Nelle carceri italiane c’è un suicidio ogni 7 giorni openpolis.it, 27 novembre 2016 Lo dicono i dati del Ministero della Giustizia. Ma se si contano anche le morti meno chiare, comunque legate al disagio della detenzione, si arriva a un numero ancora più alto. Un calo si segnala in seguito alla riduzione del sovraffollamento. L’istituto dove ce ne sono stati di più è Poggioreale. Pochi dati mettono il luce il disagio nelle carceri come quello dei suicidi, un dramma che coinvolge sia i detenuti che gli agenti di custodia. Su questi ultimi non esiste una statistica ufficiale, ma fonti sindacali parlano di almeno 100 suicidi dal 2000 ad oggi. Il ministero della giustizia pubblica annualmente il dato dei suicidi avvenuti tra i carcerati dal 1992. Oltre al governo, anche l’associazione per i diritti dei detenuti Ristretti Orizzonti tiene traccia di questa statistica, presentando un dato che, per alcuni anni, è addirittura superiore a quello ufficiale. In base ai dati del ministero, dal 1992 in media si è suicidato un detenuto alla settimana. Entrambe le fonti segnano comunque una riduzione successiva al contenimento del sovraffollamento. La statistica riportata da Ristretti Orizzonti nel suo dossier "Morire di carcere" non vuole sostituirsi quella ufficiale, né smentirla. L’intenzione è semmai quella di raccogliere maggiori informazioni sul profilo di chi si suicida in carcere; accanto ai suicidi accertati, comprende anche le morti meno chiare, comunque legate al disagio della detenzione. Proprio questi dati ci permettono alcune considerazioni ulteriori sui detenuti che si uccidono nelle carceri italiane. Dal 2009 al 31 agosto 2016, le "morti di carcere" registrate dall’associazione sono state 423. Si tratta di persone in larga parte comprese tra i 25 e i 44 anni di età, anche se l’incidenza è alta anche tra i giovanissimi (20-24 anni) e attorno ai 50 anni. Il metodo di uccisione più frequente è nel 77% dei casi l’impiccamento, seguito dall’asfissia con il gas (64 casi), l’avvelenamento (20) e il soffocamento (6). Nella triste classifica degli istituti penitenziari con più suicidi dal 2009, al primo posto Napoli Poggioreale (19 casi), seguito da Firenze Sollicciano (17) e Rebibbia a Roma (14). Tutti i numeri sugli stranieri in carcere in Europa (e in Italia) di Patrizio Gonnella openmigration.org, 27 novembre 2016 Cifra per cifra, le dimensioni di un fenomeno. Gli immigrati sono il 21% dei detenuti in Europa, la sorpresa Svizzera, l’Italia e il caso della custodia cautelare per gli stranieri I dati più aggiornati intorno alla situazione carceraria e alle misure alternative alla detenzione nell’Europa larga dall’Atlantico agli Urali sono raccolti dall’Università di Losanna nei rapporti Space I e Space II. In premessa va detto che non è facile sistematizzare informazioni provenienti da ben 47 Paesi molti dei quali non hanno uffici di rilevazione statistica dei dati penitenziari o comunque rispondono alle sollecitazioni accademiche - seppur avallate dal Consiglio d’Europa - con grave ritardo. Ciò spiega il fatto che i dati penitenziari europei più recenti sono del 2012 mentre, per esempio, in Italia possiamo disporre di rilevazioni quasi in tempo reale. Sono circa 800 milioni gli abitanti complessivi dell’Europa. I detenuti nelle carceri europee sono invece poco più di un milione e 700 mila, per la precisione 1 milione e 737 mila. I detenuti erano circa 100 mila in più l’anno precedente. Il tasso medio di incarcerazione è di circa 150 detenuti ogni 100 mila abitanti. Tra il 2011 e il 2012 in un numero ristretto, ma significativo, di Paesi vi è stato un decremento della popolazione detenuta superiore al 5%; tra questi vi sono la Federazione Russa, la Spagna, la Turchia e la Svezia. Ma anche in Inghilterra, Germania, Olanda vi è stata un’inversione percentuale, seppur meno significativa, rispetto a precedenti lunghi periodi di crescita. In Italia un calo sia in termini percentuali che assoluti è avvenuto tra il 2012 e il 2015. Quanto incide sui tassi di detenzione e sull’affollamento delle prigioni la componente straniera rispetto ai detenuti cosiddetti Nazionali? È essa la causa principale dei tassi nazionali di incarcerazione e di affollamento? La presenza media di immigrati nello spazio penitenziario europeo è del 21%. Poco più di un detenuto su cinque non ha il passaporto del Paese che lo imprigiona. La percentuali più basse si trovano, come era prevedibile che fosse, nei Paesi dell’est che non sono paesi tradizionali di immigrazione bensì di emigrazione. Le più alte percentuali si riscontrano in alcuni Paesi dell’Europa centrale (ad esempio Belgio e Austria). In Romania gli stranieri detenuti sono pochissimi, ovvero lo 0,6% rispetto al totale. In Albania la componente detenuta non albanese è dell’1,8%. In Turchia la componente reclusa non turca è dell’1,7%. In Svizzera la popolazione detenuta non elvetica è invece addirittura del 74,3%. Un numero impressionante che può essere spiegato anche in considerazione delle tradizionali chiusure frontaliere della Svizzera. Più nello specifico dei 4.896 detenuti stranieri in Svizzera (una parte dei quali italiani), solo 1.330 hanno un permesso regolare di soggiorno e ben 716 hanno lo status di richiedente asilo. Tutti gli altri sono invece irregolari. Gli immigrati che dispongono di regolare permesso di soggiorno, non solo in Svizzera, hanno tassi di devianza bassi. L’integrazione costituisce un’occasione non rinunciabile e di solito entra a far parte di un patto di rispetto delle regole di vita. Una percentuale di stranieri rispetto al totale della popolazione detenuta superiore al 40% (al di là di Andorra, Cipro, Liechtenstein, Lussemburgo e Principato di Monaco i cui numeri totali della detenzione non sono significativi essendo Paesi di per sé molto piccoli) si riscontra, come detto, in Austria con il 46,7% e in Belgio con il 42,3%. Francia e Inghilterra, che hanno ampie comunità immigrate al proprio interno, hanno invece numeri di detenuti stranieri ben più bassi, rispettivamente il 17,9% e il 12,6% del totale. Ciò può avere una doppia spiegazione: da un lato un più facile accesso alla cittadinanza da parte di coloro i quali hanno provenienze nazionali dalle ex colonie, dall’altro legislazioni interne più elastiche sul diritto d’asilo che riducono i rischi della creazione di quel circolo vizioso che parte dall’immigrazione irregolare e termina nella devianza criminale. La situazione in Italia - La percentuale italiana della componente reclusa immigrata è superiore alla media europea di oltre 11 punti percentuali essendo pari al 32% (dato 2015). Circa 4 punti percentuale in più rispetto alla Germania, che per l’appunto ha uno dei tassi di affollamento più bassi nell’area della Unione Europea ben inferiore ai 100 detenuti per 100 posti letto. In Italia gli stranieri regolarmente soggiornanti sono circa l’8% della popolazione. I detenuti il 32% della popolazione reclusa. I soggiornanti regolari, secondo stime a campione effettuate su singoli istituti, sono una quota inferiore al 10% del totale dei detenuti stranieri, ovvero circa il 3% del totale della popolazione detenuta nel nostro Paese. Una percentuale dunque più bassa rispetto agli italiani che vanno a finire in carcere. I detenuti stranieri che non stanno scontando una condanna in via definitiva nei Paesi europei sono il 37,9% del totale degli stranieri in carcere. Ben di più di uno straniero detenuto su 3 (quasi 2 su 5) non è per la giustizia nazionale una persona colpevole. La custodia cautelare - Il peso medio generale della custodia cautelare è invece intorno al 25%, ovvero 12 punti in meno rispetto al dato che riguarda la componente straniera. Complessivamente, non un detenuto su 3 come per i soli stranieri bensì un detenuto su 4 è dunque dentro in attesa del giudizio finale. Dunque nei confronti degli stranieri la giustizia rischia di essere discriminatoria: la carcerazione preventiva si applica con più facilità e dunque diventa una sorta di pena anticipata. Guardando ai dati dei singoli paesi europei si va dal 10,4% dell’Azerbaijan al 75.6% della Bosnia ed Herzegovina. Da segnalare quello che accade in paesi che solitamente hanno basse percentuali di custodia cautelare. Sono effettivamente molto basse nei confronti dei loro cittadini ma diventano altissime nel caso degli stranieri: si pensi al 50,6% dei detenuti stranieri in carcerazione preventiva in Finlandia rispetto al totale degli stranieri in prigione, al 53,2% della Norvegia e dell’Olanda, al 57,2 della Danimarca. In Italia la percentuale dei detenuti stranieri in custodia cautelare è più o meno in linea con il dato europeo. Ma l’Italia è anche il Paese dove in generale il peso della custodia cautelare è tradizionalmente ben più alto rispetto alla media europea, essendo oggi di circa il 31,3% ma solo pochi anni fa raggiungeva quasi il 50%. Gli immigrati subiscono maggiormente i provvedimenti cautelari detentivi rispetto ai cosiddetti detenuti nazionali. La sovra-rappresentazione degli immigrati fra coloro che sono dentro in attesa della condanna è in più il segno di un sistema giudiziario discriminante su base etnica. Nei confronti di un immigrato irregolare è certamente più difficile trovare soluzioni cautelari diverse dalla carcerazione. I giudici di sovente motivano i provvedimenti di carcerazione sostenendo la tesi che gli immigrati privi di permesso di soggiorno non hanno un domicilio stabile ove poter andare agli arresti domiciliari. In realtà molto spesso gli irregolari una casa o una stanza dove vivere ce l’hanno ma non possono essere indicate quale domicilio regolare essendo loro stessi in una generale condizione di irregolarità. I sistemi dell’immigrazione che si fondano sulla previsione e regolamentazione dei flussi, ovvero la maggioranza delle normative dei paesi europei occidentali, negano i diritti di cittadinanza (voto, lavoro, abitazione) a chi non entra regolarmente nel paese. Pertanto l’immigrato non regolare finirà più facilmente in carcere in custodia cautelare rispetto allo straniero regolare. È quindi la legge sull’immigrazione che incide direttamente sui tassi di detenzione. Ugualmente accade rispetto a quelle misure alternative alla detenzione che si fondano su riferimenti abitativi regolari esterni all’istituto penitenziario. Il numero di concessioni nei confronti di detenuti stranieri non regolari è più basso in percentuale rispetto al numero di concessioni per i detenuti autoctoni. Il dato sulla presenza di detenuti provenienti da paesi non comunitari deve tenere conto oltre che dell’incidenza in negativo di quelle misure cautelari o alternative che richiedono riferimenti abitativi stabili, anche del fatto che i loro Paesi di origine, a differenza di quelli dell’area Ue, con minore frequenza fissano o rispettano accordi di estradizione o di trasferimento dei condannati. In assenza di questi ultimi la magistratura si sente legittimata a lasciare in carcere il detenuto straniero, non fidandosi della maggiore libertà connessa alla misura non detentiva. Quanto pesano gli immigrati Ue - Quanto incide la cittadinanza europea nella componente immigrata? Ovvero quanti sono in Europa fra gli immigrati quelli originari dell’area Ue? Il 32,4%. Una percentuale che risulta in linea con il dato tedesco che deve sopportare il maggior peso dell’immigrazione polacca, croata e rumena e con quello inglese che è invece meno soggetto alla immigrazione dai Paesi della costa sud del Mediterraneo. Più bassa dunque l’incidenza della nazionalità comunitaria in Italia o Spagna dove la percentuale dei detenuti dell’area Ue rispetto al totale della popolazione detenuta straniera scende al 20%. Posto che i detenuti stranieri ristretti nelle carceri dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa sono circa 370 mila e considerato che quelli di origine comunitaria sono più o meno 120 mila ne deriva che i detenuti non comunitari nell’intero spazio giuridico europeo sono circa 250 mila. Complessivamente rappresentano il 14% della popolazione detenuta in tutte le galere d’Europa. Pochi rispetto alla sovraesposizione mediatica e politica del tema, troppi rispetto al numero basso di delitti contro la persona commessi e al loro ugualmente basso tasso di adesione a organizzazioni criminali mafiose o terroristiche. Sarebbe sufficiente che alcune legislazioni nazionali divenissero più elastiche nell’accoglienza primaria e nella possibilità di diventare cittadini regolari, per non creare quelle condizioni sociali e giudiziarie che favoriscono, come spiegato, la detenzione soprattutto nella fase cautelare. In ogni caso va sicuramente detto che nonostante una forte retorica anti-immigrati presente in molti Paesi, nonostante le difficili condizioni sociali in cui gli immigrati vivono un po’ dappertutto a causa di processi di marginalizzazione e stigmatizzazione, nonostante una minore disponibilità di strumenti di difesa legale, i numeri non sono così elevati da giustificare allarmi per la sicurezza. La criminalità straniera non costituisce l’urgenza politica e giudiziaria dell’Europa. I numeri della devianza penale straniera non spiegano campagne xenofobe. Se mai sono indicativi di un sistema della giustizia palesemente discriminatorio. "Prigioni di vite": la solitudine delle carceri italiane di Antonella Fumarola mifacciodicultura.it, 27 novembre 2016 Il cigolare delle chiavi nella serratura, il chiavistello arrugginito che scivola pesantemente, la porta blindata che sbatte. E poi il suono cupo delle sbarre. Comincia così l’esilio dal mondo di chi va in prigione. Con un rumore "ferroso" troppo difficile da dimenticare. Cadono in quel momento i calendari appesi ai muri delle vite di chi va in carcere. Il tempo non esiste più, e c’è chi non ricorda nemmeno se fosse giorno o notte quella volta in cui il "gabbio" si chiuse alle spalle e fu inghiottito dal nulla. Il tempo e lo spazio sono due dimensioni cruciali dell’ingresso nelle carceri. E così, se il tempo svanisce, come cancellato all’improvviso dalla memoria e dalla coscienza, lo spazio si rimpicciolisce. Lo spazio è una cella con un letto a castelli a tre piani, dove il letto più alto è troppo vicino al soffitto e troppo lontano dal cielo. E su quel letto non puoi nemmeno startene seduto, magari a leggere un libro o semplicemente a guardare dritto nel vuoto della parete di fronte, perché a quel soffitto rischieresti di sbatterci la testa. Lo spazio è una cucina troppo piccola, un bagno troppo vecchio e un paio di lenzuola pulite che ti hanno appena consegnato. Lo spazio sono le tue tasche vuote perché giù ai controlli hai dovuto lasciare tutto quello che avevi. Tranne la fede al dito, quella no, quella la puoi tenere, come tutte le cose di poco conto ma di grande valore affettivo. C’è una strana pietà pure nelle carceri. Lo spazio nelle carceri non è mai vuoto, è sempre pieno. Si riempie dell’odore della pelle di chi ti sta vicino - perché in carcere hai sempre qualcuno vicino, non sei mai solo. Si riempie del vociare di chi borbotta lì in cucina, del rantolo russante di chi dorme, del rumore dello sciacquone nel bagno, dei passi grevi delle guardie lì fuori. E non sembrerà quindi così strano se è proprio la solitudine la cosa che più manca nelle carceri. La solitudine, il silenzio - qualcosa che assomiglia molto all’incanto della preghiera. Dura poco più di 8 minuti il video di Repubblica di Andrea Gualtieri "Prigioni d’Italia" - prima puntata di una serie prodotta in collaborazione con l’Associazione Antigone che documenta proprio l’impatto dei detenuti con il carcere. Mentre le immagini scorrono, si tocca con mano tutta la profonda lacerazione con il mondo esterno. C’è la sconfitta e l’umiliazione di chi entra in carcere per la prima volta e sa che è sceso inesorabile un sipario su una vita che solo fino a qualche ora fa era "normale". Un sipario che non si alzerà per molto altro tempo ancora. C’è, in questi uomini e in queste donne, l’incapacità di pensare al futuro, il domani come un pensiero presente, ossessivo e doloroso. Ma nel video c’è anche lo sguardo dentro alle carceri dei parenti dei detenuti. Perché le carceri cambiano anche le vite di quelli che stanno fuori. Benedetta è la figlia di un commercialista finito in carcere nel 2011 per reati fiscali e fallimentari. Il carcere ha tagliato in due, come una cesoia, anche la sua vita. E da quella ragazza "bionda, normale e benestante" che era un tempo, si è ritrovata a frequentare le carceri scontrandosi con l’amara consapevolezza che i sorrisi e la spensieratezza non le sarebbero più bastati per attraversare quell’inferno. "Il giardino delle arance amare". Forse questo è davvero il carcere. Così perlomeno lo ha definito Sandro Bonvissuto nel suo libro "Dentro" in cui racconta, con una penna allo stesso tempo lucida e delicata, quello spazio fuori dal tempo fatto di angoscia e di desolazione dove tutte le cose hanno colori "andati, appassiti" - proprio "come se qualcuno le avesse guardate talmente a lungo e intensamente da consumarle". Soldati a Milano, silenzio su Napoli di Roberto Saviano L’Espresso, 27 novembre 2016 Nel capoluogo lombardo i crimini diminuiscono. In quello campano crescono. Ma le risposte del governo dipendono dalle strategie elettorali. Non sono d’accordo con chi pensa che basti parlare di un problema per averlo già per metà risolto. Soprattutto quando ci sono fenomeni che possono essere letti in maniera radicalmente diversa e per í quali le soluzioni proposte possono essere inutili, controproducenti o, peggio, utili solo a cercare consenso in campagna elettorale. Quindi se esiste solo ciò di cui si parla, è vero anche e soprattutto che esiste esclusivamente nel modo in cui se ne parla. Allora se a Milano in una settimana muore un dominicano e dei ragazzi filippini si accoltellano qual è il messaggio che la politica, in maniera opportunistica, vorrà far passare? Eccolo: Milano è pericolosa e quindi noi ci attrezzeremo perché vi siano più militari in strada che vi faranno sentire al sicuro. E ancora, a sparare, ad accoltellarsi, a rendere Milano pericolosa sono gli stranieri, quindi è necessario dire basta in un territorio che sta scontando l’accoglienza con la violenza. Ecco ribaltato tutto, ecco bloccata sin dall’inizio qualsiasi possibilità di ragionamento, di comprensione e di reale soluzione del problema. E quindi ecco di nuovo la linea politica di un governo che al suo interno ha tutto e il suo contrario: rassicurare l’uomo bianco spaventato in una fase in cui racimolare consenso e voti in vista del referendum è fondamentale. E Milano, città in cui i reati sono in diminuzione, ecco diventata all’improvviso una città che necessita di interventi immediati, che necessita della presenza massiccia dell’esercito. Naturalmente il disagio giovanile o gli affari delle gang sudamericane a Milano, con la presenza di camionette dell’esercito disseminate random, non troveranno soluzione. Per il disagio giovanile il lavoro da fare è di gran lunga più impegnativo, per il contrasto alle gang sudamericane, un lavoro di intelligence sarebbe sicuramente più efficace. Eppure, complice l’informazione che gioca sulla velocità più che sull’approfondimento - la notizia della maxi rissa in piazza Città di Lombardia è stata a lungo prima notizia sui siti dei maggiori quotidiani nazionali - il sindaco Sala si è visto costretto a chiedere l’intervento dell’esercito. A lui alcuni insegnanti volontari della scuola di italiano per stranieri della Villa Pallavicini, che si trova in fondo a via Padova, in una delle zone più problematiche della città, hanno indirizzato una lettera su Repubblica: "Da anni il nostro impegno nei confronti degli immigrati si nutre della convinzione che il nostro lavoro debba basarsi su due semplici parole: accoglienza e scambio". Chiedere l’intervento dell’esercito è "una risposta che riprende la solita logica dell’emergenza. Eppure Milano, secondo le statistiche, è una delle città più sicure d’Europa, dove criminalità e tasso di omicidi negli ultimi anni sono decisamente scesi. Non sono scesi degrado e abbandono che affliggono le nostre periferie, e degrado e abbandono non si battono con le camionette dell’esercito". Spostiamoci a Napoli, dove secondo le statistiche la criminalità e il tasso di omicidi non sono affatto diminuiti, dove i ragazzi delle paranze annunciano le prossime "stese" perché si raccolga pubblico che possa riprendere e postare i video sui social, perché sia chiaro chi comanda, chi fa più paura, chi bisogna temere e rispettare. Spostiamoci a Napoli, dove nel Quartiere Sanità, a un anno dalla morte di Gennaro Cesarano non sono state ancora installate le telecamere di videosorveglianza promesse dal governatore della Campania Vincenzo De Luca con la sua solita enfasi. Spostiamoci a Napoli, dove "stese", omicidi, agguati non fanno più notizia, come i bombardamenti in Siria. Sapete quali sono le regole ciniche dell’informazione? Una catastrofe naturale dura due giorni, un attentato ne dura tre, a volte una settimana. Quello che nessuno vi dice è che ci sono attentati che non durano nemmeno un secondo, che ci sono sparatorie, accoltellamenti, omicidi di cui non vuole parlare nessuno. E allora mi sono chiesto perché a Milano il ministro Alfano manda l’esercito per due episodi di violenza e la cronaca napoletana passa sotto silenzio. Mi sono dato una risposta e me la sono data proprio partendo dall’appuntamento elettorale imminente (del resto c’è sempre un appuntamento elettorale alle porte): Napoli preferisce morire di criminalità organizzata pur di non essere rappresentata come una città violenta. Questo la politica lo sa, lo ha compreso. La lascia fare. La lascia stare. Non si sa mai che si possa racimolare qualche voto in più. Come indaga (con poche risorse) l’Italia contro il cybercrime, tra cifratura, Tor e trojan di Carola Frediani La Stampa, 27 novembre 2016 Un attivista ha ottenuto i documenti con cui 12 Stati europei spiegano come fanno cyber indagini, che problemi hanno e cosa vorrebbero. Tra tentazioni di backdoor e nuove leggi. Forze dell’ordine e inquirenti italiani si imbattono spesso in computer, smartphone e dispositivi cifrati, nel corso delle loro indagini. E sul fronte delle attività online ritengono che il problema principale sia la "mancanza di tracciabilità per le connessioni Tor" - il più diffuso software per la privacy e l’anonimato - così come per le "transazioni in Bitcoin", la nota moneta elettronica. L’intercettazione di comunicazioni cifrate - scrivono ancora le autorità italiane - viene fatta principalmente attraverso l’uso di trojan, cioè di software (detti anche captatori informatici) che infettano un dispositivo e acquisiscono i dati alla fonte, prima che questi siano "blindati" e inviati. E tuttavia, una delle maggiori difficoltà consiste nell’installazione da remoto del trojan sul dispositivo dei sospettati, specie nel caso in cui si tratti di un "noto brand" (non viene citata esplicitamente, ma il riferimento è probabilmente alla Apple e al suo iPhone, su cui torniamo dopo). Non solo: chi ha scritto il documento ritiene che le leggi potrebbero essere più efficaci se gli indagati avessero l’obbligo di fornire alle autorità la password o la chiave per decifrare (Un obbligo che oggi non esiste, ovviamente, perché la legge italiana - come quella di molti altri Stati - prevede il diritto di non autoincriminarsi). Le risposte degli Stati al Consiglio Ue - Quelle appena riportate sono alcune delle osservazioni contenute in un documento inviato dall’Italia al Consiglio dell’Unione europea, dove si incontrano i ministri nazionali per coordinare le politiche. Il Consiglio infatti aveva mandato agli Stati membri un questionario interamente dedicato al tema della "cifratura dei dati" nelle indagini criminali. Tema che era già emerso a un incontro informale dei ministri della Giustizia lo scorso luglio a Bratislava, e a cui la presidenza slovacca del Consiglio dell’Unione europea ha dato seguito inviando una serie di domande ai vari Paesi per raccogliere le rispettive posizioni. Materiale che dovrebbe essere la base di partenza per un nuovo incontro proprio a dicembre. Finora sono divenute accessibili (in alcuni casi in modo parziale) solo le risposte di 12 Paesi - tra cui l’Italia - grazie a una richiesta di accesso fatta dall’attivista danese Rejo Zanger per conto della Ong sui diritti digitali Bits of Freedom. Mentre le risposte degli altri Paesi non sono state ancora rese pubbliche. Diverse posizioni su backdoor e nuove leggi - Cosa emerge da questa prima parziale fotografia? Che la crittografia è considerata una sfida per gli inquirenti e le forze dell’ordine dei Paesi membri. Anche se ben cinque Stati dichiarano di incontrarla raramente nelle loro indagini. In ogni caso quasi tutti concordano sulla necessità di scambiarsi e sviluppare conoscenze e strumenti al riguardo. Ma per il resto le posizioni sono differenti. La Polonia ad esempio è la più esplicita nel richiedere delle backdoor, delle "porte di servizio", cioè degli accessi privilegiati a dispositivi e software per le forze dell’ordine a discapito della crittografia forte. Di fronte alla domanda su quali misure dovrebbero essere adottate a livello europeo, i polacchi parlano infatti della "necessità di incoraggiare i produttori hardware/software a inserire delle backdoor per le forze dell’ordine o a indebolire la crittografia". Di parere invece nettamente opposto è la Germania. "Una legge che proibisca o indebolisca la cifratura delle telecomunicazioni e dei servizi digitali è da escludersi, al fine di proteggere la privacy e i segreti industriali". Che tradotto vuol dire: la crittografia forte protegge non solo i criminali, ma anche i cittadini comuni e gli affari. Ungheria, Lettonia, Croazia e Danimarca, pur senza parlare né di backdoor né di indebolimento della crittografia, auspicano nondimeno nuove leggi a livello europeo. Non è chiaro cosa dovrebbero regolare però. In alcuni casi sembrano riferirsi alla possibilità di accedere più facilmente ai dati ospitati nel cloud in un altro Paese dai vari operatori di servizi online. O avere una cornice di azione comune per indagini informatiche, scrive l’Italia. Ad ogni modo la Svezia non le vuole, la Finlandia nemmeno (di sicuro non ora, è il messaggio), la Repubblica ceca non si capisce (la parte al riguardo è stata cancellata) e la Gran Bretagna - che ha appena passato una legge molto controversa, l’Investigatory Power Act, che amplia la sorveglianza delle attività online dei britannici - dà una risposta democristiana. Anche se a leggere fra le righe si intravede la tentazione di metterci le mani in qualche modo sulla crittografia. La risposta inglese auspica infatti "un approccio collaborativo con partner internazionali e l’industria in modo che la cifratura continui a tenere al sicuro i dati delle persone senza permettere a seri criminali di operare oltre il raggio d’azione delle forze dell’ordine". Italia, cifratura e troian - Tornando alla posizione italiana, le risposte dichiarano che nelle indagini la cifratura viene incontrata spesso. "Molti servizi online (90%) sono ora disponibili su protocollo Https", è scritto. "I dispositivi hanno app native cifrate. Per quanto riguarda la cifratura online, l’ostacolo principale è la mancanza di tracciabilità delle connessioni Tor e delle transazioni Bitcoin". Invece, "per quanto riguarda la cifratura offline, il problema è soprattutto con una maggiore azienda produttrice di dispositivi". Il riferimento è probabilmente agli iPhone di Apple, come mostrato dallo scontro tra la casa di Cupertino e l’Fbi, anche se i federali hanno poi trovato modo di accedere allo smartphone oggetto del contenzioso con l’aiuto di una azienda terza. Altri passaggi delle risposte italiane: "L’intercettazione di dati cifrati è permessa attraverso la tecnica dell’inoculazione di un trojan, per cui occorre l’autorizzazione di un magistrato" (sul tema captatori ne avevamo scritto in passato). A questo proposito viene anche accennata, tra le maggiori preoccupazioni, la "difficoltà nell’installare da remoto sul dispositivo del sospettato il trojan per le intercettazioni, specialmente in riferimento a una delle maggiori marche". Anche qui il riferimento sembra essere all’iPhone. L’installazione da remoto di trojan sull’ultimo modello/sistema operativo del telefono di Apple è considerata più difficile dai ricercatori del settore, come dimostrato anche dai prezzi di mercato più alti per sue vulnerabilità specifiche (vedi la storia dell’attivista Ahmed Mansoor di cui avevamo parlato già negli scorsi mesi). La società Zerodium, ad esempio, offre fino a un milione e mezzo di dollari a chi riesca ad eseguire il jailbreak remoto dell’iPhone, cioè a disabilitare da lontano i sistemi di protezione del telefono per installare un malware. Il documento italiano dichiara anche che le "legislazioni nazionali potrebbero essere più efficaci se ci fosse l’obbligo per i sospettati o accusati di fornire alle forze dell’ordine le password o le chiavi per decifrare", pur riconoscendo alcune righe sopra che questo non è possibile nel nostro Paese. E nemmeno in molti altri Stati europei, come per altro evidenziato dai vari documenti nazionali, che prevedono il diritto di non autoincriminarsi. Il parere degli esperti - "Confermo il fatto che durante le indagini a supporto dell’Autorità Giudiziaria ci imbattiamo sempre più spesso in problematiche legate alla cifratura", commenta a La Stampa Paolo Dal Checco, esperto di informatica forense dello studio DiFoB. "Raramente sui computer, ogni tanto sui dischi esterni, quotidianamente invece sui cellulari. Non parliamo soltanto della casa produttrice di Cupertino. Ora anche Android, con la sua ultima versione, cifra i dati dell’utente senza che questi se ne accorga, rendendo così più difficile il lavoro degli investigatori. Windows Phone lascia ancora la scelta all’utilizzatore, ma permette di criptare l’intero contenuto dello smartphone in modo sicuro". D’altra parte, prosegue Dal Checco, "guarderei con una certa diffidenza proposte di backdoor o indebolimento di algoritmi o protocolli crittografici, perché questo aprirebbe la strada a pericolose evoluzioni che porterebbero più svantaggi che vantaggi". Di parere simile anche un altro noto esperto di informatica forense, Mattia Epifani. "Sicuramente la cifratura si estenderà sempre di più e questo da un punto di vista strettamente investigativo sarà un problema", commenta a La Stampa. "Ma nello stesso tempo proprio la cifratura rende la nostra vita digitale, e i nostri dati, più sicuri. Per quanto riguarda i captatori (i trojan), è vero che su iPhone è allo stato attuale complicato perché fondamentalmente non ne esistono in grado di funzionare su tutti i dispositivi, soprattutto quelli più recenti. Ma esisteranno sempre gli zero day, vulnerabilità con cui si possono violare: quindi il problema è più di risorse a disposizione degli investigatori e degli Stati, risorse che alcuni hanno e altri no. Comunque, anche gli altri sistemi operativi (Android in primis) stanno aumentando il loro livello i sicurezza e quindi anche qui diventerà sempre più complicata l’inoculazione del trojan". Mancanza di risorse - In generale, le risposte dei dodici Stati "mostrano che la questione principale è la mancanza di accesso a soluzioni tecnologiche", commenta a La Stampa Rejo Zanger, l’attivista che ha fatto la richiesta dei documenti. "Certo, a volte la polizia incontra una cifratura che proprio non riesce a rompere. Ma il problema vero è che, anche quando la tecnologia per farlo esiste, spesso alcune forze dell’ordine non vi hanno accesso". Insomma, il punto è "la mancanza di risorse finanziarie e umane". La disponibilità di una cifratura forte è essenziale per proteggere le infrastrutture e comunicazioni digitali, prosegue Zanger. E quindi la questione di come fare le indagini non va affrontata indebolendo la crittografia, minando così la sicurezza di tutti, ma semmai con maggiori investimenti nel settore. "L’idea di avere backdoor native è una follia", commenta ancora Epifani. "Nessuno comprerebbe più un prodotto che le ha e comincerebbe a crearsi un mercato alternativo con lo slogan: Prodotto X privo di backdoor. Invece, una normativa/accordo a livello internazionale che permetta alle forze di polizia di accedere in modo più semplice e veloce ai dati conservati dagli operatori sarebbe molto utile". Processo Magherini, un video della famiglia ripercorre la sentenza La Repubblica, 27 novembre 2016 Un video diffuso dalla famiglia di Riccardo Magherini per ripercorrere alcuni passaggi della sentenza con cui il giudice Barbara Bilosi ha condannato (con pene tra i 7 e gli 8 mesi) tre dei quattro carabinieri che effettuarono l’arresto del quarantenne fiorentino, morto a Firenze proprio durante quell’arresto. Nel mirino, i calci sferrati da un almeno un militare: "Calci funzionali" al fermo, si legge nelle motivazioni della sentenza. "Una violenza senza senso", torna ad attaccare la famiglia dell’ex calciatore viola, che ha elaborato le immagini agli atti del processo, in cui si vede Riccardo a terra circondato dai militari. Il video, diffuso tramite la pagina Facebook dell’associazione Stefano Cucchi, si concentra inoltre sui momenti precedenti la morte di Riccardo, puntando il dito sulle manovre di immobilizzazione e sulla presunta pressione esercitata sul torace da parte dei militari. L’avvocato della famiglia Magherini, Fabio Anselmo, ha intanto depositato l’appello contro la decisione del tribunale di Firenze, chiedendo tra le altre cose di riformulare le accuse contro il carabiniere giudicato responsabile per i calci. Secondo Anselmo, il militare - assolto per difetto di querela dal reato di percosse - deve rispondere del reato di abuso di autorità contro arrestati e detenuti. Contro la sentenza di primo grado, infine, scende in campo anche in senatore Pd Luigi Manconi, che ha presentato un esposto alla procura generale della Cassazione. Massimo riserbo sul contenuto dell’esposto, ma secondo alcune indiscrezioni nel mirino sarebbero finiti tra le altre cose proprio i passaggi dedicati alle manovre di immobilizzazione effettuate dai militari. Carcere per la madre che non fa vedere la figlia al padre di Marina Crisafi studiocataldi.it, 27 novembre 2016 Cassazione, sentenza n. 50072/2016. Per la Cassazione, anche se sono presenti contrasti tra figli ed ex partner, il genitore non può farsi giustizia da sé. La madre che non rispetta il diritto di visita del padre e gli nega la possibilità di vedere i figli rischia il carcere. Anche se vi sono contrasti e disagi tra i minori e l’ex partner, la mamma infatti non può farsi giustizia da sé ma deve chiedere l’intervento dei servizi sociali o ricorrere a provvedimenti sospensivi. È quanto affermato ieri dalla sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 50072/2016, confermando la condanna a 3 mesi di carcere oltre al risarcimento dei danni a carico di una donna ritenuta responsabile del reato ex art. 388, 2° comma, c.p., per avere, per tre volte consecutive, negato all’ex compagno e padre di vedere la propria figlia. Per i giudici di merito, l’imputata aveva eluso l’esecuzione del provvedimento del tribunale che aveva stabilito le modalità di esercizio del diritto di visita da parte dell’uomo della loro figlia minore, omettendo di consegnare la bambina per via dei rapporti problematici della stessa con il padre e la nuova compagna "che avevano determinato nella bambina un grave disagio ed agitazione, verificato anche dall’assistente sociale". Ma per la Corte d’Appello tale stato di disagio doveva essere ricondotto proprio all’atteggiamento rivendicativo ed oppositivo della donna verso l’ex compagno, responsabile anche di avere boicottato un percorso di mediazione suggerito dai servizi sociali per appianare le tensioni con l’altro genitore. Per gli Ermellini, il verdetto di colpevolezza della Corte d’Appello va confermato integralmente e a nulla rilevano i motivi presentati dalla difesa. La ricorrente, sostengono da piazza Cavour, ha omesso di confrontarsi "con la motivazione della sentenza impugnata, che ha addebitato all’imputata un comportamento dolosamente omissivo, avendo attivato l’assistente sociale soltanto a termine oramai scaduto e per far constatare uno stato di agitazione oramai insanabile". È proprio il comportamento tardivo e doloso della donna, ad essere stigmatizzato in sentenza, giacché ha richiesto l’intervento dei servizi sociali "solo al culmine di una situazione ormai del tutto compromessa". Identiche valutazioni, inoltre, devono farsi per la censura riguardante la mancata richiesta di provvedimenti sospensivi: secondo i giudici infatti "non si trattava di un problema contingente, bensì di una situazione già riscontrata", in precedenza. Per cui il ricorso della donna è rigettato e la condanna penale confermata. Porto Azzurro (Li): progetto europeo del "Foresi", coinvolti 16 studenti e 16 detenuti di Luigi Cignoni italynews.it, 27 novembre 2016 Nei giorni scorsi si è svolta, presso la sede del "Foresi" di Concia di Terra, la riunione che ha dato il via al progetto europeo "Cooking For Freedom", finanziato all’interno del programma Erasmus Plus. Un gruppo di docenti e amministrativi del "Foresi", insieme al preside Enzo Giorgio Fazio, hanno stabilito ruoli, metodi e tempi di lavoro. Erano presenti anche il dr. Guido Ricci, psicologo clinico dell’Associazione Linc, e Carlo Eugeni, della Condotta Slow Food. Si ricorda che il progetto, costruito dall’Associazione di progettazione sociale Linc, è guidato da un capofila elbano, la Cooperativa Sociale Beniamino, e coinvolge la condotta Slow Food isola d’Elba, l’Istituto "Foresi" di Portoferraio, la Casa di reclusione di Porto Azzurro e l’Associazione Antigone. Si tratta di un progetto dal respiro europeo che coinvolge Portogallo, Lituania e Turchia in un percorso lungo due anni che vedrà due momenti di meeting europeo all’Elba, a marzo 2017 e a giugno 2018. È un’esperienza innovativa di educazione che mette in rete carceri, istituti formativi, associazioni e realtà imprenditoriali con lo scopo di creare un modello circolare di formazione, lavoro e integrazione, da sperimentare all’Elba e nei paesi partner. Il preside del "Foresi" Fazio sottolinea il valore che quest’esperienza potrà avere sia in termini di inclusività che in termini di innovazione per il sistema formativo elbano. Due docenti per ognuno dei Paesi partner si incontreranno a Lisbona, nel mese di gennaio, per predisporre le linee guida della formazione. Poi in ciascuna realtà si darà vita a sperimentazioni didattiche che vedranno al centro i piatti tipici. Sulla nostra isola lavoreranno due classi formate ognuna da otto studenti del professionale elbano e otto ospiti della Casa di reclusione "De Santis" di Porto Azzurro. Guidati dai docenti, gli allievi svolgeranno attività laboratoriale. Proprio l’Elba sarà teatro di due momenti: per un incontro intermedio, a marzo prossimo, e per l’evento conclusivo a giugno 2018. Salerno: corsi di pizzaiolo per i detenuti del carcere di Vallo della Lucania infocilento.it, 27 novembre 2016 È stato presentato, nella sede di "Mugnai di Napoli", l’evento "Pizza + Amore", che mercoledì 30 si svolgerà nella Casa Circondariale di Vallo della Lucania. Questa idea dall’attore Vincenzo Soriano, ha trovato interprete la Direttrice della Casa Circondariale di Vallo ed ha ottenuto il Patrocino morale della Regione Campania. All’incontro con tanti pizzaioli che seguono i corsi, che loro maestri dell’Associazione gastronomica "Scuola arte bianca lab" presieduta da Enzo Paciello, con progetti di tecniche innovative per panificatori, pizzaioli e pasticcieri, tengono in via Nazionale delle Puglie, 26 località Cimitile, in una delle sedi dell’Associazione, quella della farina dal marchio "Mugnai di Napoli" Srl, locali messi a disposizione da Domenico Ragosta, responsabile dei Mercati Esteri dello stesso marchio, sono intervenuti numerosi giornalisti. Ragosta, unitamente ad altri partner, ha illustrato insieme all’attore Vincenzo Soriano, promotore di questa manifestazione con i maestri pizzaioli Roberto Barone e Domenico Civale da Latina, le motivazioni e modalità di svolgimento della giornata dedicata ai detenuti di Vallo della Lucania. Il 30, infatti, nella Casa Circondariale di Vallo della Lucania, l’attore Vincenzo Soriano intende, con la possibile istituzione di corsi dedicati a questo come ad altri mestieri, offrire una possibilità di recupero ai detenuti che al termine dello scontare la pena, attraverso insegnamenti, come l’imparare l’arte del pizzaiolo, possano avere un loro reinserimento nella società. Nella giornata del 30 novembre, all’uopo, Soriano molto impegnato nel sociale ed in particolare in varie carceri, si è reso promotore dell’iniziativa di portare due maestri della suddetta professione a dare note di docenza per apprendere quest’arte, a due gruppi di detenuti che con il loro impegno creeranno due pizze con una originale denominazione. Le due specialità entreranno a far parte dei menù delle due pizzerie dei pizzaioli docenti. All’incontro di presentazione del "Pizza + Amore", (Più Amore che va dimenticando il sapore, Più Amore per la Nostra terra, Più Amore perché è l’ingrediente base della Solidarietà), hanno inoltre presenziato oltre ai due artefici principali che collaborano alla iniziativa di Soriano, i maestri pizzaioli Roberto Barone (Peppe ‘a Quaglia) e Domenico Civale da Latina, altri maestri dell’arte della pizza Antonio Petricciuolo, Franco Ursini, l’istruttore Natalino Marigliano ed il Master Armando Califano. L’evento vallese è stato fortemente voluto da Soriano, rappresentante dell’Associazione no-profit "Orfani della Vita", da anni è impegnato nel sociale, con una particolare storia d’infanzia di bambino abbandonato e poi adottato all’età di cinque anni, con non lunga ma intensa carriera lavorativa da Attore, acquisendo numerosi premi nazionali ed internazionale tra cui lo Sprike Awards a Los Angeles presso il Centro di Cultura Italiano, ricevuto per ben due volte dal Santo Padre Papa Francesco Bergoglio, protagonista insieme a Barbara de Rossi, Cristel Carrisi (la figlia di Albano), Sandra Milo ed altri del film "Con tutto l’amore che ho" del regista Angelo Antonucci, attualmente candidato al famoso e prestigioso premio "David di Donatello". Impegnato fortemente con piani di recupero per i detenuti, visitando e organizzando cortometraggi, incontri, video clip musicali e manifestazioni di carattere anche culturali nelle Case Circondariali di massima sicurezza minorili, femminili e maschili. Sponsor di questa lodevole iniziativa troviamo Domenico Ragosta, che appartiene alla quarta generazione di una famiglia di imprenditori di consolidata esperienza in un lavoro difficile e di antica tradizione. Anche Giuseppe Torrente direttore vendite estero, del gruppo familiare di industria del pomodoro campano "La Torrente", presente anche amministrativamente nell’azienda fondata 50 anni fa dal nonno e poi portata avanti da Filippo e Salvatore Torrente, rispettivamente papà e zio, ci ha detto: "Abbiamo avuto sempre successo con i nostri prodotti perché ci riportiamo alle eccellenze dei prodotti campani a quali teniamo tanto come prodotti delle nostre terre d’origine. Abbiamo apprezzato l’iniziativa benefica di Soriano ed abbiamo deciso di contribuire con i nostri pomodori pelati per le pizze per tutti gli ospiti e i pomodori "Principe Borghese", molto simili ai pomodorini del piennolo, tipicità antichissima che stava scomparendo ed invece abbiamo recuperato, ed offriremo questo prodotto per realizzare le due particolari nuove pizze a Vallo. Bologna: 40 giorni di carcere per la "ketamina", ma in realtà era solo farina di riso Il Resto del Carlino, 27 novembre 2016 Smentito il narcotest: l’uomo è stato scarcerato. Era solo polvere bianca utilizzata dalla moglie per le maschere al viso. Ha trascorso 40 lunghissimi giorni in carcere ma quella che è stata trovata nella sua abitazione non era ketamina, ma farina di riso. A rilevarlo è stato il "narcotest" al momento dell’arresto. Un semplice prodotto per maschere al viso della moglie è costato tanto al marocchino 54enne difeso dal penalista Savino Lupo e solo le analisi tecniche sollecitate dalla difesa, hanno portato alla sua liberazione. Lo straniero era stato arrestato dalla polizia il 14 ottobre per detenzione di droga e resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, dopo un controllo in via della Beverara. Nella fuga si era liberato di circa 5 grammi di cocaina: visti i suoi precedenti si era proceduto a una perquisizione in casa, dove erano stati sequestrati un frammento di hascisc e quasi due etti di polvere bianca, tra una tazzina in cucina e un barattolo in bagno. Il test fatto in questura con i reagenti chimici aveva dato una positività alla ketamina per la polvere, oltre che all’eroina, 0,8 grammi che l’uomo aveva in un taschino. Sulla base del quadro indiziario emerso, la Procura aveva chiesto con successo al Gip convalida dell’arresto e carcere. E l’indagato, forse per timore di conseguenze per la moglie, ha detto di aver ricevuta la polvere da un connazionale, tornato in patria. La svolta, alla fine della scorsa settimana, quando si è affidato all’avvocato Lupo: dopo aver parlato con i familiari del marocchino, che negavano potesse possedere ketamina, ha nominato come consulente di parte la tossicologa Elia Del Borrello. La specialista, dopo aver analizzato i campioni sequestrati, ha spiegato in un parere tecnico che si trattava di una sostanza organica che non contiene ketamina; alla stessa conclusione nel frattempo sono arrivate anche le analisi della Scientifica. Il Gip, a quel punto, ha accolto l’istanza per la scarcerazione avanzata dall’avvocato Lupo; il Pm aveva chiesto i domiciliari. Anche per l’eroina, il narcotest è stato smentito. "Non è mia intenzione far polemiche - ha commentato il penalista - ma questa vicenda deve suscitare una riflessione doverosa: non è la prima volta che mi trovo di fronte a false positività nei narcotest, che evidentemente vengono fatti con strumentazioni non adeguate. In casi come questi occorrerebbe sempre far fare un accertamento tecnico più approfondito, che tuttavia richiede tempo e denaro, ma che alla luce anche di questo episodio appare essere più idoneo, nell’interesse di tutti". Frosinone: riflessioni dei detenuti sul tema della violenza sulle donne atuttapagina.it, 27 novembre 2016 Durante la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne anche in carcere, nella Casa Circondariale di Frosinone, si è parlato di amore, di rispetto e di gelosia. L’iniziativa fa parte di un progetto più ampio che riguarda gli Istituti penitenziari di tutto il territorio nazionale, voluto dal Dap - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per muovere alla riflessione e alla consapevolezza del problema della violenza sulle donne. Per l’occasione a Frosinone hanno partecipato, uniti dalla volontà di lanciare un messaggio di sensibilizzazione, l’Auser del frusinate, l’Associazione RitrovArti, alcuni membri dell’Associazione Idee in Movimento e dell’Associazione Gruppo Idee, gli operatori del carcere e un gruppo di detenuti che si sono cimentati nella recitazione. L’evento, introdotto dalle parole della responsabile dell’area educativa Filomena Moscato, che ha ricordato ai presenti quanto questa giornata sia importante per ragionare assieme, ha permesso al pubblico di assistere ad un happening teatrale nel quale i detenuti hanno avuto modo di recitare con attori amatoriali, membri dell’Associazione RitrovArti. Le parole di Suor Rosalba hanno accompagnato i presenti permettendo loro di conoscere la storia vera di una giovane donna, inizialmente innamorata, che si è ritrovata ben presto ad essere vittima di un uomo violento, quello stesso uomo che credeva di amare, divisa tra la paura, il senso di inadeguatezza, la voglia di fuggire e la preoccupazione per i figli costretti ad assistere, giorno dopo giorno, a scene di grida e percosse, inermi contro la forza brutale di chi non mostra alcuna pietà. Gli attori riecheggiavano le parole comunicando e raccontando attraverso il corpo. Poche affermazioni sono state consumate sul palco, ma la più importante è stata gridata a gran voce al termine dello spettacolo: "Libertà!", quella libertà che la protagonista è riuscita a trovare denunciando e fuggendo da una vita che non le apparteneva più. Dopo lo spettacolo ha avuto inizio il dibattito, moderato con passione e professionalità dalla conduttrice televisiva Arianna Ciampoli e che ha visto intervenire, oltre agli organizzatori della mattinata, i detenuti e gli ospiti nel pubblico. Sonia Sirizzotti e Anna Magliocchetti dell’Auser di Frosinone hanno evidenziato l’importanza della tematica affrontata e il rispetto dell’impegno preso di tornare nuovamente a far visita ai detenuti del carcere di Frosinone, raccontando, tra le altre cose, esperienze di donne e di uomini che cercano aiuto presso la loro associazione. A seguire il presidente Mario Ceccarelli, che si è detto emozionato, ha sollevato un problema culturale del quale la violenza sarebbe espressione, sottolineando l’importanza di un coinvolgimento da parte degli uomini. È intervenuta anche la psicologa Margherita Mattacola, che ha affermato la necessità di risalire alle cause di un disagio che si esprime attraverso la rabbia e la manifestazione di un senso di possesso non assimilabile all’amore. A chiudere la giornata per il Gruppo Idee l’intervento dell’allenatore dei "Leoni di Frosinone", squadra di calcio dell’Istituto, Antonio Colasanti, che ha reso noti i saluti della senatrice Spilabotte, sempre attenta alle problematiche del carcere, e la testimonianza di un detenuto che, parlando della figlia, ha spiegato con l’amorevolezza di un padre che il dialogo è l’elemento più importante. I saluti e i ringraziamenti di Chiara Guerra, presidente dell’Associazione Idee in Movimento, alla Direzione, alla Polizia Penitenziaria, all’Area educativa e a tutti coloro che hanno reso possibile questa giornata. Una mattinata in cui, grazie all’impegno dei partecipanti, c’è stata la possibilità di riflettere, discutere ed emozionarsi. Bologna: rugby in carcere, la prima partita tra le squadre di due istituti di Gian Luca Pasini Gazzetta dello Sport, 27 novembre 2016 Con una iniziativa promossa dai Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta nonché dell’Emilia-Romagna e Marche e dai relativi istituti penitenziari, sul campo del carcere La Dozza di Bologna, la Giallo Dozza Bologna Rugby ha ospitato per una partita amichevole La Drola Rugby del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. (foto Enzo Di Somma e Valentina Gabusi). Le due squadre partecipano al campionato C1 nelle rispettive regioni, è la prima che può disputarsi in trasferta ed ha il significato di un riconoscimento ai risultati delle attività sportive e di recupero sociale ottenuti a Torino da Ovale oltre le sbarre onlus dal 2010 e a Bologna da Giallo Dozza dal 2013, attraverso l’introduzione del gioco del rugby in carcere. Il progetto è appoggiato anche dalla Federazione Italiana Rugby che con il Progetto Carceri FIR vede tre Club direttamente collegati a Case Circondariali partecipare al Campionato Italiano di Serie C e numerose altre Società impegnate a diffondere il gioco e il modo di essere tipico della palla ovale in numerose case circondariali ed istituti di pena minorili di tutta Italia. La partita si inserisce inoltre nell’ambito delle iniziative di sensibilizzazione promosse in occasione della "Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne" che si svolge il 25 novembre. Proprio sui campi da rugby così come negli Istituti penitenziari del territorio nazionale da alcuni anni viene osservato infatti un minuto di silenzio in tale giornata che è diventata occasione di iniziative di sensibilizzazione e discussione sul tema nelle le carceri italiane. Giallo Dozza Bologna Rugby - Tornare in campo: il rugby nella Casa Circondariale della Dozza di Bologna. Il Progetto "Tornare in Campo" è finalizzato all’insegnamento del rugby all’interno del carcere della Dozza di Bologna, e al recupero fisico, sociale ed educativo di detenuti e giovani disagiati. Nato da un’iniziativa di Rugby Bologna 1928 prosegue con la presidenza di. Stefano Cavallini, il progetto coinvolge 40 detenuti e ha reso possibile la formazione della squadra "Giallo Dozza" che, nella stagione sportiva 2016-2017, disputa il Campionato nazionale di Serie C. Gli incontri sono tutti disputati all’interno della struttura penitenziaria. Sono previsti allenamenti quotidiani comprendenti attività fisica atletica, tecnica di base e specifica, attività didattica necessaria all’apprendimento dello sviluppo generale del gioco del rugby e all’interpretazione chiara del regolamento, nonché la comprensione dei valori del rugby. Il Progetto - sostenuto da Emil Banca, Macron e Illumia - è finalizzato alla progressiva interiorizzazione di valori quali l’osservanza delle regole, la lealtà, la solidarietà, il sostegno reciproco ai compagni, il rispetto dell’avversario. Uno spirito aggregativo e solidaristico per affrontare in maniera costruttiva le sfide sul campo e nella vita. I detenuti sottoscriveranno un codice etico comportamentale che prevede specifici meccanismi sanzionatori in casi di violazione, fino all’esclusione dalla squadra. Ovale Oltre Le Sbarre Onlus - Ovale oltre le sbarre Onlus nasce nel 2010 con l’obiettivo di perseguire - attraverso il gioco del rugby - il recupero fisico, sociale ed educativo di detenuti e giovani disagiati. Presieduta dall’ex rugbista azzurro Walter Rista, riunisce al suo interno sportivi, professionisti e imprenditori convinti che la diffusione dei valori etici del rugby presso le strutture carcerarie e le periferie metropolitane ad alto rischio devianza (opportunamente inseriti e valorizzati all’interno di specifici programmi di recupero e prevenzione) possa configurarsi quale elemento di rinforzo di percorsi finalizzati al reinserimento sociale dei detenuti e al contenimento del disagio giovanile. Associazione Sportiva La Drola Rugby - La Drola (in dialetto piemontese drola significa "cosa strana", "cosa buffa") è la squadra di rugby del carcere "Lorusso e Cutugno" di Torino, nata dalla collaborazione tra la direzione della struttura e i soci dell’Associazione Ovale oltre le sbarre Onlus. È stata costituita nel maggio 2011 sulla base di uno Statuto regolamentare, conforme ai regolamenti Fir. È formata da circa 30 detenuti di molteplici etnie e dalla stagione 2011 - 2012 milita nel Campionato Regionale Piemontese di serie C. Nella stagione 2015/2016 si è classificata seconda. Brescia: a Verziano detenuti a lezione di rugby, il coach è un ex campione italiano di Beatrice Raspa Il Giorno, 27 novembre 2016 Roberto Pegoiani: "Mi piacciono le sfide e l’esperienza funziona". La palla ovale entra in carcere e insegna ai detenuti la lealtà, il coraggio e il rispetto per l’avversario. Succede a Verziano, dove da qualche settimana è iniziato un corso di rugby con tanto di lezioni teoriche e pratiche. A tenerle è Roberto Pegoiani, ex campione italiano - era la stagione agonistica 1982-1983 - allenatore del Brescia e di molte altre squadre, con un cuore che non smette di battere per lo sport giocato all’insegna dei valori. Titolare di un negozio di pavimenti a Castenedolo, 67 anni, Pegoiani ogni lunedì alle 15 arriva in via Flero, si lascia alle spalle la pesante cancellata della casa di reclusione e scende in campo con detenuti. "L’idea è stata mia - racconta il coach, di casa a Borgosatollo - Mi piacciono le sfide. Un giorno ho incontrato un agente di polizia penitenziaria, un amico, che me l’ha buttata lì: perché non fai qualcosa a Verziano, dove c’è un bel campo? Pronti. Mi sono presentato in carcere. Io gioco a rugby, gli ho detto, scommettete che in quattro e quattr’otto vi tiro su una bella squadra? Nessuno ci credeva. E invece al primo allenamento mi si sono presentati in diciotto. Quando mi salutano con un "ciao Pego" sento di avere già vinto il campionato". Un’esperienza forte e piena di incognite, che sta però riservando belle sorprese e funziona, tanto che Pegoiani ha ricevuto richieste anche dal carcere di Bergamo. "Per ora punto a un torneo interno a sette giocatori - spiega - Giochiamo un rugby veloce come quello che si pratica alle Olimpiadi. Ad allenarsi ci sono italiani, russi, nordafricani, romeni. Confesso che prima di iniziare qualche pensiero l’avevo, temevo di non riuscire a controllare il contatto fisico tra i ragazzi. E invece sono tutti agnellini. Ho spiegato che sto insegnando una disciplina fatta di regole e la prima regola in questo sport è di essere leali - chiarisce l’allenatore - Nel rugby ci sono i valori del terzo tempo: dopo la partita gli avversari si stringono la mano e ci si trova tutti insieme a bere una birra, nessuno è nemico. Hanno capito e addirittura vorrebbero fare lezione una seconda volta a settimana". Per qualcuno, poi, la passione per la palla ovale potrebbe portare a una occasione di vita: "In squadra c’è un detenuto romeno che nel suo Paese giocava in serie A. Un vero campione. Gli ho promesso che appena esce dal carcere lo porto da noi in serie B" si infervora Roberto. Che continua a sognare: "Vedrete, organizzeremo anche un torneo femminile. E farò partecipare pure i miei amici veterani". Padova: Marco Tardelli a tu per tu con i carcerati del Due Palazzi padova24ore.it, 27 novembre 2016 Saranno anche passati 34 anni e mezzo da quell’11 luglio al Santiago Bernabeu e da quei 7 secondi di urlo liberatorio immortalato in 175 fotogrammi. Eppure quando passa Marco Tardelli, l’onda emotiva è ancora palpabile. Giovedì 24 novembre al suo ingresso nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova è stato subito circondato dai detenuti, ma anche dagli stessi agenti di polizia penitenziaria, per una foto insieme, un autografo su palloni e magliette, uno scambio di battute. Lui, Marco, in carcere ci è entrato con la figlia Sara per presentare la sua autobiografia, "Tutto o niente. La mia storia", pubblicato da Mondadori a firma congiunta sua e di Sara, giornalista della scuderia di Giovanni Minoli. Ma il libro, che pure è stato distribuito e firmato con dediche personalizzate, è rimasto sullo sfondo. L’ex centrocampista, oggi commentatore sportivo, è arrivato intorno alle 13.45, accompagnato da Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, si è recato nei locali della pasticceria ("di solito davano a me le pagelle, oggi le do io a voi pasticceri, vi meritate 11", il suo commento), del call center e delle altre lavorazioni carcerarie. Poi si è seduto a pranzo, assieme a una ventina di detenuti lavoratori della Giotto e alla presenza del direttore della struttura Ottavio Casarano. Il pranzo è stato il momento più intimo e per certi versi toccante della visita. I detenuti si sono presentati uno ad uno raccontando in breve la loro storia. Anzitutto si è scoperto che il Tardelli Fans Club carcerario è molto nutrito. A partire da Roberto, italosvizzero che lavora al call center. "So tutto di te", gli ha detto, "con la Juventus hai fatto 259 presenze e 34 gol. E quando hai concluso la carriera al San Gallo io che ero tifoso del Lucerna facevo regolarmente 80 chilometri per seguire le tue partite". Mac’è spazio anche per interventi più sofferti: "Mi piacerebbe che le mie figlie mi guardassero negli occhi con l’orgoglio che vedo negli occhi di Sara", dice un altro. "Lo farà", rassicura Marco. "Non bisogna smettere mai di sperare e di andare avanti fino in fondo, perché ci è stata data questa possibilità, è importante avere la forza di provarci, anche se a volte ci riesci, a volte no". Anche Sara interviene: "Le situazioni più negative, quando riesci a dargli il peso giusto, possono diventare importanti, perché ti accorgi che devi avere pazienza, le cose col tempo si dipanano, così diventano più chiare dell’inizio e riesci a trovare dei punti d’incontro: in realtà riesci a trovare grande ricchezza e alla fine essere felice". Qualcuno sdrammatizza. "Tutti noi qui dentro abbiamo qualche grave errore da farci perdonare", dice un altro lavoratore della Giotto. "E d’altra parte anche tu Marco ne hai fatto uno, sei passato all’Inter". Risata generale. Tardelli poi passa al vicino capannone, riconvertito in sala incontri addobbata con bandiere di tutto il mondo. In prima fila la Polisportiva Pallalpiede, squadra di calcio galeotta che milita nel campionato di Terza Categoria. E che naturalmente gioca solo partite in casa. È il momento di giornalisti e telecamere, che improvvisano una conferenza stampa in mezzo al pubblico, poi Marco e Sara salgono al tavolo dei relatori dove rispondono alle domande di Nicola Boscoletto. È la storia di una vita quella che emerge poco a poco, con un percorso segnato non solo da successi ma anche da momenti di difficoltà economica, legami interrotti e poi ripresi. Tra questi, fortissimo il legame con la figlia. È lei stessa a dirlo con grande semplicità: "La mia coppa del mondo è stato raccontare la storia di mio padre, non è facile essere sempre indicata come "figlia di". Oggi ho una mia identità che è arrivata dal lavoro, da tanto impegno e dall’aver avuto la fortuna di aver incontrato uno come Minoli, che ha creduto in me sostenendo il mio talento e la mia speranza, come ha fatto con tanti altri". Anche i primi anni nella famiglia di origine di Marco sono stati segnati dalla povertà. "Che però", osserva, "una volta veniva vissuta in modo diverso. Oggi i poveri vivono in solitudine, io posso dire di aver vissuto un’infanzia felice, nonostante le difficoltà, segnata da rapporti significativi. Per me ad esempio è stato importante l’ambiente dell’oratorio. "Certo emergere era difficile. Ricordo che un giorno dissi a mia madre "Se non faccio i soldi con il calcio faccio una rapina". Lei però non la prese per nulla bene, mi rispose; "Se finisci in carcere, non sperare che venga mai a trovarti". Il tempo passa in fretta, le domande anche calcistiche (c’è chi gli chiede un commento a una sua doppietta al Real Madrid) incalzano. Poi un pacifico assedio di richieste di autografi, a cui Marco risponde con disponibilità. "Fatemi sapere cosa posso fare per voi, mi piacerebbe coinvolgere anche i vecchi compagni", dice con un pizzico di commozione. L’incontro si conclude con una sfida ai rigori tra Tardelli e l’allenatore della Polisportiva Pallalpiede, vinta dal padrone di casa. "Oggi ho provato molte emozioni", è il commento finale, "le emozioni che ho provato nell’82 sono molto inferiori a quelle che ho provato oggi, perché ho visto persone che mi hanno coinvolto raccontando aspetti inaspettati della loro vita. Ero già stato in un carcere a Regina Coeli, ma un atteggiamento come quello di questi lavoratori mi ha davvero sorpreso. Non mi viene neanche da chiamarli detenuti". "Un altro me", di Claudio Casazza. "Ho cercato di demostrificare i mostri" di Antonio Capellupo cinemaitaliano.info, 27 novembre 2016 Autore del film scelto per aprire il Concorso Internazionale della 57a edizione del Festival dei Popoli, in "Un altro me" Claudio Casazza cala lo spettatore in una realtà poco conosciuta e scarsamente raccontata dai media, quella dei condannati per reati sessuali. Per la prima volta il cinema italiano cede la parola ai "mostri", cercando di scavare a fondo e rintracciare uno spiraglio di umanità. Casazza ha raccontato a Cinemaitaliano.info il lavoro che sta dietro alla realizzazione di un documentario robusto ed eticamente importante. Non era facile trovare la giusta distanza tra la macchina da presa e i detenuti, così come non era semplice costruire un film mantenendo la sfocatura sui volti dei protagonisti. Ci sei riuscito, e alla grande. Come hai raggiunto questo equilibrio? Partivo da una costrizione, dall’obbligo di non inquadrarli, quindi mi sono interrogato su come procedere. Ad esempio Avi Mograbi nel suo "Z32" in cui racconta storie di violenza sulle donne da parte di soldati israeliani, aveva ripreso i volti e poi era intervenuto digitalmente in vari modi, con la sfocatura e gli occhi a fuoco, il bollino nero e la sfocatura totale. Volendo intervenire in postproduzione quindi i metodi erano svariati, ma a partire da una questione etica nei confronti dei detenuti ho preferito palesare da subito il modo in cui li avrei inquadrati. Molto spesso mi chiedevano di rivedere il girato, e mostrare loro un’immagine a fuoco probabilmente avrebbe rotto quel tipo di relazione che si era instaurato. L’altro problema era cosa inquadrare, quindi non avendo a fuoco i detenuti dovevo avere a fuoco gli psicologi. In quel caso ho voluto stargli molto addosso, utilizzando solo due obiettivi, perché ciò che raccontavano era molto personale. Le parole di quegli uomini trasudano rabbia, dolore, verità. Sei riuscito a cogliere un’umanità dietro alle maschere da lupo cattivo, qualcosa che si ottiene solo se ottieni la totale fiducia. Come te la sei conquistata? L’approccio è stato quello di conoscere tutti il meno possibile. I criminologi mi avevano un po’ raccontato del loro lavoro, ma non avevo voluto sapere i dettagli per poter mantenere uno sguardo più aperto. Lo stesso vale per i detenuti, perché conoscere a fondo le loro storie mi avrebbe portato in un vortice di pregiudizi e in questi casi la fiducia deve essere ben incanalata. Andavo a bere il caffè in cella con loro e rimanevo a chiacchierarci, perché credo che fosse quella la chiave giusta per raggiungere la loro fiducia, provare in qualche modo a demostrificarli. Una scelta di regia "asciutta" la tua, in cui neanche per un istante compare una nota musicale o una voce calata dall’alto. Era giù tutto nella tua testa o hai intrapreso questa strada entrando in contatto diretto con quella realtà? Era una scelta ben precisa, volevo intraprendere la strada del documentario di osservazione alla Wiseman, stando il più possibile dentro, sapendo poco di ciò che riprendi e non utilizzando nulla di extradiegetico. Non c’è voce off, presenza dell’autore, nulla di mediato. Paradossalmente la telecamera la sentivano maggiormente gli psicologi e i criminologi rispetto ai detenuti, perché gli ultimi avevo avuto modo di conoscerli di più, avendoli visti tre volte di più rispetto agli operatori. Sei stato molto a contatto con i detenuti, sia prima di iniziare a girare che nel periodo delle riprese. Credi la presenza della macchina da presa abbia influito sul loro modo di "mettersi a nudo"? Qualcosa in effetti cambia. Quando ho assistito ai primi gruppi senza la presenza della macchina da presa, mi sono accorto che ognuno di loro cercava di emergere e che un po’ di messa in scena di loro stessi veniva fuori. Credo che il mezzo cinematografico tenda ad eleminare quella "finzione", perché più ce l’hai davanti più sei portato ad essere sincero. La famiglia è un elemento importante, che traspare dai loro racconti ma che decidi di non mostrare. È un’ipotesi che avevi mai preso in considerazione? È stata più che altro una scelta di campo, un campo che quando fai documentario di osservazione è importante delineare. Questa era certamente una delle ipotesi, così come un’altra era il rapporto con le guardie o la vita solitaria nelle celle. Ciò che mostro, anche le lezioni di yoga o la partita a pallavolo fa parte del percorso. Inserire i genitori o le mogli avrebbe aperto un’altra strada che mi avrebbe spinto a pormi una serie di interrogativi collegati. La famiglia è comunque presente, ma tutto funziona di derivazione. E forse è proprio questa la cosa più bella, far venir fuori qualcosa girandoci attorno. "Ombre della Sera", di Valentina Esposito. Documentario sulla condizione carceraria di Chiara Preziosa cinemaitaliano.info, 27 novembre 2016 Al festival romano del cinema indipendente, Valentina Esposito presenta il documentario sulla condizione carceraria. Le "Ombre della sera" sono figure evanescenti che vivono in un limbo tra l’acqua e la terra, tra dentro e fuori. Sono recluse in un mondo parallelo lontano dalla realtà esterna. Questa è la condizione dei detenuti raccontata dalla regista Valentina Esposito nel suo documentario presentato il 25 novembre alla XV edizione del Riff. La Esposito, già da anni collaboratrice presso il carcere di Rebibbia di Roma curando il laboratorio teatrale interno, raccoglie le storie di alcuni ex-detenuti per far luce sui problemi e le difficoltà che incontrano nel ricominciare le proprie vite e nel ricostruire i rapporti con i familiari. Attraverso le storie dei protagonisti viene declinato il tema universale della lontananza dagli affetti e del rapporto padre figli in cui lo spettatore può identificarsi e riconoscersi. Da "Ombre della sera" si comprende quanto una relazione costante con la famiglia sia fondamentale per il detenuto durante la carcerazione per dargli una motivazione al cambiamento, ma anche dopo quando si riprendono i contatti diretti con la realtà. La famiglia infatti è il primo luogo di rifugio da cui ripartire per la reintegrazione della vita al di là delle sbarre. Gli ex-detenuti protagonisti mettono in scena il proprio vissuto con grande forza interpretativa grazie ai corsi di recitazione teatrale che hanno potuto seguire in carcere acquisendo una capacità utile per un possibile lavoro ma soprattutto utilizzandolo come mezzo per affrontare il passato e liberarsi. La fotografia e l’uso di inquadrature sfocate su cui si stagliano figure nitide creano un’atmosfera claustrofobia come se si fosse sempre rinchiusi ad eccezione del finale luminoso. La Esposito ha arricchito il film con metafore poetiche che descrivono la condizione dei detenuti e con delicati primi piani che ci permettono di cogliere l’anima dei protagonisti con le paure e le speranze future. "Dustur", di Marco Santarelli. Il referendum costituzionale visto dal carcere internazionale.it, 27 novembre 2016 Il risultato del referendum del 4 dicembre cambierà la nostra costituzione? Al riparo dai mezzi d’informazione, ma discutendo in modo costruttivo, se lo è chiesto un gruppo di detenuti musulmani del carcere di Bologna, durante un corso gestito da un volontario religioso italiano e da un giovane ex detenuto musulmano, seguiti con discrezione dalla cinepresa di Marco Santarelli, regista di Dustur. Il confronto tra le parole della costituzione e le storie dei detenuti guida, in un viaggio dentro e fuori il carcere, la scrittura di regole nuove per un futuro possibile e un mondo più giusto, immaginati da dietro le sbarre. Pinotti: "Il barcone dei 700 migranti e la memoria corta dell’Europa" di Paolo Conti Corriere della Sera, 27 novembre 2016 La ministra della Difesa ha visto in anteprima il docu-film sulla tragedia dell’aprile 2015. Solo 28 tra le persone a bordo si sono salvate. "Molto giustamente mandiamo i nostri ragazzi in viaggio con le scuole nei campi di sterminio nazista perché imparino a non dimenticare. Per la stessa ragione è bene che non si dimentichi mai ciò che non è ancora storia, le tragedie legate all’immigrazione, perché continuano a riguardarci". È sera, studio della ministra della Difesa Roberta Pinotti in via XX Settembre. Scorrono le immagini di Come è profondo il mare, il docu-film di 45 minuti che verrà trasmesso stasera alle 23.15 su Sky Atlantic. È il racconto del recupero del barcone salpato dalle coste libiche con 700 disperati e, nella notte del 18 aprile 2015, si inabissò a 131 miglia da Lampedusa: solo 28 vennero recuperati vivi, poi furono ritrovate 24 salme, gli altri si inabissarono con la barca a 370 metri di profondità. La più grande tragedia avvenuta nel Mediterraneo in questi anni. Il docu-film - Scorrono le immagini del docu-film (una produzione 42° parallelo, ideato e scritto da Diana Iagorio, regia di Emiliano Bechi Gabrielli e Alessandro D’Elia). Non c’è commento, solo sonori originali. Né censura: i corpi sono lì mummificati, o ridotti a scheletri. Nella stiva, lo hanno svelato i robot, altri corpi chiusi a chiave, molti sono bambini. La storia è il recupero organizzato dalla Marina militare col supporto tecnico della Impresub Diving and Marine Contractor di Trento, che ha messo a punto il modulo di recupero, sotto il comando del Contrammiraglio Paolo Pezzutti. L’operazione è durata dal 26 aprile all’alba del 26 giugno 2016. Ora il relitto è nella base di Augusta, le salme sono state riconosciute dopo un duro lavoro scientifico e umano, poi sepolte. Il film è pieno di strazianti sequenze di altri naufragi: bambini morti tra le braccia del padre, corpi sulla spiaggia, indumenti riportati a riva dal mare. Il relitto recuperato - "Il presidente del Consiglio aveva subito annunciato che avremmo recuperato il barcone. Più recentemente Renzi ha proposto che venga esposto per sempre a Bruxelles, in uno spazio del quartiere europeo, per ricordare all’Unione cosa avviene nei nostri mari. Anch’io ne avevo parlato recentemente con Martin Schulz, che era apparso favorevole. Sono sicura che l’Italia realizzerà questo progetto - dice Roberta Pinotti. Solo dopo quel disastro l’Europa cominciò a muoversi. Ma adesso troppi egoismi nazionali, che contestano la suddivisione delle quote, fanno perdere di vista uno dei valori fondanti della dimensione europea. Cioè il rispetto per la vita umana". Sullo schermo, occhi disperati di bambini nella notte, donne che urlano quasi impazzite: scene che aiutano a ricostruire cosa dev’essere accaduto su quel pezzo di legno colorato d’azzurro. Le manovre sono molto precise: "Abbiamo tra le migliori Forze armate del mondo e la nostra Marina militare rappresenta un’eccellenza assoluta e questa operazione lo dimostra". C’è chi ha polemizzato per i costi dell’operazione… "Un Paese deve compiere le sue scelte. E questa è una scelta precisa di civiltà e di umanità, per seppellire quei poveri corpi e per ricordare un immenso dramma del nostro tempo". Vittima delle vessazioni dei compagni bulli, diventa disabile a undici anni di Sara Martinenghi La Repubblica, 27 novembre 2016 Ma i suoi aguzzini non saranno processati: troppo piccoli per la legge. Torino: incredibilmente grandi per fare tanto male, ma troppo piccoli per essere puniti. Perché, pur frequentando la prima media, hanno agito con violenza da adulti e hanno devastato, con botte, umiliazioni e vessazioni, la vita di un compagno di scuola. Tanto che la vittima, a soli 11 anni, ora è stata dichiarata disabile: la sua mente è stravolta da quello che gli è stato fatto. Un trauma così profondo da sconvolgere i medici che l’hanno tenuto ricoverato un mese intero per comprendere che fisicamente era sanissimo, ma psicologicamente era distrutto per il bullismo subito da settembre 2015 fino agli inizi di gennaio. E, mentre lui ora si ritrova invalido, la procura dei minori ha chiesto l’archiviazione per i due compagni di scuola indagati: sono minori di 14 anni, non possono essere processati. "Era gennaio quando nostro figlio, che già da qualche giorno aveva manifestato un profondo malessere per le continue angherie subite da due compagni di classe, perdeva i sensi e si accasciava al suolo dinanzi ai nostri occhi stupiti". È una scena straziante quella che raccontano i genitori, solo la prima di una lunga serie di crisi che di lì a poco cominciano a manifestarsi nel loro figlio più grande. "Neanche il tempo di destarlo che il piccolo inizia a tremare con scatti improvvisi e violenti, ad agitare le mani verso l’alto, quasi a proteggersi il volto, e poi a dimenarsi sul pavimento, senza urlare, ma biascicando mugugni monotoni e incomprensibili". Convulsione, epilessia, infarto sono gli spettri che in un attimo fanno capolino nei loro primi pensieri. Di corsa, portano il figlio al Regina Margherita. Era gennaio del 2016, e il bambino iniziava a esprimere così il malessere devastante che celava dentro per l’incubo vissuto a scuola: continui svenimenti, dissociazione dalla realtà, scene di violenza rivissute. Paura di subire ancora e disperati tentativi di trovare rifugio e riparo dalle botte. Il precedente di Carolina, suicida per colpa dei bulli - Assieme a un altro compagno era stato preso pesantemente di mira dai bulli della classe che agivano in due, mentre un terzo faceva da palo, durante gli intervalli e nello spogliatoio della palestra, a volte anche in classe. "Nei suoi momenti di crisi o di incubi, immagina di aver di fronte i suoi aggressori, pensa di lottare per liberarsi da chi gli sta usando violenza" spiegano i genitori. "La nostra vita precipita nel baratro di una sorda disperazione. Anche quando viene dimesso, gli specialisti non possono che confermare l’ipotesi di uno o più eventi traumatici, violenti e scioccanti al punto da alterare drasticamente il suo equilibrio psicofisico, da ricollegare senza dubbio all’ambiente scolastico". Il ragazzino non può più fare a meno dei farmaci, continua a svenire e a dissociarsi: i familiari si rivolgono a un avvocato, Maria Giovanna Musone, esperta in casi di bullismo. Davanti a lei il bambino racconta dettagli dei ricordi che vuole disperatamente scacciare. Le vittime dei bulli, emerge dalle indagini, sono più di una, ma le conseguenze subite da lui sono le più devastanti. "Assisto la famiglia in questo difficile cammino - commenta l’avvocato Musone - e cerco di spiegare ai genitori che il nostro codice tiene conto dell’età degli indagati. Tuttavia la giurisprudenza dice anche che non si devono ridurre le garanzie a tutela della vittima, e che si possono applicare misure di sicurezza. Resto fiduciosa nell’operato della Procura. Ma non si può lasciare passare il concetto di impunibilità: sarebbe distruttivo per chi ha subito la violenza e non gioverebbe neppure ai minori coinvolti. Lasciare impuniti ragazzi socialmente pericolosi rappresenta un pericolo per la collettività". Russia. Carceri Spa di Antonio Albanese agcnews.eu, 27 novembre 2016 Gli uomini d’affari russi avranno la possibilità di portare parte della loro produzione nelle prigioni per sfruttare la manodopera dei detenuti. Secondo i funzionari, la nuova politica aiuterà i condannati ad adattarsi alla vita al di fuori del carcere, una volta scontata la pena. Secondo quanto riporta Moscow Times, il vertice della camera di Commercio della Russia e il capo del servizio Penitenziario federale si sono incontrati nei giorni scorsi per firmare un accordo di cooperazione. L’ufficio stampa del servizio Penitenziario federale, ripreso da Interfax, ha detto che è in atto una fase di pianificazione congiunta per lo sviluppo di attività imprenditoriali sul territorio degli istituti di pena. Il capo del Dipartimento Gennady Kornyenko ha detto durante la cerimonia che "gli accordi raggiunti saranno la base per un ulteriore consolidamento degli sforzi in materia di partenariato pubblico / privato, di creazione di posti di lavoro per i detenuti, e di aumento dell’efficienza economica del lavoro e favorirà il ritorno dei cittadini che si trovano in carcere ad una vita normale (…) La prospettiva di un tale progetto è l’impiego di detenuti; riceveranno un salario decente e una formazione professionale, la capacità di mantenere connessioni sociali utili, e di adattarsi alla vita dopo il loro rilascio", ha aggiunto Kornyenko. Secondo il direttore del Dipartimento, un aspetto attraente per i clienti è anche il fatto che il servizio Penitenziario federale, come un produttore diretto, ha la capacità di abbassare il prezzo di vendita del prodotto, eliminando i costi di acquisto tramite intermediari. "Nella collaborazione con il sistema penale, c’è un beneficio diretto per gli imprenditori (…) C’è la possibilità di essere l’unico appaltatore per l’approvvigionamento di stato. Ci sono un sacco di benefici economici reali per vedere acquisiti i propri prodotti tramite l’interazione con il sistema", ha detto Sergei Katyrin, presidente della camera di Commercio. Cuba. La morte di Fidel Castro, fine di un’epoca di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2016 È morto Fidel Castro e forse, ancora una volta, anche il Che Guevara che della rivoluzione cubana e di quell’epoca di grandi rivolgimenti ideologici è rimasto nei decenni il simbolo più duraturo e romantico, consegnato tra le icone della storia da una morte eroica. Dopo il fallimento dell’assalto alla Moncada, Fidel e il Che ricominciarono insieme, con il fratello Raul e Camilo Cienfuegos, l’avventura rivoluzionaria: la battaglia decisiva avvenne a Santa Clara, uno scontro armato iniziato all’alba del 29 dicembre 1958 e che si concluse a mezzogiorno del 1º gennaio 1959: il netto successo dei castristi fu decisivo per la sconfitta del governo di Fulgencio Batista e la vittoria del Movimento 26 Luglio. "Hasta la victoria siempre", era allora lo slogan della rivoluzione, lo stesso con cui oggi il fratello Raul ha annunciato ai cubani la morte del Comandante. Una foto che mi regalò forse vent’anni fa Raul Corrales, il fotografo della rivoluzione morto nel 2006, dieci anni prima di Fidel, mostra l’immagine di Castro e del fratello che cavalcano al galoppo impugnando i fucili e agitando le bandiere. Al Museo di Santa Clara dedicato al Che e alla rivoluzione sono ancora in mostra quelle armi, degli schioppi che sembrano fucili giocattolo e una piccola mitragliatrice che impallidiscono e quasi commuovono davanti alle armi letali delle guerriglie di oggi in Medio Oriente. L’impatto mondiale del trionfo dei "barbudos" cubani, non più di 800 guerriglieri in tutto, è immenso. Uno squarcio nello scacchiere della guerra fredda che aprirà ferite insanabili nei rapporti tra gli Stati Uniti e il regime comunista dell’Avana. Nel 1961 un piccolo esercito composto da 1500 esuli, addestrati e finanziati dalla Cia, prova a sbarcare sull’isola per rovesciare Castro. È la Baia dei Porci che finisce tragicamente per gli assalitori soprattutto perché John Kennedy impedisce ai caccia di appoggiare lo sbarco. Un anno e mezzo dopo, nell’ottobre del ‘62, quando gli americani scopriranno a Cuba l’installazione di rampe di lancio sovietiche per missili nucleari, il mondo sarà, per 13 giorni, sull’orlo della guerra atomica. L’Urss allora investe miliardi per conservare l’avamposto strategico di Cuba a 90 miglia dalle coste della Florida. Con quei soldi Fidel finanzia il suo modello rigido di socialismo con scuole, ospedali ma anche le guerriglie che esplodono un po’ ovunque, fino a inviare i soldati cubani a proteggere l’esperimento comunista in Angola. Negli anni 90 inizia la crisi, finisce l’Urss, i sussidi di Mosca si riducono al lumicino mentre i cubani affamati tentano la fuga dall’isola, sono i "balseros" sulle zattere: l’economia crolla e si entra in una drammatica carestia che costringerà Fidel Castro ad aprire le porte al turismo internazionale. L’ultima stagione politica significativa di Castro fu la "Primavera Negra del 2003" e dei cosiddetti "talebani", un gruppo di giovani fedelissimi uniti dal collante del socialismo. Cominciarono nuove purghe, processi, fughe di oppositori ma con la malattia e l’avvento al potere di Raul tutte le personalità più vicine a Fidel vennero allontanate. Ed è proprio il fratello Raul che compie la svolta decisiva, la normalizzazione di Cuba: nel dicembre 2014 firma la pace con i grandi nemici di Fidel, gli Stati Uniti. Forse lui non l’avrebbe mai fatto. È passata un’era geologica da quando Castro entrò trionfalmente all’Avana l’8 gennaio del 1959 in piedi su una jeep: era un giovanotto di 32 anni, alto un metro e novanta, miope, con una lunga barba e una divisa militare verde oliva. E oggi l’annuncio della sua morte sembra porre una domanda: dove eravamo rimasti? Con la scomparsa di Castro viaggiamo ancora sulla coda di un secolo dove il passato è morto e non si vede ancora il futuro. Il ‘900 continua ogni giorno in Medio Oriente, dove in un bagno di sangue si sta polverizzando l’eredità degli stati post-coloniali. Non è stato archiviato nei Balcani e a Est, dove, diceva Milovan Gilas, non si sono ancora regolati tutti i conti della seconda guerra mondiale. Continua qui in Europa con il risorgere dei fantasmi del ‘900. È l’agonia di un secolo lungo di cui Castro fu uno dei grandi protagonisti. Cuba. Intervista a Riccardo Noury (Amnesty): "Fidel era rivoluzionario e tiranno" di Ugo Di Giovannangeli L’Unità, 27 novembre 2016 Amnesty International, assieme a Human Rights Watch, è l’organizzazione internazionale che con più costanza e serietà ha monitorato lo stato dei diritti umani nella Cuba di Fidel. Un tema scottante e di stretta attualità che, con la morte del "Lìder Maximo", l’Unità affronta con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Molto si discuterà sulla portata e la riuscita della rivoluzione castrista, ma pur senza disconoscerne le conquiste sociali, Noury mette in evidenza un concetto che va oltre la "revolucion cubana": "Una rivoluzione senza diritti umani è una rivoluzione fallita". La Cuba di Fidel e i diritti umani. Rivoluzionario o tiranno? "Entrambi. Perché da un lato ha ottenuto risultati per milioni di cubani nell’ambito di diritti sociali fondamentali come la salute, l’alloggio e l’istruzione. Dall’altra parte, però, i suoi 49 anni di leadership hanno visto all’opera una brutale e sistematica soppressione di diritti a loro volta fondamentali, come quelli alla libertà di espressione, di associazione e di movimento". I sostenitori del Fidel leader rivoluzionario obietterebbero che una rivoluzione non è un pranzo di gala e che per portarla alla vittoria c’è bisogno di rinunce in nome del bene supremo. "Questi passaggi "dolorosi", ammesso che siano di per sé accettabili e consentiti, non possono durare mezzo secolo. Perché non si tratterebbe più di una "parentesi" ma di qualcosa di strutturale. Le parole di Fidel Castro con cui giustificò i processi e le esecuzioni di esponenti di precedenti governi, ossia, cito testualmente, "la Giustizia rivoluzionaria non si basa su precetti legali ma su convincimenti morali", hanno accompagnato e giustificato quelle violazioni incessanti dei diritti fondamentali". Amnesty ha monitorato con grande attenzione e in profondità lo stato dei diritti umani a Cuba. È cambiato qualcosa negli ultimi tempi? "In questi ultimi anni si nota una netta diminuzione delle condanne a lunghi periodi di carcere per motivi politici e un notevole rilassamento delle limitazioni alle libertà di movimento. Al loro posto, prevalgono frequenti fermi di polizia, brevi periodi di detenzione assieme a intimidazioni e minacce nei confronti di chi esprime pubblicamente critiche al Governo, difende i diritti umani o protesta per le vessazioni subite dai propri famigliari". Con lo storico viaggio del marzo scorso a L’Avana Barack Obama ha aperto una nuova fase nei rapporti tra gli Stati Uniti e Cuba. Da120 gennaio 2017 alla Casa Bianca s’insedierà Donald Trump. Amnesty intravede il rischio di un ritorno indietro nelle relazioni tra gli Usa e Cuba? "La maggior parte del periodo in cui Fidel Castro è stato al potere è stato segnato dall’embargo Usa, che ha provocato due danni: ha violato i diritti economici di milioni di cubani e ha dato a Castro una sorta di alibi per tenere alta la repressione interna. Tornare indietro rispetto al percorso delineato da Obama significherebbe correre di nuovo forti rischi di un irrigidimento del regime quanto al rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali e collettive". Dal punto divista di Amnesty International, può esistere ed essere esaltata una rivoluzione che "congela" se non mortifica i diritti umani? "Una rivoluzione senza diritti umani è una rivoluzione fallita. Pensiamo a questo paradosso: una rivoluzione dovrebbe proclamare e difendere l’uguaglianza e i diritti di tutti: a Cuba per gli omosessuali non è stato affatto così. il mondo è pieno di esempi in cui chi ha lottato per conquistare diritti ha finito per sopprimerli, come non molto lontano da Cuba è successo al Nicaragua di Ortega". Proiettandosi sul futuro, quale potrebbe essere a suo avviso un atto che darebbe il senso della volontà del regime cubano di volersi aprire ai diritti della persona? "Garantire l’accesso a internet. E questo per due importanti ragioni: la libertà di informarsi e la libertà di esprimersi". Con Fidel scompare certamente un leader che ha fatto la Storia del Novecento. Matra quei leader ce n’è uno che ha saputo coniugare giustizia sociale e libertà? "In parte, Nelson Mandela. Dal carcere alla presidenza del Sudafrica, Mandela ha portato con sé la propria idea di diritti, realizzandola se non del tutto almeno in parte. Purtroppo, però, chi ne ha preso il posto non ne è stato minimamente all’altezza". Nella Cuba che piange Fidel: "Credevamo fosse immortale" di Francesco Semprini La Stampa, 27 novembre 2016 Il fratello Raul lo saluta: hasta la victoria. Silenzio lungo le strade: lui è la nostra storia. Il silenzio, vellutato e profondo, da Plaza de la Revolución al Malecón, e più a nord sino ad avvolgere Vedado e Miramar. Un silenzio cadenzato da luci appassite e dal bisbiglio sofferto di chi compostamente racconta la sofferenza per la "scomparsa alla quale non avrebbero mai voluto assistere". "Non sembra vero, pensavamo vivesse in eterno", spiega Daniel Romero. Accanto a lui c’è chi volge gli occhi lucidi al cielo come a cercare, invano, la stella che non brilla più, la più brillante e più alta del firmamento cubano, la stella rossa del Líder Máximo. Venerdì alle 22,29 si è chiuso uno dei capitoli più rivoluzionari e controversi dalla storia contemporanea, e a mettere la parola fine è stato il suo stesso protagonista. Un capitolo che ha la sua genesi nelle trame post-coloniali e che, attraversando la Guerra fredda, è ambientato nelle ultime pagine in un mondo lontano anni luce dal suo. Quasi a volerne fermare la storia, una storia durata poco meno di un secolo, una storia che porta il nome di Fidel Castro. L’ex presidente si è spento dopo dieci anni di malattia, a raccontarne l’ultimo respiro è stato il fratello Raúl con un breve e sofferto discorso televisivo alla nazione: "Caro popolo di Cuba, è con profondo dolore che compaio in questa sede per informare voi, gli amici della nostra America e il mondo intero della scomparsa del comandante in capo della Rivoluzione cubana, Fidel Castro Ruz. Hasta la victoria siempre". Il presidente è visibilmente commosso, anche lui che, otto anni fa aveva ricevuto il testimone della guida del Paese dal Líder Máximo, alle prese con l’ultima grande battaglia contro la malattia, non era pronto ad assistere alla scomparsa del fratello. E la sensazione all’Avana è questa, è come se nessuno fosse pronto a un tale evento, nonostante i 90 anni compiuti dal barbudo pioniere del socialismo reale al di qua della cortina di ferro. Come Daniel Romero in tanti non se ne capacitano, scuotono la testa, la stringono tra le mani ripetendo il nome Fidel in maniera quasi ossessiva. "Sono distrutta - dice Aitana - la nostra storia è la sua storia, ci ha preso per mano e ci ha condotto per tutti questi anni, non posso crederci". L’Avana piange il suo líder ovattata in quel silenzio surreale di calma apparente che sembra covare un dolore orfano dell’elaborazione del lutto. Come se i cubani della capitale e non solo fossero stati convinti che non avrebbero mai vissuto questo momento. Quelli di loro che sono scesi in strada a dar voce al dolore, raccontano il dramma come una sorta di stupro al normale corso della vita. Come quando un padre assiste alla scomparsa del figlio, nonostante molti di loro siano figli di Fidel Castro e della sua rivoluzione. E così in questo silenzio pneumatico che si coglie sin dall’arrivo a José Martí, lo scalo internazionale, riecheggiano le parole ultime che Fidel pronunciò in pubblico. "Presto compirò 90 anni, presto sarò come tutti gli altri, è un momento che arriva per tutti - disse lo scorso aprile durante il congresso del Partito, ma le idee dei comunisti cubani rimarranno come prova che su questo pianeta, se si lavora con fervore e dignità, si possono produrre materiali e beni culturali di cui gli esseri umani hanno bisogno. È necessario combattere senza mai rinunciare". Parole che per i cubani fedeli al regime sono il "testamento" del loro leader: "Fidel l’immortale" come dice qualcuno perché così è l’immagine che di lui emerge nelle prime ore successive al lutto. Ore nelle quali pian piano si diffonde la notizia nella capitale e nell’isola, dove la televisione non è un bene di largo consumo e dove Internet è un lusso concesso col contagocce al popolo. Perché il regime è anche questo, anzi molto di più, nonostante la lenta riapertura e il ripristino delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, alle quali però non è ancora seguito un ritiro degli embarghi. Ma oggi a L’Avana non si parla di questo. Si piange solo il Líder Máximo e lo si fa secondo l’ordine impartito da Raúl quando, congedandosi dai teleschermi dopo l’annuncio della morte del fratello, ha pronunciato la formula magica: "Hasta la victoria, siempre". Perché è questo che i cubani di Cuba, o almeno quelli fedeli al loro líder, si vogliono sentir dire, gli esuli di Miami sembrano lontani anni luce così come i nemici del regime. "Per le riflessioni ci sarà tempo, anche per parlare del futuro", spiega Ramon a chi gli chiede cosa si aspetti ora dai palazzi del potere dell’Avana. Cuba, una certa Cuba, vuole solo piangere il suo Líder Máximo, ricordandone l’aspetto iconico nella sua mimetica verde oliva, col cappello e il Cohiba in bocca, e con lo sguardo compiaciuto e ambizioso. Non più giovane ma sicuro, malgrado tutto, di essere portatore di una messaggio ancora rivoluzionario. Così come viene rappresentato nelle immagini che campeggiano per la città, quelle che lo rendono "immortale", come quando nel 1960, pronunciò il discorso fiume di 269 minuti dinanzi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Immortale davanti ai potenti della Terra. Immortale come il compagno di lotta di un tempo Ernesto Guevara, detto il "Che", con cui espugnò L’Avana nel gennaio del 1959, cacciò la dittatura di Fulgencio Batista e stabilì la spina marxista nel fianco dell’Occidente a stelle e strisce. Aveva 32 anni, il più giovane leader in America Latina. Allora sì che sembrava immortale. "Sarà uno spettacolo importante, come ai tempi del "Che"", dice Edmundo, signore con un numero di anni sufficienti a ricordarsi la cerimonia in onore del padre della "Guerra di guerriglia", morto in Bolivia in circostanze poco chiare. "C’erano centinaia di migliaia di persone - prosegue - Questa volta per il Líder Máximo saranno ancora di più". Nove giorni di lutto, come annuncia Raúl Castro, in cui "non si svolgeranno spettacoli, le bandiere saranno a mezz’asta in sedi pubbliche e istituti militari e tv e radio pubbliche rispetteranno una programmazione informativa storica e patriottica sulla vita di Castro". Fidel sarà cremato, secondo sua volontà, le ceneri portate a Santiago de Cuba, culla della sua ribellione armata. I funerali si terranno il 4 dicembre quando il popolo si raccoglierà a lutto inneggiando a "socialismo o muerte", il grido di battaglia che lo ha reso immortale. Sino a ieri. Ciba. Il vero volto di Fidel Castro: nei suoi gulag migliaia di dissidenti di Luca Rocca Il Tempo, 27 novembre 2016 Per decenni, sotto il regime di Fidel Castro, Fidel "il grande", Fidel il rivoluzionario che lottava per la giustizia sociale, i dissidenti della dittatura cubana, i prigionieri politici, gli oppositori del "Lìder Màximo", sono stati torturati, condannati a morte, imprigionati e uccisi. Perseguitati per anni per la loro resistenza alla tirannia castrista, lasciati morire di fame per le loro proteste, sottoposti alle peggiori sevizie per la loro richiesta di democrazia. Sono stati loro, politici, giornalisti, avvocati, poeti, scrittori, giuristi, intellettuali, attivisti e gay, a lottare per tutta la vita in nome della libertà, a rifugiarsi nelle ambasciate, a fuggire negli Usa spesso morendo in mare, ma anche a perire nelle carceri cubane, sporche, invase da scorpioni e serpenti, piene zeppe di uomini accalcati uno sull’altro in celle di due metri per tre. Questa è stata Cuba da quando Fidel, nel maggio del 1958, prese il potere rovesciando il dittatore Batista. Le massicce repressioni del padre della rivoluzione cubana cominciano subito, e negli anni 60 e 70 portano a condanne pesantissime contro i dissidenti (anche quelli che, rischiando la vita, davano voce all’anticastrismo attraverso le loro radio), alla sostanziale abolizione della libertà di stampa, alla censura di ogni pensiero indipendente, alla creazione di veri e propri lager, applauditi dall’Urss, spiegati e giustificati dalle sinistre occidentali. È il 1982, poi, quando gli esuli anticastristi di "Alpha 66" denunciano l’esecuzione di 12 oppositori e 3mila arresti ordinati da Fidel. Un anno dopo tocca a un gruppo di giuristi e avvocati, sbattuti in galera per aver "violato la Costituzione". Nel 1984 Jorge Valls Arango, poeta e scrittore, ormai incapace di camminare, racconta i suoi 20 anni nelle carceri cubane e afferma che a marcire lì dentro ci sono almeno altri 250 dissidenti, sottoposti a torture fisiche e psicologiche, senza un occhio e privi dell’uso delle gambe, spesso impazziti. Pochi mesi dopo, nel corso del Congresso degli intellettuali cubani dissidenti, viene fuori che i politici anticastristi detenuti sull’isola sono circa 15mila. Intanto i gruppi di oppositori del regime crescono, ne nascono sempre di nuovi, ma la repressione, per tutti gli anni 80, si fa ancora più dura, allo scopo di fermare i "controrivoluzionari" e gli elementi definiti "antisociali", che vengono perseguiti, arrestati anche per aver solo manifestato, torturati. Nel gennaio del 1992 il Consiglio di Stato cubano condanna a morte il dissidente Eduard Diaz Betancourt, e pochi mesi Indamiro Restano, leader di "Armonia", una delle più importanti organizzazioni di opposizione cubane, viene condannato a 10 anni di galera per ribellione". Intanto decine di oppositori cercano la libertà nelle ambasciate straniere a L’Avana. A volte ci riescono, altre no. Nel 1995 ben 40 organizzazioni di dissidenti creano un coordinamento, "Concilio cubano", che si prefigge di lottare per la democrazia sull’isola caraibica. Ma Fidel reagisce e 50 oppositori finiscono in carcere, tra cui tre giornalisti anticastristi: Ana Luisa Lopez, Juan Antonio Sanchez e Norma Brito. È il 7 gennaio del 1998 quando Elizardo Sanchez Santa Cruz, presidente della Commissione cubana per i diritti umani, detenuto in un carcere per otto anni, dal 1972 al 1989, denuncia che a Cuba i detenuti politici "certi" sono 482 e che le carceri e gli istituti di correzione sull’isola sono 300, di cui 45 "a regime duro". Un mese dopo Hector Palacios Ruiz, uno dei primi detenuti a essere liberato, racconta alla stampa di aver vissuto "un’esperienza atroce" in "celle luride". Nel marzo del 1999, dopo l’arresto del "Gruppo dei quattro", gli intellettuali Vladimiro Roca, Marta Beatriz Roque, Rene´ Gomez Manzano, Felix Bonne, imprigionati per aver affermato che nel paese comunista c’è una dittatura, Amnesty International commenta: "In tutta Cuba la libertà di pensiero e di espressione è ancora un’illusione e le cose non tendono a migliorare. È la solita vecchia storia". La crudeltà di Fidel non viene fermata nemmeno dagli scioperi della fame in prigione, ne´ dalla visita di Giovanni Paolo II. Il cambiamento è solo un’illusione e gli oppositori continuano ad essere arrestati e torturati. E quando, nel maggio del 2002, il dissidente Vladimiro Roca lascia il carcere, afferma: "Non lo auguro al mio peggiore nemico. Adesso capisco perché Castro non ha voluto mostrare le carceri al Papa". La persecuzione della dittatura cubana non si è mai fermata, nemmeno dopo le visite di Papa Ratzinger e Papa Francesco. La malattia del vecchio Fidel ha portato ad allentare la presa, l’ascesa al potere del fratello Raul ha solo in parte "ammorbidito" il regime. Centinaia di dissidenti, però, sono ancora nelle galere cubane, fanno lo sciopero della fame, come lo psicologo e giornalista Guillermo Farinas, muoiono. E la fine dell’embargo voluto da Barack Obama non ha trasformato nella terrà della libertà l’inferno cubano, che nei suoi gulag ha lasciato marcire mezzo milione di persone. Nel frattempo, l’ufficio stampa del servizio Penitenziario federale ha in programma di informare gli imprenditori sulle opportunità fornite nell’ospitare la produzione all’interno delle sue strutture attraverso l’organizzazione e la partecipazione a convegni e mostre.