto l’assistenza, e dunque senza che in teoria se ne accorga. Almeno la prima delle due potenzialità si manifesta per caso alla Procura di Trieste quando, dovendo l’anno scorso rimediare a un guasto in una indagine del pm Maddalena Chergia, ci si avvede che alcune intercettazioni stanno non solo sul server della Procura, ma anche sul pc dell’impiegata della società privata Area che "da remoto", cioè a distanza dalla sede di Vizzola Ticino (vicino a Malpensa), aveva operato su richiesta dei pm per cercare di ritrovare file-audio di cui in Procura si era temuta la perdita sul server. Il procuratore di Trieste Carlo Mastelloni e la sua pm, indagando l’impiegata per l’ipotesi di accesso abusivo a sistema informatico, il 15 dicembre 2015 ordinano alla GdF una perquisizione della sua postazione di lavoro, alla quale non partecipano avvisando il capo della Procura competente per territorio, Gianluigi Fontana a Busto Arsizio, che partecipa ma non conosce il contesto. In questa che per metà inizia come perquisizione dei pm di Trieste e per metà diventa ispezione del pm di Busto Arsizio a fini contrattuali, nel pc dell’impiegata vengono trovati quei dati, oltre a migliaia di file audio, però non ascoltabili (a differenza degli sms subito leggibili) senza la chiave di cifratura che le prassi aziendali di sicurezza suddividono apposta fra più persone. Al momento non c’è alcun sospetto di fughe di notizie mirate, anche perché nella maggioranza dei casi si tratterebbe di intercettazioni di indagini di routine, magari residui accumulatisi in manutenzioni passate come effetto collaterale di un software di teleassistenza forse più comodo per gli operatori aziendali. Ma a preoccupare è il meccanismo tecnico in sé, la realizzabilità di questo vietato canale inverso (dal server della Procura al pc della società privata), visto che qualunque dato, se "scaricato" sul pc privato, in teoria da lì può essere poi trasmesso, o esportato e consegnato su chiavetta (e anche il tracciamento dei file di "log" non è una garanzia assoluta quando a operare è chi possiede i privilegi di "amministratore di sistema"). Non a caso il Garante della Privacy nei giorni successivi ricevette dal procuratore di Busto Arsizio una segnalazione "che l’Autorità ha valutato nell’ambito della più generale verifica sulle misure di sicurezza prescritte alle Procure, verifica ancora in corso". E il procuratore di Trieste ha ritenuto per motivi istituzionali di avvisare della questione il Comitato di presidenza del Csm (formato dal vicepresidente Legnini, dal presidente della Cassazione, Canzio, e dal procuratore generale della Cassazione, Ciccolo), che a sua volta ha investito il ministero della Giustizia, che ha allertato gli organi di sicurezza e emanato circolari per suggerire alle Procure di elevare le pretese di sicurezza nei contratti con le società. Interpellato dal Corriere, il presidente e titolare di Area, Andrea Formenti, nega che sia possibile lo "scarico" di dati dal server di una Procura su un pc locale, salvo su esplicita richiesta e autorizzazione della Procura titolare del server. E allora perché quella massa di dati di intercettazioni stava sul pc della dipendente dell’help-desk? Qui il manager afferma di non poter dire una parola "perché vincolato da ragioni di rispetto del segreto, da questioni di privacy e da motivi di natura giuslavoristica". Ci tiene però ad assicurare che Area, aderente a Confindustria, "ha il più alto standard di sicurezza nel settore", dove impiega 150 dipendenti, in un anno fattura circa 20 milioni di euro e riceve 25.000 incarichi da 100 uffici giudiziari in tutta Italia, collocandosi sui primi tre gradini nel settore: "Porte aperte a qualunque istituzione dovesse ritenere di fare accertamenti, siamo i primi interessati a sapere se esistano mele marce". Giustizia. Vittime di femminicidio con nuove tutele di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2016 Assunzione di mille cancellieri, proroga di un anno del tirocinio dei precari della giustizia e più risorse per la tutela delle vittime di violenza. Sono alcune novità sul fronte dell’amministrazione giudiziaria presenti nella Legge di bilancio 2017. Il ministero della Giustizia, nel triennio 2017-2019 potrà reclutare altri mille amministrativi, in ruolo non dirigenziale, con contratto a tempo indeterminato: il canale è quello dei nuovi concorsi o delle graduatore valide. Il personale arriva in aggiunta all’assunzione straordinaria di mille assistenti giudiziari prevista dal decreto sul processo amministrativo telematico approvato in agosto. Via libera anche alla proroga, per tutto il 2017, per i "precari della giustizia" che hanno completato il tirocinio formativo previsto dalla legge di stabilità 2013: potranno lavorare all’interno dell’"ufficio per il processo". La proroga è concessa su domanda e lo svolgimento dell’attività formativa è spendibile come titolo di preferenza nei concorsi della Pa. Per le borse di studio dei precari sono stanziati 5.807.509 euro. Nella legge c’è anche la copertura Inail per malattia e infortuni in favore dei condannati ai lavori di pubblica utilità. Al Fondo sperimentale (biennio 2016-2017) andranno 3 milioni di euro in più nel 2017 per assicurare chi accede alla pena alternativa come imputato messo alla prova, condannato per guida in stato di ubriachezza o sotto gli effetti della droga o tossicodipendente condannato per spaccio o detenzione di lieve entità. All’indennizzo per le vittime di reati violenti sono invece destinate le risorse ottenute con le sanzioni pecuniarie per illeciti civili. Il decreto del ministero che fisserà i limiti dell’indennizzo assicura un maggior ristoro ai figli delle vittime di omicidio commesso dal coniuge o da chi ha legami affettivi. Cinque milioni di euro all’anno anche per il Fondo pari opportunità, per assistere le donne vittime di violenza e i loro figli. Aumenta, sempre di 5 milioni, il Fondo per le misure anti-tratta finalizzato all’indennizzo delle vittime. Cresce della stessa cifra anche la dotazione del Fondo per le adozioni internazionali. L’informatizzazione dei servizi della giustizia rientra i settori finanziati grazie all’istituzione di un Fondo per investimenti in materia di infrastrutture, trasporti, difesa del suolo e dissesto idrogeologico, ricerca e innovazione tecnologica e edilizia pubblica: somme che si ricollegano all’avvio del processo telematico. In attuazione di una direttiva europea, è assicurata, la copertura finanziaria per la creazione e la gestione della piattaforma informatica per la banca dati dei passeggeri che viaggiano in aereo. Soddisfatta la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, per il via libera della Camera ad una manovra che "dopo quasi vent’anni di stallo rende più moderna ed efficiente la giustizia". Giustizia. La carica dei mille, in arrivo un maxi-concorso per rinforzare le cancellerie di Claudia Morelli Italia Oggi, 29 novembre 2016 Nuove assunzioni e investimenti nel processo telematico. La legge di Bilancio approvata ieri dalla Camera dei deputati (e che ora va al Senato) si può dire faccia una iniezione di risorse nell’amministrazione giudiziaria, per spingere al massimo la "macchina". Aumentano inoltre le risorse a favore delle vittime di reati violenti. Un saldo "positivo", ha commentato ieri la presidente della commissione giustizia della Camera Donatella Ferranti. Nuove risorse per il sostegno alle donne vittime violenza. Nel prossimo triennio al Fondo per le pari opportunità destinato al sostegno e al potenziamento dell’assistenza alle donne vittime di violenza e ai loro figli andranno 5 milioni di euro all’anno. È la risposta all’allarme dei centri antiviolenza sulla mancanza di risorse e dunque sulla impossibilità di continuare a operare sul territorio. Inoltre le sanzioni pecuniarie saranno destinate al Fondo antimafia, antiusura e vittime a copertura di indennizzi delle vittime di femminicidio e dei fi gli orfani. Un decreto ministeriale determinerà i limiti dell’indennizzo, assicurando un maggior ristoro ai figli delle vittime di omicidio commesso dal coniuge (anche ex) o da chi ha legami affettivi. Ulteriori 5 milioni di euro andranno al Fondo anti-tratta. Informatizzazione servizi giustizia. L’informatizzazione dei servizi della giustizia rientrerà tra i settori finanziati tramite l’istituzione di un Fondo per investimenti in materia di infrastrutture e trasporti, difesa del suolo e dissesto idrogeologico, ricerca e innovazione tecnologica, edilizia pubblica (articolo 21). Le risorse stanziate si ricollegano essenzialmente all’avvio del processo telematico. Nel bilancio 2017 (cap 1536) sono stanziati complessivi 81,5 mln per il 2017, 82,5 mln per il 2018 e 82,5 mln per il 2019; risorse che saranno suddivise per finanziare sia i processi civile e penale telematici sia le infrastrutture. Si segnala che nessuna risorsa aggiuntiva è stanziata per i processi telematici amministrativo e tributario. In arrivo altri mille cancellieri. Grazie a un emendamento approvato dalla commissione, nel triennio 2017-2019 il ministro della giustizia potrà reclutare ulteriori mille amministrativi (in ruoli non dirigenziali) con contratto a tempo indeterminato sia tramite concorsi sia attingendo a graduatorie valide. L’ingresso di questo nuovo personale va ad aggiungersi all’assunzione straordinaria di altri mille assistenti giudiziari prevista dal decreto sul processo amministrativo telematico approvato in agosto. Proroga tirocinio precari giustizia. I precari della giustizia, i soggetti cioè che hanno già completato il tirocinio formativo previsto dalla stabilità 2013, potranno lavorare altri 12 mesi (per tutto il 2017) all’interno dell’"ufficio per il processo". Questa ulteriore attività formativa varrà come titolo di preferenza nei concorsi nella pubblica amministrazione. A copertura delle borse di studio percepite dai precari sono stanziati 5.807.509 euro. Più soldi alle adozioni internazionali. Nel 2017 cresce di 5 milioni di euro la dotazione del Fondo per le adozioni internazionali. Strategia nazionale per la valorizzazione dei beni e aziende confiscate alla criminalità organizzata. Sarà a cura dell’Agenzia nazionale, con specifico incremento, per il 2019, del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, nella misura di 3 milioni di euro, e del Fondo per la crescita sostenibile, nella misura di 7 milioni di euro, attraverso il rifinanziamento dell’autorizzazione di spesa prevista dalla legge di stabilità 2016. Assicurazione a condannati lavori pubblica utilità. I condannati ai lavori di pubblica utilità avranno la copertura Inail per malattia e infortuni. Controllo antiterrorismo passeggeri aerei. Nell’ambito dei controlli antiterrorismo, in attuazione di una direttiva europea, viene assicurata la copertura finanziaria per la creazione e gestione della piattaforma informatica per la banca dati dei passeggeri che viaggiano in aereo. Vittima sempre "credibile" nello stalking di vicinato di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2016 Sentenza Cassazione n. 26878 2016. Atti persecutori in condominio : la Cassazione ha ormai definito i contorni dello stalking tra vicini, soprattutto sulla credibilità di chi ha fatto querela, accreditandola di fatto data per scontata quando non si possano ravvisare "intenti calunniatori o contrasti economici". La sentenza 26878/2016 ha riconosciuto la fattispecie del reato di cui all’articolo 612 bis del Codice penale nella condotta del condominio che rappresenti elementi concreti tali da esasperare il vicino di casa, inducendolo ad assumere terapie tranquillanti, ad assentarsi dal luogo di lavoro ed a creare nel medesimo uno stato di ansia che gli renda la vita impossibile. In particolare la Suprema Corte ritiene che questa condotta sia penalmente rilevante e che l’intento della parte lesa che ha denunciato il reato non sia mosso da vendetta, da intenti calunniatori o da contrasti economici. In merito la sentenza riferisce quanto segue: "Con motivazione adeguata e logicamente ineccepibile il provvedimento impugnato ha dato conto, altresì, delle conseguenze sulla condizione di vita della persona offesa costretta ad assentarsi dal lavoro ed assumere tranquillanti, ravvisando in esse gli eventi del mutamento delle abitudini e dell’insorgere di un grave stato d’ansia. Tale deduzione è coerente con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la prova dell’evento del delitto in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (sentenza 14391/2012)". La sentenza ha inoltre affermato che: "I primi due motivi del ricorso non tengono conto della costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale le dichiarazioni della persona offesa dal delitto possono essere anche da sole poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità se sottoposte a vaglio critico circa l’attendibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità soggettiva del dichiarante e circa l’attendibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva di quanto riferito e non sono sottoposte alla regola di giudizio ex articolo 192 del Codice penale, comma terzo. Sul punto (Sez. U, sentenza n. 41461, ud. del 19 luglio 2012, dep. 24.10.2012, Rv. 253214). Le regole dettate dall’articolo 192 del Codice penale, comma terzo, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone". La Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. Applicando il criterio della credibilità del querelante la Cassazione ha osservato che il Tribunale ha operato un sintetico ma esauriente esame "escludendo la presenza di intenti calunniatori o di contrasti economici e valorizzando razionalmente il fatto che le sue aperture querele, pertanto, erano state originate da una reale esasperazione derivante dalle condotte dell’indagato che aveva denunziato. Dal testo del provvedimento (...) è apprezzabile un implicito giudizio di attendibilità delle accuse nei confronti del ricorrente, del resto riscontrate più volte anche da interventi della polizia giudiziaria". Stato di necessità per chi uccide il cane altrui per salvare il proprio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 28 novembre 2016 n. 50329. L’uccisione di un cane può essere scriminata dallo "stato di necessità" se avvenuta per difendere il proprio animale di piccola taglia da una aggressione ritenuta pericolosa. Lo ha stabilito Corte di cassazione, con la sentenza 28 novembre 2016 n. 50329, accogliendo il ricorso di un uomo condannato dalla Corte di appello di Firenze per "uccisione di animali" e "porto abusivo di armi", per via del puntale di ferro utilizzato per trafiggere l’animale. La vicenda - Mentre passeggiava con il proprio cane in una zona centrale di Portoferraio, una alano, condotto senza guinzaglio né museruola, aveva aggredito e morso l’animale alla coda procurandogli due piccole ferite, successivamente accertate dal veterinario. A seguito dell’aggressione il ricorrente aveva reagito colpendo la bestia con un bastone animato da una lama di 35 cm che penetrandogli nel fianco l’aveva ucciso. Il giudice di secondo grado però non aveva creduto alla tesi difensiva secondo cui il ricorrente avrebbe inferto il colpo perché "impaurito" per sé e per il proprio animale. Secondo la Corte territoriale infatti si sarebbe trattato di un "gesto deliberato", di una "reazione a freddo stizzita" per punire il cane dell’aggressione precedente, "tenuto anche conto del punto in cui il l’alano era stato colpito: lateralmente e non frontalmente", il che rendeva "implausibile la tesi adombrata della difesa personale". La motivazione - La Suprema corte ricorda che il delitto di uccisione di animali, delineato dall’articolo 544 bis del codice penale, si configura come reato a dolo specifico, nel caso in cui la condotta lesiva dell’integrità e della vita dell’animale sia tenuta per crudeltà. E a dolo generico quando sia tenuta, come nel caso in esame, senza necessità. E nel concetto di necessità "va compreso lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., e ogni altra situazione che induca all’uccisione o al danneggiamento dell’animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno alla persona o ai beni ritenuto altrimenti inevitabile". In questo senso la Cassazione (n. 47322/2010) ha ritenuto "integrante lo stato di necessità l’uccisione di un cane pastore tedesco a fronte della situazione di pericolo per altro cane di proprietà dell’imputato già aggredito poco prima e per la moglie dell’imputato". Va quindi ribadita, conclude la Corte, "la regola della configurabilità dello stato di necessità in riferimento al delitto di uccisione di animali". Mentre la Corte di appello nel condannare l’imputato non ha "contestualizzato" il momento dell’aggressione rispetto alla "percezione del pericolo" ed alla "situazione di emergenza". La sentenza è stata quindi annullata con rinvio limitatamente al reato di uccisione di animali. Stupefacenti: lieve entità del piccolo spaccio. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2016 Stupefacenti - Fatto di lieve entità - Valutazione complessiva degli elementi dell’azione. Ai fini del riconoscimento o meno dell’ipotesi del fatto di lieve entità, il giudice è comunque tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi normativamente indicati ovvero sia quelli concernenti l’azione che quelli attinenti all’oggetto materiale del reato. In tema di stupefacenti, solo attraverso tale valutazione complessiva della condotta tenuta dall’imputato, il giudice è in grado di valutare in concreto il "piccolo spaccio", caratterizzato da una minore portata dell’attività dello spacciatore, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 25 novembre 2016 n. 50069. Stupefacenti - Attività illecite - Fatto di lieve entità - Abitualità della condotta - Ostatività - Esclusione - Ragione. La differenza fra le due ipotesi di reato dell’articolo 73 D.P.R. n. 309/1990, previste rispettivamente nei commi 1 e 5) non attengono al carattere occasionale o abituale dello spaccio, in particolare l’ipotesi minore di cui al comma 5 non è affatto condizionata dalla episodicità dell’attività criminale, come dimostra il fatto che è prevista, nell’articolo 74 dello stesso Dpr, la figura della associazione finalizzata alla commissione di reati di cui all’articolo 73, comma 5. Piuttosto, la fattispecie autonoma di cui al comma 5 dell’articolo 73 è configurabile nelle ipotesi di cosiddetto "piccolo spaccio", che si caratterizza per una complessiva minore portata dell’attività dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita che, comunque, non sia superiore - tenendo conto del valore e della tipologia della sostanza stupefacente - a dosi conteggiate a decine. Del resto, se si ritenesse che un reato autonomo, quale è l’articolo 73, comma 5, sussista non per le sue caratteristiche in sé, ma per essere la data condotta singola senza collocarsi in un contesto di condotta "abituale", dovrebbe ritenersi che il comma 1 dell’articolo 73 sia un reato abituale, ricorrendo, invece, il reato di cui al comma 5 a fronte di qualsiasi entità del singolo traffico che non abbia caratteri di abitualità; o, comunque, dovrebbe ritenersi l’ipotesi di cui al comma 1 quale reato eventualmente abituale con il conseguente assorbimento delle ulteriori (pur se numerose e protratte nel tempo) condotte (da queste premesse, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna che aveva escluso il "fatto lieve" valorizzando solo la circostanza che le condotte di spaccio fossero "abituali"). • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 9 febbraio 2016 n. 5257. Stupefacenti - Detenzione e spaccio - Fatto di lieve entità - Parametri di riferimento - Valutazione - Fattispecie. La fattispecie di cui all’articolo 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990, si caratterizza per una complessiva minore portata delle attività dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro, nonché guadagni limitati. Tale condotta può anche ricomprendere la detenzione di una provvista per la vendita, che, comunque, non deve essere superiore a dosi conteggiate a decine. Si deve valorizzare, inoltre, anche il dato economico della sostanza, in quanto parametro di individuazione del piccolo spaccio è anche la sua redditività, essendo evidente che, per ottenere il medesimo risultato economico, si dovrà commerciare un maggior numero di dosi di derivati della cannabis rispetto al numero di dosi di eroina (o di altra droga pesante) equivalente. Ciò con l’ulteriore precisazione che, rispetto ai parametri di riferimento indicati dalla norma (quantità e qualità dello stupefacente, mezzi adoperati, modalità e circostanze della condotta), anche lo scostamento da uno solo di questi comporta l’esclusione dell’ipotesi lieve (fattispecie in cui la Corte ha condiviso il diniego dell’ipotesi lieve operato dal giudice di merito valorizzando negativamente la circostanza del collegamento non occasionale degli imputati con trafficanti di rilevante spessore criminale dai quali si procuravano la droga e dalle modalità articolate della successiva attività di spaccio, non limitando l’apprezzamento al dato ponderale della sostanza sequestrata). • Corte cassazione, sezione feriale penale, sentenza 26 agosto 2015 n. 35666. Stupefacenti - In genere - Attività di cosiddetto piccolo spaccio - Reato di lieve entità - Configurabilità - Condizioni. In tema di reati concernenti gli stupefacenti, la fattispecie autonoma di cui al comma quinto dell’articolo 73 D.P.R. n. 309/1990 è configurabile nelle ipotesi di cosiddetto piccolo spaccio, che si caratterizza per una complessiva minore portata dell’attività dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita che, comunque, non sia superiore - tenendo conto del valore e della tipologia della sostanza stupefacente - a dosi conteggiate a "decine". • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 15 aprile 2015 n. 15642. Le babygang violente e le colpe degli adulti senza esempi vincenti di Antonio Mattone Il Mattino, 29 novembre 2016 L’ultima aggressione di una baby gang a Napoli si è consumata domenica sera in piazza Plebiscito. Questa volta sembra non esserci alcuna motivazione al pestaggio violento, ammesso che ci possa essere qualche ragione che possa mai giustificare tale brutalità. A farne le spese sono stati due ragazzi di 15 e 16 anni aggrediti e picchiati selvaggiamente da un gruppo di altri minorenni, poi fuggiti in sella ai loro scooter. La sera precedente, nella zona di Posillipo, un giovane di 16 anni era stato ridotto in fin di vita dal fratello della fidanzatina, geloso di quella relazione tra adolescenti. Soccorso tempestivamente dai medici del Fatebenefratelli, versa ancora in gravi condizioni. Sono solo gli ultimi due episodi di un susseguirsi di violenze che vedono giovani e giovanissimi protagonisti, tanto che non si può più parlare di emergenza né tantomeno di "bravate" tra ragazzi, ma di una situazione cronica che vede i minorenni sempre più spesso al centro di gravi fatti di sangue. È un fenomeno trasversale, che va al di là dei minori coinvolti nei clan delle "paranze", e che ha come protagonisti non solo i ragazzi delle periferie anonime o dei quartieri ad alta concentrazione delinquenziale. Ma interessa anche i teenager provenienti da zone borghesi, come testimoniano gli ultimi fatti di cronaca. La violenza è diventato il linguaggio dei giovani, il coltello in tasca il modo più persuasivo per farsi ascoltare e far valere le proprie ragioni, l’aggregazione aggressiva un modello per far gruppo e divertirsi. Ci troviamo di fronte a un disagio generazionale che interessa i minori fin dai dieci, undici anni di età, a cui istituzioni, scuola, chiesa e associazionismo stentano a trovare risposte efficaci. Il filosofo Zygmunt Bauman ha recentemente sostenuto che nella nostra società si va affermando un "noi" che si espande, che si identifica in un insieme di persone, ma che poi diventa la tribù, il gruppo, contrapposto agli altri. E quindi questo "noi" non è inclusivo, è un "noi" che esclude. Lo stare insieme non è motivo di unità ma diventa identità contrapposta all’altro. I modelli che si stanno imponendo anche tra i nostri giovani vanno in questa direzione. Sempre più fragili, senza esempi di riferimento autorevoli, poveri culturalmente e con un vuoto di valori, si aggregano per prevalere in modo violento sugli altri. Quando nelle nostre case ci sono più televisioni, tablet e smartphone che libri, quando personaggi feroci e aggressivi veicolati attraverso media e social network diventano un cult e non ci sono più figure alternative vincenti, si finisce per essere fagocitati da modelli violenti. Talvolta questi giovani non sanno neanche spiegare la ragione di questi gesti. C’è spesso un collegamento diretto tra spaesamento, malessere e violenza. È una realtà che ho riscontrato in tanti giovani incontrati nelle carceri di Poggioreale o di Nisida. Ragazzi che non hanno un’ indole criminale, che provengono da famiglie di onesti lavoratori e che all’improvviso si disorientano e si perdono. Un ragazzo è finito dentro dopo che era stato arrestato un vicino di casa che in qualche modo lo aveva tenuto lontano dal mondo del crimine. Una volta che ha ceduto l’adulto c’è stato come un effetto domino che ha travolto anche il giovane. "È successo, è capitato", dicono alle volte con spavalderia, come se i comportamenti sbagliati e i reati non dipendessero dalla loro volontà, ma dal caso. Sembra che sinceramente non abbiamo preso coscienza della gravità delle loro azioni, che talvolta sono davvero terribili. Nelle prigioni si incontrano tanti volti di adolescenti, un’infanzia perduta che aspetta di essere recuperata. Sta a noi, al mondo degli adulti, prendere sul serio le giovani generazioni, comprendere le domande inespresse, fornire esempi, prestare ascolto, suggerire parole e percorsi diversi. Prima che quella che pensiamo una bravata possa trasformarsi in una tragedia. Sbagliato paragonare il femminicidio alla mafia di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 29 novembre 2016 Il giudice del Tribunale di Roma Paola Di Nicola ha formulato questa affermazione: "Il femminicidio ha la stessa valenza culturale, sociale e criminale della mafia". Se questa affermazione stupisce per la sua lapidarietà, molto di più stupisce il seguito delle dichiarazioni rese dal giudice. In estrema sintesi, ella ritiene che nel settore del femminicidio viga lo stesso codice omertoso della mafia; che molte donne, quando denunciano le violenze subite, non sono credute pregiudizialmente; che in alcune sentenze di assoluzione si dice che la denuncia della donna era strumentale, me senza fornire la prova di tale strumentalità; che invece basterebbe l’accusa della donna per giungere ad una condanna anche senza ulteriori testimoni, posto che le violenze avvengono in ambito domestico. Credo che Paola Di Nicola abbia torto e spiego brevemente perché. 1) Che il femminicidio abbia la stessa valenza della mafia è una vera esagerazione. Anche perché mentre esso è spesso un reato d’impeto, al contrario, l’associazione mafiosa è un reato di lunga e meditata ponderazione. Sostenere che siano sulla stessa lunghezza d’onda è davvero eccessivo e fonte di equivoci. 2) Ancora. L’omertà mafiosa è una cosa, quella del femminicidio ben altra. La prima è la condizione principale per far parte dell’associazione; la seconda un problema di carattere psicologico da cui viene purtroppo irretita la vittima, che teme di parlare. 3) Dire che ci sia pregiudizio nel non credere alle donne sarà pure vero in certi casi, ma forse oggi è un problema superato. 4) Se in alcune sentenze di assoluzione si afferma la strumentalità delle denunce da parte delle donne, non serve dare la prova di questa strumentalità, perché è sufficiente accertare che a non trovare prova sufficiente sia la violenza e null’altro: infatti, è una verità di ragione ? come dire che il triangolo ha tre lati senza che occorra verificarlo in tutti i triangoli che esistano sulla faccia della terra ? che se si denuncia una violenza senza che ve ne sia prova, quella denuncia non può che avere un carattere strumentale. E che altro carattere dovrebbe o potrebbe avere? 5) Se l’accusa da sola bastasse a condurre ad una condanna dell’imputato, non potremmo neppure uscire di casa e spiace che la Di Nicola non se ne renda conto. Addirittura i vecchi giuristi, raccogliendo una antica e saggia tradizione, affermavano che "unus testis, nullus testis", per dire che un solo testimone poteva non essere sufficiente per provare l’accusa, occorrendone invece almeno due che dichiarassero in conformità. E invece la Di Nicola, ritiene che potremmo fare a meno di tutti i testi e condannare solo facendo leva sull’accusa. Ma allora perché fare i processi che costano tempo e denaro? Facciamo piuttosto così: passiamo dall’accusa alla semplice esecuzione della pena, evitando di disperdere preziose energie nella verifica dell’accusa e dandola in ogni caso per vera, come fa il dittatore della Corea del Nord dal nome impronunciabile che appunto accusa un generale per ucciderlo due ore dopo, magari tramite l’artiglieria. Più in generale, va detto che questo ritornello di riportare tutto il male sociale alla mafia ha davvero stancato, apparendo più come una moda che come un ragionamento degno di credito. Che tutto sia mafia fa soltanto sorridere; che il femminicidio sia rapportabile alla mafia ancor di più ed inoltre produce un rischio non indifferente. Precisamente quello di non capirci più nulla, né del femminicidio né, ancor peggio, della mafia: come diceva Hegel, "nella notte tutte le vacche sono nere". Lo aveva capito tre decenni or sono Leonardo Sciascia che amaramente notava che quando lui, per primo e solo, negli anni cinquanta, cominciò a parlare della mafia, nessuno ne voleva sapere e lo pigliavano per visionario; quando poi a metà degli anni ottanta, egli, per primo e solo, notò che non ogni fenomeno criminale può essere riportato alla mafia, fu parimenti criticato, anche con asprezza. Certo, occorre sempre esercitare il mestiere del pensiero e capisco che non sia facile. Ma è l’unico modo che si conosca per capire e distinguere. Come è necessario. Lombardia: la Polizia penitenziaria protesta in piazza a Roma "mancano 1.500 agenti" rassegna.it, 29 novembre 2016 Prevista un’ampia partecipazione alla manifestazione nazionale di martedì nella Capitale. Calogero Lo Presti (Fp Cgil): A peggiorare le condizioni lavorative contribuisce anche la fatiscenza della maggior parte delle strutture". Le lavoratrici e i lavoratori della polizia penitenziaria delle carceri lombarde saranno presenti domani (29 novembre) a Roma alla manifestazione nazionale indetta da Fp Cgil e Uil Pa. "Intendiamo esprimere il nostro dissenso verso una politica miope e poco attenta da parte del governo e del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I numeri nelle carceri della Lombardia sono eloquenti, basti pensare che in organico mancano oltre 1.500 tra agenti e sottufficiali. A peggiorare le condizioni lavorative contribuisce anche la fatiscenza della maggior parte delle strutture penitenziarie, che compromette l’adeguato rispetto delle norme sulla sicurezza sul lavoro e, non da ultimo, non consente una detenzione decente e dignitosa". A dirlo è Calogero Lo Presti, coordinatore Fp Cgil Lombardia per la polizia penitenziaria. Le caserme dove alloggia il personale sono decrepite e, malgrado questo, se ne chiede il pagamento senza aver apportato alcuna miglioria. I turni di lavoro vanno ben oltre le 6 ore previste dalla normativa contrattuale. I mezzi di trasporto utilizzati sono datati e in molti casi hanno più di 500mila chilometri. Le aggressioni nei confronti degli agenti sono in costante aumento e il progetto sulla vigilanza dinamica si è concretizzato nella sola apertura delle celle, disattendendo completamente gli intenti iniziali. Il fine rieducativo del progetto è venuto meno e le condizioni lavorative sono ulteriormente peggiorate. Il problema dello stress lavoro correlato è stato completamente accantonato, così come la definizione delle piante organiche, soprattutto delle sedi extramoenia, la definizione di un nuovo accordo nazionale quadro e un confronto sul modello organizzativo dei Nuclei di traduzione e piantonamenti. I concorsi per gli agenti sono sospesi per presunte irregolarità, quelli per sovrintendenti non sono stati banditi e quelli per ispettori vanno avanti a rilento da 8 anni. "Le proposte avanzate sul riordino delle carriere - aggiunge Lo Presti - non consentono adeguate progressioni per tutto il personale, mentre siamo ancora in attesa del riallineamento alle altre forze di polizia per il personale appartenente al ruolo dei sovrintendenti, degli ispettori e dei commissari. L’efficacia della mobilità ordinaria è stata inficiata dalla creazione di una mobilità parallela, disposta con provvedimenti non previsti dalla normativa contrattuale e giustificata con le esigenze di servizio dell’amministrazione. È altresì prassi quella di distaccare personale presso le sedi amministrative aggravando le gravi carenze negli istituti penitenziari, così com’è prassi tollerare e assecondare l’elusione delle regole attraverso provvedimenti illegittimi. Su questi e altri temi - conclude il sindacalista - abbiamo chiesto all’amministrazione penitenziaria di costruire progetti condivisi e strutturare con noi un sistema di regole trasparenti ed inequivocabili, senza ottenere alcun risultato. La logica della gestione dell’emergenza non è mai stata accompagnata da concreti progetti di riforma adeguatamente finanziati dai governi che si sono succeduti alla guida del paese. Come se non bastasse, ricordiamo che siamo in attesa del rinnovo contrattuale dal 2009. Per questo abbiamo deciso di proclamare lo stato di agitazione del personale e domani, insieme alle colleghe e ai colleghi di tutta Italia, porteremo la nostra protesta a Roma, dinanzi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria". Sicilia: concerti e laboratori, la musica entra nelle carceri siciliane Giornale di Sicilia, 29 novembre 2016 La musica come strumento di riflessione e di rieducazione. Firmata la convenzione fra il garante dei detenuti Giovanni Fiandaca, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu, il presidente e il direttore del Conservatorio Gandolfo Librizzi e Daniele Ficola. Un accordo voluto dal presidente Librizzi, che segna l’inizio di una stretta collaborazione per diffondere e promuovere la cultura musicale nelle carceri siciliane. "Sono lieto di annoverare fra le attività qualificanti del Conservatorio, questa funzione altamente educativa e sociale della musica" afferma Librizzi che, dal suo insediamento, ha lavorato al concretizzarsi del progetto. "Uscendo dal Conservatorio per entrare nelle chiuse mura delle carceri, si potrà ottenere un duplice risultato positivo: innanzitutto per i detenuti destinatari principali dell’offerta musicale, poi anche per gli stessi artisti, specie se allievi appositamente selezionati, che potranno così prendere coscienza di una condizione dell’esistenza ben diversa da quella del consueto pubblico dei concerti". Per il garante dei diritti dei detenuti professor Giovanni Fiandaca "portare la musica negli istituti penitenziari ha una valenza culturale e contribuisce a rendere più sopportabile la reclusione penitenziaria. È auspicabile", prosegue Fiandaca, "che l’ascolto e l’apprendimento possano avvicinare i giovani detenuti alla musica, in prospettiva anche come sbocco occupazionale. Penso, per esempio, all’orchestra giovanile Simon Bolivar, promossa da Claudio Abbado, che ha salvato dai circuiti criminosi molti ragazzi venezuelani". Il presidente del Conservatorio Librizzi tiene a sottolineare la novità di un progetto che ha l’obiettivo di organizzare attività musicali sistematiche e continuative nelle carceri. La convenzione avrà, infatti, la durata di 5 anni e prevede laboratori didattico - formativi con docenti e allievi e concerti con le formazioni di maggior prestigio del Conservatorio. "Una collaborazione - conclude Librizzi - che a breve verrà estesa agli istituti di detenzione minorile e che costituisce un importante tassello del percorso di apertura verso il sociale e le realtà disagiate del Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo". Abruzzo: Acerbo (Prc-Se) "siamo una delle poche regioni senza Garante dei detenuti" cityrumors.it, 29 novembre 2016 "Il ministro Orlando fa bene a segnalare che l’Abruzzo è una delle poche regioni senza Garante dei Detenuti. Il menefreghismo rispetto alla condizione carceraria è purtroppo un tratto distintivo della politica abruzzese". Lo dichiara l’ex-consigliere regionale Prc-Se Maurizio Acerbo, che da anni si sta occupando della questione. "L’Abruzzo sarebbe ancora senza legge istitutiva se il sottoscritto non avesse fatto una battaglia in Consiglio Regionale durata anni, dopo che già nella legislatura precedente la proposta di Rifondazione comunista era stata sempre boicottata da centrodestra e centrosinistra. Sono riuscito a imporre il tema e a far approvare la mia legge soltanto ricorrendo a ostruzionismo e barricate su provvedimenti fondamentali. Solo la pochezza del ceto politico regionale (quello che si auto-eleggerà in Senato) è riuscita a far evaporare una candidatura eccellente come quella di Rita Bernardini. Su Rita il Consiglio avrebbe potuto e dovuto esprimersi all’unanimità, anche in omaggio alla memoria di Marco Pannella che l’aveva proposta alla sua Regione di nascita. Dopo aver lottato 10 anni per far approvare legge, abbiamo dovuto in questa legislatura protestare ripetutamente insieme a Pannella perché si avviasse iter di nomina", insiste Acerbo. "Poi tra comportamenti sbagliati di maggioranza e opposizione si è arrivati all’attuale impasse di cui portano responsabilità non solo centrosinistra e centrodestra ma anche i grillini che hanno rifiutato sostegno a Rita sulla base di una demenziale equiparazione della disobbedienza civile a reati infamanti. Nella legge ho inserito la previsione di una maggioranza qualificata per eleggere il Garante perché non volevo che la nomina rientrasse nelle solite spartizioni e non ritrovarmi un altro Amicone nominato in ruolo inadatto sulla base di logiche partitocratiche. I detenuti e gli operatori del mondo penitenziario meritano una nomina di alto profilo. Certo la legge può essere modificata ma spero che poi si mantenga la parola data e si voti sul serio per la Rita Bernardini", conclude l’ex consigliere regionale. Agrigento: quei bambini perquisiti prima dei colloqui di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 novembre 2016 Trattamento inumano e degradante, celle che non rispettano gli standard europei, grave carenza di organico e reclusi stranieri trattati da serie B. Questo è il quadro dipinto dall’esponente dei radicali Rita Bernardini dopo aver visitato la casa circondariale di Agrigento, assieme ai militanti radicali Donatella Corleo, Gianmarco Ciccarelli, accompagnati da Totò Cuffaro. Hanno visitato il carcere domenica scorsa e la visita è durata sette ore. Nonostante ciò non sono riusciti a vedere tutti i detenuti a causa dei lunghi colloqui tenuti con i ristretti che hanno denunciato la loro situazione degradante. La Bernardini ? intervistata da Radio radicale appena uscita dal carcere - ha elencato le varie criticità. Attività trattamentali quasi inesistenti. Le celle in media e alta sicurezza sono quasi sempre chiuse, se non quelle due ore per la socialità che avviene in una stanza poco più grande di una cella. In media sicurezza - ha denunciato sempre Rita Bernardini ? c’è un "impressionante sovraffollamento". In pratica le celle di otto metri quadrati ospitano tre detenuti. Ciò viola palesemente la soglia minima - tre metri quadri per detenuto - riconosciuta a seguito della sentenza pilota Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’otto gennaio 2013. La Bernardini poi denuncia che i detenuti vengono fatti spogliare nudi a gruppi di 4 o 5. "Non voglio qui discutere di perquisizioni approfondite - spiega l’attivista radicale - ma perché io detenuto sono costretto a farmi vedere nudo da altri che non siano le forze dell’ordine addette alla sicurezza?". Anche i bambini vengono perquisiti in vista del colloquio con il genitore detenuto: vengono tirate giù le mutandine di bambini e bambine e controllato il pannolino. "È proprio necessario questo trattamento - domanda Rita Bernardini - che può essere traumatizzante, visto che i colloqui sono videoregistrati e si svolgono alla vista del controllo degli agenti? " Poi c’è il problema di molti detenuti ristretti nel carcere di Agrigento che provengono da posti lontanissimi: quindi non viene rispettato il principio del rispetto della territorialità della pena. Grazie ai colloqui effettuati con i detenuti, i radicali poi sono venuti a conoscenza di una gravissima violazione che si avvicina a una vera e propria tortura: quando i detenuti devono essere portati nel tribunale di Palermo, vengono svegliati alle cinque del mattino e scortati con i blindo, ma ammanettati e rinchiusi per ore in microscopiche gabbie. Sempre la Bernardini, ai microfoni di Radio radicale, ha denunciato la carenza di educatori, psicologi e assistenti sociali. Inoltre manca completamente la figura del mediatore culturale. E chi ne risente sono gli stranieri. Sempre quest’ultimi subiscono altre ingiustizie: sono impossibilitati a fare una telefonata ai propri familiari per dire che sono ancora vivi, non hanno diritto al kit con i beni di prima necessità come i dentifrici, saponette e bagnoschiuma e non hanno economicamente la possibilità di comprare il cibo che risulta insufficiente durante i pasti. Ma anche in questa situazione molto difficile non manca per fortuna l’umanità: infatti gli stranieri hanno riferito che i detenuti italiani li aiutano con il cibo quando lo ricevono dai famigliari. Sempre a Radio radicale Gianmarco Ciccarelli ha denunciato la mancanza delle docce nelle celle e l’indisponibilità dell’acqua calda. Inoltre ha annotato l’esistenza delle famigerate "bocche di lupo" nelle celle della sezione femminile. Sono in pratica dei finestroni che non danno la possibilità di vedere dall’esterno, ma che consentono solo il passaggio dell’aria e della luce. Sempre il militante radicale ha denunciato che nel carcere ricorrono molto spesso agli psicofarmaci e l’assistenza sanitaria risulta carente. "La pena prevista dalla legge ? ha chiosato Ciccarelli - non ha nulla a che vedere con la pena che scontano in questo carcere. C’è un trattamento inumano e degradante". Parma: detenuti al lavoro nella nuova lavanderia industriale di Raffaele Castagno La Repubblica, 29 novembre 2016 Un progetto nel carcere che occuperà fino a 16 reclusi. Progetto di imprese e Fondazione Cariparma. Una lavanderia industriale nel carcere di Parma in via Burla, che darà lavoro fino a 16 detenuti. Una vera e propria impresa tra le mura del penitenziario, che opererà sul mercato, scommettendo sul lavoro per restituire dignità e futuro a chi sta scontando una pena. È il progetto "Sprigioniamo il lavoro", un’iniziativa da oltre mezzo milione di euro, lanciata lo scorso marzo alla Camera dei deputati e presentata nell’aula teatro della casa circondariale. Cinque le aziende del territorio coinvolte, insieme a Fondazione Cariparma, che ha donato all’amministrazione penitenziaria 350mila euro per comprare i macchinari. Gruppo Gesin Proges, la cooperativa sociale Biricca, Gsg, la società cooperativa Multiservice e Bowe 2014, costituiranno una newco (una nuova società) che avrà in gestione la lavanderia. Le imprese hanno inoltre erogato un contributo economico di 150mila euro. Attualmente sono in fase di conclusione i lavori nei locali del penitenziario. L’attività dovrebbe partire nel marzo del 2017. A regime arriverà a occupare fino a 16 detenuti, offrendo inoltre la possibilità di tirocini formativi, per favorire l’inserimento professionale. Nel carcere di via Burla al momento, su 850 detenuti, sono solo 12 quelli coinvolti con ditte esterne, mentre circa 150 lavorano per l’amministrazione penitenziaria. "Il lavoro - ha commentato il sottosegretario del ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri nel corso della presentazione - è un passaggio fondamentale del percorso rieducativo, che dobbiamo riempire di contenuti. Sono temi su cui la società civile è assente, perché spesso ignora la realtà del carcere. Progetti di questo tipo possono contribuire a diffondere la conoscenza, anche tra le aziende. Dobbiamo riconoscere non solo la certezza della pena, ma un diritto alla pena, che deve essere umana e razionale, offrendo a chi ha sbagliato la possibilità di ripartire". Il garante del detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri: "È la prima volta che si riesce a raggiungere un obiettivo di questo tipo. Oggi il carcere diventa moderno, forse il più avanzato dell’Emilia Romagna. È un ottimo punto di partenza". Sulla stessa linea il direttore del penitenziario Carlo Berdini: "Abbiamo fatto un salto di qualità, offrendo a chi è recluso l’opportunità di lavorare per delle realtà imprenditoriali. Un esempio di cooperazione virtuosa che ha coinvolto soggetti pubblici e privati". Alcuni detenuti sotto il regime di alta sicurezza, sottoposti cioè a sorveglianza e misure più severe, si sono rivolti al sottosegretario Ferri, sollecitando un miglioramento delle condizioni di pena. "Molti di noi devono affrontare come minimo dieci anni di carcere. Chiediamo più elasticità e meno pregiudizi. Negli anni tanti di noi sono cambiati, si sono allontanati dai vecchi percorsi, eppure continuiamo a essere segregati. Vorremmo più possibilità di lavorare, per ritrovare la nostra dignità". L’esponente del Governo ha ascoltato le richieste, spiegando che si sta agendo proprio per apportare correttivi e miglioramenti, attraverso una serie di provvedimenti che vanno nella direzione di concedere maggiori opportunità, anche in termini di lavoro e formazione professionale. Il progetto della lavanderia intanto riguarderà chi si trova in condizione di media sicurezza. "I miei compagni - afferma un detenuto - metteranno il massimo impegno, onorando l’attività, perché non ci sono date molte occasioni". Un’iniziativa, come illustrato dal presidente di Proges Antonio Costantino, che sarà condotta come un’azienda: "Vogliamo entrare sul mercato, andando a prenderci le commesse, sviluppando una cultura d’impresa. Dobbiamo - ha affermato tra gli applausi della platea - far fondere le nostre lavatrici, esprimendo un lavoro di qualità. Il nostro obiettivo è quello di diventare una grande lavanderia, per poter inserire sempre più personale". "Sprigioniamo il lavoro" non vuole rivolgersi solo ai detenuti, ma alla società civile, al territorio, perché il penitenziario cessi di essere un mondo sconosciuto e lontano. Il presidente del Consiglio Comunale Marco Vagnozzi ha ribadito la centralità della casa circondariale, ricordando la nomina del garante comunale per i detenuti e il progetto "Replay", per favorire le visite dei famigliari. "Il carcere - ha commentato il presidente di Fondazione Cariparma Paolo Andrei - è sempre stato visto dalla città come un elemento estraneo. Dobbiamo portare attenzione su di esso. Speriamo che questa iniziativa sia il primo passo, perché altre imprese e realtà possano mostrare interesse. Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità delle persone recluse, per farle sentire parte attiva all’interno della comunità e offrire loro l’occasione di pensare a un futuro migliore". Benevento: un match di calcio per sostenere la Campagna di Bambinisenzasbarre ottopagine.it, 29 novembre 2016 Una squadra vincente per i 100mila bambini figli di detenuti. Un match di calcio per sostenere la Campagna sui diritti dei bambini figli di detenuti: la casa circondariale di Benevento (in via Ermete Novelli), parteciperà mercoledì 30 novembre, alle ore 9.30 alla seconda edizione della partita di calcio di Bambinisenzasbarre. I detenuti con e senza figli si sfideranno per dare voce e visibilità ai bambini - oltre 100mila ogni anno in Italia - che hanno un genitore recluso, per sensibilizzare istituzioni, sistema carcerario, media e opinione pubblica affinché non vengano emarginati solo perché figli di detenuti. L’adesione è altissima: si gioca a dicembre in tutte le regioni italiane. I calciatori scenderanno in campo con la maglietta di Bambinisenzasbarre, azzurra e gialla come i colori dell’associazione e con la scritta "I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini". Le famiglie potranno assistere alle partite, e i bambini tifare per il loro papà in campo. In totale si giocherà in circa 40 istituti penitenziari, a partecipare saranno oltre 400 persone detenute. La "Partita di calcio Bambinisenzasbarre" fa parte delle iniziative all’interno della Campagna nazionale di sensibilizzazione "Non un mio crimine, ma una mia condanna. I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini", per promuovere dal 20 novembre al 20 dicembre la "Carta dei figli dei detenuti" rinnovata lo scorso settembre dal ministro Orlando, dalla Garante dell’Infanzia Albano e da Bambinisenzasbarre e per portare all’attenzione il tema dei 100mila bambini che entrano ogni giorno ogni anno in carcere per mantenere il legame con i propri genitori, e che oggi vedono riconosciuti i propri bisogni trasformati in diritti. L’Italia è la prima in Europa ad avere un documento che impegna il sistema istituzionale del nostro Paese e la società civile a confrontarsi con la presenza in visita del bambino in carcere, e con il peso che la detenzione del proprio genitore comporta. Noi diciamo che "I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini". L’esperienza della Carta dei figli dei detenuti ha portato l’Italia a essere capofila a livello internazionale. L’Intergruppo del Parlamento Europeo per i diritti dell’infanzia ha deciso di proporre formalmente che la Carta dei figli dei detenuti italiana sia adottata da tutti i Paesi dell’Unione Europea. In queste settimane i deputati del Parlamento Europeo stanno raccogliendo le firme necessarie alla Dichiarazione Scritta n. 84, per avviare l’iter di adozione della Carta italiana. Per partecipare all’iniziativa è necessario contattare l’associazione per procedere con la richiesta di autorizzazione all’ingresso. Ancona: audioteca del progetto "CO2. Controllare l’odio" al carcere di Montacuto marchenews24.it, 29 novembre 2016 Ieri mattina alle ore 13, presso il Carcere di Montacuto, l’ex chitarrista della Pfm Franco Mussida ha inaugurato la nuova audioteca del progetto CO2 - Controllare l’odio. Un progetto di Franco Mussida e del CPM Music Institute, in collaborazione con la SIAE, il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pavia, il Ministero della Giustizia e con l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica. Arriva dunque anche al Carcere di Ancona l’innovativa audioteca consultabile per stati d’animo che offre l’ascolto della Musica come naturale e ritemprante chiave d’accesso a un mondo di emozioni e sentimenti represso da detenzione e disagio interiore. Dopo tre anni di sperimentazione e successive valutazioni scientifiche dei dati raccolti presso 4 istituti di pena italiani, arriva per CO2 il momento di inaugurare ufficialmente nuovi spazi di libertà interiore offerti a tutti i detenuti di 8 nuove carceri italiane. Un momento importante che offre una chiave di lettura che consente alla musica contenuta in queste particolari audioteche di essere stimolo per il mondo emotivo personale e al contempo strumento educativo-trattamentale. Dopo i momenti di formazione destinati a educatori, agenti di polizia penitenziaria e operatori culturali di ciascun istituto, CO2 verrà presentato attraverso una serie di eventi-spettacolo all’interno dei 12 istituti di pena coinvolti. Le funzioni dell’audioteca e il suo scopo in carcere verranno presentate attraverso uno spettacolo con momenti musicali dal vivo che vedranno protagonista Franco Mussida, ascolti e qualche proiezione video. Un modo facile e diretto per incentivare la fruizione dell’audioteca attraverso l’individuazione dello stato emotivo evocato dalla Musica ascoltata. I detenuti verranno quindi coinvolti in un gioco interattivo fatto di ascolto di brani live e dell’audioteca. Dopo l’ascolto i detenuti manifesteranno il loro stato d’animo attraverso l’esposizione di speciali emoticon che li rappresentano. Sono gli stessi presenti nei tablet che danno accesso al database dei brani dell’audioteca. Sul palco anche Andrea Celidoni (basso), Gabriele Carbonari (voce e chitarra acustica), Fabio Bachetti (chitarra acustica) e Marco Melchiorre (percussioni). L’evento è organizzato anche grazie alla collaborazione dell’Associazione Musikè: scuola di musica moderna nata nel 1990 a Senigallia (AN), Musiké propone corsi di musica in sede e fuori sede (chitarra acustica ed elettrica, canto, pianoforte e tastiere, basso e batteria), organizza concerti ed eventi musicali in genere e si impegna a promuovere i gruppi musicali giovanili. CO2, lo ricordiamo, è un progetto artistico-culturale unico, a suo modo rivoluzionario. Il suo scopo è creare una rete nazionale di audioteche nelle carceri capaci di offrire una diversa chiave di ascolto della Musica strumentale, trasformandola in strumento di supporto e di sollievo per la struttura affettiva dei detenuti. Un progetto entrato in servizio nella sua fase sperimentale nel 2013 grazie alla collaborazione del Ministero della Giustizia coinvolgendo circa 100 detenuti sperimentatori nelle carceri di Monza, Opera, Rebibbia femminile e Secondigliano. È stato seguito nel suo svolgimento, oltre che da un comitato scientifico, anche dal Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pavia. E dal 2017, su volontà del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, sarà disponibile anche presso gli istituti di pena di Ancona, Genova, Parma, Torino, Venezia, Firenze, Bologna e Milano (San Vittore). CO2 fa seguito alla richiesta al M° Mussida, da parte dell’allora Presidente della SIAE Gino Paoli, di pensare ad un’iniziativa musicale da realizzarsi nel contesto carcerario. La risposta di Franco Mussida, che si occupa di formazione da quasi trent’anni (è infatti del 1988 nel carcere di San Vittore il suo primo laboratorio di sperimentazione sugli effetti del suono sulla struttura affettiva), assistito dal CPM Music Institute di Milano, è stata strutturare e realizzare uno strumento educativo motivazionale con valenza trattamentale a favore sia dei detenuti che delle equipe psicopedagogiche. CO2 ha come strumento primo un’audioteca modernissima che utilizza l’alta tecnologia applicata ad una specifica procedura di ascolto che rende disponibile il grande potere emotivo della Musica strumentale in tutte le forme, per offrire ai detenuti la possibilità di vivere e percepire il valore primario ed essenziale della loro struttura affettiva, al fine di riallacciare fili emotivi interrotti e limitare gli effetti di odio e risentimento che in quei luoghi estremi si respirano quotidianamente. "Nell’immaginare il progetto CO2 ho sempre pensato di operare in modo laico, al servizio dell’arte della Musica. Lo scopo del progetto CO2 non è stato infatti orientato da alcun buonismo di fondo. È un progetto che ha la precisa mira di dare libertà interiore alle persone di tutte le nazionalità e religioni recluse negli istituti di pena, e di farlo utilizzando l’arte della Musica come mezzo per aprire il sentire emotivo individuale, e i suoi poteri evocatori sulla struttura affettiva per dare intimo sollievo ed apertura. Il tutto per rimettere in moto un processo di piena autopercezione emotiva al fine di evitare che i detenuti debbano vivere oltre alla carcerazione fisica, anche la ‘carcerazione interiorè". Così Franco Mussida racconta come ha immaginato CO2, individuando un tramite immediato che aiuti ad illuminare di maggiore coscienza l’area del mondo emotivo dei detenuti, aprendo porte e possibilità di farci entrare riflessioni sulla loro detenzione, con tutte le possibili ricadute positive che ciò comporta. Franco Mussida ha assegnato però due altri importanti obiettivi collaterali al progetto. Tra le altre finalità non marginali del progetto c’è: - fornire un supporto trattamentale agli educatori e alle equipe che operano negli istituti, tramite uno strumento artistico quale la Musica; - migliorare il clima degli istituti carcerari, avvicinando sul piano umano gli agenti della polizia penitenziaria (anch’essi di fatto ‘reclusì all’interno dei loro luoghi di lavoro); - aprire grazie al potere unificato della Musica la percezione di spazi di uguaglianza affettiva e di comprensione reciproca, pur nel rispetto dei singoli ruoli e competenze. Ciò che contraddistingue il metodo di ascolto CO2 dalle comuni audioteche è l’offrire una chiave di autopercezione del sentire individuale, l’offrire del tempo di qualità per i detenuti e l’essere occasione di vivere i propri sentimenti in profondità. Il cuore del progetto sono particolari audioteche divise per stati d’animo. Audioteche che hanno precise procedure di consultazione e una innovativa chiave di utilizzo che consente ai detenuti di esercitare l’ascolto del proprio stato d’animo prima ancora di ascoltare Musica, di sceglierlo e verificarlo ascoltando una Musica capace di evocarlo, di farlo vivere per affinità, per simpatia (nell’originale significato etimologico della parola, sympátheia, der. di páthos affezione, sentimento, col pref. syn- con, insieme) e di valutare il suo effetto. I detenuti avranno così modo di auto - osservarsi prima, durante e dopo l’ascolto. I 27 stati d’animo sono riassunti in 9 grandi famiglie emotive di riferimento. Attraverso questo metodo di ascolto, i detenuti imparano a considerare e a nominare l’insieme di queste famiglie orientandosi tra di loro anche in base al proprio soggettivo temperamento. Tutta la procedura di ascolto e valutazione si svolge attraverso dei tablet, un computer con un database che contiene attualmente circa 2.000 brani, e un router che collega database e tablet. Qualsiasi operazione che i detenuti fanno sul tablet viene memorizzata e catalogata. I brani presenti in ciascun audioteca sono stati suggeriti e associati a specifici stati d’animo da musicisti, giornalisti, docenti e personalità di rilievo in ambito musicale e non solo. Il progetto nel suo insieme, con il sistema di catalogazione e valutazione che costituiscono un preciso metodo di ascolto, è stato immaginato da Franco Mussida che già dal 1988, presso il carcere di San Vittore all’epoca diretto da Luigi Pagano, iniziava a sperimentare i poteri della musica sulla struttura affettiva dei detenuti tossicodipendenti. Il suo lavoro di ricerca, consultabile ne "La Musica ignorata" (2013, Ed. Skira) e ne "Le chiavi nascoste della Musica" (2016, Ed. Skira) è anche la base del progetto CO2. Un lavoro che è consistito nell’individuazione e poi nell’uso della Musica e dei suoi codici emotivi sia come elemento stimolatore del sentire individuale sia come osservatorio per la ricerca dei massimi comuni denominatori che rendono perfettamente osservabile il legame tra l’oggettività della comunicazione musicale e la soggettività dell’ascoltare. L’osservazione di questo rapporto non solo rivela dati importanti sulla struttura affettiva della persona che ascolta Musica, ma permette di osservare come un uso costante di questo metodo di ascolto possa esercitare un effetto positivo sul comportamento individuale e sociale dell’individuo che vive la carcerazione. Radio Carcere: "I detenuti chiedano di poter votare al referendum del 4 dicembre" Ristretti Orizzonti, 29 novembre 2016 L’ultima puntata di Radio Carcere, la trasmissione condotta da Riccardo Arena: con Santi Consolo, capo del DAP si è parlato del diritto al voto delle persone detenute in vista del referendum del 4 dicembre. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/493137/radio-carcere-santi-consolo-capo-del-dap-i-detenuti-chiedano-di-poter-votare-al Migranti. L’ultima frontiera nei porti italiani è lo sbarco "fai da te" di Vladimiro Polchi La Repubblica, 29 novembre 2016 Non si ferma dunque l’ondata. Due casi in poche ore: questa mattina un barchino in vetroresina con a bordo 16 algerini è approdato sulle coste del Sulcis. Poco prima, gli agenti del commissariato di Gallipoli avevano rintracciato sul litorale cittadino 53 pakistani, scesi da una imbarcazione di 13 metri. L’ultima frontiera sono gli sbarchi "fai da te". Due casi in poche ore: questa mattina un barchino in vetroresina con a bordo 16 algerini è approdato sulle coste del Sulcis. Poco prima, gli agenti del commissariato di Gallipoli avevano rintracciato sul litorale cittadino 53 pakistani, scesi da una imbarcazione di 13 metri. Non si ferma dunque l’ondata di sbarchi. Come anticipato da Repubblica cartacea, il 2016 è l’anno dei record: sono 171.299 i migranti già arrivati in Italia. Polverizzati i numeri del 2015 (quando ne giunsero in tutto 153.842) e bruciato anche il primato del 2014 (quando a fine anno arrivarono in 170.100). Insomma: quest’anno ne sono arrivati già mille di più. Un record che al Viminale, fino a qualche giorno fa, si auguravano di non battere. Al ministero dell’Interno si aggiornano infatti i numeri. Al 28 novembre (dati non aggiornati agli arrivi di questa mattina) sono 171.299 i migranti sbarcati nel 2016: quasi il 19% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e 4,5% in più rispetto allo stesso periodo del 2014, anno che segnò con i suoi 170mila arrivi un record di sbarchi. I porti maggiormente interessati. Sono Augusta (22.926), Catania (16.824), Pozzallo (16.405), Messina (14.869), Reggio Calabria (14.403), Palermo (13.598), Trapani (13.231) e Lampedusa (10.997). Per quanto riguarda le nazionalità, il 21% ha dichiarato di provenire dalla Nigeria. Seguono Eritrea (12%), Guinea (7%), Costa d’Avorio (7%), Gambia (7%), Senegal (6%), Mali (5%), Sudan (5%), Bangladesh (4%) e Somalia (4%). Record anche per i numeri dell’accoglienza. Nelle strutture temporanee e negli hot spot sono presenti attualmente 176.720 persone. Quanto alla distribuzione per regione, il 13% è in Lombardia, segue il Lazio (9%) e poi, con l’8%, Sicilia, Veneto, Campania e Piemonte. L’aumento dei minori accompagnati. Quasi raddoppiato rispetto allo scorso anno il numero dei minori stranieri non accompagnati. Al 31 ottobre scorso erano 22.772 contro i 12.360 rilevati nell’intero 2015 e i 13.026 del 2014. Quanto ai ricollocamenti di migranti in altri Paesi, quelli effettivi sono stati finora solo 1.758. Migranti. L’Abruzzo degli emigranti contro l’arrivo dei rifugiati di Serena Giannico Il Manifesto, 29 novembre 2016 Paesi sul piede di guerra per fermare l’accoglienza in loco di alcune decine di migranti. Raccolta di firme a Manoppello, paese del volto di Cristo e delle vittime di Marcinelle. Quelle 500 firme raccolte, domenica mattina, in pochissimo tempo, per dire no all’arrivo di profughi, sono suonate, un po’ ovunque, anche come un ceffone al proprio passato. Perché Manoppello, in provincia di Pescara, è realtà simbolo, a livello internazionale, del sacrificio del lavoro per via di una delle tragedie dell’emigrazione, quella di Marcinelle. La mattina dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier, in Belgio, in un incendio, causato dalla combustione d’olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica, morirono 262 minatori. Tra essi 132 italiani, 60 abruzzesi, 23 provenienti appunto da Manoppello. Che ogni anno ricorda e commemora le proprie vittime: meno di quattro mesi fa ci sono state le celebrazioni per il 60esimo anniversario dal dramma, con la principessa Astrid del Belgio a piangere sulla tomba dei deceduti. Eppure questa cittadina dell’Abruzzo, conosciuta anche per il turismo religioso, perché conserva il velo del Volto Santo, che ritrae l’immagine di un viso maschile ritenuto essere quello di Cristo, sembra non essere d’accordo con l’idea di accogliere migranti. L’altro ieri, subito dopo la messa, nel centro storico, in tanti hanno aderito all’appello di opporsi al loro arrivo. "Non li vogliamo", hanno ribadito, confermando malumori e contestazioni. "Come amministrazione civica - spiega l’assessore Giulia De Lellis - non abbiamo alcun dato certo. Non sappiamo se saranno mandati anche da noi: non abbiamo alcuna comunicazione ufficiale dalla Prefettura. E sulla questione non ci siamo espressi. Interverremo a tempo debito". Questa la posizione ufficiale del Comune, anche se poi alcuni membri della maggioranza, ad esempio l’assessora Melania Palmisano e il consigliere Lucio Di Bartolomeo, avrebbero appoggiato la sottoscrizione popolare. "In maniera del tutto personale", viene specificato. L’iniziativa è stata promossa dai residenti della frazione Colle Sant’Andrea, dove gli stranieri dovrebbero essere collocati, in un impianto turistico che contiene anche bungalov. La richiesta è stata fatta dalla cooperativa Arci che ha risposto ai bandi della Prefettura di Pescara. "Si tratta di una zona - viene spiegato dai fautori del no - che dista chilometri dal centro e non vi sono collegamenti con le località vicine, né servizi". Giovanni Terreri, ex assessore, critica l’accaduto e scrive sui social: "Questa mattina ho assistito a una raccolta di firme per negare l’ospitalità a 30 extracomunitari che fuggono da guerre e discriminazioni. La cosa triste è che la petizione è stata organizzata anche dall’amministrazione comunale alla quale io ho dato il mio voto. Allucinante - continua Terreri - è stato vedere persone che uscivano dalla chiesa, dopo la funzione religiosa, per correre a firmare. Non sanno cosa dice papa Francesco in proposito?". Ma in Abruzzo - terra di emigrazione massiccia - Manoppello non è l’unico paese a seguire l’esempio di Gorino: anche altri centri hanno alzato le barriere. Ad Atessa (Chieti), il posto della Sevel, industria Fca che produce il furgone Ducato, commercializzato in 80 Paesi nel mondo, le proteste sono andate avanti per oltre un mese e mezzo. In un ex albergo ristorante sono stati messi 50 africani: la maggior parte sono fuggiti appena se ne è presentata l’occasione. Clima esacerbato, tensione e polemiche e sit-in serali continuativi, con tanto di forze dell’ordine a presidiare, sono stati promossi da un agguerrito comitato che ha manifestato contro "il business dell’emigrazione". In un pacco, abbandonato nel piazzale esterno dell’hotel, è stata recapitata pure la testa mozzata di un capretto, con minacce. In subbuglio anche Pietraferrazzana (Ch), borgo sul lago di Bomba con 110 anime (sono 134 all’anagrafe, ma parecchie case sono state acquistate da americani), dove è previsto l’arrivo di 50 migranti. Qui sono tutti sul piede di guerra. "La situazione è difficile - spiega il sindaco Ciro Carpineta -. Ma non perché siamo razzisti. Neanche a parlarne. È che non siamo in grado di ospitare 50 profughi. Abbiamo un minuscolo parco giochi con annesso campetto da calcetto per bimbi. Poi due bar e una piazzetta. Che tipo di integrazione dovremmo e potremmo fare?" Allarme bullismo, dalle aule ai social network: ne è vittima un adolescente su tre di Ilvo Diamanti La Repubblica, 29 novembre 2016 Il bullismo è un fenomeno serio e odioso. Ma solo da pochi anni ha ottenuto un’attenzione pubblica adeguata. Anche se ha una storia lunga. Narrata dal cinema e dalla letteratura. Oggi, però, è oggetto di preoccupazione diffusa. E, per questo, numerosi istituti di ricerca conducono analisi e ricerche sistematiche, sul fenomeno. Dall’Istat all’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica, al Centro di ascolto di Telefono Azzurro. Tanta attenzione riflette l’effettiva crescita del fenomeno, ma anche il diverso significato che ha assunto. In passato, infatti, era "accettato" come una sorta di rito di passaggio all’età adulta. Pochi lo definivano come un sopruso o un abuso. A scuola, ma anche nella vita quotidiana, nei gruppi, nei quartieri, il bullo era, spesso, la figura dominante. Il bullismo: un metodo di affermarsi attraverso l’umiliazione di altri giovani. Più deboli o, comunque, meno capaci di reagire. Meno disposti ad agire nello stesso modo. Tuttavia, per quanto serio e grave, il fenomeno appariva "circoscritto". O almeno localizzato, non solo nello spazio, ma ancor più nel tempo. Passati alcuni anni, il contesto cambiava. Tanto più e soprattutto se si cambiava, appunto, contesto. Residenza, località. E soprattutto: scuola. Perché la scuola ne è sempre stato l’ambiente privilegiato. Oggi non è più così. Perché, da un lato, la "giovinezza" si è allungata. Come gli anni di studio. E, soprattutto, perché le distanze territoriali non contano più come un tempo. Anzi: non contano più. Perché l’avvento della rete, dei social media le ha vanificate. E, anzi, ha delineato e costruito un nuovo "territorio" nel quale il bullismo, anzi, il cyber-bullismo, si è affermato. E diffuso. Senza più limiti. Secondo un’indagine Doxa Kids svolta su tutto il territorio italiano, il 35% dei ragazzi dagli 11 ai 19 anni è stato vittima di episodi di bullismo. E il fenomeno appare in aumento, soprattutto negli ultimi anni. Anche se bisogna tener conto che, ormai, ogni "atto violento" commesso da giovani ai danni di altri giovani, presso l’opinione pubblica, tende a venir catalogato come "bullismo". Senza ulteriore specificazione. Le vittime coinvolte, comunque, sono principalmente femmine (nel 56,3% dei casi), tra gli 11 e i 14 anni (nel 40,6% dei casi). Infine, il 10,2% dei bambini e adolescenti coinvolti è di nazionalità straniera. L’Istat traccia un profilo ancor più pesante del fenomeno. Secondo le sue indagini, infatti, nel 2014, oltre metà dei giovani (e giovanissimi) compresi fra 11 e 17 anni è stato oggetto di episodi violenti ad opera di altri ragazzi o ragazze. Due su dieci, inoltre si dichiarano bersaglio di "offese" ripetute. Più volte al mese. Circa il 6% è stato vittima di questi episodi per via digitale. Sui social network. In questo caso si tratta, soprattutto, di ragazze. Il bersaglio privilegiato (si fa per dire) di cyber-bullismo. Se questa è la "realtà" del fenomeno, il sondaggio di Demos, condotto nelle scorse settimane in Italia, ne conferma la gravità e la diffusione, nella "percezione" sociale. Infatti, 7 persone su 10 considerano il bullismo "inaccettabile". Rispetto al 2007 (cioè, quasi 10 anni fa) si tratta di oltre 5 punti percentuali in più. Nello stesso tempo, fra gli italiani, è cresciuta la convinzione che il fenomeno sia diffuso nella maggioranza delle scuole. Lo pensa, infatti, quasi un quarto della popolazione. Ed è interessante osservare come questa idea non sia concentrata in una specifica coorte d’età. Risulta, invece, trasversale. Distribuita ed estesa in diversi settori sociali e generazionali. Certo, la preoccupazione appare molto elevata soprattutto fra i giovani da 15 a 24 anni. E fra gli studenti. In entrambi i casi, la convinzione che il bullismo sia diffuso in gran parte delle scuole è condivisa da circa il 30% degli intervistati. Giovanissimi e studenti, d’altronde, in larga parte coincidono. E sono, per questo, il bersaglio (ma, spesso, anche gli autori principali) del fenomeno. Tuttavia, la diffusione del bullismo viene denunciata dai "giovani-adulti", fra 25 e 34 anni, in misura perfino più ampia: 33%. Si tratta dei "fratelli maggiori", che, presumibilmente, hanno appena concluso la loro "carriera" di studenti. E, per questo, percepiscono l’esperienza del bullismo in misura più intensa e diretta. Perché l’hanno lasciata alle spalle. Ma la diffusione del bullismo è denunciata, in misura esplicita ed estesa anche presso le generazioni successive. Soprattutto fra le persone fra 55 e 64 anni. Mentre fra gli "anziani" (oltre 65 anni) la percezione del fenomeno risulta decisamente limitata (12%). Probabilmente perché è stata metabolizzata nel tempo. Oppure perché, come si è detto, viene ritenuta inevitabile. Quasi un passaggio obbligato oltre l’adolescenza. Infine, l’influenza esercitata dalla rete e dai social network sulla crescita degli atti di bullismo appare "data per scontata" da una quota maggioritaria della popolazione. Ne sembrano convinte, soprattutto, le persone più anziane, con oltre 65 anni d’età e livello di istruzione meno elevato. Le componenti sociali, dunque, che hanno meno confidenza e meno pratica rispetto ai media digitali. Così si conferma l’idea che il bullismo "spaventi" soprattutto chi ne ha notizia solo - o soprattutto - attraverso la radio e la TV. Il "bullismo mediale", insomma, rischia di suscitare più paura di quello "digitale". La pm Baldelli: "bulli troppo giovani per finire in tribunale, ma ci sono altre pene" di Ottavia Giustetti La Repubblica, 29 novembre 2016 La procuratrice dei minori e il caso del ragazzino diventato disabile per le vessazioni. "Non c’è punibilità per i minori di 14 anni, l’archiviazione del caso è d’obbligo. Ma questo non significa che la procura non vada avanti civilmente, con altri mezzi, se ritiene che i due compagni siano responsabili di atti così gravi e violenti": Anna Maria Baldelli, il capo della procura dei minori di Torino, spiega che non c’è alternativa in casi come quello del bambino vittima di bullismo a 11 anni. Lui è stato dichiarato disabile dai medici per effetto del trauma subito. Ma i compagni che ha accusato sono coetanei e non sono perseguibili. "Non siamo noi che decidiamo di archiviare, è la legge che lo prevede". La famiglia chiede risposte perché sente che la vicenda, che ha distrutto per sempre la vita del ragazzo, si sta chiudendo senza che ci sino responsabili. "Non posso parlare del singolo caso perché l’indagine non è conclusa, ma posso dire che anche quando gli autori di atti violenti sono così piccoli, la procura dei minori non rinuncia a dare il contributo affinché i ragazzi comprendano. Soltanto ci si muove con strumenti diversi, attraverso la rieducazione e la sensibilizzazione". I responsabili nelle vicende come questa vengono ugualmente identificati? "Sì. Ma dal momento che sono così giovani non si può decidere alcun provvedimento nei loro confronti". La giovane età dei protagonisti è una delle cose che più colpisce di questo caso. Si può dire che quello del bullismo è un fenomeno che interessa sempre di più i giovanissimi? "Il bullismo interessa ragazzi di ogni età nelle scuole. Al nostro progetto di sensibilizzazione che si sta diffondendo rapidamente e con successo hanno aderito persino scuole elementari. E, mi creda, la prevenzione è davvero fondamentale in questo campo". Quante scuole del territorio lavorano sul bullismo al momento? "Possiamo dire che c’è una straordinaria, inaspettata sensibilità: quando abbiamo lanciato l’idea, coinvolgendo le scuole e le forze di polizia, hanno aderito otto istituti. L’anno scorso erano più di ottanta, e quest’anno i numeri sono altissimi: oltre cento scuole hanno chiesto di partecipare". Quale obiettivo si pone il progetto sul bullismo della procura dei minori? "Noi sappiamo che dobbiamo lavorare con i ragazzi fin da piccoli per far capire loro che il bullismo non è uno scherzo. È una cosa grave che distrugge la vita dei giovani. Anche le famiglie devono essere raggiunte da questo messaggio". Alla fine, in casi drammatici come questo tutti hanno un ruolo. "È molto importante che questo sia chiaro: degli atti di bullismo sono tutti compartecipi. Gli autori, la vittima e gli spettatori. Anche un insegnante che non sa cosa fare ha bisogno di aiuto. Noi cerchiamo di giocare d’anticipo, quando si parla di punizione è già troppo tardi". Afghanistan. Militare italiano suicida a Kabul, 6 ufficiali indagati per truffa La Stampa, 29 novembre 2016 L’inchiesta riguarda il noleggio di alcuni mezzi con la blindatura più leggera rispetto a quella richiesta. Fonti degli inquirenti: il titolare della ditta vicino a terroristi. Nasce dal suicidio di un ufficiale italiano a Kabul l’inchiesta che ha portato la procura militare di Roma a iscrivere nel registro degli indagati sei ufficiali per truffa militare aggravata: nei loro confronti è stato notificato un avviso di conclusione indagini. La vicenda riguarda il nolo di alcuni mezzi la cui blindatura è risultata più leggera (e meno cara) di quella pattuita: circostanza che avrebbe anche potuto mettere a serio rischio, sostengono gli inquirenti, il personale cui erano destinati. L’azienda che noleggiava i veicoli, variamente denominata nel corso degli anni, faceva sempre capo ad un individuo risultato, si apprende da fonti degli inquirenti, vicino ad ambienti terroristici internazionali. La tragedia - Il capitano Marco Callegaro - 37 anni, originario della provincia di Rovigo ma residente a Bologna, moglie e due figli - nella notte tra il 24 e il 25 luglio 2010 venne trovato morto nel suo ufficio all’aeroporto di Kabul ucciso da un colpo di pistola. Era da poco tornato da una licenza in Italia. Il fatto è stato archiviato come suicidio, anche se i genitori del militare - che prestava servizio come capo cellula amministrativa del comando "Italfor Kabul" - hanno più volte sollevato dubbi sulla drammatica fine di loro figlio. Le indagini - In effetti, le indagini avviate dopo la morte di Callegaro - coordinate dal procuratore militare di Roma Marco De Paolis e dal sostituto Antonella Masala - hanno portato alla luce un presunto giro truffaldino messo in atto da alcuni ufficiali che, con i loro comportamenti, non avrebbero esitato ad esporre a rischio i loro colleghi. In particolare, i sei ufficiali avrebbero taciuto il dato della difformità del livello di blindatura di tre veicoli commerciali destinati al generale Italian Senior Officer, cioè l’ufficiale italiano più alto in grado in Afghanistan, rispetto alle caratteristiche pattuite nel contratto di noleggio con una ditta afgana. L’intera pratica incriminata - corredata da un certificato di blindatura contraffatto - venne curata dagli uffici amministrativi di Kabul dove Callegaro lavorava. Le fatture - I fatti risalgono al maggio del 2010, quando gli uffici amministrativi del contingente italiano contestarono formalmente alla ditta di noleggio afgana il carente livello di blindatura dei tre mezzi. Nonostante ciò, qualche tempo dopo dagli stessi uffici arrivò il via libera al pagamento delle fatture per il noleggio delle tre vetture: quasi centomila euro per cinque mesi, dall’1 marzo al 31 luglio 2010. Così facendo gli indagati avrebbero procurato alla ditta afgana l’"ingiusto profitto" di 35.000 euro, pari al maggior canone pagato per il noleggio di tre veicoli meno blindati del pattuito, provocando un danno corrispondente all’amministrazione militare. L’inchiesta "monca" - Il procuratore De Paolis si appresta a chiedere il rinvio a giudizio dei sei ufficiali per il reato di concorso in truffa militare pluriaggravata, un reato previsto dal codice penale militare di pace. Il quale però non prevede altri reati che, secondo gli inquirenti, potrebbero forse meglio descrivere i fatti avvenuti: a cominciare dalla possibile corruzione degli ufficiali coinvolti, la cui condotta illecita sarebbe altrimenti senza apparente movente. Su questo fronte, così come sulle circostanze della morte di Callegaro, i magistrati con le stellette hanno le mani legate: la competenza ad indagare è della procura ordinaria. Francia. Non è l’Islam che si è radicalizzato, ma i delinquenti che si sono islamizzati di Giuseppe Terranova west-info.eu, 29 novembre 2016 Se in Francia le carceri strabordano di immigrati e stranieri con cittadinanza francese non vuol dire che questo gruppo tende a delinquere più degli altri. Un rompicapo che abbiamo affrontato con Laurent Mucchielli, sociologo e fondatore Oltralpe dell’Observatoire Régional de la Délinquance et de contexte sociaux (Ordcs). Gli immigrati in Francia sono il 6,4% della popolazione ma rappresentano il 18% di quella carceraria. A questi vanno aggiunti i francesi di origine straniera sui quali non abbiamo dati ufficiali perché la Francia vieta le statistiche etniche. Sappiamo però che durante il Ramadan il 27,5% dei detenuti francesi ha chiesto al tramonto un unico e abbandonante pasto giornaliero. Come spiega queste cifre? La risposta è molto semplice. La popolazione carceraria non è la cartina di tornasole di quella criminale. Per la semplice ragione che la maggioranza degli immigrati, a differenza di chi appartiene a ceti sociali agiati, non ha buoni avvocati e risorse finanziarie per difendersi in tribunale. È per questo che hanno, rispetto alla media, maggiori probabilità di finire in galera. Attenzione, questo non significa che i giudici siano razzisti. La questione è più sottile perché tendono a usare con maggiore frequenza la pena detentiva nei confronti di quegli imputati che non hanno le cosiddette "garanties de représentation", come ad esempio un domicilio o un impiego fisso. Per non parlare delle indagini di polizia. Controlli e posti di blocco sono spesso influenzati dai tratti etnici e sociali dei sospettati. Gli istituti penitenziari non sono altro che l’ultimo anello di una catena di discriminazioni. Sono la punizione per gli esclusi, gli emarginati, i poveri, soprattutto se stranieri. Secondo un recente studio dell’ICSR di Londra, il 60% dei foreign fighters europei si è convertito all’Isis in carcere. Anche i penitenziari francesi sono un vivaio di terroristi? In alcuni casi sì, in altri no. Quando accade non deve sorprendere. Perché la maggioranza dei detenuti è senza prospettive. Non ha nulla da perdere. Sa di non avere futuro, vive in un recinto sorvegliato con pochissime chance di reinserimento e integrazione nella società. Per queste ragioni, una parte di loro vede nell’ideologia islamista una forma di conforto e riscatto che riempie il vuoto di un’esistenza fragile e senza scopi precisi. A questo punto viene da pensare che lei condivida le tesi di Olivier Roy: non è l’Islam che si è radicalizzato ma i delinquenti che si sono islamizzati. Sì. È grottesco associare un fervente musulmano a un potenziale terrorista. La maggior parte dei ragazzi che si radicalizzano ha in primis problemi identitari. Trovano nell’Islam un binario per la loro esistenza, regole e comportamenti da seguire e rispettare che rassicurano, danno ordine a una quotidianità caotica e senza mission precise. Va detto che tra questi giovani convertiti alla causa islamista non tutti diventano spietati carnefici, autori di stragi di massa. Molti, ad esempio, dopo aver accettato un periodo di formazione nei campi di addestramento del Califfo in Siria o in Iraq si sono tirati indietro. Quelli che, invece, hanno continuato, sono certamente i più temibili, pronti a tutto perché invasati al 100%. Mi consenta infine un’ultima annotazione. Contrariamente a quanto si possa pensare, tra i potenziali terroristi non ci sono solo maschi, ma anche femmine. Le dinamiche che spingono alla conversione sono le stesse (vuoto identitario), mentre è diverso il modo di manifestarla. Perché il nuovo Medio Oriente (di Putin e forse Trump) è peggio del vecchio di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 29 novembre 2016 È stata la repressione brutale del regime contro le rivolte, che al momento del loro scoppio nel 2011 erano sostanzialmente pacifiche, a innescare la violenza senza limiti anche contro i civili. Ma alla fine cosa importa se Bashar Assad prende tutta Aleppo? Poco, in fondo l’importante è che smettano di sparare e soprattutto creare le condizioni affinché masse di disperati scappino verso l’Europa. Dopo la doccia di illusioni generate dalle "primavere arabe", dopo la crescita di Isis e delle follie jihadiste dalle macerie delle dittature mediorientali, è ormai molto tempo che noi occidentali siamo diventati cinicamente realisti nel vedere "gli arabi" che si combattono nelle loro strade. "Erano meglio Gheddafi, Saddam, Mubarak, è meglio che ora rimanga in sella Bashar. "Meglio i loro Stati di polizia, meglio la censura al caos", si sente ripetere sempre più spesso. Adesso poi che Trump si accorderà con Putin sulla Siria e ha già detto che per lui Bashar può restare, perché prendersela tanto? Ebbene, pur sfidando le opinioni più diffuse, lasciateci ancora una volta sottolineare un paio di punti. La parte di Aleppo tenuta dalle milizie ribelli oggi sta cadendo unicamente grazie all’intervento determinante di Mosca e Teheran. Senza i raid dell’aviazione russa e la presenza delle milizie sciite pro-iraniane, con l’Hezbollah libanese in testa, il regime di Damasco sarebbe fallito già da oltre un anno. È stata inoltre la repressione brutale del regime contro le rivolte, che al momento del loro scoppio nel 2011 erano sostanzialmente pacifiche, a innescare la violenza senza limiti anche contro i civili. Fu la Nomenklatura degli Assad a volere la liberazione dalle carceri militari dei prigionieri jihadisti, che a loro volta diventarono i militanti locali di Isis. In questo modo venne criminalizzato il nemico ed evitato l’intervento americano. Ora lo scempio di Aleppo est, il bombardamento mirato dei centri medici, la repressione più cruda continueranno indisturbati con l’acquiescenza dei giornalisti "graditi" dalla dittatura e la passività internazionale. Il nuovo Medio Oriente di Putin e (forse) Trump sembra persino peggiore di quello vecchio. Siria. Aleppo sotto i bombardamenti, ultimo tweet di Bana Alabed di Francesca Caferri La Repubblica, 29 novembre 2016 Da due mesi la bambina di sette anni, con i suoi tweet è diventata uno dei simboli della vita dei migliaia di civili intrappolati nella parte orientale della città. L’ultimo messaggio: "Quando moriremo, continuate a parlare delle 200mila persone che sono ancora qui. Ciao". L’ultima foto la mostra fra la polvere, sconvolta: "Da questa notte non abbiamo più una casa. È stata bombardata ed è andata in pezzi. Ho visto persone morte e sono quasi morta anche io". Da due mesi, Bana Alabed, sette anni, con i suoi tweet è diventata uno dei simboli della vita dei migliaia di civili intrappolati nella parte orientale di Aleppo, al centro della battaglia fra i ribelli, che la controllano da oltre due anni e le forze governative appoggiate dall’aviazione russa, che da una decina di giorni a questa parte hanno lanciato una durissima offensiva per riconquistarla e nel fine settimana hanno ripreso il controllo di due zone decisive, isolando di fatto i ribelli. Già domenica sera Bana, che twitta tramite un account gestito dalla madre, aveva mandato messaggi disperati ai suoi 94mila followers: "L’esercito è entrato. Questo potrebbe essere l’ultimo giorno in cui possiamo parlare liberamente. Non c’è Internet. Per favore per favore per favore pregate per noi". E poi: "Ultimo messaggio. Siamo sotto bombardamenti pesantissimi, non possiamo più restare vivi. Quando moriremo, continuate a parlare delle 200mila persone che sono ancora qui. Ciao". La storia di Bana ha catturato l’attenzione dei media internazionali e della scrittrice J. K. Rowling, che a più riprese ha ritwittato la sua testimonianza ai suoi followers e nei giorni scorsi le ha inviato copie in formato elettronico dei volumi della saga di Harry Potter. Ma la bambina non è che una delle 200mila persone che in queste ore si trovano in mezzo ai combattimenti ad Aleppo, una città dove già da mesi mancano cibo, acqua, elettricità e servizi sanitari: la campagna di bombardamenti mirati a cui le strutture sanitarie della parte orientale della città sono state sottoposte da parte dell’esercito di Damasco e dell’aviazione russa fa sì che per i civili non ci sia praticamente più assistenza medica. Negli ultimi giorni migliaia di persone stanno cercando di lasciare la parte orientale della città per trasferirsi nella calma relativa di Aleppo Est, sotto il controllo del governo: ma per farlo devono sfidare le bombe, il fuoco dei cecchini e i durissimi interrogatori che aspettano chi riesce a passare. Ieri le truppe di Assad hanno ripreso il controllo della zona di Sakhour, l’ultimo dei dieci distretti in mano ai ribelli conquistati negli ultimi dieci giorni: di fatto dalla ripresa dell’offensiva i ribelli hanno perso il 30% del territorio che controllavano. E tutto fa presagire che l’offensiva di Damasco non sia destinata a fermarsi presto: riprendere il controllo della seconda città della Siria sarebbe per il presidente un successo capace di decidere le sorti della guerra. Bana Alabed non è che uno dei cinquecentomila bambini intrappolati nella guerra in Siria, secondo gli ultimi dati diffusi dall’Unicef: la sua vicenda è al centro delle polemiche di chi accusa la famiglia di sfruttare la bambina per fare propaganda pro-ribelli ad Aleppo. La Turchia accusata di torturare i detenuti tpi.it, 29 novembre 2016 Secondo le testimonianze che iniziano a emergere, nelle carceri turche si consumano abusi e violenze di ogni tipo, ma Ankara nega con forza. Nel corso delle purghe che hanno seguito il tentativo di golpe di luglio sono state arrestate oltre 30 mila persone, inclusi membri delle forze armate e dell’ordine. Mentre proseguono le purghe volute dal presidente Recep Tayyip Erdogan dopo il fallimento del colpo di stato dello scorso luglio - con oltre 120 mila persone rimosse o sospese dai loro incarichi nel settore pubblico e più di 30 mila arresti - si diffondono testimonianze di violenze subite dalle persone sospettate di essere simpatizzanti, se non sostenitori, dei golpisti, e in particolare del religioso Fethullah Gulen, considerato l’ispiratore dietro al tentativo di rimuovere Erdogan. Organizzazioni per la difesa dei diritti umani, come Amnesty International e Human Rights Watch (Hrw), hanno ricevuto quelli che ritengono essere rapporti credibili su torture di ogni tipo, inclusi stupri, perpetrati ai danni dei detenuti, in un momento in cui lo stato di emergenza consente deroghe importanti in materia di indagini e arresti, permettendo, per esempio, di estendere la custodia cautelare da quattro a 30 giorni o di negare accesso a una consulenza legale per cinque giorni. I racconti che emergono, diffusi anche dalla Bbc, parlano di pestaggi estremamente violenti, di abusi fisici e psicologici. Dopo la pubblicazione dell’indagine di Hrw sulla violazione dei diritti umani nel paese, i ministri turchi della Giustizia e dell’Interno hanno liquidato le accuse come calunnie infondate e ribadito l’impegno di Ankara al rispetto più rigoroso dello stato di diritto. L’inviato speciale delle Nazioni Unite per la tortura lavorerà questa settimana al suo rapporto sulla situazione in Turchia, per verificare se effettivamente il governo stia infrangendo il diritto internazionale. La tortura, infatti, è vietata in modo assoluto senza deroghe, pure in caso di stato di emergenza o di guerra.