Pena e speranza, un futuro dietro le sbarre di Roberto Zichittella Famiglia Cristiana, 25 novembre 2016 Prigioni, certezza del diritto, riscatto sociale: la situazione, oggi, e le riforme possibili. Il ministro Orlando, il cardinale Ravasi, l’imam Salem e Marazziti, il presidente della Commissione Affari Sociali della Camera ne discutono a Regina Coeli al termine del Giubileo della misericordia. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il cardinale Gianfranco Ravasi, l’imam Sami Salem e Mario Marazziti, presidente della Commissione Affari Sociali della Camera, varcano insieme il portone del carcere di Regina Coeli in via della Lungara, attraversano i corridoi interni del penitenziario, passano sotto la grande cupola della rotonda centrale, discutono per due ore di pena e speranza davanti a ospiti, detenuti, agenti di polizia penitenziaria. "Pena e speranza" è una occasione di dialogo e incontro con i detenuti al termine del Giubileo della misericordia. Un momento di riflessione e anche di festa con i detenuti che fa seguito a quello svolto il 16 dicembre alla Camera dei deputati, per le iniziative del "Cortile dei Gentili". "Il titolo dell’incontro", spiega Marazziti, "significa che anche il tempo della pena deve contenere la speranza, per i singoli detenuti e per i loro cari". Il ministro Orlando parte da una constatazione: "In questi ultimi anni c’è stato un forte utilizzo della paura come strumento della creazione del consenso e questo ha allargato il fossato tra il carcere e la società". Orlando mette in discussione gli automatismi del sistema dei benefici a favore dei detenuti, che non tengono conto dell’effettivo comportamento del detenuto durante la pena. "I detenuti", spiega il ministro, "costano molto allo Stato, circa 3 miliardi di euro, eppure abbiamo un tasso di recidiva tra i più alti d’Europa. Il carcere deve cambiare, perché se è solo un intervallo fra un’attività criminale e un’altra, non produce più sicurezza". Da qui, secondo il ministro, l’urgenza di arrivare all’approvazione della legge sulla riforma penale. "Farò tutto il possibile per far approvare la riforma e questa spinta nasce anche dall’aver conosciuto le vostre condizioni, che sono da cambiare", conclude il ministro rivolto al gruppo di detenuti, italiani e stranieri, presenti all’incontro. I detenuti applaudono e gli regalano un quadro, che raffigura una veduta di Roma. Le parole del ministro colpiscono il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontifico Consiglio della Cultura. "Avete un ministro che sta dalla vostra parte", dice Ravasi ai detenuti, aggiungendo con un sorriso che la sua non è propaganda politica, "dal momento che appartengo a un altro Stato". Ravasi racconta di aver parlato pochi giorni fa con il Papa di questa sua visita in carcere e aggiunge che papa Francesco "è la persona che ha manifestato più di tutti la vicinanza e l’affetto ai carcerati. Perciò vi porto qui un po’ della sua presenza". Ravasi, più volte invitato a tenere lezioni in carcere, assicura: "In tutta la mia vita di professore non ho mai trovato alunni così straordinari come quelli incontrati in carcere". In conclusione il cardinale dice: "La preghiera può aiutare a vivere in questo contesto con un respiro differente". Sami Salem, imam della moschea della Magliana, a Roma, frequenta il carcere da 18 anni come mediatore culturale, perché ancora non esiste un luogo di culto per i musulmani detenuti (a Regina Coeli oggi gli stranieri sono circa 200 su una popolazione di 900 reclusi). "Io vengo qui", racconta l’imam, "non per dare, ma per ricevere speranza". E assicura: "Sono in tanti quelli che quando escono dal carcere vengono a cercarmi con una voglia vera di cambiare la loro vita". Mauro Palma (Garante nazionale detenuti): le sentenze europee stimolo a fare di più e meglio Agenpress, 25 novembre 2016 "Le sentenze della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sono uno stimolo per gli Stati nazionali a fare di più e meglio, in ordine ai diritti dei detenuti, al rispetto dei loro diritti umani, in un quadro di certezza del diritto". Lo ha ribadito Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone detenute e private della libertà personale, oggi a Roma, al termine del Primo Seminario di Studio e approfondimento Tecnico-giuridico, promosso dall’Ufficio del Garante nazionale. Nel corso dei lavori, nella mattinata, diversi interventi hanno approfondito gli aspetti tecnici e legali, relativi alle prese di posizione della Corte europea per i diritti umani, rispetto alla complessa questione degli spazi minimi di vivibilità per i detenuti e rispetto alla complessa questione delle metodologie di calcolo, recepite e ribadite da diverse sentenze della Corte di Cassazione. L’ultima in ordine di tempo, la 3498 del novembre 2016 della grande Camera ribadisce che lo spazio minimo di 3 metri quadrati va considerato al lordo degli arredi, ma che questi, spesso fissi e ingombranti, devono consentire l’agevole circolazione dei detenuti all’interno della cella. La disponibilità di meno di tre metri quadri evidenzia infatti una "forte presunzione" della violazione del divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti. Il seminario si è aperto con l’introduzione di Marta Cartabia, vicepresidente della Corte Costituzionale. Tra gli altri interventi, il giudice di sorveglianza Fabio Gianfilippi ha sottolineato tra i diversi aspetti le questioni relative all’integrazione tra i pronunciamenti europei e le norme nazionali. Tema ritornato anche nell’intervento del sociologo Pio Marconi sulla necessità di leale collaborazione tra la Corte, le istituzioni europee, gli Stati. Il costituzionalista Marco Ruotolo dopo aver ribadito il "diritto ad avere diritti" in ambiente penitenziario, ha proposto che ci sia un seminario sulle circolari delle amministrazioni penitenziarie. Si tratta infatti, ha sostenuto, di atti che possono passare per normativi e creatori di diritto nella misura in cui interpretano le leggi. Per questo non è possibile affrontare per circolari temi che attengono ai diritti delle persone. A conclusione dei lavori il Garante Nazionale, Mauro Palma, ha sottolineato l’importanza di "leggere e interpretare" il linguaggio della Grande Camera. Sulla difficile questione della interpretazione degli spazi da fornire ai detenuti, ha sottolineato che la giurisprudenza europea converge nel considerare requisito indispensabile per tutti trascorrere 8 ore fuori dalla cella, di cui almeno 1 ora all’aria aperta. "Nelle sfumature delle traduzioni - ha notato Palma - non dobbiamo mai utilizzare il linguaggio per mettere a tacere o attenuare dei diritti e delle acquisizioni fondamentali. Quando si parla ad esempio di ore da trascorrere all’aperto, non si intende all’aperto delle celle, magari in corridoio, ma proprio fuori, all’aria aperta". In un doc il recupero dei condannati per reati sessuali. "Senza un percorso, alta recidiva" di Salvo Catalano meridionews.it, 25 novembre 2016 Per un anno il regista Claudio Casazza ha seguito il gruppo di criminologi, psicologi e terapeuti che nel carcere di Bollate ha creato una comunità terapeutica per chi si macchia di reati sessuali. "La società non ne parla, si pensa che vada buttata la chiave. E loro restano come ibernati. Ma poi ci ricascano". Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino, Carlo, Enrique. Condannati per reati sessuali e detenuti nel carcere milanese di Bollate. Tra di loro pure un siciliano, da circa cinque anni dietro le sbarre per violenza su una donna. Definiti infami dagli altri carcerati e ad alto rischio di incappare nuovamente nello stesso tipo di violenza, una volta scontata la pena. Loro però hanno scelto di guardare dentro la loro colpa, chiamarla per nome e provare a costruire davvero una nuova vita, affidandosi all’Equipe dell’Unità di Trattamento per autori di reati sessuali del Cipm, il Centro italiano per la promozione della mediazione. Un gruppo di psicologi, criminologi e terapeuti sta portando avanti anche con loro il primo esperimento in Italia per evitare il rischio che le violenze siano compiute ancora. Il regista Claudio Casazza li ha seguiti per un anno raccontando questa esperienza nel documentario Un altro me, presentato oggi in anteprima mondiale al Festival dei popoli di Firenze. "Ho deciso di pormi al centro della stanza - racconta - a metà strada tra l’equipe e i detenuti, senza pregiudizi, conoscendo il minimo indispensabile di chi mi sarei trovato davanti. Ho voluto che fosse un territorio aperto, d’altronde quello che raccontavano era terrificante ed era giusto approcciarsi nel modo meno invasivo possibile". Così Casazza ha ripreso le sedute terapeutiche. "Avrei potuto intervistare i protagonisti di questo percorso, ma sarebbe stato tutto ancora più mediato". L’unità di trattamento di Bollate è un’esperienza unica in Italia, che nasce dalla consapevolezza che la pena detentiva per gli autori di reati sessuali si è dimostrata inadeguata. "Abbiamo creato una sorta di comunità terapeutica detentiva all’interno del carcere o in strutture vicine - spiega Paolo Giulini, criminologo a capo dell’Equipe - sulla scorta di una tradizione trattamentale avviata trent’anni fa negli Stati Uniti e in Canada". I detenuti che decidono di iniziare questo percorso vengono seguiti per un periodo che va dai nove ai 15 mesi. "Trattiamo le problematiche relative alla devianza sessuale - precisa Giulini - cerchiamo di modificare la posizione dell’io rispetto alla sua fantasmatica, cioè al suo rapporto con i desideri più inconsci". Una volta fuori dal carcere, uno su tre decide spontaneamente di continuare attraverso il Presidio criminologico territoriale, che esiste solo a Milano. In dieci anni sono stati 250 i detenuti in trattamento. "Non si può parlare di una categoria in senso psicopatologico - sottolinea Giulini - ma in senso criminologico sì. Detto questo, alcuni tratti comuni esistono: le difficoltà di contatto con il loro mondo emotivo, modi distorti di vedere la realtà, la tendenza all’impulsività, un’infanzia non protetta, anaffettiva, anche se non tutti hanno subito traumi o abusi. Hanno un deficit di empatia, non hanno una grande considerazione dell’altro". Altro aspetto ricorrente è la negazione di quanto commesso. "Scattano dei meccanismi difensivi, negano o minimizzano per proteggere se stessi dall’angoscia". Impossibile invece cercare costanti nell’età o nell’estrazione sociale. "E questa è una delle cose che più mi ha scosso - racconta il regista - davanti a me sono passati trentenni, quarantenni, uno di oltre 60 anni e uno di 21. Di livelli culturali diversissimi tra loro, persone vicine a noi. In fondo alcuni tratti sono comuni a tutti gli uomini, basta andare su Facebook per rendersene conto, non serve osservare chi ha commesso reati sessuali". Ed è proprio l’impegno a parlare di questo problema ad aver spinto Casazza a realizzare il film. "La società tende a non parlarne, si pensa che sia una cosa che riguarda pochi e che quei pochi vadano incarcerati e buttata la chiave. Ma, statistiche alla mano, se non pensiamo a queste persone, quando escono da lì, ricascano nello stesso reato. C’è una recidiva clamorosamente alta". Da questo punto di vista i risultati dell’equipe di Bollate sono incoraggianti. Su 250 detenuti trattati si registrano solo sette casi di recidiva. "Chi si macchia di questi reati e rimane in carcere senza fare un percorso rimane come ibernato - spiega il criminologo - Non elabora la colpa, nessuno lo mette in discussione, i meccanismi psicologici rimangono uguali e si scongelano una volta fuori dal carcere". Al contrario, procedendo per piccoli passi, chi accetta la terapia comincia a guardare dentro l’abisso che si è lasciato alle spalle. "Si parte dalla gestione dello stress e del trauma - racconta il regista Casazza - spesso vengono usate delle lettere: di vittime di violenza, o di altri detenuti che hanno seguito lo stesso trattamento. Poi sono loro stessi a raccontare quanto commesso, si ascoltano a vicenda e spesso, proprio in quel momento, cominciano a capire che il loro reato è grave e che non è colpa della vittima. Un percorso di maturazione attraverso la storia dell’altro. In un caso è venuta anche una donna abusata e ha tenuto un discorso davanti a loro. Un’esperienza che può sembrare assurda e paradossale - conclude - ma che è stata determinante per raggiungere l’obiettivo: far rientrare queste persone nel campo degli umani". Maurizio Buccarella: "lotta al correntismo nel Csm e ai corrotti, la giustizia di noi M5S" di Errico Novi Il Dubbio, 25 novembre 2016 La rivoluzione giustizialista è alle porte? Se il 4 dicembre vincesse il No, e iniziasse la famosa successione di eventi che i mercati finanziari, per esempio, assimilano a una mezza catastrofe per l’euro, e se a coronamento di tutti i passaggi si arrivasse a un governo con dentro il Movimento Cinque Stelle, quale riforma della giustizia dovremmo aspettarci? A Palazzo Madama molti parlamentari della stessa maggioranza, nel caso, non immaginano di doversi preparare all’apocalisse. Soprattutto se si guarda alle posizioni espresse in Aula dal senatore M5s Maurizio Buccarella, vicepresidente della commissione Giustizia e considerato dai colleghi pd interlocutore assolutamente ragionevole. "Posso dire che quando ci troviamo di fronte a provvedimenti sensati, ben articolati, non abbiamo problemi a votarli", ricorda Buccarella, "così come il Pd fa la stessa cosa con alcune nostre proposte". Esempi? "Un emendamento sull’Authority anticorruzione a mia prima firma e condiviso dalla maggioranza, con cui si è impedita all’Anac l’opponibilità del segreto di Stato per le verifiche sugli appalti delle grandi opere. O la legge approvata l’anno scorso sugli eco-reati. Sarebbe auspicabile che la stessa cosa avvenisse, per stare alla stretta attualità, con la modifica che ho proposto al decreto fiscale sulla detraibilità dei costi sostenuti per la difesa da parte di imputati assolti con formula piena. È tra l’altro una norma che creerebbe un positivo conflitto d’interesse con il professionista eventualmente intenzionato a non inserire l’intero compenso in fattura". Il salentino Buccarella è avvocato cassazionista: non gli sfuggono dunque le angolature del sistema processuale più problematiche per la difesa. Ma si finisce per essere comunque sorpresi quando dice cosa pensa delle correnti in magistratura: "Da parlamentare e osservatore esterno trovo che le correnti stiano al Csm come i partiti stanno alla politica: vedo chiare analogie, e riconosco due aspetti che un po’ inquinano la magistratura: il carrierismo in termini generali e, nel particolare, le scelte nell’assegnazione degli incarichi direttivi fondate non sul merito ma sull’appartenenza a questa o quella corrente". Uno s’aspetterebbe di trovare nei "grillini" una vicinanza incondizionata ai pm, ma a quanto pare non è così. E nella conversazione con Maurizio Buccarella si capisce come l’immagine del Movimento sia in parte definita su frettolosi stereotipi, come quello di "partito amico delle Procure", appunto. Semplificazioni giornalistiche. Ma non solo. Perché più che l’ansia di schierarsi con i magistrati come unici portatori del bene, tra i Cinque Stelle prevale, come dice Buccarella, "la difficoltà a inquinare il nostro messaggio rivoluzionario pacifico con la rassegnata accettazione di risultati modesti". È questo, più che un estremismo predeterminato, a "tenerci lontani spesso da accordi di compromesso che a volte ci consentirebbero di tradurre nostre proposte in legge: teniamo a comunicare la diversità del nostro movimento, ma anche perché gli accordi al ribasso della politica spesso hanno provocato danni". Vista da vicino la linea effettivamente tenuta dai "grillini" in questi quattro anni scarsi in Parlamento è assai meno refrattaria al dialogo di quanto sia apparsa. Lo si vede dallo "screening" che Buccarella propone sulla madre di tutte le riforme in materia di giustizia, quel ddl penale accantonato causa referendum: "Sulle intercettazioni siamo dell’idea che non servano interventi, soprattutto alla luce delle circolari adottate in molte Procure", ecco un caso in qui i pm sono un punto di riferimento per i Cinque Stelle. "Quei protocolli a cui i capi degli uffici hanno chiesto di attenersi mi sembra già provvedano a bilanciare interesse investigativo ed esigenze di difesa". Sì con riserve all’innalzamento delle pene per furti e rapine, perché, pensate un po’, persino il Movimento trova "eccessiva la tendenza al rialzo dei massimi edittali"; nulla quaestio sul tentativo di "limitare le impugnazioni in Appello e Cassazione"; resta la divergenza rispetto al "compromesso" raggiunto sulla prescrizione. "Noi non vogliamo processi eterni, sia chiaro, ma riteniamo che di fronte a un’emergenza corruzione ancora alta sia necessario un antidoto potente: per questo proponiamo di interrompere del tutto il decorso dei termini di estinzione dei reati dopo l’eventuale condanna in primo grado". Non sarebbe una disciplina "irreversibile", "perché un sistema del genere andrebbe sottoposto a verifica: vediamo se l’impossibilità di ricorrere alla prescrizione, come ora legittimamente fanno le difese per sottrarsi a una condanna spesso ritenuta ingiusta, provoca magari in certi casi la definizione del giudizio con rito alternativo. Se lo stop alla prescrizione in primo grado si rivelasse inefficace, se ne potrebbe ridiscutere. Di certo", spiega il senatore M5s, "questa è una delle prime cose che tenteremmo di fare in materia di giustizia, accompagnata però con meccanismi che mettano i giudici in condizione di assicurare processi veloci". Il primo punto del programma, per un guardasigilli a Cinque Stelle, sarebbe però la lotta ai reati contro la pubblica amministrazione, "in particolare con il ricorso ad agenti sotto copertura: non si tratterebbe di agenti provocatori, ma di funzioni investigative analoghe a quelle utilizzate contro mafia e pedo-pornografia". Sul ddl penale e sulla riforma penitenziaria in esso contenuta, Buccarella assicura che "il testo per noi è positivo, a condizione di evitare attenuazioni del 41 bis, istituto purtroppo ancora necessario: ma su misure alternative, lavoro in carcere e necessità di rendere dignitose le condizioni dei detenuti, siamo assolutamente favorevoli". Una certa durezza più nei toni che nella sostanza è insomma, fa capire il colloquio col senatore grillini, inevitabile strumento alla "rivoluzione pacifica". Idea che rimanda un po’ ai radicali, vero? "Sì, nei radicali c’è la vocazione a condurre battaglie anche da soli, lotte coraggiose e di principio. C’è un’analogia nel metodo, ma a volte anche nel merito: sui diritti civili l’assonanza è indiscutibile, faccio parte dell’intergruppo creato da Della Vedova, radicale storico, e che si batte per la legalizzazione delle droghe leggere". Alla prova dei fatti, insomma, un esecutivo a Cinque Stelle potrebbe anche non portare alla fine dello Stato di diritto. Mafia Capitale. Mazzette per la bonifica dei campi rom: chiesti 17 rinvii a giudizio di Edoardo Izzo La Stampa, 25 novembre 2016 Tra gli accusati un’ex funzionaria del Comune già condannata a 4 anni. Mazzette per un totale di 25 mila euro, per assegnare a imprenditori amici gli appalti destinatati alla bonifica dei campi rom. I pm Luca Tescaroli, Carlo La Speranza, Maria Letizia Golfieri e Edoardo De Santis hanno chiesto oggi il rinvio a giudizio nei confronti di 17 persone accusate a vario titolo di corruzione, falso, e turbativa d’asta all’interno dell’inchiesta legata a "Mafia Capitale". La chiusura indagine nei confronti degli imputati era arrivata lo scorso 11 ottobre. Tra gli indagati che rischiano di andare a processo spiccano due nomi noti: il funzionario della Polizia Municipale Eliseo De Luca ed Emanuela Salvatori, ex funzionario del Dipartimento delle Politiche Sociali e della Salute del Campidoglio. La donna, il 3 novembre 2015, è stata inoltre condannata a 4 anni di reclusione nel processo di "Mafia Capitale", per gli affari con il ras delle cooperative Salvatore Buzzi. La richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dei 17 indagati - indagine parallela a quella di "Mondo di mezzo" - coinvolge anche alcuni dipendenti comunali e gli imprenditori che pagavano per ottenere i lavori. Le irregolarità contestate dalla Procura di Roma riguardano l’assegnazione di appalti per lo svolgimento di lavori nei campi nomadi di via Lombroso e di via di Salone, a Roma, e di Castelromano. Oltre ai soldi i dipendenti del Comune di Roma venivano corrotti con biglietti per il Gran Teatro, promesse di assunzioni per figli e parenti, abiti di griffe prestigiose tra cui Gucci, e pregiatissimi vini da tavola italiani e francesi. "Alma Shalabayeva fu sequestrata". Sette poliziotti verso il processo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 novembre 2016 Secondo la Procura di Perugia anche un giudice di pace e tre diplomatici del Kazakistan hanno organizzato e realizzato l’espulsione della moglie e della figlia del dissidente Mukhtar Ablyazov, Tra gli inquisiti il questore di Rimini e il capo dello Sco. Indagine finita e accuse confermate: secondo la Procura di Perugia sette poliziotti, un giudice di pace e tre diplomatici del Kazakistan hanno organizzato e realizzato il duplice sequestro di persona di Alma Shalabayeva e Alua Ab-lyazova, moglie e figlia del dissidente Mukhtar Ablyazov, espulse dall’Italia con un ordine successivamente annullato dalla Corte di Cassazione. L’avviso di chiusura dell’inchiesta che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio è stato notificato, fra gli altri, all’ex capo della Squadra mobile di Roma (oggi direttore del Servizio centrale operativo) Renato Cortese e all’ex responsabile dell’ufficio immigrazione (oggi questore di Rimini) Maurizio Improta. L’imputazione più grave è accompagnata da altri reati come falsi in atto pubblico, omissioni e abusi d’ufficio. La vicenda risale al maggio 2013 quando la polizia fece irruzione in una villa della periferia di Roma, su indicazione dell’ambasciata kazaka, per arrestare il "ricercato internazionale" Ablyazov. Lui non c’era, gli investigatori trovarono solo la moglie e la figlia di 6 anni, che al termine di un velocissimo iter giuridico-amministrativo furono caricate su un aereo privato messo a disposizione dalle stesse autorità di Astana. Dopo la denuncia dei legali della donna, il ministro dell’Interno Angelino Alfano fu costretto a presentarsi in Parlamento per difendersi dalla contestazione di aver coperto la "consegna" della moglie del dissidente ai kazaki. Il "caso" provocò le dimissioni dell’allora capo di gabinetto del Viminale, prefetto Giuseppe Procaccini, e il pensionamento anticipato del capo della segreteria del Dipartimento della Pubblica sicurezza, Sandro Valeri. Erano stati loro a parlare con i kazaki e a mandarli in questura per organizzare l’operazione. Tuttavia nella ricostruzione degli inquirenti il loro ruolo sembra sfumato fino a scomparire. L’accusa di sequestro riguarda infatti l’ex ambasciatore Andrian Yelemessov e due funzionari (che godono dell’immunità diplomatica, dunque non sono processabili), i quali avrebbero evidentemente agito prima come mandanti e poi come partecipi; per quanto riguarda gli italiani, la catena politico-ministeriale è rimasta fuori, e le responsabilità vengono attribuite dal capo della Squadra mobile in giù. Come se avessero agito su diretto input dei rappresentanti stranieri, senza alcun coinvolgimento dei loro superiori. Ipotesi singolare, che emerge dall’atto conclusivo di un’indagine durata due anni e che se avesse coinvolto i vertici del Viminale sarebbe probabilmente approdata al tribunale dei ministri di Roma. La competenza della Procura di Perugia resta così ancorata alla presenza tra gli indagati del giudice di pace Stefania Lavore, che all’udienza del 31 maggio 2013 - secondo il capo d’accusa - non ascoltò né verbalizzò le richieste di asilo politico avanzate dalla Shalabayeva, che utilizzava un documento intestato a un nome falso "per motivi di sicurezza". All’epoca i funzionari di polizia sostennero (e fecero riferire al ministro in Parlamento) di non avere mai avuto notizia delle implicazioni politiche di quanto stavano facendo, a partire dallo status di rifugiato di Ablyazov concesso dalla Gran Bretagna nel 2011 e dalle conseguenti istanze di protezione della Shalabayeva. I pm ritengono invece di aver raggiunto la prova del contrario: i poliziotti della Mobile sono accusati di avere "tratto in inganno" prima i colleghi dell’Ufficio immigrazione e poi i magistrati della Procura di Roma che diedero il nulla osta per l’espulsione della donna e della bambina; dopodiché i funzionari dell’Immigrazione avrebbero persino falsificato dei documenti per accelerare la partenza della Shalabayeva, che - secondo la sua testimonianza - continuò a chiedere asilo politico fin sotto la scaletta dell’aereo. Le avrebbero risposto che non si poteva, perché "tutto era stato deciso a livello politico". Ora gli inquisiti potranno vedere le carte raccolte dall’accusa e preparare le loro difese. Detenuto al "41 bis": un solo colloquio telefonico anche se ha "doppia" famiglia quotidianogiuridico.it, 25 novembre 2016 Cassazione penale, sezione I, sentenza 11 novembre 2016, n. 47939. Pronunciandosi su un ricorso contro la ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza aveva rigettato il reclamo proposto avverso il decreto del Magistrato di Sorveglianza che aveva respinto la richiesta di un detenuto in regime di cui all’art. 41 bis ord. pen., di autorizzazione a colloqui telefonici con il figlio minore e alla di lui madre, dimoranti in Spagna, la Corte di Cassazione - nel respingere la tesi difensiva che sosteneva la incostituzionalità dell’art. 41 bis Legge n. 354 del 1975 nella parte in cui non prevede un numero di colloqui maggiori per i detenuti che abbiano figli nati fuori dal matrimonio - ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della predetta norma sia in relazione all’art. 3 Cost. che in relazione agli artt. 29 e 30 Cost. È assoluta la nullità per omessa notifica all’imputato dell’avviso di udienza preliminare penalecontemporaneo.it, 25 novembre 2016 Cass., Sez. Un., u.p. 24 novembre 2016, Pres. Canzio, Rel. Izzo, ric. Amato. Il servizio novità della Corte Suprema di cassazione comunica che, in esito alla pubblica udienza del 24 novembre 2016, le Sezioni unite penali hanno affrontato la seguente questione: "Se l’omessa notifica all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare configuri un’ipotesi di nullità assoluta, insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, derivante dalla omessa citazione dell’imputato". Secondo l’informazione provvisoria diffusa dalla Suprema Corte, al quesito si è data la risposta affermativa. La deliberazione è stata assunta sulle conclusioni conformi del Procuratore generale presso la Corte di cassazione. La nostra Rivista ha già pubblicato il provvedimento che ha rimesso la questione alle Sezioni unite (Sez. IV, 22 settembre 2016 - 5 ottobre 2016, n. 42004), con una nota di Giuseppe Centamore, Di nuovo alle Sezioni Unite il quesito concernente il regime di nullità dell’omessa notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare. I soldati uccisi dall’uranio equiparati alle vittime di mafia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 novembre 2016 Sentenza delle sezioni unite: i militari sono "vittime del dovere", via ai risarcimenti. Le sezioni unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 23300 del 2016 depositata lo scorso 16 novembre, hanno stabilito che il militare affetto da una patologia contratta a seguito di esposizione all’uranio impoverito faccia parte della categoria delle "vittime del dovere". La sentenza riguarda il caso di un militare deceduto per una rara forma tumorale dopo essere stato impiegato in missione operativa in Bosnia, territorio dove le forze della Nato avevano utilizzato in maniera massiccia munizioni arricchite con uranio impoverito. Per i giudici di piazza Cavour è sufficiente la motivazione del giudice sul nesso causale fra la malattia e gli agenti patogeni, oltremodo perché non è contestato l’impiego di uranio impoverito. Tale pronuncia ha un effetto particolarmente significativo: amplia alle famiglie dei militari deceduti la possibilità di fare domanda per i fondi stanziati dalla legge numero 266 del 2005, che ha fissato in 10 milioni di euro l’anno la spesa per indennizzare queste vittime. Com’è noto, gli Stati Uniti fecero massiccio uso durante la guerra contro Milosevic di munizioni anticarro all’uranio impoverito, utilizzate per il loro alto potere penetrante. I rischi delle esposizioni da uranio impoverito, alle Autorità italiane, furono noti da subito: nel 1999, quando al termine del conflitto prese il via la missione di pace internazionale Kfor, l’U. S. Army divulgò un’informativa rivolta ai vertici militari di tutti i Paesi partecipanti sulla pericolosità delle neo-particelle di uranio impoverito, responsabili di provocare carcinomi letali. Il documento illustrava come difendersi dai rischi dovuti al contatto con l’uranio, allegando anche una cartina dove erano segnalate le zone bombardate con questo tipo di munizioni. Purtroppo lo Stato Maggiore della Difesa ha per anni sottovaluto questi rischi, minimizzando sempre i pericoli. Per ironia della sorte il settore di competenza italiana, la provincia di Pec, era quello dove maggiore era stato l’uso di questi proiettili. Ad oggi sono oltre 4000 i soldati italiani reduci dalla missione all’estero che hanno contratto un tumore. Molti di loro nel frattempo sono deceduti. La battaglia legale per vedersi riconosciuto un risarcimento dal ministero della Difesa è stata molto aspra. I circa 600 militari ammalati che hanno intentato una causa si sono trovati di fronte ad un muro di gomma. Il ministero, tetragono sulle sue posizioni, ha sempre negato ogni nesso di casualità fra l’esposizione all’uranio impoverito e l’insorgere della patologia tumorale. I fronti aperti sono stati diversi, giungendo negli anni anche ad alcune sentenze di condanna nei confronti dell’Amministrazione in sede civile, amministrativa e contabile. Sentenze che sancivano "in termini di inequivoca certezza, il nesso di causalità tra l’esposizione alle polveri di uranio impoverito e la patologia tumorale". E che sanzionavano anche la condotta dei vertici delle Forze Armate per aver omesso di informare i soldati "circa lo specifico fattore di rischio connesso dell’esposizione all’uranio impoverito". Ora la svolta della Cassazione. Secondo i supremi giudici, dunque, il militare che muore per questo tipo di patologie è una vittima del dovere ai sensi della legge citata che estende i benefici riconosciuti alle vittime delle criminalità e del terrorismo Per le vittime del dovere, si intendono tutti i dipendenti pubblici deceduti o che abbiano subito una invalidità permanente in attività di servizio - fuori o dentro i confini nazionali - per effetto diretto di lesioni riportate "nel contrasto ad ogni tipo di criminalità, nello svolgimento di servizi di ordine pubblico nella vigilanza ad infrastrutture, in operazioni di soccorso, in attività di tutela della pubblica incolumità o a causa di azioni nei loro confronti in contesti di impiego internazionale". Tentato aborto, associazione a delinquere se il reclutamento è pilotato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 24 novembre 2016 n. 50060. Scatta l’associazione a delinquere per il medico che per circa due anni abbia ricevuto presso uno studio medico esclusivamente donne nigeriane, reclutate avvalendosi di due connazionali, intenzionate ad interrompere la gravidanza. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 24 novembre 2016 n. 50060, accogliendo il ricorso dell’imputato soltanto con riferimento alla rideterminazione della pena. La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del giudice per le indagini preliminari, aveva confermato la condanna del medico ex articolo 416, commi 1, 2, 3 del codice penale, assolvendolo però dall’accusa di aver tentato di procurare l’aborto in otto casi su nove. Contro questa decisione l’imputato ha proposto ricorso sostenendo, tra l’altro, l’assenza dell’elemento soggettivo del reato associativo "soprattutto in considerazione dell’assoluzione da tutti i reati-fine tranne uno, essendo, quindi, venuto meno lo stesso programma criminoso". Di diverso avviso la Suprema corte secondo cui la motivazione di merito esplicitava come le telefonate "ripetute nel corso del tempo", tra il ricorrente ed i coimputati, dimostravano "la stabilità dell’accordo, la sua perduranza e le modalità operative, dirette verso connazionali dei coimputati di nazionalità nigeriana, a dimostrazione della specificità dell’area di provenienza dell’utenza", con cui avevano "un canale privilegiato". Inoltre, prosegue la sentenza, "la disponibilità costante di uno studio medico liberamente utilizzabile dal ricorrente conferisce all’accordo carattere strutturale". Diversamente, "non si spiegherebbe la ragione per la quale il ricorrente avesse svolto la propria attività solo nei confronti delle donne che venivano indicate dai coimputati, e non già verso un’utenza indifferenziata". Ciò che, prosegue la Cassazione, secondo la Corte di merito "dà specificamente conto della sussistenza dell’elemento psicologico del delitto associativo". Quanto poi alla inidoneità della siringa, di soli 5 cm di lunghezza, a procurare l’aborto e quindi a realizzare il reato, la Cassazione ricorda che il giudice di merito ha limitato la condanna all’unico caso accertato a seguito dell’irruzione della polizia nello studio medico. Quando cioè si è avuto "un riscontro oggettivo in grado di dimostrare, in concreto, che la condotta dell’imputato avesse superato la soglia degli atti preparatori ed avesse acquisito i caratteri di univocità ed idoneità richiesti dall’art. 56 c.p.". In tutti gli altri casi, conclude sul punto, "l’assenza di elementi probatori univoci non aveva consentito di ritenere quale grado di sviluppo avesse raggiunto la condotta; da qui l’assoluzione per le altre imputazioni concernenti i reati-fine". È "incongrua ed erroneamente calcolata", invece, la pena finale, individuata dalla Corte territoriale, che non tiene conto delle assoluzioni dai reati-fine in otto casi su nove. Scandalo del sopravvitto, lo denunciai e fui indagato di Beniamino Sanfelice (Funzionario giuridico-pedagogico penitenziario) Il Dubbio, 25 novembre 2016 Spettabile redazione, con riferimento all’articolo in oggetto ("Il business del vitto e del sopravvitto" a firma di Damiano Aliprandi pubblicata sabato 19 novembre ndr.), non ci si può esimere dal dire che sfonda una porta aperta; peccato che - rinverdendo l’immagine kafkiana della porta - questa porti sul niente. Chi scrive, non oggi ma all’incirca venti anni fa, in qualità di funzionario delegato del direttore di un Istituto penitenziario romano fece presente la questione e mise pure per iscritto agli Organi superiori che, a proprio umile parere, nell’Istituto non si seguiva la procedura giusta ed efficace per effettuare il controllo. Con il risultato che dovette presentarsi davanti al Consiglio centrale di disciplina. Ora per lo svolgimento del proprio dovere nessuno chiede la medaglia - pure se in questo Paese non si nega a prescindere - ma non si può neanche pensare di doversi giustificare. Tant’è. Tuttavia, se si volesse veramente monitorare la situazione, non occorrono né denunce politiche né opere buone, ma solo accertare se negli Istituti penitenziari- ex artt. 9 Ordinamento penitenziario e 12 R.E. - la rappresentanza dei detenuti e il delegato del direttore, al fine del suddetto controllo, ricevono mensilmente informazioni da parte dell’Autorità comunale sui prezzi correnti all’esterno ovvero assumono informazioni sui prezzi praticati negli esercizi della grande distribuzione vicini all’Istituto di tutti quei generi venduti all’interno. A chi piace vincere facile può scommettere che pochi se non nessun Istituto richiede e assume queste informazioni che sono essenziali per il corretto e puntuale controllo. L’esercito in strada è inutile, ecco perché le nostre città non sono sicure di Francesco Vecchi Libero, 25 novembre 2016 In cima alle risposte più insensate che sono state date in questi giorni c’è che l’esercito in strada non risolve il problema della criminalità ma serve comunque ad aumentare la "sicurezza percepita". Una sensazione che però sembra andare incontro soprattutto agli interessi di due categorie: i politici e i delinquenti. In pratica, i cittadini che percepiscono sicurezza là dove non c’è, prima vanno a votare e poi, sulla strada di casa, mentre rientrano senza alcun sospetto, vengono puntualmente rapinati. Unito a questo curioso indicatore di finto buon governo, si è sentito anche parlare della necessità che le carceri siano "inclusive" e che perciò sia assolutamente disumano pensare di trasferire San Vittore, che a Milano occupa un’area tra le più pregiate della città, dal centro alla periferia. Inclusivo? Il carcere? E noi che pensavamo che invece dovesse essere (momentaneamente, per carità) "esclusivo". O che i carcerati stessi, dato che in ogni caso non è previsto alcun affaccio sull’esterno, preferiscano vivere in una cella moderna, più spaziosa, piuttosto che in una vecchia, piccola e in centro. Ora, queste due insensatezze, la "sicurezza percepita" e "le carceri inclusive", sono entrambe sintomo dell’incapacità della nostra classe dirigente di risolvere i problemi in un modo che non sia raffazzonato, temporaneo e posticcio. Se infatti volessimo aumentare la sicurezza delle nostre città, bisognerebbe cominciare a mettere in galera chi commette crimini. E invece, tra gli autori di furti in appartamenti, solo l’1,5% finisce dietro le sbarre, consapevole in ogni caso che tanto prima o poi un decreto-svuota carceri arriverà. Con soli 47 mila posti disponibili infatti non possiamo permetterci nemmeno un carcerato in più rispetto ai 54mila che già le abitano e che già costano all’Italia multe e infrazioni da parte dell’Europa. Si dirà: è perché come sempre non abbiamo abbastanza risorse per affrontare il problema. Ma il costo di gestione dei nostri 193 istituti penitenziari è 3 volte superiore a quello della Spagna e quasi il doppio di quello francese. In più, il 70% di chi passa dal carcere in Italia ci ritorna contro una media europea del 20% ed è quindi da escludere che l’esecuzione della pena e i percorsi di reinserimento da noi siano migliori che altrove. Il maggiore costo dei nostri penitenziari è piuttosto da imputare a troppi stipendi da pagare, strutture vecchie e inefficienti, carceri "inclusive" in pieno centro. In 30 anni non siamo riusciti a risolvere il problema ammodernando le strutture o costruendone di nuove in periferia. Spendere tanti soldi ora per risparmiarne molti di più negli anni a venire, quale governo è mai stato capace di farlo? Oppure: rispondere all’esigenza di sicurezza della gente con un intervento che sia risolutivo ma poco percepito invece che con un intervento percepito ma non risolutivo, quando mai? Molto più facile mandare una camionetta dell’esercito. E se avanza qualche spicciolo, mance e mancette per tutti. Lombardia: dai Radicali sostegno a Lucio Bertè su diritti umani e costituzionali dei detenuti radicali.it, 25 novembre 2016 Dichiarazione di Riccardo Magi e Michele Capano, segretario e tesoriere di Radicali Italiani, e di Barbara Bonvicini, tesoriera dell’Associazione Enzo Tortora Radicali Milano. "Come Radicali Italiani vogliamo esprimere pieno sostegno alla battaglia nonviolenta del compagno Lucio Bertè, già consigliere regionale della Lombardia, giunto oggi al 39esimo giorno di sciopero della fame affinché la Giunta regionale preveda, attraverso una delibera, che gli istituti di pena lombardi registrino e mettano a disposizione dei detenuti tutte le informazioni sul loro stato di salute, le cure loro erogate e sulle condizioni di detenzione. Una battaglia di stato di diritto per garantire ai tantissimi che scontano, oltre alla pena comminata dai giudici, una pena supplementare illegittima e illegale l’accesso alla documentazione necessaria per valere i propri i diritti umani e costituzionali con azioni legali in ogni sede - italiana, europea e internazionale - e chiedere eventuali risarcimenti. Come già precisato da Bertè, si tratta di una richiesta fondata su atti già approvati in questi anni da Regione e Comune e rimasti finora lettera morta. Ci uniamo quindi alla sua richiesta, fatta propria anche da Francesca Scopelliti nel nome di Enzo Tortora, affinché la Lombardia si faccia capofila di un atto di civiltà con un provvedimento che tutte le Regioni dovrebbero adottare a tutela delle migliaia di persone recluse nelle nostre prigioni sovraffollate, dove è lo Stato il primo a calpestare le proprie leggi". Lecce: reparto psichiatrico del carcere, l’Osapp al Ministro della Giustizia "fermi tutto" leccenews24.it, 25 novembre 2016 Il 5 dicembre nel carcere di Lecce sarà inaugurato il polo psichiatrico per 20 detenuti. Il sindacato Osapp ha deciso di scrivere al Ministro della Giustizia per informarlo sui rischi che a loro dire corre la collettività. Il grande giorno è arrivato, anzi sta per arrivare: lunedì, 5 dicembre sarà inaugurato il nuovo reparto psichiatrico all’interno del carcere di Lecce che ospiterà venti detenuti affetti da disturbi mentali. Un progetto che, secondo il corpo di polizia penitenziaria, non ha tenuto conto delle reali esigenze organizzative come avevano lamentato durante un sit-in alle porte di Borgo San Nicola "non siamo contrari all’apertura del nuovo Polo - avevano tuonato - ma per poter lavorare quotidianamente senza problemi serve un organico numerico maggiore". Oggi, l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del segretario generale Leo Beneduci torna sull’argomento tanto delicato quanto preoccupante per chi tutti i giorni lavora nel penitenziario del capoluogo salentino che a loro dire si è distinto, in passato, per il maggior numero di aggressioni subite dal personale: "a parte il fatto che l’apertura di un polo psichiatrico nell’ambito di un carcere è del tutto contraria allo spirito della legge che ha stabilito la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e che non deve più essere il personale di Polizia Penitenziaria ad occuparsi dei minorati psichici reclusi, ma il Servizio Sanitario Nazionale - si legge in una nota a firma del sindacalista - le 50 unità necessarie al funzionamento della struttura, magari tolte dai servizi interni e dalla sicurezza in già precarie condizioni, sono una quota che il Corpo non può assolutamente permettersi". Tanto è bastato all’organizzazione sindacale per prendere carta e penna e scrivere al Ministro della Giustizia Andrea Orlando e al Capo di Gabinetto Giovanni Melillo affinché intervengano per sospendere l’apertura del polo psichiatrico, almeno fino a quando non saranno inviate le unità di Polizia Penitenziaria mancanti. Enna: quattro arresti per violenza di gruppo nei confronti di un detenuto vivienna.it, 25 novembre 2016 Nella giornata del 21.11.2016 i Carabinieri della Compagnia di Enna unitamente al personale del Reparto di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Enna hanno dato esecuzione ad una Ordinanza applicativa della misura della custodia cautelare in carcere emessa dal GIP presso il Tribunale di Enna su richiesta della locale Procura della Repubblica (P.M. Dott. Francesco Rio) nei confronti di nr. 4 persone, tutte residenti nella Provincia di Catania, ritenute responsabili, in concorso, dei reati di "maltrattamenti contro familiari e conviventi" (art. 572 c.p.), "lesioni personali" (art. 582 c.p.) e "violenza sessuale di gruppo" (art. 609 octies c.p.), tutti aggravati da numerose circostanze quali l’avere "agito per motivi abietti o futili", "adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone", "profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa" e, per la sola violenza sessuale di gruppo, dell’aver agito "su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale". Le indagini venivano avviate nel giugno 2015 dal personale della Polizia Penitenziaria di Enna a seguito della segnalazione da parte della madre di un ragazzo detenuto presso la Casa Circondariale "Luigi Bodenza"; la signora, superando la reticenza a parlare da parte del figlio, intimorito dalle possibili ripercussioni, informava il personale di polizia penitenziaria di aver notato sul corpo del figlio, nel corso dei colloqui in carcere, strane lesioni (graffi, ematomi e tumefazioni) a suo dire riconducibili ad atti di violenza, nonostante lo stesso ragazzo cercasse di occultarli o di giustificarli per cadute accidentali. I sospetti della madre assumevano concretezza allorquando il ragazzo, incalzato con insistenza da parte del personale di polizia penitenziaria, ammetteva di aver ripetutamente subito violenze da parte dei compagni di cella, i quali lo avevano anche minacciato di morte nel caso in cui avesse riferito dei pestaggi. Presso l’infermeria dell’istituto penitenziario, ove veniva immediatamente visitato, si riscontravano sul corpo del ragazzo una serie di varie lesioni, consistenti in ustioni, anche in fase necrotica, escoriazioni ed ematomi in più punti, puntualmente occultate con il vestiario. La gravità della situazione, segnatamente per l’ustione presente su un piede classificata di 3° grado, imponeva altresì il trasferimento presso il Pronto Soccorso del locale nosocomio ed il successivo ricovero in altra struttura ospedaliera ove è stato sottoposto ad intervento chirurgico. Larino (Cb): il Sottosegretario Gennaro Migliore visita carcere e incontra detenuti studenti primonumero.it, 25 novembre 2016 Il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore ha fatto visita nel pomeriggio di oggi - 24 novembre - al carcere frentano. Accolto dal direttore Rosa La Ginestra, è stato accompagnato all’interno della struttura della casa circondariale e ha fatto tappa nel laboratorio di Cucina della sede carceraria dell’Istituto Alberghiero di Termoli. Per l’ospite un gustoso buffet preparato dai detenuti allievi della sezione distaccata dell’Ipssar "Federico II di Svevia". Il sottosegretario si è intrattenuto con il direttore della casa circondariale, con il dirigente scolastico Maria Concetta Chimisso, con i docenti e alcuni alunni, e ha potuto conoscere le numerose attività e iniziative portate avanti all’interno dell’istituto. Napoli: a Secondigliano giornata di studio su diabete e attività fisica in ambito penitenziario agora24.it, 25 novembre 2016 Si svolgerà martedì 28 novembre presso il Penitenziario di Secondigliano un interessante convegno sullo stato di salute dei detenuti nelle carceri Campane. In particolare si discuterà del diabete per i detenuti affetti da questa patologia metabolica e delle possibilità di strategie terapeutiche nella realtà penitenziaria nel panorama napoletano. L’evento inizierà alle 9:30. Ad aprire i lavori sarà il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria in Campania, Dott. Tommaso Contestabile; ad accompagnarlo sarà il direttore dell’istituto di pena, Dott. Liberato Guerriero e il direttore della U.O.C. T.S.I.P. sanità penitenziaria della A.S.L. Na 1 C. Dott. Lorenzo Acampora. A far da relatori, il Dott. Raffaele De Iasio, responsabile sanitario del penitenziario nonché la Dott.sa Antonella Guida, già direttrice sanitaria dell’ASL Napoli 1 Centro, in rappresentanza della Regione Campania, che si occuperanno sia dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza alla popolazione detenuta e rapporti tra carcere e realtà distrettuale, sia dei rapporti istituzionali tra Regione Campania, Aziende Sanitarie Locali ed istituti penitenziari, nell’ottica di affrontare la tematica dell’assistenza alla popolazione detenuta in maniera uniforme così come previsto dall’Art. 32 della Costituzione Italiana. A focalizzarsi sul tema principale del convegno, sarà la specialista ambulatoriale in diabetologia presso il penitenziario, Dott.sa Marisa Conte e il Prof. Giorgio Liguori del Dipartimento di Scienze motorie e del benessere dell’università degli studi di Napoli "Parthenope". Il diabete, tra le malattie metaboliche è sicuramente la più diffusa ed ha una grossa percentuale di soggetti ammalati all’interno delle carceri. L’elevato consumo di zuccheri, la predisposizione genetica e la poca o totale assenza di attività fisico-sportiva in alcuni soggetti conduce a questa malattia. Tema del dibattito sarà quindi quello di informare i partecipanti all’evento dei rischi che corrono associati ad una dieta composta soprattutto di carboidrati e l’incoraggiamento ad una corretta attività sportiva ed a una vita sana anche in carcere. In particolar modo si discuterà di come prevenire nei carcerati la diffusione del diabete e si cercherà di correggere gli stili di vita anche per coloro che dovranno trascorrere molti anni della loro vita in ambiente penitenziario. Papa Francesco, all’atto della chiusura della Porta Santa nell’ultimo Giubileo ha ricordato che i detenuti e il particolare contesto in cui vivono non devono essere assolutamente trascurati, pregando per loro e per le famiglie affinché "il messaggio della misericordia" arrivi a tutti i reclusi nelle carceri italiane. Il dibattito vedrà la partecipazione di operatori sanitari delle carceri, poliziotti penitenziari nonché esponenti del mondo politico. Mondreagone (Ce): concreta opportunità di reinserimento sociale per pazienti della Rems di Giuseppe Ortano* Ristretti Orizzonti, 25 novembre 2016 Nell’ambito del protocollo di Intesa tra la Asl Caserta ed il Comune di Mondragone, finalizzato all’attivazione di percorsi e di reinserimento sociale e lavorativo per i pazienti in carico alla Unità Operativa di Salute Mentale 23 di Mondragone, sono stati attivati i progetti di educazione ambientale: "Liberi dalla Sabbia" e "Adotta un’Aiuola della Città". Si tratta di progetti tesi alla realizzazione di attività e percorsi di reinserimento e recupero socio-psicologico mirati agli utenti della "Rems provvisoria" (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) attivata presso la struttura residenziale della Uosm 23, in alternativa all’internamento in Opg. Le attività che qui si svolgono, infatti, sono caratterizzate da un forte integrazione con le attività di tutele della salute mentale territoriali., con una massima attenzione rivolta alle pratiche di deistituzionalizzazione, così come già sperimentato nella chiusura degli ospedali psichiatrici civili avvenuta ormai da circa 20 anni. Con la concreta realizzazione dei progetti "Liberi dalla Sabbia" e "Adotta un’Aiuola della Città", una volta ottenuta l’autorizzazione dei magistrati competenti, saranno impegnati almeno 5 persone, cui potrà essere corrisposta una borsa di formazione al lavoro. Ma lo scopo principale che ci si pone è quello di un concreto contributo alla lotta allo stigma che circonda la malattia mentale, dimostrando concretamente che è possibile coniugare sicurezza e riabilitazione. *Direttore Uosm 23, Asl Caserta Trento: "Fratelli e sorelle, racconti dal carcere", oggi l’inaugurazione della mostra di Marzio Terrani Il Trentino, 25 novembre 2016 La direttrice: "Nessuno si deve stupire, i temi sociali sono nelle nostre corde". Percorsi multimediali, con voci e immagini, e due progetti sul territorio. Si tratta di una rassegna composita e molto articolata, quella che viene inaugurata oggi al Museo Diocesano di Trento, monograficamente dedicata al tema del carcere e curata da Domenica Primerano e Riccarda Turrina. Una prospettiva di analisi che, attraverso l’impiego di più materiali e il contributo di più autori, pone l’accento su uno degli argomenti più spinosi della nostra contemporaneità: quello della vita del carcere. Il progetto, nato in concomitanza con il Giubileo della Misericordia e con il Progetto Utopia 500, promosso in occasione dei 500 anni dalla pubblicazione di Utopia di Tommaso Moro, è declinato nel titolo "Fratelli e sorelle: racconti dal carcere" che trae origine, in parte, da uno dei lavori più densi esposti in rassegna, quello della regista Barbara Cupisti, premio giornalistico televisivo Ilaria Alpi 2012 per il miglior reportage italiano. Per meglio comprendere la genesi del progetto e le sue articolazioni tematiche, abbiamo posto alcune domande a Domenica Primerano, direttrice del Museo. Il tema del carcere rappresenta una vera e propria emergenza sociale. Perché il Museo Diocesano ha deciso di dedicare a questo tema una rassegna monografica e da dove è nata questa idea? "Può sembrare inconsueto per un museo di arte sacra dedicare una mostra al tema delle carceri. Ritengo invece che un museo ecclesiastico abbia anzitutto un ruolo sociale e che per questo debba farsi carico dei problemi che la comunità vive. Nel programmare le iniziative del 2016, non potevamo non tener conto di due importanti appuntamenti: il Giubileo straordinario della Misericordia indetto da papa Francesco e i 500 anni dalla pubblicazione dell’ Utopia di Tommaso Moro. Il tema delle carceri ci sembrava avesse a che fare con entrambi: la misericordia, come scrive il magistrato Elvio Fassone nel catalogo della mostra, è necessaria per "inseminare durevolmente la cultura collettiva con una sensibilità di tipo nuovo" che contribuisca a tenere viva l’attenzione sui molti (e troppo spesso ignorati) problemi della comunità carceraria. Il carcere è, di fatto, un mondo a parte e per tutti noi è "comodo" pensarlo così: è un problema che non ci tocca, che riguarda solo chi ha commesso un reato e che per questo deve pagare. È l’ottica distorta con la quale comunemente si affronta il tema delle carceri. Tommaso Moro nel suo fondamentale testo parla dell’ infondatezza della pena, ritenuta ingiusta, inutile e persino dannosa. È dunque un’utopia pensare di stabilire una relazione tra giustizia e perdono per interrompere la spirale senza fine di violenza e vendetta? Una mostra, ovviamente, non può approfondire questi temi. Può piuttosto suscitare nel visitatore una "sana inquietudine" per stimolarlo a riflettere". Quali percorsi espositivi sono stati attivati e cosa troveranno, in quest’esposizione, i visitatori del Diocesano? "Devo dire che l’ideazione di questa mostra è stata difficile. Si voleva presentare un tema molto delicato senza cadere nel didascalico o nel retorico. Le opzioni prese in esame insieme a Riccarda Turrina, che ha curato con me l’esposizione, sono state molte, alcune purtroppo non percorribili. In questa rassegna, si parte dalle immagini oniriche delle incisioni delle Carceri di Piranesi, rese ancor più stranianti dal video, gentilmente concesso dalla Fondazione Cini di Venezia. Il visitatore è accolto da una sorta di tunnel senza luce, angosciante. Ma dal tunnel si esce e si ritrova la luce: quella delle immagini poetiche di Silvia Camporesi, astro nascente della fotografia italiana, che racconta il sottile filo che lega assenza e presenza nelle carceri dismesse di Pianosa. Melania Comoretto presenta invece i volti e il corpo, nascosto dalla detenzione, di donne recluse ritratte in momenti di assoluta quotidianità nel carcere di Trapani. Altri racconti, altre voci di donne recluse vengono proposte da Barbara Cupisti, nel video Fratelli e sorelle, storie di carcere, premio Ilaria Alpi per il Miglior lungo reportage italiano. La mostra quindi vira su Trento: con il progetto fotografico di Luca Chistè e Fabio Maione il visitatore entra in contatto con brani di vita vissuta in Via Pilati 6, un luogo molto vicino al centro storico di Trento, eppure così distante. Un mondo parallelo, che Juliane Biasi Hendel e Sergio Damiani documentano, entrando nelle vite di chi lo ha abitato, con il video Voci e silenzio. Infine Sergio De Carli riflette sul gergo carcerario, facendo emergere nei dipinti realizzati appositamente per la mostra tre parole, sole dove fragile, che stabiliscono un suo personale e intimo contatto con questo mondo "altro". Quali sinergie si sono prodotte, collateralmente al progetto, e quali percorsi didattici, laboratori, attività di studio e ricerca sono ipotizzati nell’ambito di questo evento espositivo? "Collateralmente alla mostra partiranno due progetti: uno all’interno della Casa circondariale di Spini di Gardolo, dove Matteo Boato e alcuni educatori museali lavoreranno con un gruppo di detenuti partendo da un’opera esposta in museo. L’obiettivo è di stimolare la loro creatività intorno a parole (viaggio, cielo, mare, paese, famiglia, lavoro ecc.) legate a ciò che sta fuori dal carcere. Gli studenti di alcune classi della scuola secondaria di primo grado di Vezzano, sotto la guida di Riccarda Turrina e Sergio De Carli, lavoreranno invece sul lessico carcerario. Il museo ha inoltre organizzato un corso di formazione per docenti e incontri aperti al pubblico legati alle tematiche che l’esposizione affronta". Sant’Angelo dei Lombardi (Av): si conclude il progetto "Non me la racconti giusta" irpinia24.it, 25 novembre 2016 Dal 21 al 25 novembre prende il via la seconda fase del progetto, durante la quale i due artisti Nemòs e Collettivo Fx guideranno un nuovo gruppo. La prima fase di "Non me la racconti giusta", il progetto di arte pubblica all’interno della Casa circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi è arrivata alla sua conclusione. Dal 7 all’11 novembre 2016 i due artisti Collettivo Fx e Nemòs hanno lavorato all’interno dell’istituto penitenziario in collaborazione con un gruppo di 7 detenuti con i quali hanno dato vita a un ritratto di Ulisse e il tutto è stato documentato dal fotografo e videomaker Antonio Sena. La scelta di Ulisse non è casuale, infatti, il personaggio epico ha intrapreso un lungo viaggio durante il quale ha sfidato numerose avversità, traendo la forza necessaria a superarle dal pensiero di tornare presto a casa. Anche i detenuti stanno vivendo un percorso, che si può considerare una personale odissea e in tal senso possono identificarsi nel personaggio mitologico. La barba di Ulisse è composta da decine di disegni realizzati dagli stessi detenuti che hanno avuto la possibilità di essere parte attiva e integrante e non meri fruitori del progetto. Infatti, la scelta di strutturare il disegno in questo modo ha permesso a tutti di avere un ruolo e di dare il proprio apporto. L’austero volto, completato dalla folta ed estesa barba, rappresenta un messaggio positivo che si spera abbia arricchito l’ambiente carcerario in cui è stato realizzato. Dal 21 al 25 novembre prende il via la seconda fase, durante la quale il progetto si sposterà nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi dove Nemòs e Collettivo Fx guideranno un nuovo gruppo con cui lavoreranno nel passeggio principale del carcere. Questo istituto è conosciuto in tutta Italia per l’aspetto avanguardistico della struttura, dove vengono svolte numerose attività lavorative, infatti, all’interno si trovano una tipografia, una carrozzeria e una sartoria, mentre all’esterno la struttura si avvale di un orto, un uliveto, un frutteto, un vigneto e un alveare. L’obiettivo principale del progetto è di far parlare di nuovo di carcere, in una società in cui viene visto come un luogo punitivo e non si considera l’importanza che riveste il reinserimento e la rieducazione dei detenuti. Dall’altra parte, vogliamo sottolineare l’importanza delle attività ricreative e di come possano rappresentare un piccolo tassello in una realtà molto complessa. Ancora una volta il rapporto con gli altri, la natura, il lavoro e la cultura saranno i temi principali sui quali sviluppare un discorso collettivo e permettere a ognuno di esprimere le proprie idee. Questo secondo appuntamento, inoltre, si arricchisce con la preziosa collaborazione con Airlite, un’azienda italiana che produce una tecnologia che si applica come una pittura e che è 100% naturale. Il grande merito dei prodotti Airlite è quello di attaccare gli agenti inquinanti, grazie ad un processo che sfrutta la potenza della luce per liberare molecole, che trasformano gli inquinanti in sali minerali innocui neutralizzandoli. Questo significa che utilizzare Airlite permette sia di non inquinare, essendo un prodotto completamente naturale ma anche di assorbire l’inquinamento e restituire aria pulita. In seguito, gli interventi saranno accompagnati da un’opera all’esterno, a simboleggiare il detenuto fuori e dentro la dimensione carceraria, e mirata a ricordare che si commettono errori ma che il pregiudizio non da nessun apporto positivo alla risoluzione dei problemi che riguardano la nostra società. Lavoro manuale, coinvolgimento in un’iniziativa culturale e la creazione di un progetto continuativo sono le basi sulle quali si fonda questa iniziativa. Bologna: rugby nelle carceri, ieri il derby tra Giallo Dozza e La Drola onrugby.it, 25 novembre 2016 È il primo incontro tra due squadre nate dietro le sbarre. Sul campo del carcere La Dozza di Bologna l’amichevole tra la squadra Giallo Dozza della casa circondariale bolognese e La Drola Rugby del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Entrambe le squadre partecipano al campionato di C1 nelle rispettive regioni ed è la prima volta che si affrontano due squadre interne di altrettanti istituti circondariali. L’iniziativa è promossa dai Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta nonché dell’Emilia-Romagna e Marche e dai relativi istituti penitenziari, mentre l’intero progetto alla base delle due squadre è appoggiato anche dalla Federazione Italiana Rugby, che con il Progetto Carceri FIR mette in collegamento alcuni club con le Case Circondariali. La sfida si colloca nel generale contesto delle iniziative organizzate in occasione della "Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne", in calendario internazionale il 25 novembre. Di seguito, dal comunicato diffuso dalla FIR, la presentazione delle due squadre protagoniste dell’iniziativa. Tornare in campo: il rugby nella Casa Circondariale della Dozza di Bologna. Il Progetto "Tornare in Campo" è finalizzato all’insegnamento del rugby all’interno del carcere della Dozza di Bologna, e al recupero fisico, sociale ed educativo di detenuti e giovani disagiati. Nato da un’iniziativa di Rugby Bologna 1928 prosegue con la presidenza di. Stefano Cavallini, il progetto coinvolge 40 detenuti e ha reso possibile la formazione della squadra "Giallo Dozza" che, nella stagione sportiva 2016-2017, disputa il Campionato nazionale di Serie C. Gli incontri sono tutti disputati all’interno della struttura penitenziaria. Sono previsti allenamenti quotidiani comprendenti attività fisica atletica, tecnica di base e specifica, attività didattica necessaria all’apprendimento dello sviluppo generale del gioco del rugby e all’interpretazione chiara del regolamento, nonché la comprensione dei valori del rugby. Il Progetto - sostenuto da Emil Banca, Macron e Illumia - è finalizzato alla progressiva interiorizzazione di valori quali l’osservanza delle regole, la lealtà, la solidarietà, il sostegno reciproco ai compagni, il rispetto dell’avversario. Uno spirito aggregativo e solidaristico per affrontare in maniera costruttiva le sfide sul campo e nella vita. I detenuti sottoscriveranno un codice etico comportamentale che prevede specifici meccanismi sanzionatori in casi di violazione, fino all’esclusione dalla squadra. Ovale oltre le sbarre Onlus nasce nel 2010 con l’obiettivo di perseguire - attraverso il gioco del rugby - il recupero fisico, sociale ed educativo di detenuti e giovani disagiati. Presieduta dall’ex rugbista azzurro Walter Rista, riunisce al suo interno sportivi, professionisti e imprenditori convinti che la diffusione dei valori etici del rugby presso le strutture carcerarie e le periferie metropolitane ad alto rischio devianza (opportunamente inseriti e valorizzati all’interno di specifici programmi di recupero e prevenzione) possa configurarsi quale elemento di rinforzo di percorsi finalizzati al reinserimento sociale dei detenuti e al contenimento del disagio giovanile. Associazione Sportiva La Drola Rugby - La Drola (in dialetto piemontese drola significa "cosa strana", "cosa buffa") è la squadra di rugby del carcere "Lorusso e Cutugno" di Torino, nata dalla collaborazione tra la direzione della struttura e i soci dell’Associazione Ovale oltre le sbarre Onlus. È stata costituita nel maggio 2011 sulla base di uno Statuto regolamentare, conforme ai regolamenti FIR. È formata da circa 30 detenuti di molteplici etnie e dalla stagione 2011 - 2012 milita nel Campionato Regionale Piemontese di serie C. Nella stagione 2015/2016 si è classificata seconda. Vallo della Lucania (Sa): la pizza napoletana entra nelle carceri cilento.it, 25 novembre 2016 È stato presentato, nella sede di "Mugnai di Napoli", l’evento "Pizza + Amore", che mercoledì 30 si svolgerà nella Casa Circondariale di Vallo della Lucania. Questa idea dall’attore Vincenso Soriano, ha trovato interprete la Direttrice della Casa Circondariale di Vallo ed ha ottenuto il Patrocino morale della Regione Campania. All’incontro con tanti pizzaioli che seguono i corsi, che loro maestri dell’Associazione gastronomica "Scuola arte bianca lab" presieduta da Enzo Paciello, con progetti di tecniche innovative per panificatori, pizzaioli e pasticcieri, tengono in via Nazionale delle Puglie, 26 località Cimitile, in una delle sedi dell’Associazione, quella della farina dal marchio "Mugnai di Napoli" Srl, locali messi a disposizione da Domenico Ragosta, responsabile dei Mercati Esteri dello stesso marchio, sono intervenuti numerosi giornalisti. Ragosta, unitamente a Giuseppe Torrente, sponsor anche lui con la sua azienda di famiglia dell’evento suddetto, come anche il caseificio "Orchidea", le industrie forni "Carlo Magliano", "Florio" "MV di Raffaele Vassallo", i prodotti tipici campani per farciture di "Fantasie Napoletane" e l’azienda di forniture attrezzi per pizzerie "Gimetal", con l’aggiunta dell’analista agraria Laura Maione, hanno illustrato insieme all’attore Vincenzo Soriano, promotore di questa manifestazione con i maestri pizzaioli Roberto Barone e Domenico Civale da Latina, le motivazioni e modalità di svolgimento della giornata dedicata ai detenuti di Vallo. Il 30, infatti, nella Casa Circondariale di Vallo della Lucania, l’attore Vincenzo Soriano intende, con la possibile istituzione di corsi dedicati a questo come ad altri mestieri, offrire una possibilità di recupero ai detenuti che al termine dello scontare la pena, attraverso insegnamenti, come l’imparare l’arte del pizzaiolo, possano avere un loro reinserimento nella società. Nella giornata del 30 novembre, all’uopo, Soriano molto impegnato nel sociale ed in particolare in varie carceri, si è reso promotore dell’iniziativa di portare due maestri della suddetta professione a dare note di docenza per apprendere quest’arte, a due gruppi di detenuti che con il loro impegno creeranno due pizze con una originale denominazione. Le due specialità entreranno a far parte dei menù delle due pizzerie dei pizzaioli docenti. All’incontro di presentazione del "Pizza + Amore", (Più Amore che va dimenticando il sapore, Più Amore per la Nostra terra, Più Amore perché è l’ingrediente base della Solidarietà), hanno inoltre presenziato oltre ai due artefici principali che collaborano alla iniziativa di Soriano, i maestri pizzaioli Roberto Barone (Peppe ‘a Quaglia) e Domenico Civale da Latina, altri maestri dell’arte della pizza Antonio Petricciuolo, Franco Ursini, l’istruttore Natalino Marigliano ed il Master Armando Califano. L’evento vallese è stato fortemente voluto da Soriano, rappresentante dell’Associazione no-profit "Orfani della Vita", da anni è impegnato nel sociale, con una particolare storia d’infanzia di bambino abbandonato e poi adottato all’età di cinque anni, con non lunga ma intensa carriera lavorativa da Attore, acquisendo numerosi premi nazionali ed internazionale tra cui lo Sprike Awards a Los Angeles presso il Centro di Cultura Italiano, ricevuto per ben due volte dal Santo Padre Papa Francesco Bergoglio, protagonista insieme a Barbara de Rossi, Cristel Carrisi (la figlia di Albano), Sandra Milo ed altri del film "Con tutto l’amore che ho" del regista Angelo Antonucci, attualmente candidato al famoso e prestigioso premio "David di Donatello". Impegnato fortemente con piani di recupero per i detenuti, visitando e organizzando cortometraggi, incontri, video clip musicali e manifestazioni di carattere anche culturali nelle Case Circondariali di massima sicurezza minorili, femminili e maschili. Sponsor di questa lodevole iniziativa troviamo Domenico Ragosta, che appartiene alla quarta generazione di una famiglia di imprenditori di consolidata esperienza in un lavoro difficile e di antica tradizione. Infatti Mugnai di Napoli è una nuova realtà produttiva, con una grande storia alle spalle, che nasce dall’unione di due centenarie Industrie Molitorie, Molino San Felice e Macinazione Lendinara. È con una gran dose di coraggio e con la voglia di continuare questo lavoro che le famiglie Cavallari e Ragosta hanno investito per innovare i propri impianti e ampliare le produzioni di Farine creando così l’inizio di un capitolo nuovo che parte dalle antiche tradizioni napoletane, ma che vuole essere attento all’evoluzione del gusto. Ragosta afferma: "Attraverso la gamma delle nostre Farine Made in Napoli ci impegniamo ad essere Ambasciatori della cultura gastronomica del nostro Territorio. Mugnai di Napoli, mettendo a disposizione i propri Tecnici e la struttura di San Felice Lab, collabora con molte Associazioni di categoria ed Istituzioni operanti nel settore alimentare. Lo scopo è quello di favorire lo scambio di competenze ed esperienze, promuovere la cultura della qualità, sensibilizzare i clienti diretti ed i consumatori finali. Siamo lieti di partecipare insieme a due nostri Maestri Pizzaioli all’iniziativa organizzata dall’Associazione "Orfani della Vita" presso il Carcere di Vallo della Lucania che ci vede inoltre vicini all’attore Vincenzo Soriano da sempre impegnato in iniziative sociali volte al reinserimento dei detenuti nella vita lavorativa". Anche Giuseppe Torrente direttore vendite estero, del gruppo familiare di industria del pomodoro campano "La Torrente", presente anche amministrativamente nell’azienda fondata 50 anni fa dal nonno e poi portata avanti da Filippo e Salvatore Torrente, rispettivamente papà e zio, ci ha detto: "Abbiamo avuto sempre successo con i nostri prodotti perché ci riportiamo alle eccellenze dei prodotti campani a quali teniamo tanto come prodotti delle nostre terre d’origine. Abbiamo apprezzato l’iniziativa benefica di Soriano ed abbiamo deciso di contribuire con i nostri pomodori pelati per le pizze per tutti gli ospiti e i pomodori "Principe Borghese", molto simili ai pomodorini del piennolo, tipicità antichissima che stava scomparendo ed invece abbiamo recuperato, ed offriremo questo prodotto per realizzare le due particolari nuove pizze a Vallo. È prevista la partecipazione di numerose autorità d’ogni settore della vita sociale. Femminicidio. La strage delle donne: 116 vittime dall’inizio dell’anno di Lucio Luca La Repubblica, 25 novembre 2016 L’ultimo caso stanotte vicino a Monza. Elizabeth, peruviana di 29 anni, uccisa dal convivente. Nella manovra 5 milioni di euro l’anno per le vittime. Centosedici donne uccise da mariti, fidanzati, compagni o altri familiari. Una ogni tre giorni. Sara, bruciata viva dal suo ex in una strada della periferia di Roma, Gloria che si era innamorata di un ragazzo molto più giovane di lei, Vania, l’infermiera massacrata dal suo uomo. E poi Fabiana, Rosaria, Rosamaria, Stefania, Giulia. L’ultima si chiamava Elizabeth, era peruviana, aveva 29 anni. È stata strangolata in casa alla periferia di Monza dal suo convivente di 56 anni, un italiano che ha subito confessato. L’ha uccisa davanti ai due figli di lei: la sua colpa era sempre la stessa, voleva lasciarlo e lui non poteva accettare questo "affronto". Elizabeth viveva da anni in Lombardia, la regione che nel 2016 ha il triste primato dei femminicidi: 20 le donne assassinate nei primi 10 mesi dell’anno, una ogni due settimane. Sono 116 i casi dall’inizio dell’anno, nel 2015 il tragico bilancio si era fermato a quota 128: "C’è un lieve calo ma non può certo essere una consolazione", dice Gabriella Guarnieri Moscatelli, presidente dei Telefono Rosa alla vigilia della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, che si celebrerà domani, mentre sabato si svolgerà la grande manifestazione di Roma- "La situazione della donna oggi in Italia è allarmante: stiamo perdendo punti nel lavoro, nei diritti, in temi come quelli dell’aborto e nella violenza. I femminicidi sono sempre tanti. Stiamo tornando lentamente indietro". Negli ultimi dieci anni le donne uccise in Italia sono state 1.740: 1.251 (il 71,9%) in famiglia, e 846 di queste (il 67,6%) all’interno della coppia; 224 (il 26,5%) per mano di un ex. Lo studio dell’Eures, l’Istituto di ricerche economiche e sociali che da anni dedica al fenomeno un Osservatorio, racconta di una vera e propria strage. E se si va ancora più indietro nel tempo, fino al 2000 - anno record con 199 delitti - il dato sale addirittura a 2800 femminicidi. Nel periodo 2005-2015, secondo i dati dell’Eures, gli omicidi avvenuti nell’ambito di una coppia hanno avuto nel 40,9% dei casi un movente passionale, e nel 21,6% sono stati originati da liti o dissapori. Le armi più utilizzate per uccidere sono state quelle da taglio (32,5%) e da fuoco (30,1%) mentre nel 12,2% dei casi i killer hanno fatto uso di "armi improprie", il 9% ha strangolato la vittima e il 5,6% l’ha soffocata. Nel 16,7% dei casi il femminicidio è stato preceduto da "violenze note", l’8,7% delle quali denunciate alle forze dell’ordine. In tre casi su dieci, l’assassino si è tolto la vita e nel 9% ci ha provato senza riuscirci. Quest’anno il 53,4% dei femminicidi (62 donne uccise) si è registrato al nord e il 75,9% in ambito familiare. Al sud il dato scende a quota 31 (26,7%), al centro a 23 (19,8%). L’età media delle vittime è di 50,8 anni, gli uomini sono il 92,5% dei killer. A livello regionale, come detto, la Lombardia detiene il triste primato di regione con il più elevato numero di donne uccise (20) davanti a Veneto (13), Campania (12, ma erano state 30 l’anno prima), Emilia Romagna (12), Toscana (11), Lazio (10) e Piemonte (10). Anche nel 2016 la famiglia (con 88 donne uccise, pari al 75,9% del totale), si conferma il principale contesto dei femminicidi. Meno frequenti i delitti tra conoscenti (6%), quelli nell’ambito della criminalità comune (4,3%) o scaturiti da conflitti di vicinato (2,6%) e all’interno di rapporti economici o di lavoro (1,7%). Tra le altre figure familiari, quelle più "a rischio" sono le madri, con 14 vittime, pari al 16,3% del totale. C’è infine il dramma degli orfani, i figli che hanno perso la madre per colpa del padre (o del compagno) assassino. Negli ultimi 15 anni il numero è salito fino a quota 1628, di loro si parla poco, la gelida burocrazia li definisce "vittime secondarie". Adesso c’è una proposta di legge per tutelarli, come per le altre vittime di reati gravi come la mafia, il terrorismo o l’inquinamento ambientale da amianto. Si punta, insomma, all’istituzione di un fondo per le vittime di femminicidio. Anche perché, così come cresce il numero delle donne uccise non può che aumentare anche quello dei ragazzi che perdono in un solo momento madre e padre. Nel 2015 sono stati 118 in più rispetto all’anno prima. Femminicidio. "Io, ex maschio violento ho imparato a fermare il mostro che è in me" di Maria Novella De Luca La Repubblica, 25 novembre 2016 Alessandro, rinato dopo un percorso di rieducazione: "Dovevo cambiare o avrei perso le persone che amo di più". "Ricordo ancora quella sera: avevo il coltello in mano e gridavo a mia moglie "ora ti ammazzo". La bambina era lì che ci guardava. Eravamo in cucina, e il terrore nei suoi occhi e in quelli di suo fratello non posso dimenticarlo. Poi la loro paura, quando venivano a dormire da me, dopo la separazione, perché la mia violenza poteva esplodere in ogni momento, ed erano botte, urla, piatti rotti". Alessandro ha 50 anni e non si vergogna di piangere. "Erano così piccoli...". Seduto in una stanza colorata del "Cam" di Firenze, Centro di ascolto per uomini maltrattanti, mentre stringe tra le mani una lettera della figlia come fosse un oggetto prezioso, Alessandro, alto funzionario in una multinazionale, prova a raccontare cosa c’è nella mente (e nel cuore) di un uomo che terrorizza la moglie, i figli, le persone che più dice di amare. Ma anche il suo lento percorso di rinascita, attraverso gli incontri con gli operatori del "Cam", il più famoso centro in Italia per il recupero dei maschi violenti. Alessandro, come ha fatto a capire che aveva bisogno di aiuto? "Ho sempre pensato di essere nel giusto quando picchiavo e umiliavo tutti. Poi l’anno scorso, quando una sera infuriato ho sbattuto mia figlia contro il portone di casa, ho capito che se non fossi cambiato avrei perso per sempre i miei affetti più cari". Ma lei perché si comportava così? "Rabbioso e iracondo sono stato fin da ragazzo. A casa mia volavano piatti e urla. Sono cresciuto sentendo mio padre gridare a mia madre: "Ora ti mollo un ceffone". Ma non voglio giustificarmi. Io sono un violento e mio fratello no, eppure abbiamo vissuto le stesse cose. Ho sempre reagito in modo sconsiderato. A 11 anni per una punizione spinsi mia madre contro una poltrona, rompendole una costola. Ma il peggio è arrivato quando mi sono sposato". Cosa accadeva? "Tutto doveva essere fatto come decidevo io. Se mia moglie prendeva un’iniziativa, diventavo brutale. Lanciavo oggetti. Sbattevo i pugni sul tavolo. L’ho presa a schiaffi. La svalutavo in continuazione. Proprio come mio padre aveva fatto con mia madre. In casa tutti avevano paura di me". E i suoi figli? "Il mio rimorso più grande. Nemmeno con loro mi tenevo. Una volta, per strada, strattonai in modo così violento mia figlia di due anni che la gente mi voleva fermare. E a mio figlio, oggi adolescente, ho rotto un oggetto in testa perché non faceva bene i compiti. Per anni non mi hanno parlato. Mia moglie mi ha lasciato quando erano piccoli, ma so che era terrorizzata quando venivano a dormire da me". Ma lei non chiedeva perdono, non provava a cambiare? "Avevo dei rimorsi, ma davo la colpa agli altri. Alla mia ex moglie, ai ragazzi che mi facevano arrabbiare". Un padre padrone insomma? "Forse. Come tanti altri uomini "normali" che ho incontrato qui al centro di ascolto. Convinto, anche in quanto maschio, di avere ragione". Ha mai pensato di esser capace di compiere un femminicidio? "Mi sono fermato in tempo... Purtroppo però ogni volta che ho avuto una nuova relazione ho messo in atto comportamenti violenti. Ho avuto una seconda compagna. Era molto gelosa. Una notte l’ho fatta cadere procurandole una contusione al collo. Naturalmente la storia è finita. Ma io dicevo che era colpa sua...". Cosa l’ha spinta a venire al "Cam"? E cioè a curarsi finalmente? "È stata la mia ex moglie. Mi ha fatto capire che i ragazzi non li avrei più rivisti. Il solo pensiero mi faceva impazzire. Qui però noi non usiamo la parola "curare". La violenza non è una malattia, è un comportamento. Una scelta. Con i gruppi e i percorsi individuali impariamo a riconoscerla dentro di noi, a controllarla, a modificare le reazioni. Ad esempio smettendo di dare la responsabilità agli altri della nostra aggressività. Ma ci vuole uno sforzo continuo". E lei si sente al sicuro? "Ho sempre paura. Noi ex violenti siamo come gli alcolisti. Sempre a rischio di ricaduta. Io ero un persecutore perché volevo avere ragione a tutti i costi. Oggi ascolto gli altri". Lei ha in mano una lettera di sua figlia. Cosa la commuove tanto? "Piango di gioia e di dolore. Me l’ha scritta dopo l’inizio del mio percorso al "Cam". Racconta la sofferenza che ho causato a lei e al fratello. Ma dice, anche, che mi vuole bene". E suo figlio maschio? "È chiuso, distante. L’ho picchiato e fatto sentire una nullità. Ma da qualche giorno viene a fare i compiti a casa mia. Una gioia incredibile". Se i maschi violenti frequentassero questi centri, si potrebbero evitare alcuni femminicidi? "Sì, ne sono certo. Ho incontrato diversi uomini, qui dentro, che si sono fermati prima di commettere un omicidio". Migranti. Malattie, sporcizia e prostituzione: questo è il suk di Rosarno di Chiara Giannini Il Giornale, 25 novembre 2016 Piana di Rosarno, terra di nessuno, dimenticata anche da Dio. Da dieci anni, al limite della zona industriale, c’è un campo profughi la cui situazione igienica non si ricorda neanche nel famoso campo "Choucha", che a inizio 2011 l’Unchr aveva realizzato a Ras Jadir, terra di confine tra Libia e Tunisia, al tempo della morte di Gheddafi. Già all’ingresso, scendendo dall’auto, ti arriva dritto alle narici un odore acre di sangue fresco e cadavere in putrefazione che è difficile da descrivere. Gli ospiti del campo ci guardano con sospetto. "Chi siete?", ci chiedono. "Amici", rispondiamo senza entrare nel dettaglio. Una distesa di tende si apre davanti a noi. "Mi chiamo Ibrahim - prosegue il giovane - ho 26 anni e vengo dalla Guinea. Sono qui da un anno e mezzo. Andarmene? E dove vado? Non ci ho neanche mai pensato". Sa tanto di vita dei miserabili, costretti a un’esistenza al limite della decenza pur di stare in un Paese in cui non si muore di fame. "Ma se devi vivere così non era meglio stare a casa tua?", gli chiediamo poi. Alza le spalle e risponde: "Almeno qui lavoro. Al nero, ovvio. Raccolgo mandarini verdi, quelli per le spremute. Mi danno un euro a cassetta e ne faccio 20-25 al giorno. Di più non riesco, perché si devono raccogliere piano o ci si fa male alle mani". Nel campo ci sono circa 800 migranti, così ci raccontano i poliziotti che ogni tanto vanno a fare servizio d’ordine a Rosarno. "C’è stata qualche rissa - ci spiegano - e se vi ricordate è morto un migrante che ha tentato di accoltellare un carabiniere". Più avanti si vende il pane, che è pieno di mosche, le stesse che svolazzano ovunque. Di fronte una specie di negozio di scarpe. "Le troviamo nel cassonetto dei rifiuti - spiegano - e le vendiamo qui". Ci colpisce un capannello di persone. Ci avviciniamo e subito l’odore acre di sangue si fa più forte. Hanno appena sgozzato una capra, che appare di fronte a noi squartata e appesa. Le frattaglie sono messe in bella vista su un bancone improvvisato di plastica sporca. Accanto un’altra capra, magra come se stesse per morire di stenti e più vicino altre due. Le guardi negli occhi e sembra che ti parlino. Anche loro paiono chiedere aiuto, forse consce del destino che le aspetta. Una si muove, scappa. Si porta via il legno che ha legato con una corda alla zampa e se lo trascina dietro. Un profugo la rincorre e la riporta al suo posto. Nei bagni, poco più in là, non abbiamo neanche provato a entrare, visto il cattivo odore che vi proviene. In compenso la "cucina" all’aperto pare un barbecue afghano. Ci sono polli gialli come i tuorli dell’uovo con ancora attaccate le piume. La provenienza è dubbia, ma ciò che è certo è che sono appoggiati su un telo sul quale un essere umano con un minimo di buonsenso non poggerebbe neanche una spazzola. E poi ci sono le tende, molte delle quali realizzate con materiali di fortuna, molte altre che riportano la scritta "ministero dell’Interno". Un poliziotto ci assicura che "qui non c’è spaccio". "Non hanno neanche i soldi per mangiare, figuriamoci per drogarsi. Però la prostituzione è molto frequente e ciò che è peggio è che qui vivono anche bambini". Appena usciamo vediamo un’auto di Emergency, appena arrivata e ci accorgiamo che c’è un mediatore culturale, che ha in mano alcuni fogli. Sono i moduli per la richiesta di permesso di soggiorno. Nei giorni scorsi a Rosarno ha fatto visita anche il segretario del Sap (sindacato autonomo di polizia), Gianni Tonelli. "È indegno quello che ho visto - spiega - e mi stupisco del fatto che non sia ancora stato smantellato. Credo che vi sia una responsabilità grossissima delle istituzioni. Ho visto tantissime tende del ministero dell’Intero e questo mi ha indignato perché di fatto si collabora al perpetrarsi della vergogna. Si riempiono tutti la bocca di antimafia e poi - conclude - in questa terra di Calabria negli ultimi anni sono venuti meno dai 1.500 ai 1.700 uomini nelle forze dell’ordine di cui 700 solo a Reggio Calabria". Prima di andare via ci voltiamo. Un extracomunitario, nascosto tra i rifiuti, ci sta fotografando col telefonino. "Voi avete fotografato me, ora io fotografo voi". In Africa si dice che chi ti fotografa ti ruba l’anima. Una leggenda che in Italia vale il doppio, perché a Rosarno, di anime strappate alla vita, ce ne sono fin troppe. Migranti. Bombe carta e guerriglia a Torino. Il prefetto chiede aiuto all’esercito di Federico Genta e Massimiliano Peggio La Stampa, 25 novembre 2016 Tre ordigni lanciati per vendetta dopo una rissa. Gli abitanti esasperati: abbiamo paura. Centinaia di africani in rivolta: "Italiani razzisti, la polizia ci controlla e non ci difende". Cinquanta uomini dell’esercito. Secondo fonti vicine al Viminale sono le "risorse aggiuntive" che il Prefetto di Torino ha chiesto per presidiare 24 ore su 24 l’ex villaggio olimpico dove l’altra notte e ieri mattina sono scoppiate due rivolte. Una decisione maturata dopo l’incontro con la sindaca Chiara Appendino, per far fronte alle tensione che sta covando nel quartiere che accoglie centinaia di profughi. Ma la realtà è che tutta questa tensione è nata da un’aggressione in un bar. Si spiegherebbero così i grossi petardi da stadio lanciati contro gli immigrati che vivono nell’ex "Moi", il complesso di palazzi colorati costruiti per accogliere gli atleti dei giochi invernali del 2006, oggi rifugio per più di mille africani. Domenica scorsa va in frantumi la vetrata di un locale storico degli ultras del Torino, a due passi dal villaggio. La colpa ricade su un africano che vive con la raccolta di ferri vecchi. È bastato questo per scatenare la vendetta. La risposta arriva mercoledì sera. Prima due petardi scoppiano davanti a una sala scommesse del Lingotto, a nemmeno duecento metri dal complesso del Moi. Poi, direttamente all’ingresso delle palazzine. "Un’azione militare", racconta chi si è affacciato ai balconi, spaventato per le esplosioni. Ci sono venti uomini, alcuni nascosti sotto sciarpe e berretti. Li vedono allontanarsi uniti da quell’angolo di strada, prima di sparpagliarsi. Qui scoppia la reazione dei profughi. In trecento scendono in strada: spranghe in mano, pali della segnaletica gettati a terra, bottiglie lanciate in mezzo alla strada, contro i passanti. Arrivano i vigili del fuoco, la polizia, i carabinieri. La zona viene isolata. Quando gli occupanti si convincono a rientrare nelle palazzine occupate, è notte. Poche ore di pausa. Poi, ieri mattina, e questa volta senza un motivo apparente, ricominciata la rivolta. "Degli italiani hanno aggredito uno di noi" dicono gli immigrati. In otto anni di occupazione sono i primi episodi ribellione. Nella mattinata sono poco più di cinquanta. Lanciano i cassonetti in mezzo alla strada. Di nuovo i bastoni in mano, come la sera precedente. Inseguono chi si trova a passare davanti alle palazzine. Un gruppo di donne getta gli ombrelli e scappa sotto la pioggia. Gli addetti dell’ufficio postale prospiciente, tirano giù le saracinesche, barricandosi dentro con i clienti. La stessa cosa fanno i bar. Anche il fuoristrada dell’esercito, da tempo presidio fisso davanti al Moi, è costretta a indietreggiare. Dopo poco tornano in forza polizia e carabinieri. "Italiani razzisti. La polizia ci controlla ogni giorno ma non ci difende", urlano i ragazzi in piedi sui cassonetti ribaltati. Prima dell’arrivo delle forze dell’ordine, i passanti bloccano il traffico: le auto intrappolate tra i piazzali e il presidio vengono prese a calci e gli automobilisti minacciati. Passano ore prima che i mediatori riescano a riportare la calma. La tensione, però, resta alta. Come un patto che si è sciolto. "Sono giorni che ci provocano, minacciano con i coltelli i nostri amici", raccontava ieri un ragazzo del Ghana. "Aspettano che ci scappi il ferito, magari il mordo, per poterci cacciare via. Tutti quanti". Lo sfondo è quello di un quartiere sempre più stanco, a ridosso del centro di Torino, che nel giro di otto anni ha visto entrare più di mille stranieri in quattro palazzi lasciati troppo presto al loro destino. Una città nella città, guardata a vista dalle forze dell’ordine, ma dove entrano soltanto le associazioni legate ai centri sociali. E dopo i proclami, la voce dello sgombero si fa sempre più concreta. Il piano, hanno assicurato pochi giorni fa dal Municipio e dalla prefettura di Torino, sarà pronto entro la fine dell’anno. Ma sarà un "intervento graduale", preceduto da un censimento degli occupanti. Egitto. Giulio Regeni, dieci mesi dopo lontani dalla verità di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 25 novembre 2016 Siamo al 25 novembre 2016, siamo a dieci mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni e dobbiamo con amarezza constatare che la nebbia è fitta, talmente fitta da rendere difficile scorgere una luce seppur fioca che possa illuminare questa storia di criminalità politica. La cooperazione giudiziaria tra la Procura della Repubblica di Roma e i magistrati egiziani procede lentamente e non sappiamo con quali frutti. Pare che nelle prossime settimane vi sarà un nuovo summit. Nel frattempo l’azione diplomatica di pressione che il governo italiano avrebbe dovuto svolgere nei confronti del governo egiziano, quanto meno per amor patrio se non per rispetto dei diritti umani su scala globale, è pericolosamente stagnante. Non sappiamo se mai vi sarà un incontro tra i pm italiani e quelli egiziani, non sappiamo se l’incontro sarà collaborativo o se verranno riproposte dai secondi le fandonie e i depistaggi iniziali, sappiamo però che il silenzio delle istituzioni italiane ci preoccupa. Sappiamo anche che Giulio Regeni è stato torturato e che sul suo corpo c’erano le tracce dei suoi assassini, se qualcuno tra gli investigatori del Cairo avesse voluto andarle a cercare. Sappiamo che i torturatori torturano o pensano di torturare sempre nel nome dello Stato, per cui non si preoccupano di occultare le loro responsabilità. Sappiamo che godono spesso di immunità e impunità, il che li rende arroganti e non preoccupati di occultare il crimine commesso. Sappiamo che la tortura è un delitto odioso, lesivo della dignità umana e che, con le sparizioni forzate, è pratica diffusa del regime egiziano dell’ex generale Al Sisi. Sappiamo che in Italia la tortura non è un reato e questo riduce il tasso della nostra moralità pubblica nonché la credibilità internazionale del governo italiano. Sappiamo infine che la giustizia in una non democrazia è un obiettivo ben difficile da raggiungere. Proprio perché sappiamo tutto questo, Antigone e la Cild (Coalizione italiana per le libertà civili) terranno viva e ferma la richiesta di giustizia e verità per Giulio Regeni consapevoli che ci vorranno determinazione, tempo e memoria. Noi siamo abituati a non dimenticare, a stare dalla parte delle vittime di violazioni dei diritti umani anche per decenni, a lottare senza stancarci. In questi giorni, ad esempio, sta andando a conclusione il processo di primo grado a Roma nei confronti degli assassini, sequestratori e torturatori fascisti sud-americani alleati nel Plan Condor. Sono vent’anni di lavoro giudiziario memorabile degli avvocati Arturo Salerni e Mario Angelelli di Progetto Diritti. I figli delle vittime di allora avranno finalmente un riconoscimento giudiziario. Dunque noi continueremo a lottare oggi, domani e fino a quando sarà necessario per la giustizia e le verità per Giulio Regeni. Lo dobbiamo alla sua meravigliosa e coraggiosissima famiglia. Lo dobbiamo a noi stessi, a chi crede nella libertà. È nostro dovere farlo. Altro che realpolitik. Per questo speriamo che il prossimo eventuale incontro romano non si chiuda con l’ennesimo umiliante (per l’Italia) nulla di fatto. *Presidente di Antigone- Cild A che punto è la guerra in Siria Internazionale, 25 novembre 2016 Un milione di siriani sotto assedio, l’uso del cloro nei bombardamenti su Aleppo, la ripresa degli aiuti ai profughi siriani in Giordania. Mentre la Francia sta organizzando una riunione internazionale a Parigi con alcuni gruppi dell’opposizione siriana, ecco quali sono stati i principali sviluppi del conflitto siriano degli ultimi giorni. Un milione di siriani sotto assedio. Il 21 novembre Stephen O?Brien, il sottosegretario generale per gli affari umanitari delle Nazioni Unite, ha fatto sapere che 974mila siriani vivono sotto assedio, contro i quasi 400mila di un anno fa e i 486mila di sei mesi fa. Negli ultimi mesi è aumentato il numero delle località dove non arriva più nulla da mangiare né ricevono aiuti umanitari. Tra queste, la parte est di Aleppo, un intero quartiere di Damasco e molte aree della Ghuta orientale, la regione agricola che circonda la capitale. Secondo O’Brien questa situazione è il frutto di tattiche "crudeli", in particolare da parte del governo di Damasco. L’esercito governativo avanza su Aleppo est. Dal 15 novembre la città è di nuovo colpita da razzi, colpi di mortaio e barili esplosivi, nel corso dei più pesanti bombardamenti dall’inizio della guerra nel 2011. La nuova offensiva delle forze governative e dei loro alleati mira a riprendere il controllo della parte est della città, in mano all’opposizione dal 2012. Alcuni attivisti locali e l’Osservatorio siriano per i diritti umani, un’organizzazione che dal Regno Unito monitora l’andamento della guerra, hanno fatto sapere che il 21 novembre le forze di Damasco, appoggiate dai combattenti iraniani, russi e libanesi di Hezbollah, hanno conquistato una parte del quartiere di Masakan Hanano: un’avanzata simbolica e strategica, visto che questo fu il primo quartiere a cadere nelle mani dei ribelli. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani dal 15 novembre sono morte 143 persone, tra cui 19 bambini. Secondo il gruppo di soccorritori noti come Caschi bianchi, le vittime sono almeno 375. Inoltre la carenza di cibo e di carburante è drammatica, visto che non arrivano aiuti da luglio. Si calcola che gli abitanti di Aleppo che vivono sotto assedio siano almeno 275mila. Non ci sono più ospedali funzionanti ad Aleppo est. Lo denuncia l’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui i centri di cura sono stati l’obiettivo di bombardamenti ripetuti da parte delle forze governative. Restano in piedi solo piccole cliniche. Gli abitanti di questa parte della città non hanno più accesso a servizi di traumatologia e non possono sottoporsi a interventi di chirurgia importanti. Sospetti attacchi con il cloro. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani il 22 novembre sempre nella parte orientale di Aleppo sono stati trovati dei contenitori di agenti chimici, probabilmente cloro, sganciati dagli elicotteri governativi con barili bomba. La direzione sanitaria di Aleppo est ha fatto sapere che alcune persone hanno avuto problemi respiratori. L’11 novembre l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (che ha monitorato lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano) aveva denunciato l’uso di armi chimiche impiegate dal governo di Damasco e dal gruppo Stato islamico (Is). Riprende la distribuzione di aiuti ai profughi siriani in Giordania. Il 22 novembre le Nazioni Unite hanno annunciato che i circa 85mila siriani fermi al confine tra i due paesi riceveranno i primi aiuti da mesi (cibo, abiti invernali, coperte), dopo che è stato raggiunto un accordo con l’esercito giordano per il passaggio di convogli umanitari. I profughi, tra cui molte donne e bambini, vivono in in due campi informali in un’area desertica del nord della Giordania. Secondo le stime dell’Onu, in Giordania vivono più di 600mila profughi siriani. Il governo di Amman, invece, sostiene che sono quasi un milione e mezzo. Un leader jihadista ucciso nella provincia di Idlib. Il portavoce del Pentagono, Peter Cook, ha annunciato che il 18 novembre è stato ucciso in un raid aereo compiuto dagli Stati Uniti vicino a Sarmada, in Siria, Abu Afghan al Masri, un esponente di primo piano di Al Qaeda. Inizialmente Al Masri si era unito ai jihadisti in Afghanistan e poi aveva raggiunto il ramo siriano dell’organizzazione, il Fronte Fatah al Sham (ex Fronte al nusra). Uccisi tre soldati turchi nell’ovest della Siria. La Turchia sostiene che siano morti in un bombardamento delle forze governative siriane vicino alla città di Al Bab. Altri dieci soldati sono rimasti feriti. Sono le prime vittime denunciate da Ankara dall’inizio dell’offensiva Scudo dell’Eufrate, lanciata in territorio siriano il 24 agosto, contro i combattenti del gruppo Stato islamico e le milizie curde Unità di protezione popolare (Ypg).