"Pena e Speranza. Carceri, riabilitazione, esecuzione della pena, riforme possibili" La Stampa, 26 novembre 2016 Si è tenuto il 24 novembre, al carcere di Regina Coeli, il secondo incontro promosso dal "Cortile dei Gentili" in collaborazione con Mario Marazziti, presidente della Commissione Affari sociali, su "Pena e Speranza. Carceri, riabilitazione, esecuzione della pena, riforme possibili". Un’iniziativa, questa, voluta per arrivare a toccare con maggiore concretezza la realtà oggetto del dialogo e soprattutto per dare voce ai primi interessati, i detenuti, coloro che vivono la quotidianità del carcere con tutte le sue criticità. A introdurre l’incontro il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ricordando le parole di papa Francesco in occasione del "Giubileo dei Carcerati", ha ribadito che la dignità della persona è insopprimibile e che i diritti fondamentali non possono essere messi tra parentesi. A rispondere alle domande dei detenuti in parte è stato anche il cardinale Gianfranco Ravasi, che ha evidenziato come il Cortile dei Gentili sia un simbolo emblematico per la loro vita, inteso come spazio dove ognuno possa esprimere le proprie ragioni, in un dialogo alla pari: "Ecco perché le vostre domande sono molto significative qui oggi. Sono la vostra voce". Ha concluso con la parabola tibetana del viandante nel deserto, che narra di un uomo che all’orizzonte, lungo la pista che sta percorrendo, vede profilarsi una figura che avanza: sembra una belva. Purtroppo non c’è scampo nel deserto, deve proseguire. La figura, mano a mano meno lontana, si rivela essere quella di un uomo. Ma potrebbe essere un predatore, un brigante solitario. Il viandante avanza ancora, senza osare quasi alzare gli occhi, finché i due non si trovano finalmente di fronte: "Levai gli occhi, lo guardai in volto: era il mio fratello che da anni non incontravo!". "Anche noi dovremmo guardarvi in faccia e vedere in voi delle persone con una scintilla, la fiamma della speranza" ha aggiunto il Cardinale. Si sono poi incrociate più dimensioni con l’intervento dell’imam della moschea della Magliana Sami Salem, tra cui quella religiosa e quella culturale: "Trovo questo incontro giustissimo e fortissimo. Un primo passo per abbattere i pregiudizi. Io non vengo in carcere per dare speranza, ma per avere da voi la speranza. Ma devo entrare qui dentro come imam e non come mediatore interculturale". Sono poi seguiti l’intervento di Fiamma Satta, che ha raccontato loro cosa ha significato per lei la perdita di bisogni primari equiparabili alla libertà, come l’autonomia e la salute, quello di Nicoletta Braschi, che ha ribadito il messaggio dello storico film "La vita è bella", in cui Roberto Benigni voleva che suo figlio e sua moglie fossero attraversati dalla vita e non dal trauma, e la conclusione di Santi Consolo, attuale direttore del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che sente come dovere primario quello di trasformare le difficoltà in opportunità per i detenuti, perché la vita, comunque vada, è pur sempre un dono. Il Garante e il Cnf insieme per i diritti dei detenuti di Francesco Straface Il Dubbio, 26 novembre 2016 I presidenti Mauro Palma e Andrea Mascherin hanno avviato la collaborazione. È stato sancito ufficialmente l’avvio della collaborazione tra il Garante dei detenuti e l’avvocatura. Il presidente Mauro Palma ha partecipato alla seduta amministrativa del Consiglio Nazionale Forense, evidenziando proprio la necessità di un coinvolgimento di altre professionalità. Questa nuova figura si è vista attribuire numerose competenze ma l’insufficiente chiarezza delle previsioni legislative impone interventi migliorativi. Presenti i vertici del Cnf al gran completo, dal presidente Andrea Mascherin ai consiglieri della commissione iniziative carcerarie. Palma ha posto l’attenzione sulle procedure d’infrazione aperte dall’Europa nei confronti dell’Italia. Nel 2012 i riflettori sono stati accesi sulle carceri, per via dell’applicazione di pene ritenute inumane e degradanti, ai limiti della tortura. Ma adesso all’attenzione del Garante dei detenuti sono emerse non soltanto le detenzioni ma anche le comunità chiuse e gli istituti per i minori. Vanno garantiti i trattamenti sanitari obbligatori in ospedale. Previste visite regionali, nelle carceri o in stazioni di polizia o carabinieri. Le ispezioni sono finalizzate invece ad analizzare eventuali criticità segnalate, per la stesura di un rapporto da trasmettere ai ministeri competenti. Recenti modifiche amministrative hanno provocato disagi a famiglie ed avvocati dei detenuti. I trasferimenti da un istituto all’altro non avvengono più infatti all’interno della stessa regione ma ricadono nei provveditorati, che comprendono più territori (Lazio-Abruzzo-Molise o Aosta-Piemonte-Liguria). I continui sbarchi trasformano in una priorità la situazione degli hotspot, in cui i migranti vengono identificati e poi rispediti nei paesi di prima accoglienza e segnalazione. Siglato un protocollo d’intesa con l’Istituto Nazionale di Medicina delle Migrazioni e della povertà, che ha sede a Roma. Secondo il garante l’Italia ha avuto un "approccio condivisibile, vanificato dall’impossibilità di quantificare con certezza i tempi del "convincimento" al rilascio delle impronte". Nel frattempo - ha rimarcato Palma - "queste persone vengono private della libertà e non hanno tutela legale, dal momento che neppure la magistratura può intervenire. Abbiamo già segnalato al Ministero e al presidente del consiglio il vuoto giuridico e la grave lesione dei diritti". L’Italia non ha mai recepito la direttiva 115 del 2008, che impone il monitoraggio indipendente dei rimpatri forzati dei migranti economici, che non hanno diritto alla ricollocazione in altre nazioni europee né possono chiedere asilo per motivi soggettivi. Il Garante denuncia la complessità delle procedure. Le espulsioni avvengono o con voli commerciali, che impongono un grande dispendio di risorse, o con charter. Ogni giovedì ne parte uno dall’Italia con direzione Tunisia. Ogni passeggero ha due uomini di scorta, ai quali si aggiungono un medico e un ufficiale superiore. Ancora più problematiche le tratte coordinate da Frontex, l’agenzia per la tutela dei confini europei. Su un unico volo in partenza da Fiumicino per la Nigeria, si ritrovano magari 15 migranti accolti in Italia, 10 provenienti dal Belgio e 8 dall’Austria. Andranno applicate le rispettive misure degli ordinamenti interni, magari discordanti. In cella per insegnare a riscattarsi con la Rete Stefania Careddu Avvenire, 26 novembre 2016 C’è un filo fatto di tecnologia, misericordia e futuro che lega i professionisti italiani ai detenuti di alcune carceri sparse sul territorio. Nell’arco di due anni, infatti, almeno 200 carcerati degli istituti di Bollate e Opera (Milano), La Spezia, Rebibbia (Roma), Palermo, Bologna, Castrovillari (Cosenza), Cagliari, e di quelli minorili di Firenze e Nisida (Napoli) potranno frequentare corsi di formazione di base sulla Rete e avere così una chance in più una volta tornati in libertà. Tutto questo accade grazie a un progetto, presentato a papa Francesco durante l’ultima udienza giubilare in piazza san Pietro, promosso da Confprofessioni, un’organizzazione che riunisce 19 sigle in rappresentanza di un milione e mezzo di liberi professionisti, che insieme alla multinazionale dell’informatica Cisco, Vodafone, fondazione Vodafone e Cooperativa Universo ha firmato un protocollo d’intesa con il ministero della Giustizia. "Come professionisti ci sentiamo chiamati a contribuire alla crescita del Paese, guardando alla società civile e anche ai soggetti più deboli", spiega il presidente dell’associazione Gaetano Stella. Ecco perché, aggiunge, in occasione del 50° anniversario della fondazione e dell’Anno Santo della misericordia, "abbiamo deciso di ampliare un’iniziativa molto positiva già avviata da Cisco a Bollate che ha permesso negli anni di formare 500 detenuti che una volta usciti non hanno avuto recidive". L’obiettivo, rileva il presidente di Confprofessioni Lombardia, Giuseppe Calafiori, "è mettere a sistema l’esperienza della Cisco Networking Academy in carcere e dare così ai detenuti l’opportunità di acquisire competenze nell’ambito delle tecnologie digitali, utili per il reinserimento sociale e nel mercato del lavoro". Grazie allo sforzo congiunto di tutti i partner coinvolti, 145 computer saranno distribuiti negli istituti penitenziari e collocati nelle aule informatiche dove una volta alla settimana si svolgeranno le lezioni, ma resteranno aperte tutti i giorni per permettere agli "studenti" di esercitarsi e mettere a frutto le conoscenze teoriche. "Sono numerose le storie di coloro che, oltre ad aver pagato il loro conto con la giustizia, hanno ottenuto la certificazione Cisco, riconosciuta a livello internazionale. Come Gigi, che oggi è un tecnico informatico di successo", racconta Calafiori evidenziando il valore di un’iniziativa "che aiuta i detenuti a mettersi in gioco e a costruirsi un futuro". Questo, continua, "fa bene a loro, ma anche all’intera collettività". Convinti di avere un ruolo da protagonisti nella società, i professionisti che nel nostro Paese investono e danno lavoro (dai commercialisti agli avvocati e ai notai, dagli ingegneri ai medici e agli psicologi, solo per citarne alcuni), volevano che il Giubileo non si esaurisse nella celebrazione di un evento, ma "lasciasse un segno concreto e fosse dunque l’inizio - conclude Calafiori - di un percorso di bene che potesse continuare anche dopo la fine del Giubileo". Dando un corpo e un’anima al principio dell’inclusione. Gherardo Colombo sceglie Eugen Wiesnet: "vorrei una giustizia dal volto più umano" Salvatore Giannella Corriere della Sera, 26 novembre 2016 "I miei dubbi sull’efficacia della pena e il mio dirigermi verso la riconciliazione, nascono dall’incontro con le idee del gesuita tedesco". Caro Colombo, tra le relazioni al convegno di Forti sulle colpe e la Storia ha colpito molto il suo intervento di ex magistrato di punta del pool Mani pulite sul perdono responsabile e sulle alternative alle pene tradizionali. A me ha ricordato l’esperienza della riconciliazione nel Sudafrica dopo l’apartheid, percorso che ho ricostruito sul blog Giannella Channel. "I miei dubbi sull’efficacia della pena, e il mio dirigermi verso la riconciliazione, in linea con l’esperienza del Sudafrica, nascono dall’incontro con le idee di Eugen Wiesnet, un gesuita tedesco che, riflettendo su dittature e totalitarismi del ‘900, ha affidato alle pagine di un affascinante libro la sua teoria sul male, che egli identifica con il rifiuto del riconoscimento del volto dell’altro, e la sua idea di come si ferma il male, evitando di restituirlo perché si è riconosciuto l’altro. Leggendo quel libro ho cominciato a nutrire dei dubbi sulla giustizia tradizionale, dubbi che prima si affacciavano solo saltuariamente nella mia mente fin da quando, nel 1974, iniziai il mio cammino di giudice penale. Dubbi sulla funzione educatrice dell’imposizione della sofferenza e sull’attuale sistema carcerario, che non rispetta la dignità dell’essere umano: moltiplica il male, invece di fermarlo, e non garantisce la sicurezza del cittadino. Quei dubbi che mi si erano affacciati alla mente con le parole di Wiesnet (che avevo conosciuto 12 anni fa grazie a un altro gesuita, Guido Bertagna, del Centro San Fedele di Milano), furono poi alimentati dalla lettura di altri saggi, come quello del seicentesco oppositore della tortura, Friedrich von Spee, e dall’amicizia con Silvano Fausti, anch’egli gesuita, biblista di eccezionale umanità e di un pensiero profondissimo". In un’Italia dove gli ideatori di stragi restano misteriosi e la violenza spesso esplode in forme insensate, auspica una riconciliazione nazionale sulla base dell’esperienza delle Commissioni per la verità del Sudafrica e carceri dal volto più umano… "Esatto. Il percorso riconciliativo (che possiamo sinteticamente descrivere come riconoscimento delle proprie responsabilità, acquisizione della consapevolezza del male agito, riparazione della vittima) serve a fermare il male invece di moltiplicarlo, al contrario di quel che succede con l’infliggere una pena". Indichi un modello di carcere virtuoso. "In Europa segnalo il carcere norvegese di Halden in Norvegia. È talmente lontano dalla nostra idea di carcere che qui in tanti lo chiamerebbero albergo di lusso. Vi sono detenute circa 40o persone detenute in 157 mila metri quadrati, e le sezioni abitative non differiscono di molto da una dimora dignitosa". Giustizia. La riforma Gratteri rimasta in un cassetto (per fortuna) di Mauro Mellini Il Tempo, 26 novembre 2016 Nella Commissione istituita da Renzi nel 2014 nove magistrati su 15 membri Risultato? Fino ad ora è stato solo tolto potere al legislatore per darlo alle toghe. All’atto della formazione del Governo Renzi un contrasto con il Presidente Napolitano, che pure di quel Governo era da considerare il burattinaio, sorse sull’attribuzione del Ministro della Giustizia. Secondo la lista di Renzi, a Via Arenula doveva andare Nicola Gratteri, un pm di Reggio Calabria noto - a detta dei suoi detrattori - per il suo oltranzismo giustizialista. Napolitano si oppose. Pare per una questione formale: Gratteri non aveva chiesto l’aspettativa al Csm per essere messo "fuori ruolo" come imponeva l’incarico di ministro. Forse c’era dell’altro, anche se non era certo l’ostilità di Napolitano per quell’oltranzismo ad apparire come probabile causa del veto. Il contrasto ritardò di una giornata la pubblicazione della lista dei ministri. Alla Giustizia andò Orlando, ma Gratteri approdò egualmente a Via Arenula. Si disse, maliziosamente, come "badante" del nuovo ministro. Gli fu affidata la presidenza di una commissione ministeriale "per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità organizzata". Questa la denominazione secondo il decreto della presidenza del consiglio dei ministri del 30maggio 2014, Della Commissione poco o nulla sì seppe ma oggi apprendiamo che essa (insediata il 30 luglio 2014) era composta di quindici membri, di cui due "componenti la segreteria tecnica". Furono chiamati a farne parte nove magistrati (tra i quali pure Piercamillo Davigo), due avvocati, dei quali uno del foro di Locri, e per il resto docenti titolari e non di cattedre, ma di discipline giuridiche anche diverse da quelle penalistiche. Per lo più di Milano. Uno di essi lasciò la Commissione già a novembre 2014. Un altro si limitò ad occuparsi della prescrizione dei reati. I lavori si sono conclusi il 31 dicembre 2014. Assai presto, e a parere di chi scrive, non certo bene. Da allora, infatti, il ponderoso elaborato della Commissione Gratteri (un "malloppo" di 266 pagine) è rimasto nei cassetti del Ministero. Nulla se ne è saputo anche negli ambienti degli operatori del ramo. Il silenzio (inusuale per Renzi che strombetta ogni suo ipotetico "storico evento", ma che qui deve aver inteso puzza di bruciato, ora che deve affrontare il voto popolare), è stato rotto da un’intervista proprio di Gratteri, probabilmente irritato dal silenzio su quel suo lavoro, resa a Il Fatto Quotidiano e ripresa e commentata in maniera non proprio efficace del quotidiano Il Dubbio. In quell’intervista Gratteri definisce il progetto elaborato dalla Commissione (cambiamento di ben 850 articoli tra Codice penale, di procedura e legge penitenziaria) una "rivoluzione giudiziaria". In realtà, per noi che l’abbiamo letto e riletto, questo "malloppo" di modifiche non è affatto "rivoluzionario", anzi il progetto si muove sul solito binario delle "pezze colorate", prive di corrispondenze e principi basilari chiari e puntualmente osservati, cosa che affligge la nostra legislazione da molti decenni a questa parte. E va secondo una direttrice: quella di sopperire alle esigenze dei magistrati, di "alleggerire" il loro lavoro, di soddisfare le loro tendenze. C’è il solito aumento delle pene per la appartenenza ad "associazioni di stampo mafioso" (definite tali anche se composte di "tre o più partecipanti" e, magari, "disarmati", perché se "armati", almeno di una lupara, in quanto "armati c’è pure un’aggravante"). Così la pena è per il solo fatto di essere un mafioso pari o superiore a quello per un omicidio. Non è questa la sede di una descrizione che si pretenda completa dell’innovazione. Si dovrebbe dire, con apparente ossimoro: "Ci sono le novità solite", quelle che hanno ridotto la nostra Giustizia al miserevole e pericoloso stato in cui si trova. Una serie di "novità" dirette ad allentare ulteriormente i vincoli "garantisti" del processo penale. Aggettivi che scompaiono, ad esempio per giustificare intercettazioni: non più "gravi indizi", ma semplici "indizi" (verrebbe da dire, leggendo le cronache, che sempre più spesso capita che i Gip le rilasciano in automatico). E così via. Ma c’è un articolo che da solo racchiude tutta la pericolosità di un disegno assai poco garantista e comporta la sopraffazione del potere giudiziario sul parla mento e sull’intera classe politica. È la proposta di modifica dell’art. 416 ter c.p. (scambio elettorale politico-mafioso). Attualmente il reato, punito con la reclusione da quattro a dieci anni è ascrivibile a chi "accetta la promessa di procurare voti con le modalità..." dell’intimidazione fondata sul vincolo associativo mafioso dei promittenti. Reato, dunque che presuppone un accordo del candidato (o chi per lui) con l’associazione mafiosa, e una promessa di un’incetta di voti esercitata con metodi mafiosi. Ma nella versione "riformata" della Commissione Gratteri basta che l’accettazione della promessa di procurare voti avvenga nei confronti di "un" appartenente ad una associazione considerata mafiosa. Sembra un nonnulla. Ma con il nuovo testo basta intrattenersi "con l’uomo sbagliato" di un paese o di un quartiere per essere incriminato. E rischiare una pena non più "da quattro o dieci anni" (che non è poco...) ma "non inferiore a dieci anni". Reato che comporta l’arresto obbligatorio in flagranza, anche, quindi nei confronti dei parlamentari. Con tale "piccola" modifica tutto il sistema politico-parlamentare rischia di finire alla mercé delle procure. Se poi si tiene presente che un’associazione mafiosa può essere composta da "tre o più persone" ed essere, magari "disarmata", si vede che ce n’è dunque quanto basta per non farsi illusioni sull’effettiva portata liberticida di una tale riforma. Che, del resto, corrisponde ai radicati intendimenti "antipolitici" e antiparlamentari di una parte della magistratura. Potremmo continuare a lungo. C’è solo da osservare che, commentando il fatto dell’esistenza di un progetto-giustizia di Gratteri, Sansonetti, Direttore de Il Dubbio, nell’articolo citato, si domandava se fosse mai possibile che i magistrati, oltre che ad applicare le leggi, si mettano anche a progettarne di nuove. L’eventualità non è così lontana, e l’esperimento di una simile commissione composta per la maggioranza di magistrati, se da un lato non fa ben sperare per il futuro, dall’altro ci convince che occorre liberarsi prima possibile di un premier con simili tendenze "riformatrici". Ecco la storia del processo alla mafia dove la mafia non c’è di Paolo Delgado Il Dubbio, 26 novembre 2016 Nel processo per la trattativa Stato-mafia degli anni 90 almeno si capisce perché compaia il riferimento a Cosa nostra. Pare poco, ma a paragone del processo romano a mafia-capitale, dove per quanto uno si sforzi proprio non arriva a capire cosa c’azzecchi la mafia è già parecchio. Magari fidarsi alla cieca e anzi promuovere sul campo a "icona dell’antimafia", Antonio Ingroia dixit, un tipo che non gli lasceresti il portafogli in mano cinque minuti senza come Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, è stato un tantinello azzardato. Può capitare che qualche magistrato, nel caso il gup Marina Petruzzella, bolli "l’icona", nelle motivazioni della sentenza che un anno fa tondo mandò assolto Calogero Mannino, con parole tali da far tremare el fondamenta del processo a carico degli altri imputati peggio che sotto le case di Amatrice: "L’analisi integrale delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ne ha rivelato l’assenza di coerenza e ha reso palese la strumentalità del comportamento processuale". Fosse solo l’inesistente credibilità del teste chiave ancora la faccenda potrebbe reggersi in piedi, sia pur barcollando peggio di un ubriaco fradicio. Il Gup però, nella medesima sentenza, smantella di brutta il metodo stesso su cui è basato l’impianto accusatorio: "Elementi del contesto politico vengono caricati di valore dimostrativo... poi tutti questi elementi vengono considerati situazioni probatorie o di riscontro indiziario reciproco, in una sorta di suggestiva circolarità probatoria". Si sa che le toghe parlano una lingua tutta loro, che difficilmente l’Alighieri apprezzerebbe. La traduzione di quanto sopra in italiano corrente è comunque stringata: "Teorema" Mannino. La sentenza che lo ha assolto con formula piena dall’accusa di "Minaccia a corpo politico dello Stato" non coinvolge gli altri imputati nel processo per la trattativa Stato-mafia. Non sulla carta, almeno, perché nella sostanza le cose stanno diversamente. Mannino, ras della Dc siciliana ai bei tempi, non era infatti solo l’imputato forse più eccellente nel processone, ma dell’osceno mercanteggio tra servitori dello Stato e onorati macellai era secondo l’accusa anche il motore. Era stato lui il primo e principale a insistere perché di trattasse, temendo soprattutto per la pellaccia propria dopo la sanguinosa fine del compagno di partito Salvo Lima. Caduta l’accusa contro di lui la dinamica del processo resta alla lettera priva di molla. Vero è che qualche dubbio in materia sorgeva anche a occhio nudo, a lume di logica e senza attendere donna Marina Petruzzella. Il frutto dell’inconfessabile connubio sarebbe stato infatti la non conferma del 41bis per 140 detenuti di mafia deciso dall’allora ministro della Giustizia Conso. La norma rigidissima decadde in effetti nel novembre 1993, però meno di due mesi dopo Cosa nostra andò a un millimetro dal realizzare la strage più efferata allo stadio Olimpico di Roma. Tutto è possibile, ma se la trattativa era andata a buon fine che bisogno c’era di quell’ammazzatina di massa che doveva sterminare qualche centinaio d’innocenti? Con tutti i suoi limiti, il processo di Palermo è ancora una perla se paragonato a quello di Roma. Un paio di giorni fa, in aula, un paio di ufficiali del Ros hanno detto senza giri di parole che, a quanto risulta dalle loro indagini, di mafia negli affari di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non c’è traccia. Con immancabile stupore del plotone di cronisti che aveva finto di credere alle spiegazioni della procura. La mafia della Capitale in effetti appariva strana a prima vista. Omicidi: zero. Violenze: zero. Minacce: zero, a meno di non voler considerare tale la frase più pesante che scappa detta al famigerato Carminati, alludendo al camerata Mancini: "Ditegli che mi ha rotto il cazzo". Mazzette, tangenti e corruzione a iosa. Ma la mafia? Trattasi di mafia peculiare e moderna, dissertò la procura. Gente che nemmeno ha più bisogno di usare metodi mafiosi e che tuttavia mafiosa resta dal momento che c’è mafia ogni volta che "si esercita forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo". Messa così, però, il solo malvivente italiano non mafioso risulterebbe essere il compianto Luciano Lutring, detto "il solista del mitra". Su questa base, inoltre, il comune di Roma avrebbe dovuto essere sciolto senza il minimo dubbio, essendo l’infiltrazione mafiosa un allagamento. Così non fu e la spiegazione, offerta a porte chiuse di fronte alle commissioni parlamentari ma ampiamente trapelata, fu che c’era sì stata mafia negli anni dell’amministrazione Alemanno, ma una volta subentrato Marino il rosso sangue si era stinto nel rosato semplice della buona vecchia corruzione, dal momento che a dirigere le operazioni non era più il camerata Carminati ma il compagno Buzzi. In compenso fu sciolto per mafia il municipio di Ostia, dove però in base alla sentenza d’appello del giugno scorso contro don Carmine Fasciani e il suo clan la mafia risulta non esserci... Il funambolismo è in realtà coerente con l’impianto complessivo dell’accusa e che non si riduce a semplice teorema. Nella Capitale c’è mafia perché c’è Carminati, con la sua più volte citata "straordinaria caratura criminale". Detta caratura, oltre che dai trascorsi, è confermata proprio dal fatto che diriga il carrozzone detto appunto mafia capitale. Trattasi quindi di un cerchio: i corruttori delle coop romane e i corrotti dell’amministrazione sono in realtà mafiosi perché di mezzo c’è Carminati, il quale è chiaramente un capomafia perché gestisce quell’affaire. Tutto ciò, sia chiaro, non significa che le mafie non siano in Italia un problema immenso. Ma anche la magistratura non scherza. Cucchi, chiude l’inchiesta bis. Il pm: "fu pestato dai carabinieri" di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2016 Accuse di lesioni e falsa testimonianza a 5 militari, il pm prepara l’avviso di fine indagine. Sta arrivando alle battute finali la difficile inchiesta "bis" della Procura di Roma sulla morte di Stefano Cucchi, il 32enne deceduto dopo un arresto per droga e un ricovero all’ospedale Pertini della Capitale. Per ora sono cinque i carabinieri indagati: due per falsa testimonianza e tre per lesioni aggravate. L’intenzione degli inquirenti è quella di chiudere l’indagine con il 415 bis, atto che di norma prelude a una richiesta di rinvio a giudizio. Sarà poi il gip a decidere se mandare a processo o archiviare. Ma l’inchiesta potrebbe riservare anche altre novità. Il pm Giovanni Musarò sta valutando ulteriori iscrizioni: si tratta di testimoni - anche appartenenti all’Arma - sentiti come persone informate sui fatti che durante gli interrogatori si sarebbero contraddetti. Si entra ora nella fase più impegnata che porterà alla chiusura dell’indagine. Secondo fonti giudiziarie potrebbe arrivare entro quest’anno o al massimo a gennaio. I magistrati alle prese con le perizie Il pm studierà di nuovo tutte le perizie mediche depositate finora proprio per capire l’effettiva portata delle lesioni (contestate dalla Procura di Roma): insomma se siano state le percosse a causare la morte di Stefano Cucchi. L’ultima relazione finita sul tavolo del magistrato capitolino è quella dei periti nominati dal gip Elvira Tamburelli nell’ambito dell’incidente probatorio nell’indagine "bis". In questo caso, per i periti "le lesioni non posso essere considerate correlabili con l’evento morte". Nella perizia di 200 pagine si parla di "una morte improvvisa e inaspettata per epilessia". È l’ennesima causa del decesso del geometra emersa finora. In altre perizie, tra le altre cose, era stato attribuito alla mancanza di cibo e liquidi o anche di cure mediche. Ma torniamo alla relazione dei periti incaricati dal gip Tamburelli. Qui è scritto che: "La tossicodipendenza può aver svolto un ruolo causale favorente per le interferenze con i farmaci anti-epilettici". Come pure "concausa può essere può essere considerata la condizione di severa inanizione, con conseguente drastico calo ponderale, che può aver esaltato gli effetti collaterali dei farmaci epilettici e dell’antalgico". In altre parole, la crisi potrebbe essere stata favorita da droga, perdita di peso e farmaci. Ma nella perizia, si fa anche una seconda ipotesi, correlando la morte "con la recente frattura traumatica di S4 (la quarta vertebra sacrale, ndr) associata a lesioni delle radici posteriori del nervo sacrale che ben possono aver determinato l’insorgenza di una condizione di ‘vescica neurogenica atonicà con abnorme acuta distensione vescicale per l’elevata ritenzione urinaria, non correttamente drenata dal cratere". Anche i periti così hanno riconosciuto l’esistenza di un evento traumatico che ha determinato alcune fratture, in particolare alla terza vertebra lombare e la quarta sacrale. Botte in caserma: i reati contestati Intanto nel registro degli indagati sono iscritti tre carabinieri che prestavano servizio al Comando di Roma-Appia (Francesco Tedesco, Alessio di Bernardo, Raffaele D’Alessandro) accusati di lesioni aggravate: "Spingendo e colpendo con schiaffi e calci Cucchi - è scritto nella richiesta di incidente probatorio - e facendolo violentemente cadere in terra, gli cagionavano lesioni personali, consistite in poli-traumatismo ematoma in regione sopracciliare sinistra, escoriazioni sul dorso delle mani, lesioni escoriate in regione para-rotulea bilateralmente, cinque lesioni escoriate ricoperte da crosta ematica in corrispondenza della cresta tibiale sinistra, altre piccole escoriazioni a livello lombare para-sacrale superiormente e del gluteo destro, con frattura della quarta vertebra sacrale e della terza vertebra lombare". Il pm contesta ai tre agenti l’aggravante di aver abusato "dei poteri inerenti alla qualità di appartenenti all’Arma". Altri due carabinieri, invece, sono indagati per falsa testimonianza: avrebbero detto il falso su quanto avvenuto la notte dell’arresto di Cucchi. Ma la lista degli indagati potrebbe allungarsi. Caso De Luca, quel micidiale e perverso triangolo giustizialista di Francesco Damato Il Dubbio, 26 novembre 2016 L’ultimo caso di Vincenzo De Luca - ultimo per ora, naturalmente - rende superata la sarcastica proposta dell’ex vice presidente della Camera Luciano Violante di separare le carriere dei giornalisti e dei pubblici ministeri, essendosi sinora rivelato impossibile separare quelle dei pubblici ministeri e dei giudici. Vanno finalmente separate anche le carriere, chiamiamole così, dei giornalisti e dei politici per evitare l’uso distorto della giustizia, e relativi uffici, ai fini della lotta fra i partiti, e anche al loro interno. Diversamente continueremo ad avere un triangolo micidiale fra editoria, politica e giustizia. Le cronache della vicenda in corso riguardante il verboso - ahi lui - governatore della Campania sono una dimostrazione di questa triangolazione perversa, che danneggia l’immagine sia del giornalismo, sia della politica, sia della magistratura. Tutto comincia a metà novembre, quando De Luca incontra in un albergo napoletano circa trecento sindaci della sua regione incoraggiandoli con il suo stile più folcloristico che altro a mobilitarsi per il referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale. Mobilitarsi, nel senso di promuovere riunioni, incontri, convincere gli indecisi e spingerli ad apprezzare la riforma e votare per il Sì, che fino a prova contraria non dovrebbe essere un reato. Mobilitarsi, sino a ravvivare gli incontri con qualche frittura di pesce, che non mi risulta neppure essa un reato. È francamente difficile pensare che si possa scambiare seriamente un Si, ma anche un No, con un calamaro o una triglia fritta. In base alle ultime e penultime esperienze referendarie mi era venuto il sospetto che stesse diventando un reato, se già non lo fosse, un incitamento a non votare, visto che c’è una vecchia norma da tutti dimenticata che rende punibile l’astensione consigliata o propagandata da un pubblico ufficiale. De Luca, certamente, lo è ma ha radunato i sindaci per invitarli a votare e far votare, non a disertare le urne. Per tornare al raduno del governatore campano, non se ne può onestamente parlare come di una setta, per quanto festosa, tra risate e applausi. Penso che fra i sindaci o i loro accompagnatori ce ne siano stati anche di poco convinti del Sì referendario e del calore di De Luca. E persino della sua presunzione che la salute del governo in carica sia un affare anche per i Comuni e le loro popolazioni, visti gli stanziamenti già decisi o possibili per realizzare opere e garantire servizi. Neppure questo mi sembra francamente un reato, se non mi è sfuggita qualche legge nel frattempo approvata in questa direzione. Ebbene, a qualche dissidente o accompagnatore di quel maledetto raduno il sospetto deve essere venuto a tal punto da registrare tutto e mandare audio e video, o entrambi, al capofila del fronte giornalistico e politico del No: Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che ne ricava legittimamente e felicemente uno scoop per mettere alla berlina De Luca, ma anche sperando - e questo meno legittimamente, credo - di poter dare uno spunto a qualche ufficio giudiziario. Per un po’ di giorni però, dell’adunata dei sindaci campani si ride più che indignarsi. E poiché non arrivano notizie di indagini, che possano spostare le cronache dalle pagine della politica o del costume a quelle della cronaca giudiziaria, i componenti del fronte referendario del No partecipi della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, che notoriamente non è proprio un’estimatrice di De Luca, naturalmente ricambiata, cercano di portare la vicenda all’esame del loro consesso. Persino la presidente Bindi non ritiene praticabile un simile percorso, ma non può sottrarsi alla richiesta di parlarne in una riunione dell’ufficio di presidenza, dove il Pd, il partito cioè suo e di De Luca, è rappresentato solo da Lei. Che alla fine qualche ragione mostra di trovarla negli argomenti degli altri se, forte di un’annunciata unanimità dell’ufficio, scambiata da qualcuno per unanimità della Commissione, chiede alla Procura di Napoli di mandarle atti di eventuali indagini per poter valutare se vi sono aspetti che possano riguardare anche le competenze antimafiose del consesso parlamentare. Nella Procura napoletana, nonostante i tanti giorni trascorsi dal raduno dei sindaci, indagini non risultano avviate, non potendosi promuovere a tanto un fascicolo predisposto da un sostituto per raccogliervi ritagli di giornali, a cominciare naturalmente da quelli del Fatto Quotidiano. Qualcuno fra i commissari antimafia estranei all’ufficio di presidenza, dove finalmente grillini, berlusconiani, leghisti e sinistra radicale sono riusciti a diventare maggioranza, anzi unanimità, comincia a preoccuparsi. E a chiedersi se l’iniziativa della Bindi non possa prestarsi, a torto o a ragione, ad essere scambiata per una pressione sulla Procura di Napoli perché si decida a muoversi e a farsi sentire. "Così la Commissione muore", si lamenta un’estimatrice. Marco Travaglio, collegato con Lilli Gruber, che ha nel suo studio di Otto e mezzo come ospite il renzianissimo sindaco di Firenze, reagisce con quel suo inconfondibile sorriso sarcastico alla notizia della conduttrice che non risultano indagini giudiziarie in corso sulla nuova vicenda di De Luca. Il quale intanto a Napoli gioca ancora con le parole e le immagini dicendosi curioso di conoscere il "reato di battuta" ed eventualmente difendersene. Smesso il sorriso sarcastico, il direttore del Fatto Quotidiano fornisce però una notizia in diretta. Fa cioè un altro scoop, o procura un altro buco alla concorrenza, come si dice in gergo giornalistico. Egli annuncia, in particolare, che guardie della Finanza, presumibilmente in funzione di polizia giudiziaria, si sono presentate in mattinata nella redazione del suo giornale per farsi consegnare le registrazioni del discorso di De Luca ai sindaci ed altro ancora su quel raduno. Vedremo -ammonisce all’incirca Travaglio gesticolando al suo modo- se davvero non vi sono indagini. Il triangolo ora è completo. Ognuno ha fatto la sua parte: i giornalisti, i politici e i magistrati. Non resta che attendere gli sviluppi e i risultati di questo intreccio di iniziative, prima e dopo il voto referendario del 4 dicembre. Vedremo anche se la cassetta della posta, diciamo così, della Commissione antimafia rimarrà vuota. Ed eventualmente di che cosa si riempirà. Treviso: borse lavoro per i detenuti impiegati nella biblioteca comunale oggitreviso.it, 26 novembre 2016 Il Comune ha messo a disposizione 4mila euro per i detenuti che presteranno servizio. Il Comune di Treviso rinnova il suo impegno a favore della popolazione carceraria impegnata nei servizi di pubblica utilità. L’assessorato ai servizi sociali ha infatti messo a disposizione 4mila euro da destinare alle borse lavoro per i detenuti che presteranno servizio presso la biblioteca dell’istituto penitenziario di Treviso. Nei giorni scorsi il direttore del carcere Francesco Massimo ha voluto ringraziare il sindaco Giovanni Manildo e l’assessore al sociale Roberto Grigoletto con una lettera. "Il carcere non solo come luogo dove si sconta una pena, ma come occasione di riabilitazione della persona - dichiara il vicesindaco e assessore al sociale Roberto Grigoletto. Noi ci crediamo molto per questo continuiamo come amministrazione a sostenere questo impegno". Genova: la denuncia del Uil-Pa "trovati cinque telefonini nel carcere di Marassi" genovapost.com, 26 novembre 2016 Nuovo allarme di Fabio Pagani, segretario regionale della Uil-Pa Penitenziari, sulla critica situazione delle carceri italiane, soprattutto sotto il profilo della sicurezza: la denuncia arriva dopo il recente ritrovamento di cinque cellulari dietro le sbarre di Marassi da parete della Polizia Giudiziaria. "In un grande magazzino di stoccaggio di materiale umano, quali sono oggigiorno le carceri italiane, in cui accedono quotidianamente a vario titolo centinaia di persone troppo spesso sottoposte a controlli frettolosi e superficiali per manifesta insufficienza di operatori di Polizia Penitenziaria ed inesistenza di adeguata strumentazione tecnologica, il fatto che possano essere introdotti in maniera fraudolenta oggetti non consentiti non solo sta nel novero delle cose possibili, ma va considerato evento facile e probabile" ha spiegato Pagani. Per il segretario Uil-Pa va riconosciuto il grande impegno dei lavoratori della polizia nell’adempimento ai loro compiti in una situazione di forte sofferenza: "Se il sistema carceri in qualche misura regge ancora, nonostante tutto, è solo grazie all’instancabile prodigarsi degli operatori, in primis quelli della Polizia Penitenziaria, a cui va il riconoscimento ed il plauso della Uil per la brillante operazione straordinaria, anche di intelligence, che ha permesso ieri sera il ritrovamento di cinque cellulati che, evidentemente, permettevano ai reclusi, o almeno ad alcuni di loro, di mantenere i contatti con l’esterno al di fuori di qualsiasi filtro, vanificando, di fatto, una tra le funzioni fondamentali della pena". Secondo Pagani la situazione, se non si corre ai ripari rischia di sfuggire di mano: "Se possono penetrare telefoni cellulari e caricabatteria, cos’altro potrebbe essere introdotto? Droga? Armi? Da mesi denunciamo in ogni sede e con ogni legittimo strumento i mali del sistema determinati in questa fase storica soprattutto (ma non solo) dall’eccezionale sovrappopolamento degli istituti penitenziari a cui si contrappone un altrettanto eccezionale sottodimensionamento della Polizia Penitenziaria, tuttavia su questi temi si continua a registrare la pressoché totale indifferenza". Pisa: condannati per l’evasione beffa dal carcere Don Bosco di Mario Neri Il Tirreno, 26 novembre 2016 In due si calarono con le lenzuola: 3 anni di pena. Torna in carcere l’uomo che li aiutò. Quattro anni fa fece scattare un allarme sulla sicurezza delle carceri in Toscana. Il terzo caso di evasione nel giro di pochi giorni. Senza contare che per la seconda volta in due anni qualcuno fuggiva dal Don Bosco calandosi dal muro di cinta aggrappato alle lenzuola. La prigione in cui aveva "soggiornato" anche Totò Riina sembrava un colabrodo, una groviera del sistema penitenziario. La direttrice e il comandante del reparto di polizia carceraria pagarono il "buco" con la rimozione. Anche perché per giorni carabinieri e polizia furono costretti a dare la caccia a Francesco Zazzaro. Campano, 44 anni, l’unico ad essere riuscito nell’impresa dato che la corsa del compagno d’evasione, Mourin Bougera, tunisino di 31 anni, si concluse sul marciapiede con la frattura del bacino. Da ieri quel bug è stato cancellato. I due, sotto processo per essere evasi di prigione, in pratica sono stati condannati a rientrarci. Per entrambi il giudice Luca Salutini ha stabilito tre anni di reclusione, mentre un anno e otto mesi dovrà scontarlo Roberto Sandrelli, viareggino di 51 anni, che all’epoca si trovava al Don Bosco per reati di droga e aiutò i due a scappare. Assolto invece Samuele Roviezzo, 42 anni di Pescia, ancora detenuto per concorso in omicidio, scagionato però dall’accusa di aver aiutato i due a procurarsi gli strumenti per scavare il buco in un muro e poi piazzare una scala nel cortile per salire sul muro di cinta. Succede tutto all’alba dell’8 gennaio 2012. Bougera e Zazzaro, all’epoca detenuto e in attesa di giudizio per rapina, dopo giorni di scavo, riescono a rimuovere tre pietre dalla parete del centro clinico, profondo appena 50 centimetri. Da lì escono nel cortile, dove trovano una scala. Dovrebbe appartenere a un cantiere vicino per la costruzione di un altro padiglione, ma non si sa come è fuori dal recinto e consente loro di scalare il muro di cinta e poi calarsi fuori con le lenzuola. La tecnica, seppure vintage, era andata bene due anni prima a due albanesi. Per il tunisino si rivela disastrosa: il lenzuolo si strappa e lui precipita fratturandosi il bacino. Lui, sì, viene subito catturato. Zazzaro invece riesce a fuggire, è costretto a un piano B, ma ce la fa, fuggendo a bordo di una utilitaria. E ci riesce anche perché l’impianto di allarme installato sul perimetro della casa circondariale non funziona, da tempo i sindacati di polizia denunciano la falla del sistema di sicurezza. Alla fine i carabinieri, in collaborazione con la squadra Mobile di Pisa, lo braccano sei giorni dopo a Caivano, in provincia di Napoli. A poco più di quindici giorni dall’accaduto, i vertici dell’amministrazione penitenziaria prendono provvedimenti. La direttrice reggente, Santina Savoca, arrivata da appena tre mesi, viene sostituita. E la stessa sorte tocca al capo del reparto di polizia penitenziaria, Marco Garghella. Provvedimenti duri, che fanno scattare la rivolta dei sindacati, anche perché a caldo, Maria Pia Giuffrida, Provveditore regionale per le carceri ammette che "purtroppo mancano soldi per la manutenzione". E per questo il sistema di allarme è out da mesi. "Questo provvedimenti non sono la soluzione per i problemi che attanagliano da decenni il Don Bosco", scrivono nei comunicati i sindacati Sappe, Osapp, Uil, Sinappe e Cgil. Allarmi che da allora si sono ripetuti più volte, l’ultimo sullo stato generale del carcere lanciato pochi giorni fa da una delegazione regionale del Partito Democratico. Fossano (Cn): combattere la violenza di genere abbattendo pregiudizi, iniziativa in carcere targatocn.it, 26 novembre 2016 Il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Questo dato è noto ormai quasi a chiunque, sebbene il numero delle donne vittime di violenza non accenni a diminuire e le pagine della cronaca siano talmente piene di fatti di violenza da rischiare che passino quasi inosservati. Alla casa di reclusione di Fossano, ieri mattina, 25 novembre i detenuti, su invito delle educatrici, ma in modo autonomo, hanno portato in scena un momento di approfondimento e confronto su questo tema. Lettura di articoli di giornale, musiche a tema, testimonianze tanto dirette quanto sofferte, testi originali, analisi di dati statistici e un momento di confronto con alcune donne per prendere coscienza del fatto che i primi a dover dire "basta" alla violenza sulle donne devono essere gli uomini. Preparato in pochi giorni, i 90 minuti regalati dai detenuti ai presenti sono stati privi di vuota retorica e hanno colpito come pochi confronti sanno fare. Organizzata da una quindicina di ristretti sotto la sapiente e colta regia di Angelo, la mattinata ha saputo spingere alla riflessione i presenti e ha dato l’entusiasmo per continuare nella progettualità. Nell’arco di poco tempo i detenuti coinvolti hanno anche realizzato una panchina rossa nel loro laboratorio di carpenteria in modo da conservare un simbolo tangibile di quello che è un fenomeno che va arginato a tutti i livelli. E il desiderio è che il progetto non si fermi, ma diventi un impegno di riflessione quotidiano. Dove meglio che in una casa di reclusione interamente maschile si può riflettere sul ruolo delle donne e su come creare una società che non si lasci andare alla violenza, ma lavori per trovare linguaggi di convivenza pacifica? "Quando mia moglie mi ha lasciato i miei amici mi dicevano "io l’avrei ammazzata se mi avesse fatto quello che lei ha fatto a te". Non l’ho fatto e ne sono orgoglioso perché ora i miei figli hanno una madre e un padre" raccolta Ibrahim. "Io non sono stato violento, ma sono figlio di un padre violento e a mia volta ho sbagliato dandomi al gioco, mentendo e ingannando mia moglie e i miei figli. Io sono grato a mia moglie perché mi è rimasta accanto" racconta Beppe commosso. E ancora: "Nel mio paese si diceva ‘quando torni a casa la sera, picchia tua moglie, tu non sai perché, ma lei sì’. Io credo che si debba ribaltare questa affermazione ‘Quando torni a casa la sera dì a tua moglie che la ami, abbracciala al mattino e poi di nuovo alla sera. Lei forse non lo sa perché, ma tu sì". Quelli citati sono frammenti dei racconti dei detenuti dei giorni scorsi che poi sono stati scritti e letti nel corso della mattinata. Larino (Cb): "L’amore (s)mascherato", in carcere la Giornata contro il femminicidio primonumero.it, 26 novembre 2016 Riflessioni, piatti a tema, poesie. "La cultura del rispetto per fermare la violenza sulle donne". Nella casa circondariale frentana l’evento "L’amore (s)mascherato" promosso dalla sede carceraria dell’Istituto Alberghiero "Federico di Svevia" di Termoli. Numerosi interventi di esperti si sono susseguiti davanti alla platea dei detenuti studenti, che hanno realizzato rappresentazioni culinarie, cartelloni, lavori in legno dedicati alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Le riflessioni degli esperti, le rappresentazioni culinarie a tema, realizzate dai detenuti studenti, che hanno espresso i loro pensieri anche attraverso poesie e messaggi toccanti. Un unico filo conduttore: la sensibilizzazione sulla violenza contro le donne, che in una deriva inquietante annovera dall’inizio del 2016, fino a oggi, in Italia, 117 vittime. L’escalation sconvolgente ha interrogato le coscienze di tutti i presenti all’evento "L’amore (s)mascherato", con cui nel carcere di Larino è stata celebrata la Giornata internazionale che ricade il 25 novembre. L’iniziativa organizzata dalla sede carceraria dell’Ipseoa "Federico di Svevia" di Termoli con la collaborazione della Onlus Penelope, Associazione nazionale delle famiglie e degli amici delle persone scomparse, della Polizia di Stato e del Ministero della Giustizia ha visto un susseguirsi di interessanti interventi, introdotti dal direttore della casa di reclusione Rosa La Ginestra e dal dirigente scolastico dell’Ipseoa Maria Chimisso. "È necessario puntare su un cambiamento culturale, sul rispetto della persona, bisogna riflettere su quello che sta diventando un fenomeno sempre più diffuso e trasversale", il messaggio lanciato più volte dalla dottoressa La Ginestra. Il dirigente dell’istituto didattico ha messo in evidenza il bisogno di trasmettere contenuti positivi, a cominciare dalla scuola: "Purtroppo la violenza di genere è considerata sistemica, e si esprime prima di tutto nel contesto familiare. Un livello culturale più alto non costituisce una garanzia. Dobbiamo impegnarci tutti per un’idea di società migliore". L’avvocato Antonio Maria La Scala, presidente nazionale dell’associazione Penelope, ha parlato dei numerosi casi di donne scomparse, dalla denuncia di allontanamento volontario all’occultamento di cadavere. "Dal 1974 al 30 giugno 2016 si contano 37mila persone di cui non si ha più traccia, la metà delle quali minori - ha affermato l’ospite - Il problema delle scomparse è molto diffuso, per questo parlarne è l’unica forma di prevenzione possibile, apriamo gli occhi agli altri". Il dirigente della Questura di Campobasso Domenico Farinacci ha approfondito il tema della prevenzione e della metodologia di intervento della Polizia: "Recentemente il numero di omicidi è sceso al di sotto dei 500 ogni anno, quelli maturati in ambito affettivo sono 150, e uno su 3 o su 4 si consuma in un contesto familiare. Si creano situazioni per le quali gli uomini non sono più padroni delle loro azioni. Anche il semplice insulto è indicativo di qualcosa che non funziona. Gli uomini devono sapere che se hanno commesso un atto violento si ripeterà in modo sistematico e in forma crescente". La psicologa Sara Fauzia si è concentrata sugli stereotipi e sulle discriminazioni alla base della violenza di genere: "Gli stereotipi di genere si riversano sui ruoli sociali. Possiamo modificarli, alcuni fortunatamente sono già cambiati. La radice della violenza deve essere eliminata pensando agli altri come persone, con i nostri stessi diritti". L’avvocato e docente dell’Ipseoa Barbara Borrelli ha focalizzato l’attenzione sulle luci e ombre della normativa, ripercorrendo con un excursus storico i più significativi provvedimenti legislativi fino ad arrivare alle nuove norme per il contrasto della violenza di genere che hanno l’obiettivo di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime: "Il dl 93/13 punta a dare un chiarissimo segnale di contrasto e di lotta senza quartiere al fenomeno del femminicidio e della violenza sulle donne. È una strada, cioè riconosce che maltrattamenti e atti persecutori sono considerati, anche dalle autorità competenti, reati gravissimi. In quanto normativa di emergenza presenta lacune legislative, pregiudizi di genere e mancanza di risorse". Dopo il convegno i detenuti studenti della sezione carceraria dell’Ipseoa hanno letto le poesie, i pensieri coniati sul tema della giornata, per la quale sono stati realizzati cartelloni, lavori in legno e originali composizioni con la pasta, e introdotto le rappresentazioni culinarie preparate per l’evento. Una bambola avvolta in un abito confezionato con fette di prosciutto, zucche intagliate con la riproduzione della silhouette di una donna, riso alle rose, cocktail "Amore e passione", cioccolatini: gli studenti detenuti, con impegno e dedizione sono stati protagonisti della presentazione gastronomica, davanti alla platea, che ha gustato anche le prelibatezze del buffet a base di pesce. Pesaro: nono mese di attività per il rugby nel carcere di Villa Fastiggi di Giuseppantonio De Rosa (Allenatore F.I.R.) Ristretti Orizzonti, 26 novembre 2016 Giunge al nono mese il progetto "Extra: il Rugby per rieducare", che propone attività motoria e conoscenza del gioco ai detenuti della Casa Circondariale Pesaro - Villa Fastiggi; conta attualmente 22 atleti, con 41 partecipanti avvicendatisi nelle 120 ore tra allenamenti in campo e formazione d’aula. Svolto ogni sabato mattina, dal 27 febbraio scorso, il corso nasce dalla volontà di Giuseppantonio "Beppe" De Rosa in accordo con Direzione e Area Pedagogica del penitenziario pesarese; registra il patrocinio della Federazione Italiana Rugby unitamente al supporto tecnico/logistico dell’Asd Pesaro Rugby. Risultando totalmente autofinanziato, è reso possibile dalla collaborazione volontaria di un nutrito gruppo di 32 appassionati: allenatori, arbitri, educatori, giocatori, professionisti del settore. Si tratta d’una esperienza umana e sportiva intensa, "...capace di trasmettere un crescente senso di gratificazione, con la percezione d’una entusiasmante motivazione da parte degli atleti detenuti", come dichiara il Dott. Pier Paolo Gambuti, ex giocatore, psicologo ed educatore F.I.R. "Va sottolineato il clima di rispetto delle regole, del setting in campo e fuori, in particolare nello spirito di gruppo che spesso si traduce in responsabilità individuale nella gestione dei materiali e accessori di gioco; la partecipazione degli atleti - spesso subordinata a tante difficoltà nelle strette maglie della burocrazia interna - fa da contrappeso ad una volontà attiva e coinvolgente sul campo. Allenamenti svolti su un campo non idoneo, non tolgono la voglia e la curiosità dei partecipanti a sperimentare azioni di contatto, mettendosi in "gioco" senza paure o restrizioni nel gesto atletico e agonistico. Colpisce la sensibilità nel coadiuvare i compagni con meno esperienza, stando contemporaneamente nella giusta "subordinazione" verso l’allenatore/educatore presente; essendo per formazione esperto di processi psichici e motori, vedo anche una attenta richiesta di informazione sulle modalità migliori per essere in condizione psico-fisica". Fortemente voluto il coinvolgimento dei "giudici di gara", in un contesto dove rispetto delle regole, violazione dei principi e sanzioni, sono fondamentali; Davide Gatta - arbitro effettivo, formatore regionale e giudice di linea nazionale - ricorda il forte impatto che ebbe l’avvio dell’esperienza. "La prima volta in carcere è pesante. Le sbarre, le procedure di sicurezza, i lucchetti che si aprono e si chiudono, non passano senza lasciare il segno, accompagnati dal "se dovesse capitare a me, come farei?"; a colpirmi non furono i motivi della detenzione né la storia dei partecipanti, ma la loro condizione di persone private della libertà. Mi resi conto che tutti possono commettere un errore grave... bastano condizioni al di fuori del proprio controllo per sbagliare: il momento, il luogo, la particolare situazione, pur riconoscendo la responsabilità finale nella persona. Non volli conoscere le storie giudiziarie di chi partecipava al progetto, sentendo che, in fondo, si trattava di persone che come me, condividevano per un momento il gioco del rugby: anche commettendo uno sbaglio grave, non si è il proprio errore. Dopo diversi mesi, mi resta la lezione data involontariamente da quegli atleti: nel bene o nel male, al di là delle questioni di giudizio, loro riconoscono di aver sbagliato e ne accettano le conseguenze; in "comunità libera" questo atteggiamento è difficile da trovare: si è diffusamente inclini a sottrarsi alle proprie responsabilità, cercando nella giustificazione dei propri comportamenti, le motivazioni per l’autoassoluzione". Femminicidio. Gli orfani di madri assassinate dai padri, la doppia uccisione della vita di Carla Busato Barbaglio* Il Manifesto, 26 novembre 2016 C’è possibilità di sopravvivenza alla violenza? Gli orfani di madri assassinate dai padri sono bambini e adolescenti che non possono fidarsi più di nessuno, spesso abbandonati alla loro solitudine. Ma devono essere accompagnati nel loro percorso di crescita per far fronte a un evento così tragico. La cifra "delle vittime delle vittime" del femminicidio è impressionante, una doppia uccisione della vita. In Italia, ci sono 1628 orfani. Figli che si ritrovano all’improvviso senza i genitori: perdono la madre, uccisa nella maggior parte dei casi dal marito o dal partner, e anche il padre, che finisce in carcere oppure si toglie la vita. I figli affrontano tutto ciò che segue travolti da uno tsunami, profondamente soli. L’onda ha reso tutti attorno protagonisti del "si salvi chi può": i figli delle vittime sono per lo più abbandonati, spesso anche dalle istituzioni (che dovrebbero essere preposte a creare circuiti di aiuto), quando non immessi in percorsi di aiuto sterili se non dannosi. Per quanto riguarda i femminicidi, l’Italian Journal of Pediatrics ha documentato che dal gennaio 2012 fino al mese di ottobre 2014 sono morte 319 donne e ben 209 su 319 sono state uccise dal marito o ex compagno. In meno di tre anni, gli orfani ammontano a 417, di cui 180 minori all’epoca dei fatti. 52 di loro, di cui 30 minorenni, hanno assistito direttamente al terribile omicidio. Si può sopravvivere alla violenza, intendendo con questo l’atto che arreca morte, come pure il profondo malessere che lo precede e che è impastato di storia dolorosa, a volte abusante, altre di trascuratezza estrema? Per molti bambini o adolescenti con lutti, la morte fa parte della vita, ma è difficile da tollerare e direziona passaggi complessi e perdite. L’uccisione in sé - e in modo particolare della madre da parte del padre - è qualcosa che segna violentemente (senza possibilità di agganci interni e, purtroppo, neanche esterni) l’essere al mondo di un bambino, un ragazzo, un adulto. Tutto è senza senso e, nello stesso tempo, assume un senso terribile. La persona che nella realtà - così come nell’immaginario - dovrebbe costituirsi assieme alla madre a protezione della crescita, dell’accoglimento dei disagi, delle paure e co-creatore di belle esperienze, si fa assassina. Invece di operare per la vita, quella vita la toglie. Ognuno di noi, di fronte a questo, rimane senza fiato, senza risposte, ma chi lo vive sulla propria pelle quale fiato per sopravvivere può trovare in sé? Come può funzionare la mente di fronte a simile ferocia? Quali stati dissociativi bisogna attivare per poter rimanere in vita e nel tempo fare integrazioni per ripristinare una speranza? Di chi ci si potrà mai davvero fidare? È importante cercare di capire come la mente riuscirà a far fronte a uno stato di impotenza assoluta, in cui si è invasi da colpa, vergogna, senso di frammentazione, senza perdersi o arrestare qualsiasi possibilità di crescita sana. Prendiamo come esempio un adolescente o un ragazzo che si stia avviando all’età adulta: potrà mai accedere ai livelli di intimità con l’altro? Su che cosa avverrà la costruzione della propria identità? Come potrà integrare in sé la storia che ha portato alla catastrofe con il prendere in mano la sua vita? Non è stato motivo di vita per i suoi genitori, ha creduto in persone che sempre più si sono rivelate inaffidabili per la sua crescita e per il suo essere riconosciuto figlio, l’evento ultimo (il femminicidio, ndr), in fondo, ne è la siglatura. C’è un altro aspetto, inoltre, da indagare, molto serio. Lo sguardo che su di lui poserà la società. Verrà additato come un diverso. Una volta c’erano i figli di "NN", ora sempre di più i figli di assassini. Sappiamo, sostenuti ormai da molte ricerche, come lo sguardo dell’altro, della società, crei percorsi non solo mentali ma anche cerebrali che segnano traiettorie nel modo di esistere, solchi profondi e inguaribili. La vita cambia nell’esplosione di questi drammi, ma tutto era in nuce già dall’inizio della coppia, apparteneva alla dinamica famigliare stessa: il delitto rende evidente quanto si è a lungo vissuto e rivissuto. Certamente le risposte sono differenti a seconda dell’età nella quale quei drammi si consumano, dalla qualità delle persone che sono accanto, dal tipo di aiuto che l’ambiente circostante è in grado di fornire. I bambini che hanno conosciuto orrori spesso non riescono a fermare le immagini violente che si ripresentano in modo intrusivo. Non è ancora chiaro se i contenuti dei ricordi siano la riproduzione esatta del fatto originario, ma ricerche attuali dicono che i soggetti rivivano in modo particolare l’esperienza emotiva legata agli eventi fino a coinvolgere altri sensi, come l’udito e l’olfatto… Si ricorda l’esperienza emotiva del trauma più che la sua rappresentazione fotografica, i dettagli non sono necessariamente precisi, l’evento ritorna come incubo, anche se non si è stati presenti. Per continuare la vita, va elaborato il dramma vissuto. Che non è mai frutto del caso o di un raptus improvviso, ma accade dopo violenze domestiche ripetute, fisiche e psicologiche spesso mascherate, e a lungo, dalle stesse madri vittime. Le storie di femminicidio non vivono solo nelle stanze dei poveri o emarginati, ma trasversalmente appartengano a tutti e ciò non è di poco significato. Portano con sé, come conseguenze, esistenze disattese, che poi rischiano di produrre in un ciclo interminabile dolore, drammi, dipendenze, qualità di vita segnata malamente. Si può sopravvivere alla violenza? Certamente, ma a quale prezzo? Molti studi sostengono che i bambini traumatizzati, una volta divenuti adulti, hanno più problemi fisici e psicologici degli altri, specie se non si tratta di un singolo trauma ma di una serie, una sommatoria di esperienze negative. Cosa offre la società affinché questi ragazzi non finiscano in circuiti pericolosi, affinché si diano comunque "sopravvivenza"? È necessaria una rete di protezione per poter convivere con esperienze tanto infelici. La società dovrebbe investire, dalla nascita in poi, in tutti i luoghi deputati alla crescita: dai servizi di consultazione, alle cooperative ai reparti di maternità agli asili alla scuola, in ognuna delle sue ramificazioni. Serve un controllo sui mass media, l’informazione, la propaganda occulta, gli spacci ecc. Quale attenzione viene offerta oggi a tutto ciò che è inerente la crescita? Quale formazione, al di là della propaganda agli operatori che lavorano a vari livelli, in situazioni complesse, perché siano veramente capaci di aiutare la vita? I segni dello tsunami che inizia a montare e a crearsi, se si hanno buoni occhi e sensori raffinati per vedere, sono individuabili molto precocemente. In corso d’opera e non a delitto avvenuto. *Psicologa, psicoterapeuta infantile, docente della Società Psicoanalitica Italiana Le minacce sul web, un violento stupidario da fermare di Dacia Maraini Corriere della Sera, 26 novembre 2016 La rete sembra invitare i malmostosi all’invettiva. Li esorta allo sfogo, nascondendosi dietro un nome falso, un account preso in prestito. L’anonimato tira fuori il peggio di una collettività che ha perso il senso del rispetto verso l’altro e verso se stesso. Fa bene Laura Boldrini a rivelare le invettive che riceve in rete. Insulti, insinuazioni, violenze verbali, perfino minacce di morte. A leggerli si rimane esterrefatti: da dove viene questo rigurgito linguistico, questa brutalità che si riversa sulle persone in vista, soprattutto quando sono donne? Si può capire che ci siano momenti in cui la rabbia per la perdita del lavoro, per le difficoltà economiche, per la perdita del controllo sulla propria vita porti a forme di ribellione cieca e furiosa. Ma la rabbia che si trasforma in progetto è vitale, quella che si trasforma in volgarità e ingiuria, è mortuaria. Una persona equilibrata e razionale impara nella vita a dominare questo tipo di sentimenti irosi. Li sublima e li trasforma in riflessioni sulla realtà. Ma è successo che la capacità di sublimazione si sia frantumata e le persone siano rimaste sole con il proprio rancore e le proprie viscere contorte. La rete sembra invitare questi malmostosi all’invettiva. Li esorta allo sfogo, nascondendosi dietro un nome falso, un account preso in prestito. L’anonimato tira fuori il peggio di una collettività che ha perso il senso del rispetto verso l’altro e verso se stesso. Nei momenti di crisi, scrive William Reich che è stato un acuto allievo di Freud, la gente regredisce allo stato di branco e si cerca un Capo da adorare e poi in seguito sacrificare. Non importa che sia un padre cattivo, egoista, crudele e incompetente. Conta che abbia un carisma e comunichi un senso di onnipotenza. Che questa onnipotenza si basi sul nulla, non importa. L’esplosione dei muscoli e la faccia feroce, come succede con gli animali, produce una euforia contagiosa. Al branco basta l’illusione scintillante della propria autoreferente autorità. Si tratta di una enorme frode naturalmente ma tranquillizza gli impauriti. Il capobranco è per tradizione un maschio della specie. L’uomo narcisista che si crede il preferito dal cielo, rassicura e seduce. Di solito questo padre autoritario disprezza le donne e condivide con i suoi adoratori l’odio per la libertà e l’autonomia del pensiero e del corpo femminile. Le donne sono lì per servire e appagare i desideri erotici del capo. Cosa aspettiamo a mettere un freno, anche legale, a questo stupidario minaccioso e insolente? Migranti. I duri dettano legge di Carlo Lania Il Manifesto, 26 novembre 2016 Più controlli alle frontiere esterne, ma anche a quelle interne. L’Europa si chiude, la cancelliera Merkel si accoda. L’accordo sui migranti firmato a marzo con la Turchia funziona, ma non basta più. Ne servono altri, uguali nei contenuti, da siglare con altri paesi di origine o di transito dei migranti. A cominciare dall’Egitto, diventato ormai il secondo paese dopo la Libia per il maggior numero di partenze. Ma anche Mali, Niger, Senegal, Afghanistan e Pakistan con i quali bisognerà trattare accordi per facilitare i rimpatri. La proposta, ma sembra più un ordine, è uscita ieri a Vienna al termine del mini-vertice voluto dal cancelliere austriaco Christian Kern e al quale hanno partecipato i capi di stato e di governo di Ungheria, Albania, Bulgaria, Croazia, Macedonia, Serbia e Slovenia, più la cancelliera Merkel e il premier greco Tsipras. In pratica tutti i paesi coinvolti dalla vecchia rotta balcanica chiusa lo scorso mese di febbraio in un vertice analogo tenuto sempre a Vienna (ma al quale non parteciparono Merkel e Tsipras) e successivamente blindata proprio con l’accordo siglato dall’Unione europea con Ankara. La paura che quel percorso - lungo il quale nel 2015 è passato più di un milione di profughi diretti a nord - possa oggi riaprirsi, magari sotto la spinta degli oltre 50 mila profughi siriani rimasti bloccati in Grecia, ha convinto Kern a convocare la riunione alla quale sono stati presenti anche il presidente del consiglio europeo Donald Tusk e il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos. Tusk, in particolare, ha dimostrato di aver ben compreso il messaggio inviato ieri all’Europa. "Dobbiamo confermare politicamente e nella pratica che la rotta dei Balcani occidentali per la migrazione irregolare è chiusa per sempre", ha scandito alla fine del vertice. Toni radicalmente diversi rispetto a quelli utilizzati meno di un anno fa dai leader dell’Unione. "Ce la faremo", diceva la Merkel ai tedeschi invitandoli ad accettare la sfida dell’accoglienza, mentre il presidente della commissione Ue Jean Claude Juncker attaccava i paesi che si opponevano alle quote di migranti minacciando multe da 250 mila euro per ogni profugo rifiutato. Sono passati pochi mesi e la musica è cambiata. "Vogliamo fermare l’immigrazione clandestina" ha detto ieri la cancelliera, seppure aggiungendo che, certo, "non dobbiamo sottrarci alle nostre responsabilità umanitarie". "Dobbiamo essere noi quelli che decidono chi entra in Europa, e non le organizzazioni di trafficanti", le ha fatto eco Kern. Il progetto messo a punto ieri prevede un ulteriore rafforzamento non solo delle frontiere esterne dell’Unione, ma anche di quelle interne da mettere in atto grazie a un rafforzamento di Frontex e all’impiego della Guardia costiera e di frontiera europea, il cui debutto è previsto per il 6 ottobre al confine tra Bulgaria e Turchia. Un intervento, quello della nuova forza europea, previsto anche ai confini della Grecia con Macedonia e Albania e che, se è vero quanto rivelato dal quotidiano tedesco Die Welt che cita il direttore di Frontex Fabrice Leggeri, sarebbe stato richiesto proprio da Atene. Alcune delle proposte, come la necessità di arrivare ad accordi con i paesi africani uguali a quello siglato con la Turchia, faranno piacere a governo italiano che sollecita da tempo migration compact che siano in grado di fermare le partenze dall’Africa (obiettivo al quale, tra l’altro, Roma sta provvedendo da sola). Ma la scelta di schierare le guardie di confine europee alle frontiere di Bulgaria, Macedonia e Albania sembra tradire l’intenzione che non si vogliano fermare solo i migranti economici, ma anche impedire nuovi ingressi di profughi siriani. Scelte che sono altrettanti tentativi di rispondere alle opinioni pubbliche nazionali sempre più attratte dai movimenti populisti in crescita in Europa. In Austria, dove nei primi sei mesi di quest’anno si sono avuti 24 assalti contro altrettanti centri di accoglienza di migranti, il doppio rispetto a tutto il 2015, il 4 dicembre si voterà di nuovo per l’elezione del presidente della repubblica e il leader del’Fpo Norbert Hofer potrebbe essere il primo capo di stato di estrema destra in Europa dal 1945. Mentre il 2 ottobre in Ungheria un referendum metterà definitivamente la parole fine al progetto di Juncker di distribuire i profughi in Europa. Naturalmente, come direbbe la Merkel, senza dimenticare le nostre responsabilità umanitarie. Bruxelles, schiaffo all’Italia: un inglese all’ufficio Migranti di Marco Bresolin La Stampa, 26 novembre 2016 Nuovo scontro con la Commissione. Il viceministro Giro: quel posto era nostro. Per il governo è uno schiaffo all’Italia, "una vera e propria presa in giro". Dopo i botta e risposta a distanza sulla manovra, si apre infatti un nuovo fronte nella disputa tra Roma e Bruxelles. Questa volta si tratta di una vicenda che riguarda la questione immigrazione, la Brexit e le nomine interne alla Commissione. Tutto in un colpo solo. Un episodio che rischia di incrinare ulteriormente i rapporti con l’Unione europea, negli ultimi tempi tutt’altro che idilliaci. Martedì l’istituzione guidata da Jean-Claude Juncker ha infatti deciso di promuovere vice-direttore generale del settore Migrazione e Affari Interni Simon Mordue. Il suo nome ovviamente dice poco al pubblico. Quella che fa rumore, in questo caso, è la sua nazionalità. Mordue è britannico. E in lizza per quel posto c’era un altro funzionario, italiano. È stato un testa a testa fino agli ultimi giorni. Ma alla fine hanno preferito promuovere l’inglese, nonostante il Regno Unito presto uscirà dalla Ue. Boom. "Una cosa pazzesca" tuona Mario Giro, viceministro italiano agli Esteri. Per lui la decisione della Commissione è "inaccettabile". "Nulla contro la persona", precisa Giro, che però contesta la nomina su due fronti. Prima di tutto perché "non è possibile che si continui a nominare funzionari britannici quando è il loro governo a dire che "Brexit vuol dire Brexit". Per di più in una posizione sensibile come questa, la Dg Home (Migrazione e Affari Interni, ndr) che avrà la responsabilità della gestione degli hotspot". Ma l’aspetto che più ha dato fastidio è un altro. L’Italia è a oggi lo Stato europeo più colpito dalla crisi migratoria e quello che più di tutti si batte per chiedere un cambiamento nelle politiche comunitarie. Renzi si sente in credito su questo fronte, anche perché le soluzioni fin qui offerte da Bruxelles - a cominciare dalla redistribuzione dei richiedenti asilo - non hanno aiutato il nostro Paese. In corsa per quel posto da vicedirettore generale c’era un italiano. "Nelle posizioni-chiave siamo sottorappresentati - aggiunge il viceministro, questa era la giusta occasione per un riequilibrio, visto che avevamo un ottimo candidato". E invece è arrivata la beffa: il nostro connazionale è stato scavalcato dal collega britannico. La Commissione ha preferito promuovere Mordue, che proviene dalla direzione generale "Near" (Vicinato e allargamento), in passato capo di gabinetto dell’ex commissario ceco Stefan Fule, che nella seconda Commissione Barroso era titolare proprio di quel portafoglio. Mordue negli ultimi anni ha lavorato al "patto" con la Turchia, il contestato accordo che però ha arrestato gli arrivi in Grecia (ma non quelli in Italia lungo la rotta del Mediterraneo Centrale). Recentemente tra i funzionari britannici si sono diffusi un po’ di timori per il loro futuro lavorativo all’interno delle istituzioni Ue dopo la Brexit. E secondo alcune voci la nomina sarebbe anche una sorta di "segnale" di apertura nei loro confronti da parte della Commissione. In questo caso a spese dell’Italia. Migranti. Erdogan e la "bomba umana" del ricatto di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2016 Il ricatto di Erdogan sui migranti arriva puntuale secondo un copione seguito da tutti i rais mediorientali: può stupire soltanto i parlamentari europei, che evidentemente vivono in un mondo a parte. E ai quali, nonostante gli attentati jihadisti, forse è arrivata soltanto un’eco lontana di 30 anni di guerre e destabilizzazione sotto casa. Il rappresentante di Bruxelles i n Turchia due anni fa parlava ancora dell’Akp come di una sorta di democrazia cristiana islamica quando già era evidente, dopo i fatti di piazza Taksim, la deriva erdoganiana. Nei documenti della diplomazia continentale si dice che la Turchia è una sorta di malato sotto osservazione ma si ammette di non avere nessuna idea sulla strategia di Erdogan. Eccola: è quella brutale di tutti gli autocrati mediorientali, restare al potere a ogni costo e se possibile diventare ancora più potente. Erdogan, come ha dimostrato la vicenda della guerra per procura in Siria, è un giocatore d’azzardo e mette alla prova di che pasta sono fatti i suoi sprovveduti interlocutori: sapeva perfettamente che nel momento in cui si era impegnato con la Merkel a tenere due milioni di profughi siriani in casa si era procurato una delle armi più efficaci in circolazione, la bomba umana, che spaventa a morte gli europei, impegnati in critiche tornate elettorali. Questa non è una questione soltanto umanitaria ma bellica. C’era da aspettarselo perché dopo essere uscito indenne dal fallito colpo di Stato del 15 luglio scorso, Erdogan è entrato di diritto nella galleria dei rais: ha superato la prova della sopravvivenza vera, quella delle armi, ha attuato una repressione a tutto a campo, accompagnata soltanto da flebili proteste dell’Europa: consolidato il consenso della maggioranza conservatrice del Paese si prepara con la riforma costituzionale a rafforzare il suo potere autocratico. Se si entra nella testa del rais, ma gli europei non sanno farlo, è evidente che si tratta di un leader pronto a tutto. Come userà realmente la bomba umana per ricattare gli europei è forse impossibile da decifrare. Il ricatto è doppiamente pericoloso per due motivi. Il primo è che la Turchia è un Paese della Nato con 23 basi militari e armi nucleari tattiche. Il secondo, decisivo in questo momento, che è impegnata con le forze armate e le milizie sia in Siria che in Iraq in una fase fondamentale della battaglia contro il Califfato. Dal calderone mediorientale, dove ieri sono stati uccisi 4 militari turchi in un raid siriano, si può far uscire di tutto: profughi, jihadisti in fuga, terroristi di ogni risma. Erdogan vuole partecipare alla liberazione di Raqqa, con la non troppo nascosta ambizione di mettere la mani sul territorio siriano per impedire l’autonomia dei curdi e si è piazzato a 12 chilometri da Mosul per unirsi all’assedio della roccaforte dell’Isis nonostante le proteste del governo di Baghdad. Sa quindi perfettamente cosa avviene dall’altra parte, movimenti dei profughi compresi. Per consolidare le sue rivendicazioni è venuto a patti con Putin, scambiando il destino di curdi siriani alleati degli Usa con quello di Assad, si è messo d’accordo anche con Israele e tiene sulla corda gli Stati Uniti ai quali ha concesso la base di Incirlik per bombardare il Califfato soltanto dopo un anno e mezzo di trattative mettendo nero su bianco che per lui curdi e jihadisti sono sullo stesso piano. Come si è arrivati a questa situazione deve essere ben chiaro. Erdogan ha usato la democrazia e l’Europa come un tram - sono parole sue - per scendere alla fermata che desiderava: far fuori la repubblica kemalista, i suoi generali e prendersi tutto il potere. Chi dice di non sapere o è un ipocrita o uno sciocco. Sono stati gli americani e gli europei che hanno reso forte Erdogan nel momento in cui hanno cercato di manovrarlo. Gli Stati Uniti e l’ex segretario di Stato Hillary Clinton portano una responsabilità enorme. Washington nel 2011, inviando l’ambasciatore Ford tra i ribelli di Hama, ha dato il suo consenso per aprire "l’autostrada della Jihad" e per far passare dalla Turchia migliaia di miliziani islamici per abbattere Assad, alleato storico dell’Iran e di Mosca. Questa operazione è stata approvata dalla Francia, dalla Gran Bretagna e anche dall’Italia, scottata dalla perdita della Libia, si è accodata. Nel 2013 quando Obama ha rinunciato a bombardare il regime baathista sono venuti a galla i problemi e l’ascesa del Califfato ha fatto il resto, accompagnata dagli attentati terroristici nel cuore dell’Europa. Erdogan sperava di eliminare Assad, di mettere la mani su Aleppo e Mosul e bastonare i curdi, Pkk compreso, usando i jihadisti con l’aiuto dei finanziamenti dei sauditi e qatariani: quando gli occidentali si sono tirati indietro si è infuriato, giocando la sua partita personale, migranti compresi. Di fronte ai fatti l’Unione europea non ha una reale capacità di reazione. Non può sanzionare la Turchia perché il 50% del suo commercio e il 70% dei suoi debiti privati e dei prestiti sono con l’Europa, perché ci sono migliaia di imprese che lavorano lì e perché nessuno finora ha mai rinunciato a fare affari con Ankara. In sintesi così stanno le cose: dopo l’Iraq nel 2003, la Siria e la Libia nel 2011 adesso arriva il nodo della Turchia. Chi risolverà il problema? L’impressione è che in Turchia oltre all’Europa verrà presto messa alla prova anche la "dottrina Trump".