I 35 Garanti dei diritti dei detenuti si riuniscono oggi a Firenze Il Dubbio, 28 novembre 2017 Gli incontri proseguiranno il 1° e il 2 dicembre all’auditorium di Santa Apollonia. Oggi, a Firenze, presso Palazzo Bastogi, si terrà un incontro del Coordinamento nazionale dei garanti dei diritti dei detenuti con più di 35 garanti da varie parti d’Italia, tra cui il Garante nazionale Mauro Palma, quello regionale della Toscana Franco Corleone e il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Antonio Fullone. Ad aprire i lavori sarà lo stesso Franco Corleone, seguiranno i saluti delle autorità: il presidente del Consiglio regionale della Toscana, Eugenio Giani; Luigi Dei, rettore dell’Università degli studi di Firenze; Paolo M. Mancarella, rettore dell’Università di Pisa; Francesco Frati, rettore dell’Università degli studi di Siena; Pietro Cataldi, Rettore dell’Università per Stranieri di Siena; il già citato Antonio Fullone e Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze. I temi che principalmente verranno trattati riguardano il continuo e progressivo aumento della popolazione detenuta, i decreti delegati di riforma dell’ordinamento penitenziario e del regime delle misure di sicurezza, il monitoraggio post chiusura degli Opg e il funzionamento delle Rems, la costituzione della rete Npm (National Preventive Mechanism) tra il Garante nazionale e i Garanti territoriali, attualmente all’esame del Comitato Onu per la prevenzione della tortura. Il Npm si è difatti istituito in Italia con l’insediamento del garante nazionale dei detenuti. Sul piano internazionale è organismo di monitoraggio indipendente, come richiesto agli stati aderenti al Protocollo opzionale per la prevenzione della tortura (Opcat). Tale protocollo, infatti, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2002, prevede l’istituzione di un sistema di visite regolari svolte da organismi indipendenti nazionali e internazionali nei luoghi in cui le persone sono private della libertà, al fine di prevenire la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti ed è stato ratificato dall’Italia nel 2012. Nel 2014 il Garante nazionale è stato designato dall’Onu come organismo di “National Preventive Mechanisms”. Gli incontri proseguiranno venerdì 1° e sabato 2 dicembre presso l’Auditorium di Santa Apollonia. Sorveglianza. 41bis, il no dei penalisti su competenza esclusiva di Roma Il Dubbio, 28 novembre 2017 L’Unione Camere Penali Italiane, da tempo, ha denunciato l’aspetto punitivo e, a volte, investigativo, della detenzione di coloro che sono sottoposti al regime previsto dall’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario. Nella stessa premessa della recente circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (N. 3676/ 6126 del 2 ottobre u. s.), intervenuta dopo 25 anni a regolamentare e uniformare il circuito speciale, è stato necessario precisare che “le prescrizioni imposte col decreto del ministro non sono volte a punire e non devono determinare un’ulteriore afflizione, aggiunta alla pena già comminata”. “A tali prassi distorte - sottolineano i penalisti, che vanno certamente oltre la necessità - questa sì prevista dalla norma - di evitare contatti tra il detenuto e l’esterno, vi è l’anomalia della competenza esclusiva del Tribunale di Sorveglianza di Roma per le decisioni sui reclami proposti da tutti i detenuti al 41 bis, in qualunque istituto si trovino. Tale previsione risponde all’esigenza di evitare orientamenti giurisprudenziali eterogenei da parte di diversi Tribunali. In pratica, la negazione della Giurisdizione, dove invece l’eventuale contrasto tra più decisioni è il sale del diritto”. Il responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi, nel corso di una trasmissione radiofonica andata in onda il 23 novembre, a cui è intervenuto anche il dottor Costantino De Robbio, segretario della Sezione Distrettuale di Roma dell’Associazione Nazionale Magistrati, che ha manifestato la sua contrarietà alla competenza funzionale del Tribunale di Sorveglianza di Roma offrendo la disponibilità dell’Anm a una battaglia comune su questo tema, ha manifestato la sua contrarietà alla competenza funzionale del Tribunale di Sorveglianza di Roma offrendo la disponibilità dell’Anm ad una battaglia comune su questo tema. L’Unione sottoporrà, pertanto, nei prossimi giorni all’Anm un documento da sottoscrivere e inoltrare al ministro della Giustizia. Obbligatorietà dell’azione penale: non basta la super-circolare di Francesco Petrelli Il Mattino, 28 novembre 2017 Che il vice Presidente Legnini abbia colto e proclamato pubblicamente l’ipocrisia di un sistema che da un lato porge un ossequio formale al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, e dall’altro quotidianamente esercita il suo contrario, è evidentemente un fatto positivo. Ma quella sottesa all’intervento del Csm non è, tuttavia una questione di costume, che si possa risolvere semplicemente con un buffetto metaforico a coloro che istituzionalmente si sono resi autori di comportamenti non politically correct. L’ipocrisia, in questo caso, è solo un epifenomeno, un dato francamente trascurabile, sotto il quale sta invece un problema di natura sistemica che coinvolge ben altre questioni. Quando l’Ucpi ha messo in campo la sua proposta di riforma costituzionale per la separazione delle carriere dei magistrati, aveva bene a mente che un sistema processuale accusatorio, dotato di un giudice terzo e di un pubblico ministero indipendente, efficiente e moderno come quella riforma vuole realizzare, non avrebbe potuto entrare a regime senza una modifica costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale. Ma è proprio qui, sul vertice dove la questione ordinamentale si incrocia con quella costituzionale, che emerge la distanza della visione manifestata dalla iniziativa del Csm dal punto nevralgico del problema. Pensare, infatti, che quella da risolvere sia solo una questione organizzativa, nella quale una super-circolare volta alla razionalizzazione dei “modelli gestionali” rende omogenee sull’intero territorio nazionale le priorità investigative e processuali dettando criteri generali alle singole Procure, significherebbe trasformare la nostra ipocrisia in miopia. Significherebbe non vedere che il problema non è quello della possibile ed inevitabile modulazione delle scelte prioritarie, imposta da un lato dalla limitatezza delle risorse, e dall’altro dalla necessità di garantire a tutti i cittadini un giusto processo, ma è quello del soggetto legittimato ad elaborarla e ad attuarla. Solo una legge, difatti, può eventualmente operare una declinazione speciale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Come più volte abbiamo avuto modo di sottolineare, il Csm è andato tuttavia progressivamente assumendo un ruolo che va ben oltre il governo autonomo e la organizzazione degli uffici giudiziari, assumendo spesso iniziative di vera e propria promozione legislativa. Come è stato correttamente sottolineato su queste pagine, dal professor Di Federico, l’iniziativa del Csm assume in questo caso anche le forme tipiche dell’atto legislativo, quasi ad autolegittimarne anche metodi e contenuti. L’obbligatorietà dell’azione penale, come tutti sanno, è oramai divenuta soltanto il simulacro di un principio costituzionale, il cui declino è dovuto anche ad una drammatica pan-penalizzazione che ha determinato l’inevitabilità delle scelte discrezionali. Scelte che tuttavia da anni vengono compiute dai singoli magistrati o dalle stesse Procure secondo criteri e parametri del tutto discrezionali e disomogenei. Questa prassi distorta che invadeva in modo disorganico il campo della responsabilità politica, sostituendo le singole Procure al Legislatore, viene ora messa a sistema dal Csm, che autorevolmente si contrappone al Parlamento, il quale in uno Stato di diritto, ed in base ad elementari principi di separazione dei poteri, dovrebbe invece essere l’unico a poter regolare il sistema penale, decidendo di volta in volta, in base a trasparenti criteri di politica giudiziaria, a quali categorie di reati dare eventualmente precedenza. La riforma costituzionale di iniziativa popolare depositata dall’Ucpi alla Camera il mese scorso, intende proprio restituire al Parlamento la decisione in ordine ai modi di regolazione dell’obbligatorietà, declinandone la obbligatorietà nei “modi previsti dalla legge”. Resta ora alla politica decidere quale modello adottare: quello delle circolari che rivedono la Costituzione o quello delle leggi che restituiscono significato alla Costituzione e centralità al Parlamento. La morte di Totò Riina e la sconfitta della Commissione antimafia di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 28 novembre 2017 I tanti messaggi di condoglianze per la morte del boss di Corleone testimoniano che sul piano sociale la mafia non è stata affatto debellata, mentre ne esce battuta la strategia di contrasto militare, messa in atto in questi anni. Dopo la morte di Totò Riina centinaia, o migliaia, di persone hanno postato commenti sulla pagina Facebook del figlio e della figlia, esprimendo le proprie condoglianze e, in alcuni casi, addirittura manifestando apprezzamento per il defunto. I giornalisti che si sono recati a Corleone hanno registrato l’esistenza di una comunità divisa, nella quale alcuni giungono a rimpiangere il tempo in cui Riina era un boss libero e governante. I figli, dal canto loro, hanno chiesto il silenzio e rivendicato una immagine paterna lontana da quella restituita dalle sentenze che inchiodano Riina come uno dei più sanguinari criminali della storia. L’atteggiamento dei figli ha destato scandalo ed è stato oggetto di dure reprimende. Come fanno a dire pubblicamente che piangono un padre mafioso ed assassino?! La massa dei messaggi di condoglianze è riferita senza commenti. Su questo aspetto vi è un imbarazzato silenzio. Ed invece è proprio su questo dato che dovrebbe soffermarsi l’attenzione e l’analisi. I figli hanno la loro relazione con la memoria del padre e, se non delinquono, si può forse contestare il rapporto di consanguineità o il dolore filiale? Diverso discorso va fatto rispetto alla massa dei messaggi di condoglianze o alla spaccatura registrata a Corleone sulla valutazione della figura di Riina. Certamente non tutti i messaggi di condoglianze e le diverse valutazioni hanno la medesima sostanza e connotazione. Il loro numero, tuttavia, testimonia che il problema mafia sul piano sociale non è stato risolto. L’aggressione alla Democrazia Cristiana, che attraverso la incriminazione per mafia ha consentito la delegittimazione di una intera classe dirigente, ha segnato l’inizio di una politica di contrasto alla mafia fondata esclusivamente su metodi militari. Alla aggressione militare portata da Totò Riina allo Stato, questo è stato capace di rispondere esclusivamente sul piano militare: incriminazioni, arresti, carcere, sequestri, confische, decretazione della morte civile di alcuni. La sede politica, che avrebbe dovuto darsi carico della dimensione sociale di un problema quale quello della mafia, si è appiattita anch’essa su questa visione esclusivamente militare della lotta alla mafia, trovando nella Commissione antimafia il punto di elaborazione più accreditato per i propri riferimenti culturali. È, così, accaduto che il tema delle popolazioni in cui questo tipo di criminalità organizzata si muove è scomparso dall’orizzonte. Nella prospettiva culturale della Commissione antimafia l’obiettivo è diventato quello di colpire. E non di colpirne uno per educarne cento, ma di colpire il più possibile, in modo anche sommario, e pazienza se ci capitano anche innocenti. Il solo obiettivo è di distruggere il nemico. La prospettiva di educare è completamente fuori dall’orizzonte della lotta alle mafie, salvo le meritorie iniziative di alcune organizzazioni civili. La lotta alle mafie è diventata come la caccia grossa, e poco importa se la foresta ed i suoi abitanti sono distrutti. Così intere regioni sono state spinte fuori dal perimetro della legalità. E quei cittadini? Alcuni hanno avuto la lucidità e la forza individuale di prendere le distanze dalla mafia. Ma molti, senza nessuna possibilità di riscatto sociale, sono stati ributtati nelle sue braccia. Il numero dei messaggi di condoglianze per la morte di Totò Riina, anche se resta ferma l’impossibilità di dare una interpretazione corretta della posizione di ogni singola persona, testimonia che sul piano sociale la mafia non è stata affatto debellata. Sconfitta, allora, ne esce quella strategia di contrasto militare senza attenzione alla dimensione sociale, di cui si è fatta vessillifera la Commissione antimafia. Processo civile. No di Anm e avvocati, salta il taglia-tempi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2017 Battaglia sull’emendamento alla manovra che taglia i tempi di durata dei processi civili. Con tensioni interne anche alla compagine di Governo e una levata di scudi di magistrati e avvocati, che ieri sera hanno condotto al ritiro. A un ministero della Giustizia che spinge per l’approvazione si sono contrapposte, nell’Esecutivo, maggiori perplessità del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi. La posta in gioco era alta perché l’estensione del rito sommario a tutte le cause di competenza del giudice unico, stralcio della più ampia riforma del processo civile che da tempo langue al Senato, avrebbe riguardato la stragrande maggioranza delle controversie. Per dare un’idea, secondo gli ultimi dati disponibili, nei tribunali sono stati avviati nel corso del 2016, in tutto 2.134.020 nuove cause. La stragrande maggioranza (i numeri relativi ad alcune materie sono riportati a fianco) sono di competenza del giudice monocratico, quella collegiale è residuale e affidata all’articolo 50 bis del Codice di procedura civile, tanto da fare stimare in circa 1 milione e 800mila quelle che sarebbero state investite da una forma processuale che oggi ha un’applicazione circoscritta. E con elementi collaterali tutti da valutare, come il crollo possibile del gettito del contributo unificato che, oggi, è dimezzato per le cause nelle quali si applica il rito sommario. Di certo, lo illustrava la relazione all’emendamento stesso, con l’applicazione quasi generalizzata del rito semplificato la durata della fase di cognizione si sarebbe dimezzata, passando da 840 giorni a 385 giorni, e avrebbe permesso, si affermava nella relazione al testo, un deciso miglioramento della classifica Doing Business che misura l’efficienza dei sistemi giudiziari, permettendo all’Italia di passare dalla 111esima piazza alla 42esima. E l’ipotesi di estensione del rito sommario, con maggiori margini di manovra per l’autorità giudiziaria e tempi contingentati, un effetto l’aveva prodotto, quello di mettere d’accordo avvocati e magistrati. Per l’Anm, “la riforma in cantiere non elimina e neanche favorisce l’efficienza del processo perché non opera sull’arretrato esistente. Le regole del processo non sono inutile orpello ma il modo con cui le parti concorrono, con ordine, alla decisione del giudice”. Eliminare la predeterminazione di tali regole, rimettendone la scelta alla valutazione discrezionale caso per caso, “rischia - sottolineava ancora l’Anm - di generare prassi applicative diversificate con sicure ricadute negative in termini di garanzia dei diritti dei cittadini, di conflittualità tra le parti ed aumento delle controversie interpretative, le quali andrebbero a ripercuotersi sulle Corti d’appello, già in affanno”. L’Associazione nazionale magistrati avvertiva che “una seria riforma della giustizia civile deve porsi il vero problema del “collo di bottiglia”, rappresentato dal momento della decisione, il cui spazio, spesse volte, per la complessità e delicatezza delle vicende processuali, non tollera di essere soffocato da tempi contingentati se non a scapito della qualità della risposta alla domanda di giustizia”. Per il Consiglio nazionale forense, intervenuto con una lettera del presidente Andrea Mascherin al ministro della Giustizia Andrea Orlando, la modifica del rito come strumento per velocizzare la giustizia ha “nell’ultimo decennio sempre aumentato il tasso delle liti sull’applicazione delle regole e di conseguenza allontanato la decisione sul merito delle vertenze”. “È rischioso costringere le parti - avverte ancora il presidente del Cnf - ad affrontare un processo con regole affidate alle imprevedibili scelte del giudice, secondo uno schema che, se può forse in linea di pura teoria andare bene per le cause più semplici, mette seriamente a repentaglio i diritti di chi si affida alla giurisdizione e che non è in grado di prevedere le difese delle altre parti e gli sviluppi della lite”. Posizione condivisa dalla presidente delle Camere civili Camere Civili Laura Jannotta, che ricordava anche come già un parere negativo, inascoltato, fosse stato espresso nel recente passato da tutta l’Avvocatura. La Cassazione dà torto al boss: non ha diritto alla tv in cella di Mario Consani e Nicola Palma La Stampa, 28 novembre 2017 È sottoposto al carcere duro. E i giornali non gli bastavano. I giornali non li compra. E non ha la radio in cella. Per sua scelta. Per Vincenzo Forastefano, boss recluso al 41 bis a Opera, informazione fa rima solo con televisione. Peccato che il regime del carcere duro non preveda la tv dietro le sbarre. E i giudici della Cassazione glielo hanno ribadito qualche giorno fa, confermando il “no” del magistrato di sorveglianza. In sostanza, il 44enne originario della cosentina Cassano allo Ionio, arrestato nel 2008 dai carabinieri e condannato in via definitiva a 24 anni come capo clan dell’omonima cosca di ‘ndrangheta, ha fatto ricorso lamentando “la violazione del diritto all’informazione, segnatamente l’asserito inibito accesso all’informazione televisiva”. In prima istanza, il tribunale di Milano ha ritenuto infondata la richiesta di Forastefano. Stesso verdetto anche dalla Suprema Corte, che ha ritenuto corretta la prima decisione: per detenuti come Forastefano, esclusi dalle attività in comune, il regolamento “non include la dotazione dell’apparecchio televisivo, garantendo e assicurando al detenuto il diritto all’informazione, i colloqui visivi e telefonici con difensori e familiari, il vitto ordinario, il quotidiano monitoraggio sanitario”. Detto altrimenti: “Non bisogna confondere il diritto soggettivo con le modalità di esercizio di esso”. Forastefano, quindi, ha i mezzi per sapere cosa succede nel mondo. Che poi lui ritenga inadeguati radio e giornali a soddisfare il suo desiderio di informarsi è altro paio di maniche: “Le modalità di esplicazione del diritto - tagliano corto i giudici - restano affidate alle scelte discrezionali dell’amministrazione penitenziaria in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interne, che, ove non manifestamente irragionevoli ovvero sostanzialmente inibenti la fruizione del diritto, non sono sindacali in sede giurisdizionale”. Niente tv per il boss al 41 bis, insomma. Condannato a 24 anni dalla Corte d’assise d’appello di Catanzaro, Forastefano è stato a lungo il leader della cosca legata alla “locale” di Sibari che taglieggiava gli imprenditori della zona e gestiva l’immigrazione clandestina e l’impiego di manodopera in nero, con tanto di truffa all’Inps e fittizie assunzioni di braccianti agricole in cooperative di comodo. Niente confisca se il reato è prescritto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 27 novembre 2017 n. 53609. Stop alla confisca se i reati, alla base della misura, sono prescritti. La Corte di cassazione, con la sentenza 53609, ribadisce il dovere del giudice di allinearsi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo e, in particolare alla sentenza Varvara contro Italia (del 29 ottobre 2013) con la quale i giudici di Strasburgo hanno escluso la possibilità di far scattare la confisca, nel caso esaminato si trattava di una violazione urbanistica, nell’ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato. Il giudice che non si adegua viola l’articolo 7 della Cedu sul principio di legalità. La Suprema corte accoglie così il ricorso contro il no ad un’istanza di restituzione di somme sequestrate da un conto corrente perché di provenienza illecita. Dopo il sequestro però il procedimento si era concluso con una dichiarazione di estinzione per prescrizione dei reati presupposti: ricettazione e truffa tentata e consumata. La Cassazione annulla con rinvio, ricordando alla Corte di merito che avrebbe dovuto chiarire quale peso nel caso esaminato aveva il verdetto enunciato dai giudici di Strasburgo, in base la quale la confisca di un bene che sia il prodotto o il prezzo del reato “non può applicarsi nel caso di declaratoria di prescrizione del reato stesso, anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi”. Rifugiati, l’aggressione nel Centro di accoglienza integra la violenza a pubblico ufficiale di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2017 Corte d’appello di Taranto - Sezione penale - Sentenza 3 luglio 2017 n. 296. L’aggressione nei confronti degli operatori dei Centri di accoglienza integra il reato di violenza a un pubblico ufficiale, in quanto questi ultimi hanno la qualifica di incaricato di pubblico servizio. A prescindere, infatti, dalla concreta mansione svolta, è la natura del servizio reso, da analizzarsi sotto il profilo funzionale ed oggettivo, che rileva ai fini della qualificazione della qualifica soggettiva del reato. Questo è quanto emerge dalla sentenza 296/2017 della Corte d’appello di Taranto. I fatti - Protagonista della spiacevole vicenda è un cittadino nigeriano ospite di un Centro di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, sito in un piccolo comune in provincia di Taranto. Un pomeriggio il ragazzo, che già precedentemente aveva manifestato atteggiamenti violenti e poco collaborativi, aveva aggredito con calci e pugni all’interno della struttura un anziano operatore della società cooperativa che gestiva il Centro, il quale aveva l’incarico di accompagnare gli ospiti della struttura presso la scuola del comune per seguire le lezioni di italiano. Il motivo dell’aggressione sarebbe stato la pretesa di essere accompagnato presso la scuola prima degli altri e prima dell’orario previsto per l’inizio delle lezioni. Dopo l’accaduto, l’operatore aggredito aveva sporto denuncia contro il ragazzo, il quale veniva tratto a giudizio per rispondere dei reati di lesioni e violenza nei confronti di un pubblico ufficiale. Dinanzi al Tribunale prima e alla Corte d’appello poi, il cittadino nigeriano si difendeva sostenendo che l’aggressione sarebbe stata in realtà frutto dell’esasperazione dovuta alla sua condizione di ospite all’interno della struttura mal gestita e della particolare atmosfera che si viveva nel Centro stesso. Inoltre, si criticava la contestazione ex articolo 336 del codice penale per difetto della carenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio, in quanto la persona aggredita era un operatore che svolgeva semplici mansioni materiali, quali pulizie delle parti comuni e accompagnamento degli ospiti. La tensione non giustifica l’aggressione - I giudici non ritengono valide tali censure e, sia in primo che in secondo grado, condannano l’imputato per i reati contestatigli. In particolare, la Corte d’appello prende in considerazione la situazione di emergenza e il clima di instabilità e tensione del Centro di accoglienza, nel quale erano ospitati uomini tutti di nazionalità diversa e tutti richiedenti asilo. Tuttavia, anche tenuto conto della situazione e delle esigenze di tutti gli ospiti, l’aggressione posta in essere non è scriminabile. Anzi, il Collegio afferma che “l’arroganza e protervia con le quali l’imputato - ospite di un centro i cui operatori si adoperavano per fronteggiare una situazione emergenziale, qual è il fenomeno dell’immigrazione, nonostante la scarsità delle risorse per garantire l’accoglienza dei migranti - ha preteso di fruire in esclusiva di un servizio, a scapito degli altri ospiti, rende del tutto ingiustificabile il suo comportamento che, nel caso di specie, è trasceso in atti di violenza gratuita ai danni di una persona anziana che si limitava a svolgere il proprio lavoro in modo da soddisfare le esigenze di tutti”. La qualifica di incaricato di pubblico servizio - Ciò posto, i giudici pugliesi offrono delucidazioni in merito alla qualificazione giuridica del fatto contestato. Non c’è dubbio, infatti, che l’operatore rivestisse la qualifica di incaricato di pubblico servizio. Costui, come era emerso dalle dichiarazioni rese in dibattimento, “aveva il compito, secondo l’esigenza, di provvedere alla pulizia delle parti comuni, all’erogazione dei pasti e, quando necessario, al servizio di accompagnamento degli ospiti presso strutture pubbliche/ospedaliere ma anche che, in assenza del direttore o di un componente dello staff di professionisti, il predetto rappresenta la cooperativa”. Ed è proprio in ragione della funzione, sia pure residuale, di rappresentanza della cooperativa che è configurabile la qualifica di incaricato di pubblico servizio, per la quale, inoltre, “non rileva tanto la formale posizione lavorativa dell’agente quanto la funzione concretamente svolta dal medesimo”. La piscina è “attività pericolosa” di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 45797/2017. L’esercizio di una piscina da un lato si inquadra giuridicamente nell’articolo 2051 del Codice civile e delle normative regionali di riferimento e dall’altro può comportare la responsabilità penale dell’esercente, secondo il principio generale di garanzia stabilito dall’articolo 40, comma 2, del Codice penale per gli infortuni colposamente cagionati ai frequentatori. Per non parlare della responsabilità aggravata prevista dall’articolo 2050 del Codice civile. In tale contesto la Corte di Cassazione (sentenza 45797/2017) è intervenuta di recente ma già con la sentenza 18569/2013 aveva definito la pericolosità dell’esercizio di una piscina: “Il fatto decisivo è che, con tutta evidenza, la piscina costituisce una struttura pericolosa, sia quando è in esercizio, sia quando non lo è. Si tratta di rischi diversi che vanno diversamente cautelati. Nel corso dell’esercizio va assicurata (...) la presenza di personale di salvataggio che sorvegli le attività (...) che vi si svolgono. Quando la struttura non è operativa, la vasca costituisce pur sempre un’entità costituente fonte di pericolo, derivante soprattutto dalla presenza di acqua, in relazione alle possibilità di caduta accidentale e di incongrue iniziative da parte degli utenti”. Da tale indirizzo appare dunque confermato che pur quando la piscina non sia in esercizio, il garante della sicurezza della struttura fonte di possibili rischi non può fare a meno di adottare misure (barriere, transenne, eccetera) che, pur implicando una qualche misura di affidamento sull’osservanza delle prescrizioni, inibiscano l’accesso alla vasca e ne rendano chiaro il divieto di utilizzo. La sentenza 45797/2017 ha respinto il ricorso contro una sentenza che aveva condannato il gestore di una vasca di irrigazione per omicidio colposo di due bambine che vi erano annegate, riconoscendo la sua responsabilità penale in quanto : “Nel cortile (...) vi era una piscina da sempre utilizzata per l’irrigazione dei campi di pertinenza dell’azienda agricola. I bordi della piscina non risultavano in alcun modo protetti da parapetti (o strutture simili) volti ad impedire l’accidentale caduta di persone al suo interno”. Il proprietario dell’immobile e della vasca in esso ubicata era destinatario “di un dovere specifico di attivarsi per realizzare le adeguate recinzioni e le protezioni”. La sentenza ha escluso pertanto un concorso di colpa, ai fini civili, dei genitori delle due bambine che non le avevano sorvegliate. Per applicare la “sentenza pilota” Ue il giudice verifica la completa affinità di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 27 novembre 2017 n. 53610. Il giudice dell’esecuzione non deve essere trasformato in risolutore di ogni questione attinenti a vizi o violazioni presenti nel giudizio di cognizione attraverso l’uso indiscriminato di una “sentenza pilota” di diritto comunitario. I poteri del giudice dell’esecuzione - La Cassazione - con la sentenza n. 53610/17 - ha evidenziato i limiti dei poteri del giudice dell’esecuzione, le cui competenze sono predeterminate dal legislatore. In particolare - si legge nella sentenza - il ricorso all’incidente di esecuzione deve essere del tutto eccezionale per rispondere a decisioni della Corte Edu prima della sentenza della Corte costituzionale n. 113/2011 che ha introdotto la nuova ipotesi di revisione. In definitiva la possibilità di ricorrere all’incidente di esecuzione sussiste solo se la decisione Edu abbia la natura di sentenza pilota o abbia comunque portata generale, le situazioni in comparazione siano identiche e non sia necessaria la previa declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma, né l’intervento di rimozione del giudicato presenti contenuto discrezionale. Bocciata quindi la richiesta del ricorrente secondo cui l’incidente di esecuzione era lo strumento principale di conformazione all’ordinamento interno a una pronuncia della Corte Edu, poiché il giudice dell’esecuzione avrebbe il ruolo di costante controllo di legalità delle norme penali dopo il formarsi del giudicato. L’improbabile assimilazione al caso Contrada - Nel caso concreto il ricorrente riteneva di trovarsi nella medesima situazione di Bruno Contrada ma la Corte rileva come tra le due figure sussistano delle diversità incontestabili per la diversa epoca di consumazione del delitto, “per avere il Contrada sempre contestato davanti al giudice nazionale la prevedibilità della sanzione, sostenendo la possibilità di qualificare diversamente la condotta nel reato di favoreggiamento personale, sostanzialmente fin dall’inizio evocando la violazione dell’articolo 7 Cedu, mentre la difesa del ricorrente non rivendicava una tale linea processuale”. Stalking, c’è persecuzione anche nel turbamento non patologico Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2017 Reati contro la persona - Atti persecutori ex articolo 612-bis c.p. - Elementi costitutivi della fattispecie criminosa - Stato di turbamento non patologico - Rilevanza penale. Ai fini del verificarsi di uno degli elementi richiesti dall’articolo 612-bis c.p. per il reato di atti persecutori, il perdurante e grave stato di ansia e di paura non deve assurgere a livello di patologia, salvo che nel caso di contestazione del concorrente delitto di lesioni personali, essendo sufficiente che si sia prodotto un effetto destabilizzante dell’equilibrio psicologico della vittima. Pertanto, non è rilevante, ai fini della prova dell’evento lesivo, la mancata produzione di certificazione medica attestante il turbamento patito dalla vittima degli atti persecutori, consistiti in ossessive e reiterate telefonate minatorie ed ingiuriose oltre che in appostamenti presso l’abitazione della vittima tali da aver prodotto un effetto destabilizzante per l’equilibrio della persona offesa. Peraltro, la circostanza che le minacce non siano state portate ad esecuzione non ne esclude assolutamente la concretezza ed idoneità a causare uno stato di inquietudine nella vittima, considerando inoltre che l’eventuale realizzazione delle minacce stesse avrebbe determinato la verificazione di ulteriori e diverse ipotesi criminose. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 30 ottobre 2017 n. 49681. Maltrattamenti in famiglia e atti persecutori - divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima - Omessa motivazione sulla capacità dell’imputato e sulle condotte ascritte in concreto - Rinvio In merito all’evento del reato di atti persecutori, se è vero che l’idoneità della condotta a produrlo secondo l’id quod plerumque accidit è elemento valutabile ai fini della prova del turbamento psicologico della vittima, ciò non significa che questa possa esaurirsi nell’accertamento di tale idoneità, posto che quello contestato è pur sempre un reato di danno e non di pericolo. In proposito, il giudice non deve limitarsi ad affermare un consolidato e condivisibile principio giurisprudenziale ma deve applicarlo effettivamente, indicando quali siano gli elementi sintomatici in grado di rivelare, anche solo indirettamente, l’effettiva sussistenza dell’evento del reato. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 25 luglio 2017 n. 36911. Atti persecutori - Condanna - Presupposti - Elementi probatori - Valutazione del giudice di merito - Criteri - Grave stato di ansia e timore della persona offesa. Il delitto di atti persecutori, cosiddetto stalking, (articolo 612-bis c.p.) è un reato che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo; pertanto, ai fini della sua configurazione non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità. Inoltre, per poter intendere realizzato il suddetto stato di ansia e timore, tuttavia, non si richiede l’accertamento di uno stato patologico, ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 612-bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (articolo 582 c.p.), il cui evento è invece configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 11 novembre 2015 n. 45184. Atti persecutori - Accuse della persona offesa - Coerenza logica - Esistenza di un reale turbamento psicologico - Grave e perdurante stato di ansia - Condotta vessatoria dell’imputato - Intrusioni moleste e assillanti - Abitualità del reato - Tutela della libertà morale della persona - Stalking - Comportamento minaccioso, molesto e ingiurioso - Non necessità di una malattia mentale o psichiatrica - Prova del turbamento tramite elementi sintomatici - Adeguatezza del trattamento sanzionatorio - Violazione del divieto di avvicinamento alla persona offesa - Arresti domiciliari - Inammissibilità del ricorso. Il grave e perdurante stato di turbamento emotivo è ragionevolmente da ritenere idoneo ad essere inquadrato negli eventi tipici del reato ai tti persecutori ex articolo 612-bis c.p. la cui sussistenza non dipende dall’accertamento di uno stato patologico, che sarebbe tuttavia idoneo - se fosse accertato - a costituire l’evento dell’ulteriore delitto di lesioni in concorso formale con il delitto ex articolo 612 bis c.p. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 24 aprile 2015 n. 17336. Lecce: muore in carcere a 43 anni, la procura indaga e dispone l’autopsia di Roberta Grassi Quotidiano di Puglia, 28 novembre 2017 Ha smesso di vivere dopo aver accusato un malore in una cella del carcere di Lecce, per cause non ancora chiare. Arresto cardiocircolatorio, è scritto sul referto: Antonio Apruzzese, 43 anni, di Ceglie Messapica, era detenuto per reati contro il patrimonio. Era sottoposto a custodia cautelare. Il pm di turno, Valeria Farina Valaori, ha disposto l’autopsia. L’incarico sarà conferito nelle prossime ore. Nel frattempo la salma è stata trasferita nella camera mortuaria dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce. Per il momento la famiglia non ha formulato alcun esposto, ma non si esclude che possa essere depositato nelle prossime ore. Ad ogni modo, per fare chiarezza su quanto avvenuto, la procura salentina ha già avviato i dovuti accertamenti. Dai primi riscontri l’uomo avrebbe accusato un malore. Il suo decesso sarebbe attribuibile, quindi, a cause del tutto naturali e non prevedibili. Per valutare ogni eventuali- tà, tuttavia, è stato ritenuto indispensabile un approfondimento medico-legale da cui si potrà senz’altro conoscere la causa del decesso per compiere poi le successive osservazioni. I fatti risalgono a domenica mattina. A quanto ricostruito il 43enne cegliese, persona già nota alle forze di polizia, finito in cella per una rapina, avrebbe iniziato a non sentirsi bene. È stato soccorso dapprima dai compagni di cella che hanno dato l’allarme. È intervenuta la polizia penitenziaria. Si è tentato il possibile per salvargli la vita. Ma non è stato possibile. Immediata è partita la segnalazione alla procura, così come previsto dalla prassi. Dalle valutazioni del personale sanitario emerge che la morte sarebbe riconducibile a cause naturali. Stanno valutando gli investigatori se il 43enne si sottoponesse a cure particolari e se vi siano stati elementi tali da meritare ulteriori approfondimenti. La tragedia si è consumata in pochissimo tempo, tanto da rendere più difficile per i medici fornire un responso dettagliato. Responso che è stato quindi richiesto a un consulente tecnico. Il pm, all’atto del conferimento dell’incarico, darà informazione ai famigliari (Apruzzese, in tutte le vicende giudiziarie che lo hanno riguardato è stato assistito dall’avvocato Aldo Gianfreda) e valuterà se, come atto dovuto, stilare una lista di persone da iscrivere nel registro degli indagati perché possano nominare un esperto che partecipi all’esame autoptico. Si tratta di una garanzia per chiunque dovesse ritrovarsi ad essere in qualche modo coinvolto nella vicenda. Non sembrerebbero esserci al momento responsabilità da attribuire a qualcuno: la macchina dei soccorsi avrebbe funzionato alla perfezione, nonostante l’epilogo sia stato drammatico. La notizia si è diffusa in fretta a Ceglie Messapica, città di origine e residenza di Apruzzese, dove era piuttosto conosciuto. Torino: incendio nel carcere minorile; ustionati tre giovani detenuti, due sono gravissimi di Carlotta Rocci La Repubblica, 28 novembre 2017 Il rogo al “Ferrante Aporti” partito da un materasso dato alle fiamme. Il sindacato della polizia penitenziaria Osapp: “Situazione ormai indegna di un paese civile, sorveglianza impossibile con personale così ridotto”. Tre giovani detenuti del carcere minorile “Ferrante Aporti” di Torino, due tunisini e un russo, sono rimasti ustionati questa sera in un incendio scoppiato all’interno della struttura. A provocarlo, secondo i primi accertamenti, sarebbero stati alcuni reclusi che, per motivi ancora da chiarire, hanno dato fuoco a un materasso e ad alcune suppellettili e sono stati poi fermati dagli agenti della Polizia penitenziaria. Due dei giovani sono stati trasportati al Cto, entrambi in codice rosso: le preoccupazioni maggiori sono per le vie respiratorie. Le condizioni del terzo, un tunisino, non destano preoccupazioni. A denunciare l’ultimo episodio di una lunga serie di violenze e tensioni crescenti all’interno dell’istituto di pena minorile torinese è Leo Beneduci, segretario generale del sindacato Osapp: “Questo episodio denuncia lo stato degli istituti minorili trasformatisi in una fucina di criticità, con aggressioni al personale, risse e incendi. Parlare di sorveglianza con numeri così risicati è un’offesa al lavoratori che non possono usufruire delle ferie né dei turni di servizi. È un’offesa ai lavoratori indegna di un paese civile”. Solo due settimane fa due agenti carcerari sono stati picchiati da un recluso, tanto da spingere il sindacato Fns Cisl Piemonte a lanciare l’allarme: “Al Ferrante Aporti di Torino ormai è un massacro: ogni fine settimana l’interno del carcere sembra un campo di battaglia con feriti e contusi. Qualche settimana fa abbiamo denunciato l’aggressione di un collega con un oggetto contundente e una prognosi di 20 giorni, mentre domenica 12 novembre un altro agente ha ricevuto una gomitata in pieno volto e dovrà assentarsi anche lui dal lavoro per almeno venti giorni, sempre a seguito di un’aggressione e sempre da parte di un detenuto maggiorenne di nazionalità egiziana, che come al solito pretendeva di non rientrare più in cella dopo aver effettuato le attività. Tutto questo senza che da Roma, nonostante i nostri solleciti, siano stati inviati un direttore e un comandante in pianta stabile “. Belluno: il carcere dove c’è sempre qualcosa da fare per tutti i detenuti di Francesca Valente Redattore Sociale, 28 novembre 2017 Nella Casa circondariale di Baldenich a Belluno lavora l’80% dei reclusi e si svolgono molte attività ricreative, tra cui una rivista finanziata dal Csv. Coinvolgendo cinque associazioni di volontariato, cooperative sociali, docenti e dieci aziende. Cinque associazioni di volontariato, un gruppo di docenti del Centro provinciale istruzione per adulti (Cpia), la fondazione Esodo, la Caritas diocesana di Belluno-Feltre, tre cooperative sociali e una decina di aziende. Sono questi i numeri della piccola grande rete creata per dare occupazione, sollievo e motivazione agli ospiti della Casa circondariale di Baldenich a Belluno. L’ultimo tavolo convocato dalla direzione del carcere e coordinato dalla capoarea educativa è stata una preziosa occasione per gli operatori esterni di incontrarsi e raccontare le attività svolte nel corso del 2017, anche in vista della programmazione del prossimo anno. Il lato più interessante è stato indubbiamente relativo alle attività “ricreative”, ovvero tutte quelle che parallelamente al lavoro, che oggi impiega quasi l’80 per cento dei detenuti, offrono momenti di svago e di crescita alle persone recluse. L’associazione Il Tralcio di Tambre è attiva da diversi anni nella piccola sezione transessuali con un gruppo di lettura e un cineforum, momenti di confronto settimanale sui temi più disparati, a cui le ospiti rispondono con grande attenzione e partecipazione. A luglio ha avviato una collaborazione con l’associazione Jabar, che da metà del 2014 tiene un corso settimanale di informatica nella più ampia sezione maschile, strutturato sulle varie competenze dei partecipanti, dall’alfabetizzazione digitale fino al linguaggio HTML. Nello stesso contesto è nata un anno fa una piccola redazione branca del corso che si occupa di pensare, scrivere e organizzare la rivista semestrale “Sconfinamenti”, stampata grazie a un finanziamento del Csv di Belluno per portare fuori spunti e riflessioni sui temi della privazione della libertà, della legalità e della rieducazione. Dalla collaborazione tra le due associazioni è nato il nuovo progetto “Liber libri”, un percorso di lettura critica di alcuni titoli selezionati sulla base degli autori che si prefigge l’obiettivo di far incontrare i lettori e gli scrittori. La prima presentazione in carcere si è svolta il 6 ottobre con la partecipazione straordinaria dell’autore romano Edoardo Albinati (premio Strega 2016), molto apprezzata e partecipata. Da maggio Jabar ha preso sede al primo piano della Casa del volontariato e sta intessendo un’importante collaborazione con il Csv per integrare una parte di servizi alla persona marginalizzata, a partire dalle consulenze alle famiglie dei detenuti a Belluno. C’è poi il Csi di Belluno che da oltre un anno organizza corsi di pallavolo, basket e ora calcetto nei sabati pomeriggio di bel tempo in un piccolo quadrilatero di cemento nel cuore della struttura. E ancora il gruppo San Francesco coordinato dal cappellano padre Olindo, che raggruppa anche alcuni volontari della Società San Vincenzo dè Paoli bellunese per raccogliere indumenti da donare agli indigenti, tenere incontri di catechesi e dal prossimo anno proporre anche un corso di chitarra. Nel 2018 saranno riconfermate tutte le attività in corso, con l’auspicio che assieme al lavoro torni anche il bisogno di rimettersi sui banchi di scuola. Milano: “fuoriametà”, inchiesta Fp-Cgil su esecuzione penale esterna e giustizia minorile jobsnews.it, 28 novembre 2017 “#fuoriametà - l’altra pena, fuori le mura”. Dietro queste parole la Fp Cgil Nazionale ha promosso una campagna sull’esecuzione penale esterna e sulla giustizia minorile attraverso delle video inchieste per conoscere, attraverso le parole delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti, questo sistema, indagando allo stesso tempo sulle loro condizioni di vita e di lavoro. “Pensiamo che - afferma la Funzione Pubblica Cgil - l’esecuzione penale esterna e le misure alternative siano uno strumento più aderente al mandato costituzionale e agli standard europei, con costi minori per la collettività”. Ma per attuare questo mandato, osserva la categoria della Cgil, “non si può prescindere da maggiori investimenti per il Nuovo Dipartimento di Giustizia Minorile e Comunità, che mettano i lavoratori in condizioni di svolgere adeguatamente il proprio lavoro. Eppure nella prossima legge di Stabilità non sono previste quelle assunzioni necessarie per sostenere l’azione dei dipartimento e mandare avanti il servizio”. La prima video inchiesta è stata girata a Milano nell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Lombardia, seguiranno poi le storie di Roma e di Napoli. “Con questo viaggio nell’altra pena e nelle misure alternative - conclude la Fp Cgil - vogliamo mostrare, dando voce alle lavoratrici e ai lavoratori, le condizioni di lavoro, le forti difficoltà nelle quali si muovono gli operatori e l’importanza del delicato compito che questi svolgono per la società”. Firenze: “più braccialetti meno carcere”, il 30 novembre manifestazione nazionale Ucpi camerepenali.it, 28 novembre 2017 Per il 3° anno consecutivo la Camera Penale di Firenze - quest’edizione unitamente alla Camera Penale di Pisa - organizza la “Giornata dei braccialetti”, dando seguito all’iniziativa voluta dall’Osservatorio Carcere “+ braccialetti - carcere” al Congresso dell’U.C.P.I. di Cagliari del 2015. Per il 3° anno consecutivo la Camera Penale di Firenze - quest’edizione unitamente alla Camera Penale di Pisa - organizza la “Giornata dei braccialetti”, dando seguito all’iniziativa voluta dall’Osservatorio Carcere “+ braccialetti - carcere” al Congresso dell’U.C.P.I. di Cagliari del 2015. L’Unione Camere Penali Italiane, da tempo, denuncia la mancata applicazione dell’art. 275 bis C.P.P., in vigore ormai da 17 anni e da 4 anni considerata la regola da seguire nella concessione degli arresti domiciliari. Dal 2000 la norma ha trovato rarissima applicazione, con costi pari a milioni di euro. Solo recentemente i Magistrati l’applicano nei limiti consentiti dal numero degli apparecchi disponibili, duemila. Liste di attesa e ingiustificate detenzioni in carcere non sono bastate ad accelerare i tempi per eliminare una delle tante vergogne del nostro sistema penale. Dopo l’aggiudicazione del recente bando di gara per migliorare la situazione, non si hanno notizie precise sulla quantità e qualità dei nuovi braccialetti e sui tempi di utilizzabilità. I dati al 31 ottobre scorso, confermano che il sovraffollamento sta aumentando di giorno in giorno. A fronte di una capienza regolamentare di 50.544 unità, sono presenti nelle carceri italiane 57.994 detenuti, di cui 10.249 in attesa del giudizio di primo grado e quindi “presunti innocenti”. Il braccialetto elettronico, applicato con successo in altri Paesi Europei, è uno degli strumenti indispensabili per una maggiore concessione degli arresti domiciliari e, se fornito di moderne tecnologie, potrebbe favorire anche un aumento delle misure alternative, oggi dette di comunità. A Firenze e nelle altre città, il 30 novembre, i penalisti metteranno a fuoco la situazione attuale, per chiedere conto al Governo di questo ingiustificato ritardo. Ascoli Piceno: musica e parole per i detenuti del carcere di Fermo cronachefermane.it, 28 novembre 2017 Un incontro di musica e parole, di poesia e di canzoni, di cuore e di emozioni. È andata così nel carcere di Fermo, ospite d’eccezione il chitarrista Ricky Portera, storico musicista al fianco di Lucio Dalla, tra i fondatori degli Stadio, mitica spalla rock di tantissimi nomi della musica italiana. Con grande generosità Portera ha concesso un’ora e mezza del suo tempo con i detenuti a Fermo, nella stanza che fa da redazione per il giornale del carcere L’Altra chiave news. Con Portera anche la giornalista Paola Pieragostini che ha scritto un libro sulla storia del chitarrista “Ci sono cose che non posso dire”, l’incontro ha preso le mosse dal libro ma è finito, come prevedibile, in musica, a cantare, a raccontarsi, a sorridere e a commuoversi. A parlare di Lucio Dalla e di Vasco Rossi con cui Portera ha frequentato una scuola di canto, a raccontare di incontri emozionanti e di donne belle come Anna Tatangelo, di musica che si intreccia con la vita e con le giornate, nella storia di un musicista appassionato, profondamente rock, dall’anima pure a generosa. Un incontro fortemente voluto dalla direttrice del carcere, Eleonora Consoli e dall’area trattamentale diretta da Nicola Arbusti, in collaborazione con la Polizia Penitenziaria in questi giorni diretta dalla vice comandante Loredana Napoli. A sostenere il piccolo concerto l’imprenditrice Alessandra Petracci che pure era presente in carcere, così come il garante dei detenuti Andrea Nobili che ha apprezzato l’iniziativa, la poesia che si porta dietro le sbarre è sempre una boccata d’aria pure per uomini spezzati dalla vita. Le fotografie portano la firma di Giacomo Maroni, fotografo di talento, che ha saputo cogliere momenti di grande intensità. E lui, Portera, non si è sottratto, ha cantato brani noti e ha chiuso con Albachiara, i detenuti hanno accompagnato musica e parole e se ne sono andati con un autografo e un ricordo bello nel cuore, per una mattinata speciale e per l’incontro con delle persone veramente generose. Parma: “La partita con papà”, una giornata di calcio per i detenuti e i loro figli Gazzetta di Parma, 28 novembre 2017 Al via la campagna di “Bambinisenzasbarre” per i diritti dei figli di genitori detenuti. A dicembre, per il terzo anno consecutivo, ritorna “La partita con papà “, la giornata di calcio dei papà detenuti coi loro figli, negli istituti penitenziari italiani. Organizzata da Bambinisenzasbarre con il sostegno del Ministero di Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, un’iniziativa unica in Europa, per sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione dei 100mila bambini in Italia (2,1 milioni in Europa) che vivono la separazione dal proprio genitore detenuto offrendo loro un momento speciale d’incontro. Anche il carcere di Parma (strada Burla 57) aderisce all’iniziativa il 1° dicembre, dalle 9. L’evento si inserisce nella Campagna “Dona un abbraccio”, che pone l’attenzione sulla necessità di preservare il legame affettivo con il genitore, fondamentale per la crescita del bambino e per la sua stabilità emotiva. Un legame che svolge un’importante funzione preventiva rispetto a fenomeni quali devianza giovanile, abbandono scolastico, illegalità, molto più frequenti in presenza di un’interruzione del rapporto genitori figli. Una campagna per superare i pregiudizi di cui sono spesso vittime questi bambini, che si trovano a pagare per un crimine che non hanno commesso, perché troppo spesso stigmatizzati ed emarginati, e per ricordare che il figlio di genitori detenuti è innanzitutto un bambino con i suoi bisogni e i suoi diritti. Proprio su questo si impegna da 15 anni l’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus che ha firmato il Protocollo-Carta dei diritti dei Figli di genitori detenuti - la prima in Europa nel suo genere, col Ministro di Giustizia e il Garante dell’Infanzia e dell’adolescenza - che riconosce formalmente i diritti di questi bambini, in particolare il diritto alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore in attuazione dell’art. 9 della Convenzione Onu. In linea con la Carta dei Diritti, Bambinisenzasbarre, per un processo di trasformazione degli istituti penitenziari, ha realizzato lo Spazio Giallo all’interno delle carceri, ambienti protetti di attenzione e ascolto. Grazie agli Spazi Gialli Bambinisenzasbarre intende attenuare l’impatto del bambino con il carcere e, contemporaneamente, garantire la continuità del rapporto affettivo con il genitore. Attualmente gli Spazi Gialli sono presenti negli istituti di Lombardia, Piemonte, Toscana e Campania, ma l’obiettivo dell’Associazione è di dotare ogni carcere italiano del proprio Spazio Giallo. Per questo, i fondi raccolti dalla Campagna “Dona un abbraccio” verranno destinati alla realizzazione di nuovi Spazi Gialli nelle carceri italiane, al fine di garantire a tutti i 100 mila bambini che fanno visita al genitore un luogo fatto su misura per loro. Menzogne e insulti, così si alimenta l’odio di Angela Azzaro Il Dubbio, 28 novembre 2017 Le conseguenze della post-verità. “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. La frase che sembra diventata la bibbia della politica contemporanea è nata da un personaggio tutt’altro che amabile, stiamo parlando del gerarca nazista Joseph Goebbels che di propaganda ne sapeva una più del diavolo. E se questa “verità” era valida per i regimi totalitari e sanguinari, lo è ancora di più nell’epoca di internet, della crisi delle ideologie, nell’epoca in cui è stato teorizzato il concetto di post verità, cioè una cosa non vera che, appunto, a forza di ripeterla diventa reale... Basta un click. Anzi, basta scrivere una fesseria, prendere di mira qualcuno, mettere il tutto in rete e il popolo odiatore sarà pronto a condividere quel contenuto ripetendolo cento, mille, un milione di volte. La campagna elettorale americana che ha visto gli sfidanti Trump e Clinton contendersi la Casa bianca è stata caratterizzata dall’uso di fake news. Ma ormai nessun Paese è immune e l’inchiesta del New York Times e di Buzzfeed dimostrano come anche in Italia il problema è molto radicato e che nessun frequentatore di siti, social e web in generale sia stato immune dall’incontrare delle bufale. La novità, se di novità in senso stretto si tratta, è la quantità di odio che queste false notizie diffondo- no. I due fenomeni sono strettamente correlati: più si odia, più si producono fake news; più si producono fake news, più si odia. È un cortocircuito pazzesco che colpisce soprattutto le forze politiche populiste che sul sentimento dell’odio e di identificazione quasi carnale con il capo hanno costruito il loro successo elettorale. La crisi delle grandi ideologie, con i loro disastri ma anche il loro portato di idealità e socialità, ha lasciato il campo libero ai sentimenti primari: odio o amore, amico o nemico, stai con me o contro di me. E la linea di demarcazione è costruita con le notizie false, destinate a prendere di mira soprattutto il diverso, il migrante, l’altro da sé. Spesso il confine tra menzogna e verità è veramente labile, difficile da identificare. Ha ragione Beppe Grillo quando dice che “se sono un tifoso di calcio e apro una pagina in cui diffondo notizie false sul Torino non significa che io sia a libro paga della Juventus”. Ma la dirigenza di quella squadra è tenuta a prendere le distanze dai suoi tifosi promuovendo campagne di sensibilizzazione e di informazione. Lo stesso vale per la politica. Dopo le inchieste del Nyt e di Buzzyfeed è importante chiarire i rapporti tra vari siti e movimenti politici, promuovere la trasparenza, ma è soprattutto importante prendere le distanze da chi usa il web come se fosse una zona di nessuno, senza regole. La menzogna vale lì, soprattutto lì dove è più facile diffonderla. Valgono gli insulti, l’incitamento all’odio, la diffamazione. E legge o non legge sulle fake news (alcuni la chiedono, altri vedono un rischio per la libertà d’espressione), qualcosa va fatta per fermare questa ondata di inciviltà. Guerra e pace. A Ghedi 30 F-35 con 60 bombe nucleari di Manlio Dinucci Il Manifesto, 28 novembre 2017 L’aeroporto militare in provincia di Brescia si prepara a diventare una delle principali basi operative per i caccia della Lockheed Martin. L’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) si prepara a divenire una delle principali basi operative dei caccia F-35. Il ministero della Difesa ha pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il bando di progettazione (importo 2,5 milioni di euro) e costruzione (importo 60,7 milioni di euro) delle nuove infrastrutture per gli F-35: l’edificio a tre piani del comando con le sale operative e i simulatori di volo; l’hangar per la manutenzione dei caccia, 3.460 metri quadri con un carroponte da 5 tonnellate, più altre strutture da 2.800 metri quadri; un magazzino di altro 1.100 con annesse una palazzina di due piani per uffici e la centrale tecnologica con cabina elettrica e vasche antincendio; 15 hangaretti da 440 metri quadri in cui saranno dislocati i caccia pronti al decollo. Poiché ciascun hangaretto ne potrà ospitare due, la capienza complessiva sarà di 30 F-35. Tutti gli edifici saranno concentrati in un’unica area recintata e videosorvegliata, separata dal resto dell’aeroporto: una base all’interno della base, il cui accesso sarà vietato allo stesso personale militare dell’aeroporto salvo che agli addetti ai nuovi caccia. Il perché è chiaro: accanto agli F-35A a decollo e atterraggio convenzionali - di cui l’Italia acquista 60 esemplari insieme a 30 F-35B a decollo corto e atterraggio verticale - saranno dislocate a Ghedi le nuove bombe nucleari statunitensi B61-12. Come le attuali B-61, possono essere anch’esse sganciate dai Tornado PA-200 del 6° Stormo ma, per guidarle con precisione sull’obiettivo e sfruttarne le capacità anti-bunker, occorrono i caccia F-35A dotati di speciali sistemi digitali. Poiché ciascun caccia può trasportare nella stiva interna 2 bombe nucleari, possono essere dislocate a Ghedi 60 B61-12, il triplo delle attuali B-61. Come le precedenti, le B61-12 saranno controllate dalla speciale unità statunitense (704th Munitions Support Squadron della U.S. Air Force), “responsabile del ricevimento, stoccaggio e mantenimento delle armi della riserva bellica Usa destinate al 6° Stormo Nato dell’Aeronautica italiana”. La stessa unità dell’Aeronautica Usa ha il compito di “sostenere direttamente la missione di attacco” del 6° Stormo. Piloti italiani vengono già addestrati, nelle basi aeree di Eglin in Florida e Luke in Arizona, all’uso degli F-35 anche per missioni di attacco nucleare. Caccia dello stesso tipo, armati o comunque armabili con le B61-12, saranno schierati nella base di Amendola (Foggia), dove un anno fa è arrivato il primo F-35, e in altre basi. Vi saranno, oltre a questi, gli F-35 della U.S. Air Force schierati ad Aviano con le B61-12. Su questo sfondo richiedere, come ha fatto alla Camera il Movimento 5 Stelle, che l’Italia dichiari la sua “indisponibilità ad acquisire le componenti necessarie per rendere gli F-35 idonei al trasporto di armi nucleari”, equivale a richiedere che l’esercito sia dotato di carrarmati senza cannone. Il nuovo caccia F-35 e la nuova bomba nucleare B61-12 costituiscono un sistema d’arma integrato. La partecipazione al programma dell’F-35 rafforza l’ancoraggio dell’Italia agli Stati uniti. L’industria bellica italiana, capeggiata dalla Leonardo che gestisce l’impianto di assemblaggio degli F-35 a Cameri (Novara), viene ancor più integrata nel gigantesco complesso militare-industriale Usa capeggiato dalla Lockheed Martin, la maggiore industria bellica del mondo (con 16.000 fornitori negli Usa e 1.500 in 65 altri paesi), costruttrice dell’F-35. Lo schieramento sul nostro territorio di F-35 armati di bombe nucleari B61-12 subordina ancor più l’Italia alla catena di comando del Pentagono, privando il Parlamento di qualsiasi reale potere decisionale. Crimini di guerra: Usa e Russia non condannabili di Massimo Introvigne Italia Oggi, 28 novembre 2017 La giustizia internazionale non può infatti processarli. L’ex generale Ratko Mladic è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Per capire la portata giuridica e politica della sentenza, è anzitutto importante evitare una facile confusione. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia è un organo ad hoc istituito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1993 e che avrebbe dovuto terminare la sua esistenza nel 2010. È stato mantenuto in vita per concludere tre processi pendenti, ma chiuderà comunque il mese prossimo. L’appello di Mladic sarà discusso da un diverso tribunale, chiamato Meccanismo per i tribunali penali internazionali, creato dalle Nazioni Unite nel 2010 al solo scopo di gestire gli appelli contro le sentenze rese dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia presentati dopo il 1° luglio 2013, nonché gli appelli contro le sentenze del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, che ha cessato di esistere nel 2015. Va sottolineato che tutti questi organismi (Tribunale per la ex Jugoslavia, Tribunale per il Ruanda e Meccanismo) sono diversi rispetto alla Corte penale internazionale, che è anch’essa un organo delle Nazioni Unite, ha anch’essa sede a L’Aja, ma ha una giurisdizione universale rispetto ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità, non limitata a specifici conflitti. C’è poi una differenza essenziale tra la Corte penale internazionale e gli altri tribunali citati: tre Stati che fanno parte del Consiglio di Sicurezza (Stati Uniti, Russia e Cina) non riconoscono la Corte penale internazionale, mentre riconoscono i tribunali che si occupano dell’ex Jugoslavia e dell’ex Ruanda. Tutto questo può sembrare molto tecnico, ma è decisivo dal punto di vista politico. I tribunali citati sono espressione di un principio nato con Henry Dunant (1828-1910), il filantropo svizzero che fondò la Croce Rossa: anche le guerre hanno regole, e chi le viola va punito. Già gli antichi Romani e il Medioevo avevano uno ius in bello, ma con Dunant nasce il moderno diritto umanitario internazionale, che prevede sanzioni comminate da tribunali internazionali per chi viola le regole di una guerra “pulita”. Sulla base di successive convenzioni, il diritto umanitario internazionale si è poi sdoppiato: il “diritto dell’Aja” definisce e punisce i crimini commessi in guerra da una delle parti in conflitto contro un’altra, mentre il “diritto di Ginevra” prevede e punisce i crimini commessi in tempo di guerra contro i civili. Le espressioni attuali più importanti del diritto internazionale umanitario sono i Protocolli I e II alla Convenzione di Ginevra, firmati nel 1977. Ma questo diritto non è completamente “internazionale” perché cinque Stati (Israele, Stati Uniti, Turchia, Pakistan e Iran) o non hanno firmato o non hanno ratificato i Protocolli, e Iraq e India vi aderiscono solo parzialmente. Tradotto in termini pratici, questo significa che proprio gli Stati più spesso impegnati in operazioni militari (Stati Uniti, Israele, Iran, Pakistan, Turchia, India, e per quanto riguarda la Corte penale internazionale anche Russia e Cina) preferiscono in sostanza tenersi le mani libere, e non hanno nessuna intenzione di farsi giudicare da corti internazionali sulla base di standard precisi relativi a che cosa si può e non si può fare in guerra e quali sono le linee rosse da non valicare nel trattamento dei civili. Come è evidente, questo solleva un dubbio sui tribunali internazionali. È probabile che i condannati siano in effetti colpevoli di crimini di guerra. Ma si processano serbi e ruandesi, mentre nessuno presenterà mai il conto a un generale russo o americano (ovviamente con una differenza fra i due: in America dei militari che commettono atrocità si occupano talora davvero i tribunali nazionali, il che non succede in Russia). Così, nella comunità internazionale, la soddisfazione perché alcuni crimini di guerra sono talora puniti non può essere totale. Rimane l’impressione dei due pesi e delle due misure, e che alcuni Stati siano più uguali degli altri. Ius soli verso lo stop, Renzi sceglie il fine vita di Alberto Gentili Il Messaggero, 28 novembre 2017 Il sì alla cittadinanza giudicato un assist elettorale al centrodestra. quando a palazzo Madama si riunirà la conferenza dei capigruppo per decidere il calendario di dicembre. Ma dai segnali lanciati negli ultimi giorni da Matteo Renzi, tutto porta a credere che il biotestamento abbia messo la freccia e stia per superare lo Ius soli. Dietro al probabile sorpasso della legge sul fine vita ai danni del provvedimento che darebbe la cittadinanza ai figli dei migranti nati in Italia, ci sono ragioni politiche ed elettorali. Campo progressista di Giuliano Pisapia e i radicali di Emma Bonino chiedono da tempo a Renzi di varare sia l’uno che l’altro, quale segno di attenzione del Pd alle questioni programmatiche poste dai promessi alleati. Ma il segretario dem deve fare i conti con due questioni. La prima è legata al fattore tempo e alla necessità di garantire “una fine ordinata della legislatura” (sollecitata dal Quirinale e condivisa da palazzo Chigi). Ebbene, con il probabile scioglimento del Parlamento a inizio gennaio, di tempo ce n’è poco. Il Senato, dove da mesi sono parcheggiati sia il biotestamento che lo Ius soli, darà il via libera alla legge di bilancio entro giovedì. Ciò significa - visto che la settimana successiva l’aula di palazzo Madama sarà impegnata ad approvare il nuovo regolamento e che dal 18 al 23 dicembre dovrà dare il definitivo via libera alla manovra economica una volta corretta dalla Camera - che il Senato ha appena cinque giorni di lavoro da dedicare agli altri provvedimenti. Da qui la necessità di Renzi e del premier Paolo Gentiloni di scegliere tra biotestamento o Ius soli. In più, e qui si arriva al tema della “fine ordinata della legislatura”, per approvare la legge sulla cittadinanza è indispensabile la fiducia. “E dato che Alternativa popolare continua a dire di no”, dicono al Nazareno, “c’è il concreto rischio di andare sotto. Inutile dire che sarebbe una tragedia ritrovarsi con la crisi di governo, mentre il Parlamento è ancora in piena sessione di bilancio”. Tanta prudenza porta all’altra questione sul tavolo di Renzi. Quella elettorale. Da giorni il segretario dem parla solo e soltanto di biotestamento, tacendo sullo Ius soli. Venerdì scorso, entrando alla Leopolda, ha messo a verbale: “Sul fine vita credo ci siano i numeri in Senato, in più la maggioranza del mondo cattolico è d’accordo dopo le parole di papa Francesco”. E adesso nel suo entourage aggiungono: “Proveremo ad approvare sia il biotestamento che lo Ius soli, ma in Senato ha più probabilità di passare il primo piuttosto che il secondo. Inoltre se approviamo la legge sulla cittadinanza facciamo un gran favore a Berlusconi, Salvini e Meloni che avrebbero buon gioco ad attaccarci in campagna elettorale. Il Cavaliere ha già cominciato domenica da Fazio... Non gli daremmo lo stesso vantaggio con il fine di vita: la legge è meno divisiva, memo impopolare, piace ai cattolici che ascoltano le parole del Papa e ai laici di centrodestra”. Insomma, se Renzi dovrà buttare giù dalla torre un provvedimento, quello sarà lo Ius soli. Resterà, in ogni caso, da affrontare il “come” varare il biotestamento sui cui grava la minaccia di una valanga di emendamenti. Il leader del Pd, per dribblare l’ostruzionismo, spinge Gentiloni a porre la fiducia. Ma a palazzo Chigi sono titubanti. Perché “è una materia squisitamente etica che riguarda le coscienze”. Perché con il “no” di Alternativa popolare anche questa fiducia è a rischio, nonostante il prevedibile “soccorso” di Mdp di Pierluigi Bersani. E perché, come ha più volte osservato il capogruppo dem in Senato, Luigi Zanda, con la fiducia non si potrebbero incassare i voti dei Cinquestelle (i grillini si sono detti ufficialmente d’accordo) e dei parlamentari laici del centrodestra. “La verità è che non si possono fare previsioni”, allargano le braccia nel gruppo dem di palazzo Madama, “sarà possibile decidere come tentare l’approvazione del biotestamento solo poche ore prima di andare in Aula, contando i voti uno ad uno”. Un segnale, Renzi, a Pisapia e Bonino comunque lo deve mandare. E presto. Al massimo entro la settimana. Migranti. Il fallimento italiano in Africa non insegna nulla di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 28 novembre 2017 Che cosa è andato a fare in Tunisia il Presidente del Consiglio? Ecco la risposta sintetica di diversi quotidiani: “Portare aiuti alla Tunisia perché chiuda la rotta ai migranti”. Gentiloni visiterà altri paesi africani, ma non andrà in Libia. Comunque, già che era da quelle parti, si è espresso anche sulle relazioni sulla ex-colonia: dopo aver dichiarato che le condizioni dei migranti sub-sahariani in Libia sono “terrificanti” e “disumane”, ha auspicato un miglior coordinamento con le “autorità libiche” per lottare contro “il traffico di essere umani”. Gentiloni è uomo sensibile ai diritti umani e sociali, sembra. E allora perché rilasciare dichiarazioni tanto contraddittorie, al limite dell’insensatezza, per chi lo legge o lo ascolta? Se le condizioni dei migranti sono così atroci - come riportano i media di tutto il mondo, Ong varie e Nazioni Unite - perché accordarsi con i responsabili delle atrocità, cioè fazioni che non governano nulla, signori della guerra e capi delle milizie che imperversano in Libia? La risposta è semplice: al governo italiano importa solo che i migranti non partano per l’Italia, quale che sia il loro destino. E infatti proprio mentre Gentiloni parlava annegavano in mare e pure “dilaniati dagli squali” altri disperati fuggiti dalle coste libiche e i sopravvissuti al naufragi subito sono stati riportati nei centri di detenzione in Libia. Ecco il senso dei famosi accordi di Minniti, il braccio poliziesco del governo Gentiloni, con il fantomatico governo Serraj e gli altri capi bastone. Non bisogna stancarsi di ripetere che si tratta di uno scambio orrendo, che copre di vergogna il nostro paese: l’Italia dà aiuti militari ai libici perché ci tengano lontano i migranti, perché insomma se ne occupino loro come preferiscono. La cosa è talmente ovvia che è stato lanciato dal governo italiano un bando perché le Ong gestiscano i centri di detenzione in Libia. Come dire: sappiamo che quelli li torturano, li derubano e un po’ li uccidono. Andate un po’ a vedere se riuscite a farli torturare e uccidere un po’ meno. Se mai una Ong accetterà, bisognerà denunciarla come connivente del governo italiano e quindi di quei libici che uccidono e torturano. Il governo italiano ha talmente la coda di paglia in materia che la ministra Pinotti ha dichiarato che il “terrificante” trattamento dei migranti è precedente agli accordi di Minniti con i libici E allora, se lo si sapeva - e Minniti, con tutti i servizi segreti che frequenta da anni, non poteva non saperlo -, perché fare accordi con quelli? Non era ovvio, allora come oggi, che l’ossessione per il blocco delle rotte migratorie, nell’Africa sahariana e nel mar Mediterraneo, avrebbe causato una violazione di massa dei diritti umani, e cioè stragi per terra e per mare? Tra quegli accordi ce n’era uno davvero letale: che sia la guardia costiera libica, dotata di navi italiane, a occuparsi di fermare i barconi in acque internazionali, impedendo i soccorsi alle navi delle Ong umanitarie. Le quali, di fatto, hanno dovuto fermare gli interventi (anche a questo e non altro è servita l’immonda campagna contro i salvataggi promossa dalla destra, da Salvini a Di Maio). E così si moltiplicano le denunce dell’inazione italiana, come ha fatto ieri Sos Méditerranée e delle aggressioni della guardia costiera libica contro le navi umanitarie. E si moltiplicano nell’indifferenza generale gli annegamenti di uomini, donne e bambini. Naufragi e sbarchi sono ripresi alla faccia del nostro governo (quanto ad Alfano, il diretto interessato, chi l’ha visto?). Insomma, Minniti ha fallito l’obiettivo che si era posto, e cioè delegare tutta la faccenda agli africani. Ma il fallimento non insegna nulla. Anzi. Oggi Gentiloni è ad Abidjan al vertice Europa-Africa con un po’ di imprenditori pubblici e privati al seguito. Ci va, buon ultimo dopo Francia e Germania, per fare un po’ d’affari e soprattutto per generalizzare a tutta l’Africa la lotta contro “il traffico di esseri umani”, cioè per bloccare le emigrazioni in partenza. Visti gli effetti degli accordi con La Libia, nuove stragi si annunciano. Sos Méditerranée: “Soccorsi dei migranti fermati dall’Italia” di Adriana Pollice Il Manifesto, 28 novembre 2017 L’Ong: “Costretti ad aspettare l’arrivo delle navi libiche senza poter fare niente”. In 420 sbarcano a Catania, 98 sono bambini. La nave Aquarius della Ong Sos Méditerranée, che ha a bordo gli operatori di Medici senza frontiere, è arrivata ieri mattina a Catania con 420 migranti, salvati sabato da un barcone sul punto di affondare. Un bambino eritreo di 3 anni è stato portato via in elicottero prima dell’attracco perché soffriva di crisi epilettiche e respiratorie. Uomini, donne e i 98 minori, erano tutti sofferenti per le condizioni in cui sono stati tenuti per mesi. I volontari dell’Aquarius, all’arrivo in porto, hanno messo sotto accusa l’Italia e il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma per come sono state gestite le operazioni in mare. Venerdì all’alba l’Aquarius ha individuato un primo gommone in pericolo in acque internazionali, a 25 miglia dalla costa, a est di Tripoli, e poi un secondo gommone ma ha ricevuto l’ordine da Roma di restare in stand-by, il coordinamento delle operazioni era stato assunto dalla marina libica. “La nostra proposta di assistenza è stata declinata dalla Guardia costiera libica - ha spiegato Nicola Stalla, coordinatore dei soccorsi di Sos Méditerranée -. Durante le quattro ore di stand-by le condizioni meteo sono peggiorate, il gommone poteva rompersi e affondare da un momento all’altro”. Sophie Beau, vicepresidente dell’Ong, spiega: “I nostri team sono stati costretti a osservare impotenti operazioni che conducono a rimandare indietro persone che fuggono da campi che i sopravvissuti descrivono come un inferno. Non possiamo accettare di vedere esseri umani morire in mare né di vederli ripartire verso la Libia quando la loro imbarcazione è intercettata dalla Guardia costiera libica”. Si schiera contro il Centro di coordinamento di Roma anche Msf: “All’Aquarius è stato impedito il soccorso di gommoni che stavano per fare naufragio - ha spiegato Luca Salerno -. Eravamo in acque internazionali, invece di essere autorizzati a intervenire ci hanno messo in stand-by per ore in attesa dell’arrivo di motovedette e navi libiche. Adesso i migranti possano tornare in mano ai trafficanti, a correre nuovamente rischi in mare oltre a torture e altro”. Gli accordi voluti dal ministro Marco Minniti con Tripoli stanno rendendo più pericolose le operazioni di Ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Il sei novembre la Ong Sea Watch ha accusato la Guardia costriera libica di aver causato la morte di almeno 50 migranti durante le operazioni di salvataggio. Il primo novembre la stessa Guardia costiera libica ha esploso alcuni colpi di avvertimento in direzione della fregata tedesca Mecklemburg-Vorpommern, a 50 miglia dalla costa africana, per poi scusarsi ufficialmente. I migranti che riescono ad arrivare in Italia raccontano le loro storie. I 420 sbarcati ieri hanno descritto abusi sessuali e violenze, sigarette spente sulla pelle mentre dall’altra parte del telefonino ci sono i parenti per convincerli a pagare per la loro liberazione. “Quasi i due terzi sbarcati ieri - spiega Luca Salerno - hanno la scabbia, segno della mancanza di igiene e d’acqua a cui sono stati costretti durante la detenzione nelle prigioni in Libia. Il 40% sono donne: una ha il bacino fratturato e altre due hanno partorito nelle prigioni, i bambini hanno 3, 5 giorni”. L’Aquarius nell’ultima settimana ha soccorso 808 migranti: 387 tra mercoledì e giovedì scorsi; 421 sabato. La maggioranza, riferisce la Ong, “mostra le cicatrici delle violenze subite, segni di malnutrizione, disidratazione e stanchezza estrema”. I naufraghi intercettati sabato erano parte di uno gruppo detenuto a Sabratha, poi trasferito a Bani Walid, uno dei centri del traffico di esseri umani. “Eravamo nella stessa prigione a Sabratha - ha raccontato un eritreo -. Un mese fa, a causa della guerra, siamo stati separati in gruppi di 20 persone, caricati su dei furgoni e trasferiti a Bani Walid e poi ammassati in un’altra prigione. Venivamo picchiati con cavi elettrici, eravamo proprietà dello stesso boss, altre 600 persone appartenevano a un altro boss”. Venerdì il viaggio è ripreso: “Siamo stati trasferiti su una spiaggia, costretti ad aspettare in pieno sole, senza acqua né cibo. Il barcone ha lasciato la Libia sabato all’alba. Alcuni hanno pagato mille dollari, uno mi ha detto di averne pagati 6mila”. Germania. Dopo 140 giorni di carcere Vettorel torna libero, ma con l’obbligo di firma di Beppe Caccia Il Manifesto, 28 novembre 2017 G20 di Amburgo. Fino all’ultimo sono stati frapposti cavillosi ostacoli burocratici, come la richiesta che la (già gravosa) cifra di 10.000 euro di cauzione fosse personalmente versata da Fabio e non dai suoi familiari. Si è concluso alle 12.34 di ieri l’incubo carcerario di Fabio Vettorel. Alla conclusione dell’ennesima udienza del processo a carico del diciottenne bellunese per le manifestazioni contro il G20 del luglio scorso ad Amburgo, dopo l’ennesima inconsistente testimonianza di un poliziotto, gli agenti penitenziari, che abitualmente lo riaccompagnavano in manette alla prigione minorile di Hanofersand, si sono ritirati. E Fabio ha potuto riabbracciare la madre e le decine di attiviste e attivisti tedeschi che lo attendevano fra il pubblico in aula e all’esterno dell’Amtsgericht di Altona. Il rilascio avviene dopo dieci giorni di surreali rimpalli tra la corte che lo sta giudicando, gli uffici della Procura e le istanze d’appello. La pubblica accusa si era strenuamente opposta, più volte e in tutti i possibili gradi di giudizio, alla decisione del Tribunale di Amburgo che il 16 novembre scorso aveva accolto la richiesta della difesa di procedere alla rimessa in libertà dello studente-lavoratore di Feltre. La battaglia legale è arrivata fino alla Corte federale di giustizia (equivalente della nostra Cassazione) a Karlsruhe, che solo venerdì pomeriggio si era pronunciata a favore della scarcerazione, rigettando in via definitiva i ricorsi della Procura. Fino all’ultimo sono stati frapposti cavillosi ostacoli burocratici, come la richiesta che la (già gravosa) cifra di 10.000 euro di cauzione fosse personalmente versata da Fabio e non dai suoi familiari. Del resto, fino alla conclusione del dibattimento, prevista metà febbraio 2018, il giovane sarà sottoposto a pesanti limitazioni della libertà personale, con il vincolo di risiedere ad Amburgo e l’obbligo di presentarsi giornalmente presso un commissariato di polizia per la firma. Queste intanto sono ore di festeggiamenti. E di riflessioni sul profilo kafkiano della vicenda. “L’attesa è finita - ha dichiarato Emily Laquer, portavoce della della piattaforma StopG20 - L’ingiustizia commessa nei suoi confronti dovrebbe essere di monito per tutti noi. C’è una parola che dovremmo meglio apprendere: solidarietà”. Gli oltre 140 giorni trascorsi in carcere da Fabio Vettorel, la cui unica colpa è stata quella di essersi recato ad Amburgo per partecipare, insieme a decine di migliaia di altri, alle proteste contro il G20, sono apparsi fin dall’inizio una mirata vendetta di Stato nei confronti del significato e del successo di quelle mobilitazioni, capaci di denunciare il ruolo dei “potenti della Terra” nelle crescenti ingiustizie sociali, nella crisi ecologica, nello sfruttamento delle persone e dei beni comuni. Una vendetta condotta con determinazione politica e accanimento giudiziario, in spregio a diversi principi e regole dello “stato di diritto”. In Germania è stata denunciata da mobilitazioni di movimento, dai deputati della Linke e da numerose voci degli stessi media mainstream. In Italia ha visto la presentazione di svariate interrogazioni parlamentari, da Sinistra Italiana al Pd e 5S, gli interventi dei Giuristi Democratici e di Amnesty, oltreché un tardivo interessamento della “grande stampa” e il vergognoso silenzio del Governo nazionale. Tuttavia, come Fabio ha scritto nella coraggiosa dichiarazione spontanea pronunciata durante il processo, “nessun tribunale potrà fermare la nostra sete di libertà, la nostra volontà di costruire un mondo migliore”. La carestia ucraina, una pagina da non dimenticare di Maurizio Caprara La Stampa, 28 novembre 2017 I dirigenti delle forze politiche italiane oggi dovrebbero trovare un’intesa per aumentare la conoscenza dell’Holomodor. Ammesso che molti di loro non ne siano all’oscuro. O non temano di irritare il Cremlino. Mentre lo scorrere del tempo ci allontana da massacri del Novecento, il ricordo di quegli orrori accentua il suo valore affinché questi non siano ripetuti. Faremmo bene dunque a non conservare enclave di ignoranza o oblio nelle nostre consapevolezze collettive sul XX secolo. A fine novembre viene commemorato ogni anno in Ucraina l’Holodomor: se si domandasse nelle scuole italiane il senso della parola, la maggior parte delle risposte sarebbe “non so”. Lo stesso avverrebbe tra gli adulti. Non è giusto che le cose stiano così. Non lo è perché l’Holodomor fu una delle pagine peggiori della storia del secolo scorso. L’espressione significa infliggere la morte per fame. Indica la carestia pilotata dal partito bolscevico di Stalin che, tra 1932 e 1933, tolse la vita a milioni di persone. Secondo ricerche degli anni 80 e 90, in Ucraina circa quattro milioni (oltre a un milione in Kazakistan, un altro in Caucaso del Nord e Terre nere). Stando a stime recenti, dieci milioni e più. Obiettivo del segretario dei comunisti sovietici era innanzitutto liquidare i kulak, agricoltori benestanti (o accusati di esserlo) che difendevano un tessuto sociale fondato sulle tradizioni, restìo alla statolatria bolscevica. Stalin li fece perseguitare con confische di raccolti, deportazioni, torture, eliminazioni. La fame determinò anche cannibalismo. In Italia la “Grande carestia” ucraina è stata a lungo nascosta da silenzi. Benito Mussolini, che allora ne veniva informato da diplomatici, si guardò dall’alzare la voce contro l’Unione Sovietica. Gran parte della storiografia comunista si allineò poi ai silenzi sovietici, rotti in era di Michail Gorbaciov. I dirigenti delle forze politiche italiane oggi dovrebbero trovare un’intesa per aumentare la conoscenza di questa pagina della storia. Ammesso che molti di loro non ne siano all’oscuro. O non temano di irritare il Cremlino. “Basta corruzione”, in Romania mai così tanti in piazza di Andrea Tarquini La Repubblica, 28 novembre 2017 Al grido di “Tutto per la giustizia” i cittadini si sono radunati ieri a Bucarest. Manifestazioni in 80 città, mobilitate da 42 associazioni, sindacati e Ong. “Hoti, Hoti”, cioè “ladri, ladri”, gridano ormai quasi ogni giorno i dimostranti: ancora una volta la società civile scende in piazza in Romania a Bucarest e, secondo i media, anche in altre ottanta città del Paese. Ieri sera l’ennesima protesta è stata organizzata a Bucarest dai sindacati e da diverse Ong e associazioni. Protestano contro una riforma fiscale che penalizza in modo brutale i salariati, e ancor più contro i ricorrenti tentativi della maggioranza di governo guidata dal Partito socialdemocratico di voler ridurre le pene per i reati di corruzione, e di affossare le indagini della giustizia sui suoi leader accusati, indagati e - nel caso del loro leader - anche già condannati. “Non sfuggirete”, “giù le mani dalla giustizia”, gridavano ieri sera migliaia e migliaia di persone nella centralissima Piata Victoriei davanti alla sede del governo nella capitale. Cortei e proteste, con migliaia di manifestanti, hanno marciato con gli stessi slogan in molti altri grandi centri del Paese. La società civile, nella dinamica Romania democratica che vanta una crescita economica attorno al 5 per cento annuo del prodotto interno lordo, dice “basta alla corruzione”, “si rivela migliore dei suoi governanti”, dicono gli osservatori diplomatici occidentali a Bucarest. Almeno quarantadue organizzazioni, dalla centrale sindacale Blocul national sindical alle ong per la trasparenza, hanno invitato con successo i cittadini a scendere in piazza, scrive il sito di Romania libera, il principale quotidiano indipendente, molto critico con il governo. “Il nostro Paese sta vivendo uno dei momenti più gravi dalla fine del comunismo, chiediamo le dimissioni dell’esecutivo”, dicono i dimostranti. Il potere fa quadrato, ma la sua posizione è difficile e compromessa. L´uomo politico più influente e potente di Romania, il leader socialdemocratico e presidente della Camera, Liviu Dragnea, già colpito da una condanna e ora nuovamente condannato per presunta malversazione di fondi nazionali ed europei, si è visto sequestrare i beni. La Directia Nationala Anticoruptiei, organo giudiziario anticorruzione, controlla ogni suo avere. Lui si difende negando tutto: “è una macchinazione politica di certi magistrati che vogliono costituire faziosamente un contropotere politico”, ha detto nei giorni scorsi. Ma lo scontro è aperto, e lo vedi in piazza ogni giorno. Birmania. Scomparsi gli attivisti che denunciavano i crimini contro i Rohingya La Stampa, 28 novembre 2017 Il sospetto è che i “mobile reporter” siano stati rapiti e uccisi dai militari. Molti reporter che hanno raccontato le persecuzioni dei Rohingya, inviando dallo stato di Rakhine segretamente foto, video e audio usando gli smartphones, sono scomparsi. Lo denunciano organizzazioni per i diritti umani che temono che la giunta militare della Birmania abbia fatto rapire, o addirittura uccidere, questi reporter per smantellare queste reti clandestine di informazione. La denuncia è stata diffusa da Mohammad Rafique, rifugiato che cura il portale della minoranza musulmana birmana vittima di persecuzioni, che afferma che il “oltre il 95%” dei cosiddetti “mobile reporter”, cioè attivisti che si trasformano in giornalisti usando che lo smartphone, sono scomparsi da quando è iniziata la repressione. “Le forze di sicurezza birmane e le milizie dello stato di Rakhine sono ancora responsabili di stupri, uccisioni ed incendi nei villaggi Rohingya - ha scritto Rafique, secondo quanto riporta il Guardian - ma il network dei mobile reporter ora non funziona e le informazioni dettagliate di queste violenze, che sono necessarie per trasmettere articoli credibili, non arrivano” alle organizzazioni per i diritti umani e quindi ai media internazionali. “Noi estremamente preoccupati per il fatto che questi orribili abusi, compresi stupri, uccisioni ed incendi, non vengano documentati” ha dichiarato Adilur Rahman Khan, del gruppo Odhikar, esprimendo la convinzione che i militari stiano cercando di azzerare la rete di “mobile reporter”. Noor Hossain, 25enne Rohingya che è riuscito all’inizio di settembre a scappare in Bangladesh dopo essersi esposto ad altissimi rischi per documentare le razzie dell’esercito, racconta che i mobile reporter “si nascondono all’arrivo dei militari nei villaggi e dopo i raid, con gli smartphone fotografano e raccolgono testimonianze delle violenza, inviando tutto subito su Internet”. “Le forze di sicurezza puntano ad uccidere gli uomini Rohingya che trovano con gli smartphone”, ha detto ancora, denunciando che molti giovani che si battono per i diritti “sono stati fatti sparire dalle forze di sicurezza”.