Le proposte della Comunità di Sant’Egidio per l’umanizzazione delle carceri Radio Vaticana, 24 novembre 2016 Presso il carcere di Regina Coeli, la Comunità di Sant’Egidio presenta ai detenuti le proposte fatte durante l’appuntamento "Pena e speranza: carceri, riabilitazione, esecuzione della pena, riforme possibili", svoltosi il 16 novembre nella Nuova Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari, per una esecuzione della pena più capace di riabilitazione, con la partecipazione del Cortile dei Gentili, di deputati e senatori, testimoni ed esperti. Non è stato certo una "spallata al sistema", ma il Giubileo e il successivo incontro su "Pena e speranza. Carceri, riabilitazione, esecuzione della pena, riforme possibili", promosso lo scorso 16 novembre dal Cortile dei Gentili, ha mosso qualcosa nel mondo carcerario. Ha tolto un po’ di polvere dalle sbarre e sollecitato gli organismi preposti a creare strutture extra murarie, utili a contrarre i tempi per la riabilitazione, oppure a individuare forma di depenalizzazione dei reati minori e offrire la possibilità di scegliere soluzioni alternative. Oggi nel carcere di Regina Coeli la Comunità di Sant’Egidio ha presentato ai detenuti le proposte avanzate in quella sede per rendere più dignitosa la loro vita. La testimonianza di Paolo Impagliazzo, volontario della Comunità di Sant’Egidio nelle carceri di Rebibbia e Regina Coeli: R. - Molto è stato fatto, negli ultimi anni, come la riduzione del numero dei detenuti e l’aumento delle misure alternative, e questo già è un passo molto importante portato avanti dal governo italiano. Rimangono aperte tante questioni: io penso che la principale sia quella dell’incontro e dell’ascolto per i detenuti che si trovano soli e quindi maggiormente in difficoltà. Non conta tanto avere un paio di pantaloni in più, quanto piuttosto qualcuno con cui parlare, con cui confrontarsi. E la domanda che viene rivolta spesso a chi da fuori entra dentro è: "Che si dice, fuori? Che cosa succede?", cioè la voglia di rimanere in contatto con il mondo. Rimane poi ancora la grande domanda del lavoro, che è troppo poco presente in carcere, per cui tanti detenuti sono costretti a un ozio forzato, perché non ci sono opportunità di lavoro. D. - Si parla spesso di radicalizzazione, in carcere, soprattutto per quanto riguarda i detenuti musulmani. È possibile auspicare di vivere la propria fede in carcere? È utile? R. - In carcere c’è tanto tempo per pensare. Spesso si riscopre la propria fede. Spesso ci si confronta con il proprio fallimento, con quello che non si è riusciti a fare. Da qui nascono, credo, due sentimenti: la rabbia contro tutto e contri tutti, quindi una rivolta; il secondo sentimento è il desiderio di ricominciare e questo spesso è legato anche alla richiesta di perdono, di sentirsi parte di una comunità di fedeli. Allora, in questo senso credo che non dobbiamo lasciare la ricerca religiosa al fai-da-te o alla televisione, ma dobbiamo prendere in considerazione la domanda profonda di fede di ogni uomo. Con la Comunità di Sant’Egidio festeggio in carcere il Natale, ma festeggio anche la fine del mese di digiuno del Ramadan con i musulmani. Io credo che siano momenti molto importanti, e credo che la presenza di preti, di catechisti ma anche di imam, che possano guidare, è molto importante per evitare proprio la radicalizzazione. D. - Nell’incontro nel carcere di Regina Coeli si è parlato di umanizzazione del carcere, ma anche di festa con i detenuti alla presenza di alcuni artisti. Che significato può avere un momento del genere? R. - Un significato importantissimo. I carcerati soffrono per tanti motivi, però un sintomo lampante di questa sofferenza è il fatto che i suicidi in carcere sono molti di più che "fuori", gli atti di autolesionismo sono frequentissimi … Noi non possiamo calcolare numericamente l’effetto di questi momenti, se riducono o meno i suicidi; sappiamo però che hanno un effetto positivo perché ridonano dignità alle persone, fanno loro sentire che sono parte di un mondo come il nostro ed è molto importante per abbassare le tensioni, per ridurre le tensioni. L’Inail batte cassa e l’istituto della "messa alla prova" per gli adulti rischia la paralisi di Franca Selvatici La Repubblica, 24 novembre 2016 La messa alla prova per adulti, introdotta nel 2014, consente a persone accusate di reati puniti con pena non superiore a 4 anni (come la guida in stato di ebbrezza con incidente senza feriti, il piccolo spaccio, il danneggiamento aggravato, i furti meno gravi) di evitare il processo in cambio di lavori di pubblica utilità, come la manutenzione del verde o l’assistenza agli anziani. In Toscana e in Umbria ci sono attualmente 1.101 soggetti messi alla prova più altri 899 ex detenuti che svolgono lavori di pubblica utilità a titolo di pena sostitutiva. In generale prestano servizio all’interno di associazioni di volontariato e come tutti i volontari sono coperti da una polizza assicurativa privata. L’Inail (Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro), però, ritiene che la messa alla prova per evitare un processo non sia una attività volontaria ma un impiego, che comporta un’assicurazione presso l’istituto. Le associazioni, però, non possono permettersela. L’allarme, in Toscana, arriva dall’Ufficio dell’esecuzione penale esterna (Uepe) del Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria. L’Inail sta eseguendo controlli nelle associazioni che impiegano soggetti ammessi ai lavori di pubblica utilità. Secondo l’Inail, per loro è obbligatoria la copertura assicurativa dell’istituto. L’effetto è che sempre più associazioni ritirano la propria disponibilità a impiegare persone che potrebbero essere usufruire della messa alla prova. Esistono varie possibilità per superare l’impasse: confermare il trattamento assicurativo dei soggetti messi alla prova alla stregua dei volontari, prevedere una copertura da parte dello Stato come per il servizio civile, oppure inquadrare tutti i lavori di pubblica utilità nella posizione Inail prevista per le categorie marginali, con importi assicurativi bassi. Ma finora nulla. "Si rischia la paralisi perché le amministrazioni dello Stato non comunicano fra di loro", dichiara l’avvocato Luca Bisori, presidente della Camera penale fiorentina, che esprime solidarietà al Provveditorato e alle associazioni e deplora la situazione paradossale che si è venuta a creare. Senza una rapida soluzione si rischia di minare seriamente - forse definitivamente, teme il presidente Bisori - "un istituto che doveva rappresentare il simbolo di un approccio più moderno alla soluzione delle controversie penali di minore rilevanza". Bambini detenuti insieme alle madri, i primi passi in prigione di Chiara Formica 2duerighe.com, 24 novembre 2016 Le carceri, le Case Circondariali, costituiscono un micro-mondo, nel quale le dinamiche e i problemi della realtà esterna implodono all’interno delle mura detentive. Chi viene recluso non porta con sè solo la sua colpa e la sua condanna, ma anche la sua storia, piena di persone, luoghi, affetti, problemi economici, mentali, di salute. E proprio dopo la reclusione, questi problemi tornano a farsi presenti, più vivi che mai. Il tossicodipendente, ad esempio, che entra in carcere, con ogni probabilità, per un reato connesso alla sua dipendenza, non smette di esserlo una volta dentro, ma anzi avrà ancora più tempo per sentire addosso il peso della sua malattia. Inoltre la reclusione non incide solo sulla persona interessata, ma contribuisce alla modificazione delle dinamiche e delle logiche di famiglie e gruppi, nei quali era inserita. Ma il riverbero della pena su coloro che circondano il detenuto non è diretto, solo in un caso lo è: nel caso delle detenute madri con figli, minori di 3 anni, in istituto. La reclusione femminile è un settore sicuramente più tranquillo, anche perché molto meno affollato, ma presenta alcuni punti molto controversi che sollecitano la sensibilità e la riflessione altrui. Cosa prevede la legge quando ad essere reclusa è una donna, madre di un figlio piccolo, con età inferiore ai 3 anni? O quando è una donna in stato di gravidanza? La legge ha predisposto e realizzato gli istituti a custodia attenuata, che ospitano le madri con i loro figli, di età inferiore a 3 anni. Secondo le statistiche riportate dal Ministero della Giustizia, al 30 giugno 2016, gli asili nido funzionanti all’intero degli istituti detentivi femminili sono 18, il picco più alto è stato raggiunto nel 2014, con l’apertura di 21 asili nido, quindi oggi si hanno 3 asili non funzionanti. Le detenute madri con figli in istituto sono 38, solo l’anno scorso 49, mentre nel 2009 si contavano 72 detenute madri con figli in istituto e solo 16 asili nido funzionanti. Alle 38 detenute madri del 2016 corrispondono 41 bambini, minori di 3 anni, presenti in istituto, nel 2015 la stima saliva a 50, ma nel 2009 addirittura a 75, superata solo dai dati del 2001 che contavano 83 bambini e nel 2000, 78. Mentre le detenute in gravidanza sono 8. I reati commessi dalle detenute sono per la gran parte relativi allo spaccio di sostanze stupefacienti, alla collaborazione con associazioni mafiose e sono maggiormente immigrate che compiono furti. Le detenute madri con i figli in istituto, di Rebibbia, vivono in una struttura staccata, ma adiacente alla struttura dove sono detenute le altre donne senza figli. Nella loro struttura è compreso un giardino per i bambini e una sala giochi. Le celle rimangono sempre aperte durante il giorno, per consentire più movimento possibile ai bambini, alcuni di loro vanno all’asilo nido comunale, quindi escono la mattina per rientrarvi nel primo pomeriggio. Solo la sera le sbarre della cella vengono chiuse, poiché non c’è abbastanza personale per sorvegliare tutte le celle. Una normativa del 2000 stabilisce, però, che le celle che ospitano i bambini devono rimanere sempre aperte, ovviamente per evitare al bambino il trauma palese delle sbarre, che stimolano un forte senso di costrizione e di chiusura. La legge italiana prevede che madri e figli non vengano separati fino ai tre anni del bambino, poi questo deve obbligatoriamente abbandonare la struttura detentiva, per essere affidato al parente più prossimo, quindi il padre, i nonni, gli zii. Qualora questo non fosse possibile, nel caso in cui oltre alla madre il bambino non abbia nessuno, cui poter essere affidato, verrà preso in custodia da case famiglia e assistenti sociali. Le vere e prime vittime di questo meccanismo detentivo sono, chiaramente, i figli delle detenute, che godono si della possibilità di crescere con la propria madre, nell’età più delicata e precoce della vita; ma a che prezzo? La loro una vita inizia dove nessuno vorrebbe finire. È logicamente paradossale associare il concetto di nascita, che è pura libertà assoluta, al concetto di carcere e reclusione. Purtroppo le iniziative per la creazione di case famiglia, capaci di accogliere le madri detenute e i loro figli, sembrano ancora incapaci di produrre risultati positivi. Giustizia: intesa Csm-Orlando sugli organici, ma c’è l’ombra referendum di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 novembre 2016 È stata approvata ieri pomeriggio in plenum, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, la delibera sulla revisione delle piante organiche degli uffici giudiziari. Il documento, al quale avevano lavorato il presidente della settima commissione Claudio Galoppi e il togato Francesco Cananzi, segna una svolta importante nei rapporti fra l’esecutivo ed il Csm. In particolar modo, va riconosciuto al guardasigilli il positivo dialogo con l’organo di autogoverno delle toghe su un tema di grande interesse. Lo scorso luglio, come si ricorderà, Orlando aveva inviato al Csm uno schema di decreto ministeriale relativo alla determinazione delle piante organiche degli uffici giudicanti e requirenti di primo grado, conseguente alla revisione delle circoscrizioni giudiziarie del 2012. La settima commissione aveva, quindi, proceduto all’esame della proposta, interessando i Consigli giudiziari in modo da acquisire ulteriori elementi conoscitivi e valutativi. È noto come la questione della revisione delle piante organiche sia stata posta fin da subito all’ordine del giorno dell’attuale consiliatura. Il Csm aveva sensibilizzato gli uffici ministeriali sui profili da tenere in considerazione nell’elaborazione della nuova pianta organica, offrendo la maggiore conoscenza della realtà dei singoli uffici. I criteri ministeriali, condivisi poi dal Csm, sono stati: bacino d’utenza, carichi di lavoro, rapporto tra popolazione residente e magistrati, valutazione del dato relativo alle sopravvenienze, turn over, adeguatezza del personale amministrativo. Si è quindi accertato, su base nazionale, come il 55% del personale fosse assegnato al settore civile, il 45% al settore penale. Con alcune differenze: il Tribunale di Bolzano ha la più alta percentuale di magistrati assegnati al settore civile, pari al 76,9%, il Tribunale di Reggio Calabria di quelli al settore penale, nella misura del 60%. In base agli elementi raccolti, nel parere approvato ieri in plenum sotto forma di delibera emerge solo una parziale divergenza del Csm con il progetto ministeriale che privilegia gli uffici del Nord. Anzi, le integrazioni proposte dal Consiglio consentono di effettuare un riequilibrio sostanziale tra tutte le aree del territorio nazionale. In specie, degli uffici metropolitani, degli uffici di più ridotte dimensioni, delle aree geografiche dell’Italia centrale caratterizzate dalla maggiore incidenza delle pendenze, e degli uffici del Sud, in considerazione della presenza della criminalità organizzata. Il progetto di revisione sarà a monitoraggio periodico triennale di efficacia dell’intervento effettuato. Durante la discussione, il laico Pierantonio Zanettin, complimentandosi per il lavoro svolto, ha però paventato il rischio che questa revisione resti in un cassetto. "Il rischio è legato alla durata dell’esecutivo Renzi. La speranza è che l’incertezza che caratterizza l’attuale quadro politico, non abbia come effetto di far fare a questo lavoro la stessa fine della proposta Birritteri nella scorsa legislatura". Come ribadito anche dal vicepresidente Giovanni Legnini, Zanettin ha auspicato che "all’aumento tabellare degli organici segua immediatamente un aumento dei magistrati in servizio effettivo, altrimenti la conseguenza sarà che l’attuale scopertura nazionale del 12 per cento si eleverà inevitabilmente al 14 o al 15 per cento, senza un tangibile effetto a vantaggio degli utenti del sistema Giustizia". Giustizia. Criteri unitari per il registro penale di Gabriele Ventura Italia Oggi, 24 novembre 2016 Criteri unitari per l’utilizzo del registro unico penale. Li ha definiti il ministero della giustizia con la circolare 11 novembre 2016 inviata a tribunali e corti d’appello per indirizzare raccomandazioni finalizzate a migliorare l’efficacia delle politiche di organizzazione dei servizi della giustizia nel settore penale. Il riferimento della circolare è il Sistema informativo della cognizione penale, che si è diffuso presso tutti gli uffici giudiziari di primo grado quale modello unico di registro nel settore. Le potenzialità del software hanno indotto gli uffici del ministero a programmare delle linee di intervento per implementare progressivamente gli strumenti tecnologici a disposizione e formare e sensibilizzare gli operatori sul corretto e omogeneo utilizzo del sistema. La circolare fa riferimento anzitutto alle forme della denuncia, che i privati trasmettono per posta elettronica. Dagli interventi dei procuratori della repubblica è emersa infatti la necessità di definire una linea di condotta uniforme per l’inoltro delle denunce di reato via mail. In questo senso, il ministero esclude la configurabilità di un obbligo di valutazione delle denunce inviate via posta elettronica ai fini dell’iscrizione di notizie di reato a carico dell’ufficio di procura ricevente. Inoltre, da una recente indagine della direzione generale di statistica di via Arenula emerge la significativa variabilità dei rapporti percentuali tra le iscrizioni operate dai diversi uffici di procura nel registro delle notizie di reato relative a soggetti identificati e le iscrizioni operate nel registro degli atti non costituenti notizia di reato. Secondo il ministero occorre puntare sulla omogeneità dei criteri di iscrizione, fondamentale ai fini dell’adozione, da parte dei soggetti competenti, di scelte tabellari e organizzative fondate su basi informative affidabili. Infine, con il piano nazionale 2016-2017 di formazione del personale amministrativo sugli applicativi in uso negli uffici giudiziari del settore penale, il ministero intende assicurare la progressiva semplificazione di impiego dei sistemi informativi di gestione dei registri penali. "Trust Woman Care", un’Onlus di professioni per combattere i reati di genere di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2016 Finanziare progetti di repressione dei reati di genere, promuovere campagne di sensibilizzazione e di crescita culturale, favorire l’eguaglianza e il rispetto di genere in ogni ambito della vita sociale, familiare e aziendale. Parte da Milano, attorno a un gruppo di affermati professionisti e nella forma assolutamente innovativa del trust, un’ambiziosa iniziativa di difesa delle donne, battezzata Trust Woman Care. Sono oltre venti i soci fondatori tra notai, professori universitari e avvocati, coordinati dal presidente della Commissione finanze della Camera, Maurizio Bernardo, e accomunati dal desiderio di promuovere attività e progetti per contrastare il femminicidio e il bullismo. Primo obiettivo dei fondatori - che si sono presentati ieri mattina in un incontro ospitato da Banca Prossima - è monitorare nei numeri il fenomeno delle violenze di genere, replicando in varie aree del paese il Nucleo di prossimità della Polizia locale di Torino, una sorta di pronto intervento specializzato nella violenza sulle donne (che avviene prevalentemente tra le mura domestiche e/o nel circolo degli uomini conosciuti e frequentati). Altro obiettivo del trust - che ha già ottenuto dall’agenzia delle Entrate il riconoscimento di Onlus - è di sviluppare tecnologie (per esempio applicazioni per smartphone) che consentano una "catena dell’aiuto" che, contemporaneamente al pronto intervento della polizia, attivi anche i pronto soccorso degli ospedali, dove le vittime si vedrebbero riconosciute un codice di precedenza dell’intervento sanitario. "La tempestività dei soccorsi e la "fissazione" immediata della prova sui luoghi delle aggressioni - ha detto l’avvocato Alessia Sorgato - sono fondamentali per sottrarre la donna al gorgo dei soprusi domestici e per consentire un’azione processuale resistente alle minacce successive che regolarmente le donne subiscono dai loro partner violenti". Stefano Loconte, avvocato e trustee dell’operazione, ha spiegato la scelta della forma del trust, che "assicura la massima protezione delle donazioni raccolte a favore dei diversi progetti. La caratteristica particolarmente innovativa della struttura giuridica individuata è rappresentata dalla presenza di sottofondi al suo interno, ognuno dotato di una propria autonomia patrimoniale perfetta. Questo - ha aggiunto Loconte - permetterà di tenere ben distinte le erogazioni che verranno effettuate in favore delle singole iniziative e, conseguentemente, di massimizzarne l’effetto di destinazione patrimoniale" Gli altri aderenti al trust hanno invece assunto il ruolo di "guardiani" per sovraintendere e controllare il raggiungimento del programma di destinazione e degli obiettivi. Carcere fino a 12 anni per i trafficanti di organi umani di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2016 Con il via libera della Commissione Giustizia della Camera, in sede legislativa, è legge il Ddl di contrasto al commercio illecito di organi prelevati da persone viventi. Il testo trasmesso dal Senato è passato all’unanimità senza modifiche. Con il nuovo delitto (articolo 601-bis), introdotto nel Codice penale, é punito con il carcere da 3 a 12 anni e la multa da 50 mila a 300 mila euro chi, violando la disciplina sul prelievo e trapianto da donatore, commercia, vende, acquista o comunque procura organi prelevati da una persona in vita. Se le condotte illecite sono commesse da un medico o da un sanitario è prevista la pena aggiuntiva dell’interdizione perpetua dall’esercizio della professione. Nel mirino del legislatore finisce il turismo dei trapianti. Viene punito con la reclusione da 3 a 7 anni anche chi organizza o propaganda viaggi oppure pubblicizza o diffonde, anche per via informatica o telematica, annunci finalizzati al traffico di organi. La norma composta di soli 4 articoli, modifica l’articolo 416 del codice penale in tema di associazione per delinquere, inserendo il riferimento al nuovo articolo 601-bis nell’elenco dei reati per i quali scatta l’ aggravante. È considerata dunque associazione a delinquere aggravata, la condotta finalizzata al traffico di organi da vivente o da cadavere oppure tesa alla mediazione a scopo di lucro nella donazione degli organi. La pena detentiva per chi promuove o organizza l’associazione va dai 5 ai 15 anni, mentre rischia dai 4 ai 9 anni di carcere chi partecipa. Per evitare sovrapposizioni o problemi interpretativi, la nuova norma interviene sulla legge 458 del 1967 abrogando l’articolo 7, che prevedeva una multa e la detenzione fino a un anno per chi faceva, a scopo di lucro, da mediatore nella donazione di un rene. Per la presidente della Commissione giustizia della Camera, Donatella Ferranti, quella approvata ieri è una legge importante che colpisce reati odiosi a danno dei più deboli e di chi si trova in uno stato di bisogno. "Il traffico di organi - ha detto la Ferranti - il cui giro d’affari globale è stimato in quasi un miliardo e mezzo di dollari, è una forma di tratta degli esseri umani che rappresenta una gravissima violazione dei diritti umani fondamentali". La norma va a colmare una lacuna, perché la sola tutela era prima rappresentata dalla legge 91 del 1999 ora modificata, che disciplina "il prelievo di organi e di tessuti da soggetto di cui sia stata accertata la morte e regolamenta le attività di prelievo e di trapianto di tessuti e di espianto e di trapianto di organi". Secondo Donatella Ferranti è un atto di civiltà "punire con sanzioni pesanti chi per profitto alimenta fenomeni di "neo-cannibalismo" considerando il corpo degli altri come fonte di pezzi di ricambio e combattere l’aberrante turismo dei trapianti". Permesso di soggiorno, decide il Tar di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2016 Tribunale di Mantova - Provvedimento 18 ottobre 2016. Spetta al giudice amministrativo, e non a quello ordinario, decidere sull’istanza di annullamento del decreto con cui il questore abbia negato allo straniero la conversione del permesso di soggiorno "per integrazione di minore"(permesso al familiare di restare in Italia per seguire l’inserimento del minore stesso), in permesso per lavoro subordinato. Il diniego o il mancato rinnovo del permesso di soggiorno, per motivi diversi da quelli familiari, costituisce, infatti, un provvedimento discrezionale e non vincolato, rispetto al quale l’istante può vantare soltanto un interesse legittimo. A precisarlo, è la prima sezione del Tribunale di Mantova, con provvedimento del 18 ottobre 2016. Promuove il ricorso un cittadino cinese, il quale decide di rivolgersi al giudice per chiedere l’annullamento del decreto con cui il questore - respinta la domanda di conversione del permesso di soggiorno per integrazione di minore, in permesso di soggiorno per lavoro subordinato - gli aveva ordinato di allontanarsi dal territorio italiano entro quindici giorni. A sostegno della pretesa, l’uomo affermava di risiedere da molti anni in Italia, come testimoniato dalla nascita nel territorio nazionale di due figli, minorenni e conviventi con la sua compagna. Motivo per cui la decisione della Questura di allontanarlo - assunta sulla base di un orientamento del Consiglio di Stato (sentenza 2783/12) a suo dire per nulla consolidato - avrebbe pregiudicato l’equilibrio del nucleo familiare nonché la crescita dei bimbi. Danno evitato, tempo addietro, dal Tribunale per i Minorenni che, sottolinea il ricorrente, gli aveva già concesso un permesso di soggiorno di due anni, proprio in considerazione del fatto che, come papà, era lui a provvedere al mantenimento dei figli e che l’eventuale venir meno del suo titolo di soggiorno avrebbe comportando la revoca anche di quello rilasciato a favore della prole. L’Avvocatura dello Stato difende la scelta del questore: il cinese, socialmente pericoloso, non avrebbe provato di svolgere attività lavorativa. Non solo. La controversia andrebbe decisa, annota, dal giudice amministrativo e non da quello ordinario. Il Tribunale concorda e si dichiara incompetente: la risoluzione della questione spetta al Tar. Nel sostenerlo, il giudice, in via preliminare, espunge dall’ambito di valutazione ogni indagine sulla pericolosità del ricorrente o sulla sua disoccupazione: nel giudizio di impugnazione avverso il provvedimento dell’autorità amministrativa, scrive, "oggetto di indagine è la sola ricorrenza della specifica ipotesi contestata ed assunta a presupposto del provvedimento sicché il diniego del rilascio non può essere confermato dal giudice per un diverso motivo non contestato". Ciò premesso, il giudice dichiara la propria incompetenza. Il diniego o il mancato rinnovo del permesso di soggiorno, per ragioni non familiari (rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario: Cassazione, sentenza 15868/11 delle Sezioni unite) costituiscono "provvedimenti discrezionali e non vincolati, rispetto ai quali in capo allo straniero sussiste solo una posizione di interesse legittimo a fronte degli spazi di discrezionalità riconosciuti alla pubblica amministrazione". Natura amministrativa del provvedimento richiesto dal cinese (permesso di soggiorno per motivi di lavoro) immutata nonostante il motivo addotto (mantenimento dell’unità della famiglia). La battaglia di civiltà iniziata da Enzo Tortora va continuata di Gianfranco Chiarelli* Il Dubbio, 24 novembre 2016 "Enzo Tortora, una ferita italiana" è un documentario del politico e cineasta Ambrogio Crespi. Dunque non una ricostruzione "liberamente tratta da fatti di cronaca" come spesso accade, ma un insieme di testimonianze reali che attribuiscono a questo lavoro il carattere della ricostruzione storica. La ricostruzione di una delle pagine più buie della storia del diritto del nostro Paese. Una pietra miliare, in un certo senso, che segna il livello più basso raggiunto dal pentitismo e da certa supponente arroganza di taluna magistratura. Anche nella mia veste di avvocato con oltre un trentennio di attività forense, non posso che confermarlo: esiste una magistratura che lavora interpretando nel modo migliore il ruolo che la Costituzione attribuisce a chi amministra la giustizia; con onestà e mantenendo sempre dritta la barra della assoluta indipendenza di giudizio. Ma non mancano le devianze. Non manca la politicizzazione di molti. Non mancano gli errori. I casi sono tanti. Nel caso di Tortora poi, uomo di spettacolo, giornalista e infine anche eurodeputato, all’ingiuria di una accusa ingiusta, ad un accanimento giudiziario senza precedenti, si è infine aggiunta la gogna mediatica. Tutti ricordiamo la spettacolarizzazione del suo arresto. Sono passati oltre trent’anni da quell’arresto (era il 17 giugno del 1983) e non sembra che molto sia cambiato, purtroppo. Credo che a nessuno sia sfuggito, ad esempio, il modo in cui sia stato documentato e diffuso l’arresto recente (il 16 giugno del 2014) di Massimo Bossetti. Un arresto in diretta, filmato momento per momento, con l’allora solo indagato, messo in ginocchio e ammanettato davanti alla telecamera! Una vergogna! "Il caso Tortora", mette in evidenza almeno tre questioni: le storture del pentitismo; l’errore giudiziario, e l’assenza di assunzione di responsabilità da parte di chi ha sbagliato; la spettacolarizzazione. Il problema è che dopo tanto tempo, purtroppo, le cose non sono migliorate. Anzi: di responsabilità civile dei magistrati si continua a non parlare seriamente, nonostante la recente riforma del 2015 che non risolve come ci si attendeva la questione, mentre per quanto attiene la gogna mediatica dobbiamo parlare di assoluto peggioramento, atteso che ormai i processi si svolgono in tv prima che in tribunale. Non credo debba ricordare qui i casi di Avetrana, piuttosto che l’interminabile vicenda dell’omicidio di Meredith Kercher, o quello di Chiara Poggi. E potrei continuare ancora; ci sono ormai decine di format televisivi che si fondano, e fanno la loro fortuna, sui fatti di cronaca nera. In una sua dichiarazione nel corso del processo, Tortora ebbe a dire: "Io sono innocente; spero dal profondo del mio cuore che lo siate anche voi" Ma erano innocenti i pm che scambiarono per Tortora il nome di un rappresentante di bibite, tale Enzo Tortona o Tortosa? Per chi autonomamente, come sancisce l’art. 104 della nostra Costituzione, si autogestisce, quei pm non solo sono stati giudicati innocenti ma hanno anche avuto una ampia progressione di carriera: Lucio Di Pietro è diventato viceprocuratore nazionale antimafia; Felice Di Persia oggi pensionato, è stato Procuratore aggiunto a Napoli con delega all’antimafia. Ha ricoperto anche un incarico in seno al Consiglio superiore della magistratura. Il caso Tortora, che, lo ricordo, ha passato 7 mesi in carcere, condannato a 10 anni di reclusione, e poi, una volta assolto con formula piena, morto per un male che non si può escludere sia stato prodotto dall’enorme stress subito, rappresenta sicuramente un caso di scuola. Ma, purtroppo, è lunghissimo l’elenco di cosiddetti "errori giudiziari" che colpiscono gente comune di cui i media non si occupano più di tanto. Se faccio, ad esempio, il nome di Domenico Morrone, credo che pochi, o addirittura nessuno, sappia di chi parli. Morrone ha scontato nel carcere di Taranto ben 15 (quindici) anni di pena ingiusta prima di essere totalmente scagionato! Accusato di duplice omicidio, addirittura i suoi genitori furono condannati per falsa testimonianza, per aver detto in fondo la verità rispetto all’alibi del figlio! Per questo "errore" nessuno ha pagato se non lo Stato, ovvero tutti noi, avendo dovuto risarcire la ingiusta detenzione. E resta il fatto che un giovane (aveva circa 20 anni all’epoca dell’arresto) ha perso probabilmente i più importanti 15 anni della sua vita. Dal 1991 al 2014 (ultimo dato disponibile) sono stati accertati ben 22.323 casi di malagiustizia per i quali lo Stato ha effettuato rimborsi per oltre mezzo miliardo di euro! Malagiustizia, in alcuni casi scarsa professionalità, mancato rispetto dei diritti della difesa, senza escludere in taluni casi una certa arroganza del potere, dovuta anche alla certezza dell’impunità. Attenzione, questo non è un processo alla magistratura. Continuo a sostenere che vi sia una gran parte di magistrati preparati che lavorano in modo silenzioso, con capacità e soprattutto correttezza. Ma 22.323 errori giudiziari non possono passare in silenzio! La questione è quindi politica e riguarda una riforma vera della Giustizia che non si vuole realizzare. La stagione del pentitismo, che ha visto tanti criminali incalliti approfittare in modo scorretto delle prerogative offerte, ma, va detto, anche molti casi di utile collaborazione, può dirsi in qualche misura chiusa o quantomeno molto limitata, ma resta in piedi la questione della responsabilità di chi commette errori che troppo spesso causano danni irreparabili alle persone, e quello di un’ informazione che ormai è spettacolo. Spettacolo che in ogni caso nasce sempre da una superficiale, quando non colpevole, gestione delle informazioni sulle inchieste. Penso ad esempio alla diffusione delle intercettazioni telefoniche. Su questi due fronti occorre intervenire con decisione. Una diversa responsabilizzazione della magistratura non risolve ogni questione legata a sempre possibili errori. Ma per ottenere maggiore attenzione, da parte di chi opera in regime di totale autocontrollo, occorre stabilire precise regole che oggi mancano. Fermo restando che tutta la materia Giustizia richiede una profonda riflessione che riguarda anche i tempi biblici che interessano sia il processo penale, sia quello civile con gravi conseguenze sul piano economico. La battaglia di civiltà che Tortora avviò, senza poterla portare a termine, va continuata perché non ci sia mai più un caso Tortora in Italia, non si contino più migliaia di errori, che toccano tutti, senza possibilità di esclusione per alcuno. *deputato Conservatori e riformisti - componente commissione Giustizia Emilia-Romagna: dal Garante dei detenuti i saluti di fine mandato Ristretti Orizzonti, 24 novembre 2016 Questa è l’ultima newsletter del mio mandato di Garante regionale dei detenuti. Colgo l’occasione per salutarvi e per ringraziare dell’attenzione con cui il lavoro dell’Ufficio è stato seguito in questi anni. Spero in una proficua continuazione, nella certezza che il Garante può svolgere un importante ruolo nella relazione tra i diversi soggetti del mondo penitenziario e di sensibilizzazione sui tanti temi dell’esecuzione penale. Abbiamo lavorato con dedizione, serietà e autonomia da qualunque condizionamento, rifuggendo facili demagogie ma rivendicando sino in fondo la forza delle ragioni legate alla tutela dei diritti, mai disgiunta da una richiesta alle persone detenute di essere cittadini responsabili. Il dialogo aperto con il volontariato, con gli operatori di polizia penitenziaria, con i vertici dell’Amministra­zione penitenziaria e con tutte le altre figure di questo settore, sempre leale e mai di circostanza, va mantenuto e le relazioni sempre più coltivate. Il carcere ha mostrato qualche segno di cambiamento, dopo la sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013, ma è ancora troppo poco. La qualità della vita, per chi subisce la carcerazione e per chi opera nel carcere, necessita di miglioramenti, attraverso l’adeguamento delle risorse materiali, l’ampliamento degli organici, l’aumento delle professionalità. Le "riforme" non si compiono a costo zero e il continuo appello al sacrificio individuale non basta più. L’attuale Ministro di Giustizia ha avviato un percorso interessante, per un cambio di mentalità, puntando alla riduzione delle misure cautelari prima della condanna definitiva e poi sulle misure alternative alla detenzione e sulle sanzioni di comunità. Vedremo. L’Ufficio ha partecipato anche al Tavolo 11 degli "Stati generali", in cui ci si è occupati delle misure di sicurezza. La speranza è che quel contributo collettivo aiuti a risolvere una delle situazioni più critiche della nostra regione, costituita dalla casa-lavoro di Castelfranco Emilia, che nella sua grandiosità strutturale e nella sua ingiustificata vocazione al non-lavoro rappresenta proprio ciò che va superato: l’immobilismo burocratico e la dispersione delle risorse. Ringrazio sentitamente, per l’assoluta e irripetibile dedizione al lavoro dell’Ufficio e per il sostegno alla mia persona, Cinzia Monari e Antonio Ianniello, senza i quali non avrei potuto resistere alle molte difficoltà. Un caro ringraziamento anche a Davide Bertaccini, per l’apporto scientifico ai temi affrontati, e a Giulia Cella, che ci ha accompagnato nel nostro percorso, nel comune ricordo del Professor Massimo Pavarini, che non ci ha mai fatto mancare la sua intelligenza e la sua collaborazione. Ringrazio doverosamente l’Assemblea legislativa per avermi scelto nel 2011, e la Regione tutta per quanto fa sul tema dei diritti. Un grazie particolare alla Presidente Simonetta Saliera, per il sostegno alle attività del Garante. Desi Bruno Garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna Cosenza: detenuti morti a Paola, spunta una lettera anonima "sospetta" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 novembre 2016 Inviata a un quotidiano di Cosenza da un carcerato per difendere la dirigenza dell’istituto. Dopo la denuncia del radicale Emilio Quintieri e le successive interrogazioni parlamentari a proposito della morte del detenuto straniero Youssef Mouchine avvenuta nella notte tra il 23 e il 24 ottobre nel carcere di Paola, spunta una lettera anonima di un detenuto pubblicata dal quotidiano La Provincia di Cosenza che difende il personale penitenziario dell’Istituto e parla di morte a causa di inalazione da bombola del gas. Ma non solo. Il detenuto prima premette di stimare Emilio Quintieri per le sue battaglie e subito dopo l’accusa di strumentalizzare politicamente la morte del detenuto straniero facendo leva sul dolore dei familiari della vittima. Per il detenuto anonimo, Youssef non si è suicidato e non è stato "vittima di maltrattamenti e non è morto per cause naturali". Allora che cosa è successo la notte tra il 23 e il 24 ottobre? A dare la risposta è sempre il detenuto: "Forse proprio per festeggiare la sua imminente liberazione, ha pensato di sballarsi un po’ inalando del gas dal fornellino che noi detenuti abbiamo in dotazione nella cella, inconsapevole che avrebbe trovato la morte nel sonno". Poi prosegue elogiando la direzione, gli agenti e tutta l’amministrazione di polizia penitenziaria del carcere di Paola, perché "svolgono il loro lavoro con senso di umanità e solidarietà soprattutto nei confronti dei detenuti più deboli e fragili". La risposta del radicale Emilio Quintieri non si fa attendere e si rivolge al direttore della Provincia di Cosenza che ha pubblicato la lettera: "Non le nascondo che, la lettera, più che essere quella di un detenuto mi sembra quella del Direttore del carcere o del suo difensore". Poi prosegue spiegando che "È la prima volta in assoluto che un detenuto si prende la briga di scrivere una nota pubblica per difendere l’operato del corpo di polizia penitenziaria e della direzione, violando quello che prevedono le leggi non scritte che i carcerati sono tenuti ad osservare rigorosamente". L’attivista radicale poi entra nel merito precisando che non ha mai rivolto accuse nei confronti del personale penitenziario e ha ricordato che non è stato lui a dire che Mouhcine fosse "vittima di maltrattamenti" perché non aveva alcun elemento per poterlo affermare. Così come non è stato lui a dire che la vittima era isolata, in cella liscia, costretta a dormire per terra sul pavimento o che gli veniva impedito di telefonare alla famiglia. "Sono circostanze - spiega Quintieri - che mi sono state riferite, oralmente e per iscritto, dai congiunti del Mouhcine e che ho ritenuto di esternare pubblicamente affinché venissero fatte delle verifiche, senza colpevolizzare nessuno". Poi l’esponente radicale spiega che, invece, in altri casi, quando ne ha avuto contezza, ha provveduto a denunciare tali fatti senza problemi, come ad esempio la "cella liscia" in cui era allocato da giorni Maurilio Pio Morabito - altro detenuto morto in circostanze ancora da chiarire - senza nemmeno la sorveglianza a vista, prassi illegale ancora seguita al carcere di Paola ed in altri stabilimenti penitenziari. "Per cui ? commenta Quintieri - ad esser priva di fondamento, è soltanto la difesa d’ufficio accuratamente sostenuta del sedicente detenuto". L’esponente dei Radicali Italiani poi annota che il detenuto, nella lettera, parla al plurale, come se la sua opinione fosse condivisa da tutti gli altri ristretti. "Posso affermare - scrive Quintieri, con tranquillizzante certezza e senza paura di essere smentito, che la stragrande maggioranza dei detenuti ristretti nel carcere di Paola, non la pensa allo stesso modo". E ricorda di aver ricevuto una lettera da parte di un detenuto del carcere di Paola dove si lamenta delle condizioni di detenzione e del trattamento che avviene all’interno dell’istituto penitenziario, riferendo, tra le altre cose, che "la direttrice non ti riceve mai" chiedendo di sapere "se in Calabria il diritto penitenziario è diverso" e spera che il Dap lo rispedisca al nord perché "questo carcere è un carcere fantasma". Quintieri conclude la sua replica spiegando che sia nel caso di Morabito che nel caso di Mouhcine ha mosso delle contestazioni ben precise nei confronti della locale amministrazione penitenziaria individuando quello che, a suo avviso, "costituisce violazione alle disposizioni dell’ordinamento penitenziario, del regolamento di esecuzione, delle direttive emanate dal dipartimento e delle altre norme vigenti in materia e criticando la gestione e la conduzione dell’Istituto, diritto che per fortuna è riconosciuto e garantito dalla costituzione della Repubblica". Perugia: detenuto tenta di togliersi la vita nel carcere di Capanne umbriadomani.it, 24 novembre 2016 Ha tentato il suicidio nella cella della Casa Circondariale Capanne di Perugia, dov’era ristretto, ma l’uomo è stato salvato dal tempestivo intervento degli Agenti di Polizia Penitenziaria in servizio. "L’insano gesto - posto in essere mediante impiccamento dentro il bagno della cella - è avvenuto questa mattina verso le 4 e non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari. Soltanto grazie all’intervento provvidenziale dell’Agente della sezione, che per altro controllava due Reparti detentivi, si è evitato che l’estremo gesto di un detenuto italiano, con fine pena 2019 perché responsabile dei reati di furto e omicidio colposo, avesse conseguenze mortali", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Commenta Fabrizio Bonino, segretario nazionale del Sappe per l’Umbria: "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Perugia Capanne - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri umbre e del Paese sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia, sotto organico di 7mila unità". Roma: Antigone "chiudere attività di Rebibbia alle 15.30 mette a rischio la rieducazione" Ristretti Orizzonti, 24 novembre 2016 "Non si può parlare di rieducazione e risocializzazione dei detenuti se poi alle 15.30 il carcere si chiude ad ogni attività e alla comunità esterna". A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, in riferimento al provvedimento adottato nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso di interrompere tutte le attività a partire dalle 15.30, a seguito dell’evasione di tre detenuti avvenuta qualche settimana fa. "Fatte salve le legittime decisioni in materia di sicurezza - prosegue Gonnella - non è pensabile che oltre mille detenuti scontino problemi organizzativi e di organico dell’Amministrazione Penitenziaria". Tra le attività costrette a chiudere in anticipo c’è anche lo "Sportello per i diritti" dell’Associazione Antigone che svolge la propria attività nell’istituto e i cui volontari, lo scorso 18 novembre, sono stati invitati ad uscire in esecuzione del recente provvedimento. Su questo episodio sono intervenuti anche il Difensore civico di Antigone, avv. Simona Filippi, e i responsabili dello "Sportello" i quali nei giorni scorsi hanno inviato una lettera alla direttrice del carcere. "Ben consapevoli della situazione di emergenza determinata dai noti recenti episodi - si legge, siamo comunque a rappresentarle la nostra contrarietà rispetto alla disposizione. Siamo fiduciosi che la stessa abbia carattere temporaneo e con la presente siamo pertanto a chiederLe un chiarimento rispetto alla tempistica così da poter anche organizzare le nostre attività di volontariato che da oltre cinque anni portiamo avanti all’interno dell’istituto in una costante e proficua collaborazione con la Direzione". A ribadire questo concetto è anche Patrizio Gonnella. "Auspichiamo - dichiara il presidente di Antigone - che questa decisione venga al più presto rivista in quanto il carcere romano di Rebibbia ha una storia antica e consolidata di apertura all’esterno che un singolo, seppur grave episodio, non deve minimamente intaccare". "Quando avvengono fatti di questo genere non devono accadere inoltre ritorsioni di tipo generalizzato, come quelle che pare abbiano colpito la biblioteca del carcere, i cui libri pare siano stati messi a soqquadro" conclude Gonnella. Bologna: fra le detenute della Dozza "solo il lavoro ci salverà" di Caterina Giusberti La Repubblica, 24 novembre 2016 La bionda con la tutina rossa si chiama Jennifer e ha cinque mesi e mezzo, quella con la testa piena di codini Pamela e ha un anno. Strillano, ridono, distribuiscono sorrisoni a tutto spiano, afferrano con le manine ogni dito, braccialetto o pennarello gli capiti a tiro. Sono bambine, nient’altro. Ma anche minuscole detenute che da settimane vivono dietro le sbarre del carcere della Dozza insieme alle loro mamme. A differenza di altre regioni infatti l’Emilia- Romagna non ha ancora predisposto le comunità previste dalla legge per accogliere detenute madri coi loro bambini. La Garante Elisabetta Laganà ha già denunciato più volte la gravità della situazione, ma nessuno ha trovato un’alternativa. Così Jennifer e Pamela restano lì, a guardar fuori dalla finestra. C’erano anche loro, martedì, all’incontro organizzato dalle volontarie del progetto "Non solo mimosa", che da due anni organizzano corsi di yoga, shiatsu, arti marziali, scrittura, cinema, per il benessere delle detenute. Erano insieme all’assessora alle Pari opportunità Susanna Zaccaria, alla presidente del consiglio Luisa Guidone, a quella della commissione Pari opportunità Roberta Li Calzi e alla consigliera Maria Raffaella Ferri, a parlare di come combattere la violenza sulle donne. "L’impegno parte anche da qui", esordisce la direttrice Claudia Clementi. E di violenza si parla subito, a bruciapelo, in prima persona. "Ma quando ad abusarti è un tuo parente, uno che si siede a tavola con te, come glielo dici ai tuoi genitori? - alza la mano una. L’unica alternativa, per me, è stata scappar di casa a tredici anni, ma in strada ho trovato solo altra violenza". E un’altra sbotta: "Qui non esiste rieducazione, usciamo più arrabbiate di prima". Ma le ragazze presenti, quasi tutte sotto i quaranta, davanti alle donne delle istituzioni parlano anche di lavoro, di formazione, del famigerato "dopo", del mondo "a cui bisogna tornare", del bisogno di ricevere assistenza psicologica, invece che solo psicofarmaci ("fuori è un diritto, perché dietro le sbarre non lo è più?"). Parlano di vita, in sostanza. E della loro voglia di non esser dimenticate, visto che, come dice qualcuna parafrasando Voltaire, "il grado di civiltà di una città si misura da come tratta le persone in carcere". Loro per esempio vorrebbero un campo sportivo vero, invece di quel piccolo giardino con una rete piantata in mezzo. E magari una squadra di rugby, come i detenuti uomini, che proprio oggi si confronteranno, nella prima amichevole intra-carceraria in Italia, con la squadra del carcere di Torino. Sul campo i giocatori ricorderanno le donne vittime di violenza, ma per ragioni di sicurezza non sarà ammesso pubblico. E le detenute sbottano: "Ma come? Si parla delle donne e noi non possiamo partecipare". Ad un certo punto una ragazza colombiana si alza in piedi, tiene in mano un foglio protocollo: è un progetto per il lavoro in carcere, scritto in spagnolo. "Si potrebbe fare un portale in cui sono raccolte le nostre competenze, senza scrivere il nostro nome, per favorire il nostro contatto con le aziende. Qui dentro siamo tutte numeri, ma siamo tutte differenti. Per favore - piange - fatemi lavorare". È la direttrice a riportarla alla realtà: "Abbiamo l’università, la sartoria, ma il lavoro non può esserci per tutte: le risorse non ci sono, la collettività ha altre priorità". Questo lo dicono i numeri. Appena quattro, delle settanta detenute, lavorano nella sartoria del carcere. Una percentuale imbarazzante, ammette il responsabile della sezione educativa Massimo Ziccone, ma comunque maggiore rispetto a quella del settore maschile, dove di 700 reclusi sono appena diciotto i percorsi lavorativi avviati, tra l’azienda meccanica, il laboratorio di riciclaggio articoli elettronici, la serra e, presto, il caseificio, tutti interni al carcere. Presto, con i soldi del nuovo bando della Regione per la formazione negli istituti carcerari, si potrà riaprire lo sportello di avviamento al lavoro, chiuso anni fa, e si potranno organizzare corsi di formazione. Ma far diventare realtà quel foglio protocollo è un altro paio di maniche. "Purtroppo - si lamenta Ziccone - anche se la legge prescrive l’obbligo per i condannati di lavorare ed essere pagati, coi tassi di disoccupazione e di povertà attuali i detenuti non li vuole nessuno". Cagliari: sospetta Tbc al carcere minorile di Quartucciu, analisi negative, allarme rientrato Sardiniapost.it, 24 novembre 2016 Nessun allarme Tbc nel carcere minorile di Quartucciu (Cagliari): il ragazzino straniero di 16 anni, trasportato alcuni giorni fa prima all’ospedale Brotzu per forti dolori all’addome e poi trasferito al centro infettivi del Santissima Trinità per sospetta tubercolosi, non ne sarebbe affetto. Il risultato delle prime analisi è arrivato oggi - come fanno sapere dal Centro di giustizia minorile - e confermano che non è affetto da tubercolosi. Nel carcere minorile di Quartucciu si attendevano i risultati per avviare l’eventuale profilassi per circa 25 persone, tra cui 14 detenuti, entrate in contatto con il ragazzo, tutt’ora ricoverato in ospedale. La notizia del caso sospetto di Tbc aveva mandato in allarme anche i sindacati che avevano segnalato anche un altro possibile caso di tubercolosi relativo a un detenuto trasferito dalla penisola alla casa di reclusione di Is Arenas, ad Arbus. Palermo: i biscotti prodotti nel carcere minorile "Malaspina" in vendita nei centri Conad italpress.com, 24 novembre 2016 Profumano di mandarino, sono piccoli, gustosi e frutto della voglia di riprendere in mano la propria vita e ricominciare da zero con una marcia in più. Sono i frollini "Buonicuore", prodotti dai ragazzi detenuti del Malaspina, che da sabato si trovano negli scaffali dei supermercati Conad. La grande distribuzione apre le porte al progetto "Cotti in fragranza" e i biscotti sfornati dal laboratorio del carcere minorile palermitano saranno disponibili in nove punti vendita Conad del capoluogo siciliano e in due a Villabate e a Carini. "Cotti in fragranza" è un laboratorio per la preparazione di prodotti da forno gestito dalla cooperativa sociale "Rigenerazioni", unica realtà del sud Italia all’interno dell’Istituto penale per i minorenni, che ha l’obiettivo di realizzare prodotti da forno di alta qualità da vendere anche a livello nazionale. Obiettivo del progetto è dare un’opportunità di lavoro ai giovani detenuti una volta fuori dal penitenziario. Il progetto è promosso e sostenuto dall’Istituto penale per i minorenni di Palermo, Opera don Calabria, dall’associazione nazionale Magistrati e dalla fondazione San Zeno. "Se non li gusti non li puoi giudicare" è lo slogan dello spot scelto dai "giovani fornai", con cui i frollini, dall’elegante packaging, da sabato vengono presentati dalle hostess negli 11 punti vendita palermitani. "In un solo weekeend abbiamo venduto una media di 40 confezioni per punto vendita - spiega Giovanni Anania, direttore marketing Conad Sicilia -. Contiamo nel passaparola e a riuscire a far conoscere questo prodotto molto velocemente". Soddisfatto Natale Lia, direttore generale di Conad Sicilia: "Siamo una cooperativa di soci imprenditori fortemente radicati nel territorio e vogliamo essere un’impresa socialmente responsabile che contribuisce in maniera significativa alla crescita della comunità. Questa collaborazione ci consente di concertare e articolare una serie di azioni che vanno oltre la semplice promozione di prodotti tipici, sostenendo direttamente la crescita di una cooperativa sociale che nasce in un carcere minorile e che si sta prodigando per il futuro di tanti ragazzi". Per l’avvio del progetto 5 dei 36 ragazzi coinvolti hanno sfornato 5 quintali di biscotti. "I giovani detenuti lavorano divisi in due turni, assieme a uno chef formatore e a due tutor aziendali - hanno raccontato il direttore del Malaspina, Michelangelo Capitano, e Lucia Lauro, coordinatrice del progetto -. I nostri corsi di cucina hanno ottenuto grandissimi risultati. Attualmente c’è un ragazzo che ha il permesso di uscire dall’Istituto, rientra in istituto per lavorare e alla fine del turno torna a casa". Gli ingredienti di "Buonicuore" (costano 3,59 euro a confezione), oltre al mandarino raccolto a Ciaciulli in terreni confiscati alla mafia, sono la farina Maiorca Bio, lo zucchero integrale di canna Muscovado, il lievito biologico, burro e latte a chilometro 0. "Il progetto ha delle ottime potenzialità economiche e ricadute occupazionali - ha spiegato Giuseppe Mattina, coordinatore Sicilia Opera don Calabria - Creare opportunità per i ragazzi per noi è una scommessa". Anche Legacoop si dice entusiasta dell’iniziativa: "Siamo stati chiamati a dare una mano, abbiamo voluto rispondere con i nostri valori e la nostra rete", ha commentato il presidente Filippo Parrino. Sarà possibile acquistare i biscotti "BuoniCuore" nei Conad Superstore di Corso Finocchiaro Aprile 113, Via Pecoraino 5, Corso Dei Mille 1660, via Garcia Lorca, via Messina Marine 533/C, via Emanuele Oliveri Mandalà 38/40, viale Michelangelo 2200, Via Pietratagliata 19, via Villagrazia 79, nel punto vendita di Villabate in via Alcide De Gasperi 257, e in quello di Carini, sulla SS113, al Km 282. Rimini: spettacolo di solidarietà per i figli di detenuti, 50 i papà dietro le sbarre altarimini.it, 24 novembre 2016 Sabato 3 dicembre alle ore 21 al Teatro degli Atti di Rimini lo spettacolo L’oceano Il mare Il vento, favole e ballate.... storie di mare, racconti per voci, suoni e sogni. Lo spettacolo è nato da suggestioni del "Il bar sotto il mare" di Stefano Benni, "Oceanomare" di Alessandro Baricco, "La donna di Porto Pim" di Antonio Tabucchi, accompagnate da ballate di vecchi marinari e giovani avventuriere. La serata è dedicata alla raccolta di contributi e fondi per finanziare attività extrascolastiche sportive, culturali ed estive destinate ai figli dei 50 papà detenuti nella Casa Circondariale di Rimini (attualmente sono 138 le persone complessivamente accolte). L’iniziativa si inserisce nel progetto più ampio di azioni che l’Associazione Madonna della Carità rivolge ai detenuti delle sezioni ordinarie e a custodia attenuata della Casa Circondariale di Rimini: attività educative e culturali, laboratori artigianali, ascolto e consulenza. Il progetto è reso possibile grazie alla stretta e assidua collaborazione con l’Area Educativa Penitenziaria e sostenuto dal Comune di Rimini attraverso il Piano di Zona. Durante la serata un saluto istituzionale di Gloria Lisi e un breve momento per raccontare questa realtà e lo scopo della serata. Ingresso a offerta minima 10 euro adulti - bambini sotto i 12 anni gratis e per tutti dolcetto di benvenuto offerto con generosità e sensibilità dalla Cooperativa "Poco di buono". Il ricavato sarà utilizzato interamente per le attività a favore dei bimbi. L’iniziativa ha il Patrocinio del Comune di Rimini ed è stata è realizzata grazie alla felice collaborazione con: Casa Circondariale di Rimini, Centro per le Famiglie, Associazione Papillon, Associazione Rimini Attiva. Milano: incontro su "Legge Gozzini e Volontariato" organizzato dal Gruppo Cuminetti mi-lorenteggio.com, 24 novembre 2016 Trent’anni fa la "Legge Gozzini", riformando l’Ordinamento Penitenziario del 1975, dava nuove opportunità di intervento alla società civile e democratica delle nostre città, consentendo una crescente presenza di gruppi e di associazioni di volontariato laico e religioso nelle carceri. Il Gruppo Carcere Mario Cuminetti, prima cogliendo la grande occasione dialettica di confronto su temi culturali, sociologici e spirituali con i detenuti per fatti di lotta armata, poi allargando l’intervento in carcere a tutte le donne e gli uomini detenuti a S. Vittore, e in seguito a Bollate ed a Opera, rappresentò un filone nuovo ed eccentrico, anche critico delle condizioni inumane dei detenuti, nel panorama tradizionale del volontariato penitenziario fino ai gesti concreti di 2 accompagnamento della consegna delle armi al Cardinal Martini, alla riscrittura di tragedie, di attenzione alle famiglie ed ai figli dei ristretti, di apertura di vere e moderne biblioteche nelle carceri. Il Gruppo Cuminetti si impegnò nella gestazione della legge Gozzini nella consapevolezza che nuovi orizzonti legislativi avrebbero prodotto veri reinserimenti sociali, anche attraverso le misure alternative alla detenzione, nonché un aumento del lavoro penitenziario e maggiore serenità sociale. Negli anni successivi, tra controriforme e restrizioni, è rimasto poco, nei fatti, di una legge che diede buoni frutti. Il volontariato ha rappresentato ed ha l’ambizione di continuare a rappresentare una risorsa insostituibile per la realtà penitenziaria in funzione di un "carcere utile", sia per il reinserimento sociale delle persone condannate che per la società civile. Oggi è comunque sentita l’esigenza di individuare nuove concrete risorse, mezzi e persone da impegnare in questo settore, mentre ne appare sempre più necessario il coordinamento per accrescerne le potenzialità. 3 In occasione di questo importante anniversario, l’Associazione "Gruppo Carcere Mario Cuminetti" in collaborazione con la Garante dei Diritti delle Persone Ristrette Alessandra Naldi e la Presidente della Sottocommissione Carceri Anita Pirovano invita tutti coloro - cittadini, enti, imprese, associazioni, magistrati, avvocati, operatori penitenziari - che ritengono di poter contribuire concretamente al raggiungimento degli obiettivi che il volontariato si propone, a partecipare all’incontro cittadino sul tema: "Legge Gozzini e Volontariato" 1986-2016 Storia, testimonianze, prospettive. Milano, 5 dicembre 2016 h. 9.30-18.00 Palazzo Reale - Sala Conferenze Piazza Duomo, 14 L’incontro si articola in due sessioni: quella del mattino (9.30-13.30), di carattere storico-giuridico e quella pomeridiana (14.30-18.00) di rappresentazione dei 4 tanti volti del volontariato, anche attraverso testimonianze di detenuti in permesso. Nella prima sessione si analizzeranno e testimonieranno il clima e le norme dall’era della "Gozzini" con gli interventi di Francesco Maisto (Presidente emerito del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e già Magistrato di Sorveglianza a Milano nel decennio "80-90") e di Paola Comucci (già Docente di diritto penitenziario all’Università di Milano Bicocca ed Esperto del Tribunale di Sorveglianza di Milano). L’intervento di Valerio Onida (Presidente Emerito della Corte Costituzionale) fisserà i principi costituzionali irrinunciabili in materia sanzionatoria. Un gruppo di interventi di operatori penitenziari, a vario titolo, presenterà i mutamenti di ruolo dalla "Gozzini" ad oggi. Interverranno quindi: Roberto Bezzi (Responsabile Area educativa presso CR Milano Bollate), Anna Muschitiello (Responsabile Unità Organizzativa Formazione presso il Prap Lombardia), Livio Ferrari (volontario e già presidente di Fivol), Luigi Pagano (Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia). 5 Seguiranno gli interventi di Adolfo Ceretti (professore di criminologia all’Università di Milano Bicocca) e di Lucia Castellano (Direttore Generale Esecuzione Penale Esterna e di Messa alla Prova), sulla giustizia riparativa e sulle misure alternative alla detenzione. La Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, metterà a fuoco le riforme legislative ed organizzative necessarie in tema penitenziario. L’intervento del sociologo Aldo Bonomi svilupperà gli scenari possibili di volontariato in carcere e nella esecuzione penale. La sessione pomeridiana proporrà le testimonianze di detenuti e dei tanti settori di impegno del volontariato, gli sforzi compiuti e le proposte di collaborazione alle Istituzioni ed alla città. L’ingresso è libero sino ad esaurimento dei posti. È consigliabile pre-iscriversi via mail: g.falduto@creattiva.com. Foggia: il fumettista Guida incontra i detenuti per raccontare "Scampia storytelling" immediato.net, 24 novembre 2016 Un gatto, un volto, un uomo con una sigaretta accesa. E poi, ancora, pensieri scritti sul treppiedi: sull’arte, sui sogni, sulla speranza e su quella libertà che appare ancora troppo lontana. Sono state due ore intense quelle che il fumettista Giuseppe Guida ha trascorso mercoledì scorso insieme al Csv nel carcere di Foggia, per presentare "Scampia storytelling". Ispirate a una storia vera, le tavole di Giuseppe Guida - insieme con i testi e la sceneggiatura di Rosa Tiziana Bruno e le poesie inedite di Roberto Piumini - raccontano l’incontro di Emanuele con le parole che spuntano dai libri. Le potenzialità e le risorse di un quartiere vengono così raccontate al di là degli stereotipi, attraverso il linguaggio della graphic novel. I fumetti offrono un’alternanza tra immagini del presente, ricordi e futuri possibili. Le poesie di Roberto Piumini regalano chiavi di lettura originali e senza retorica su situazioni, persone, luoghi. Un finale aperto proietta Emanuele in un domani tutto da costruire. "Il messaggio che portiamo con noi attraverso questo libro - ha spiegato Guida - è quello che bisogna pensare al futuro in maniera positiva: spesso il male sembra vincere, ma è una vittoria momentanea. Emanuele, il protagonista della storia, fa capire che il bene vince sul male". Nel corso dell’incontro, l’autore ha spiegato ai detenuti - che nei giorni scorsi hanno ricevuto alcune copie del volume - come nasce un fumetto, come ideare e creare una storia tramite il soggetto e la sceneggiatura, come si realizzano lo storyboard e i bozzetti preparatori. "In Italia - ha sottolineato - c’è una grande scuola del fumetto, basti pensare che dagli Stati Uniti, per le storie più importanti, scelgono matite italiane. Oggi sono molto conosciuti Zerocalcare, Leo Ortolani, Sio e anche grazie a loro il fumetto si diffonde, nonostante spesso come genere culturale venga posto ai margini". Dalla platea, formata dai detenuti dell’Alta Sicurezza e del Nuovo Complesso, sono stati ricordati Tex Willer, le battute di Totò, le vignette di Forattini, i fumetti della trasmissione Rai "Gazebo". Ma non sono mancate le domande sulla sceneggiatura della graphicnovel, sul tipo di lettori e sulla scelta dei personaggi. "La storia che ispira il libro - ha spiegato il fumettista - è quella di un ragazzo delle Vele, Emanuele Cerullo, che dopo l’incontro con filastrocche e rime usate come strumenti didattici da un’insegnante particolare e con le poesie di Piumini, decide di studiare e cambia le sue prospettive di vita. "Scampia Storytelling" è anche il nome di un progetto internazionale dell’Icwa - Associazione italiana scrittori per ragazzi, che ogni anno a fine novembre realizza a Scampia, autofinanziandosi, workshop e incontri tra scrittori e ragazzi. I diritti d’autore del libro contribuiranno, nel loro piccolo, a sostenere questo progetto". "Il nostro impegno di promuovere il volontariato in campo penitenziario - ha commentato il Presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - continua. Da qualche settimana è ripreso il gruppo di lettura in Alta Sicurezza, realizzato dall’Associazione Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri. Nei prossimi mesi potranno partire - dopo un confronto con la Direzione delle Casa Circondariale, che ringrazio per la disponibilità e apertura verso il mondo del Terzo Settore - nuovi progetti e questo impegno presto sarà raccontato in un volume, realizzato grazie al sostegno della Fondazione Banca del Monte di Foggia, che in questo settore ci è vicina e ci supporta da anni. Un progetto realizzato in sinergia con l’Area Educativa e con il supporto del Corpo di Polizia Penitenziaria. Intanto, prosegue una proficua collaborazione anche con l’Uepe di Foggia, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, con cui fu sottoscritto un protocollo d’intesa nel 2009. Roma: "I colori dolenti", in mostra i quadri dei detenuti di Rebibbia Dire, 24 novembre 2016 In mostra a Roma il lavoro di quattro pittori esordienti detenuti nel carcere di Rebibbia. Si intitola "I colori dolenti" l’esposizione in corso alla Galleria Angelica dal 22 al 26 novembre, e che raccoglie le opere di Domenico Carotenuto, Francesco Terranova, Vincenzo Gallo e Pietro Francesco Lofaro. L’iniziativa nasce da un laboratorio di pittura partito l’anno scorso all’interno del carcere, fortemente voluto da alcuni reclusi del reparto di alta sicurezza e reso possibile dall’ex-direttore della Casa Circondariale Mauro Mariani, dal vicedirettore Antonella Rasola e da tutto il personale carcerario. "I ragazzi si sono sempre di più appassionati, hanno migliorato e affinato le loro tecniche, hanno continuato a partecipare in maniera sempre più coinvolgente. Dai pochi quadri che si erano realizzati all’inizio si è arrivati ad un certo punto in cui la produzione è stata notevole, per cui da una cella spoglia e nuda si è passati a una cella ricca, quasi una sorta di galleria d’arte, perché ogni parte delle pareti era occupata dai loro quadri", così all’agenzia Dire Alessandro Reale professore di storia dell’arte e disegno al Liceo Artistico Statale ‘Enzo Rossì e coordinatore del progetto. "I detenuti dell’alta sicurezza hanno condanne lunghe da espiare e attraverso queste iniziative occupano del tempo che altrimenti rimarrebbe vuoto, sospeso. In questo caso invece il tempo diventa per loro un’opportunità di riflettere, perché l’arte stimola la riflessione, la presa di coscienza- afferma alla Dire il vicedirettore della casa circondariale, Antonella Rasola- queste iniziative restituiscono alla persona detenuta anche una propria dignità". I dipinti in mostra sono in vendita e il ricavato sarà investito in nuovi materiali utili per proseguire le attività artistiche. L’iniziativa è patrocinata dal ministero delle Attività Culturali e del Turismo e organizzata in collaborazione con il ministero della Giustizia. Bologna: rugby, la squadra del carcere esce per giocare in trasferta di Raffaele La Russa tuttosport.it, 24 novembre 2016 Lo sport si sa, può regalare emozioni incredibili a tutti gli appassionati: la decisione storia della Federazione Italiana di Rugby regala oggi una nuova e bella storia di come uno sport può regalare eventi belli e importanti. La decisione riguarda l’uscita fuori dal carcere di Torino, da parte della squadra italiana di rugby che si chiama "La Drola", per disputare il match di campionato in trasferta a Bologna, sul campo di un altro carcere nella casa Circondariale di Bologna appunto, contro il Rugby Giallo Dozza, altro team composto da carcerati nella città emiliana. Le due squadre partecipano al campionato di serie C1 nelle rispettive regioni, Piemonte ed Emilia Romagna, e ha il sapore storico: è infatti la prima partita che può disputarsi in trasferta. Questa decisione è il prodotto di un riconoscimento dei risultati di attività sportive che vengono considerate di recupero sociale, a cui appartengono i due carceri. Dopo l’introduzione del gioco del rugby nei carceri, le due squadre fanno parte, quella di Torino dal 2010, quella di Bologna dal 2013, di una associazione Onlus, per il reinserimento dei detenuti in attività sociali di questo genere. Il campione italiano Martin Castrogiovanni, nonché rugbista della Nazionale Italiana di Rugby, è andato a ottobre scorso in visita al carcere "Lorusso e Cutugno" nel capoluogo piemontese per incoraggiare e sostenere i ragazzi della squadra del carcere, che è guidata da un altro ex della Nazionale, Walter Rista, che ha deciso di intraprendere questo progetto quasi 6 anni fa. Il progetto è stato subito ben accolto dai carcerati che hanno risposto presente in un numero circa di 60. Oggi i giocatori sono 35, tra cui l’unico ad esserci sin dall’inizio è un ragazzo che gioca in posizione di mediano di mischia e si chiama Cristian. L’attuale allenatore Rista, ha rilasciato di recente una intervista al giornale "Tuttosport" spiegando integralmente questo progetto. Queste sono state le sue parole: "Nella città di Torino viene pubblicato un bando emanato sul piano nazionale. Solo a Torino ci sono circa 80-85 richieste ogni stagione per giocare. Non si pongono limiti di età, gli unici preclusi a partecipare sono i detenuti che hanno commesso reati sessuali. Per il resto tutti possono partecipare. È importante che una volta entrati in squadra i detenuti righino dritto, senza danneggiare mai la squadra". Riguardo alla storica trasferta di Bologna il programma è simile a quello dei ragazzi in gita parrocchiale la domenica mattina: la squadra partirà per Bologna la mattina e arriverà nel capoluogo emiliano poco prima del fischio di inizio, e poi al termine della partita è previsto un pranzo a sacco per tutti e il solito terzo tempo, previsto nelle partite del rugby. Successivamente la squadra farà ritorno nella casa circondariale di Torino in serata e riprenderà gli allenamenti dal giorno dopo. Sicuramente questo match sarà motivo di una grande festa, che rappresenta un primo passo verso il recupero sociale che deve passare all’interno del carcere per la riabilitazione e per l’inserimento dei detenuti in un contesto prima sportivo, e poi sociale, che li attenderà una volta scontata interamente la propria condanna. Contro i femminicidi, la violenza che umilia tutti noi di Nicola Saldutti Corriere della Sera, 24 novembre 2016 "Arte-fatto" di Chiara Corio, che riproduce le immagini delle 97 donne vittime di femminicidio nel 2015, per mano di ex partner, mariti, padri, figli, vicini di casa "Arte-fatto" di Chiara Corio, che riproduce le immagini delle 97 donne vittime di femminicidio nel 2015, per mano di ex partner, mariti, padri, figli, vicini di casa. I numeri non dicono quasi mai come stanno davvero le cose. Possono però aiutare a capire, possono farci riflettere su quello che accade intorno a noi, vicino a noi. Molto vicino. I giornali, per loro compito, raccontano quello che accade. E una delle cose che, in questi tempi così densi di futuro, si ripete spesso in silenzio (anche se forse meno di prima) e continua a farci ripiombare nel passato è la violenza contro le donne. Storie, tragedie che talvolta, nell’uso improprio degli aggettivi, diventano imprevedibili. Incomprensibili. Assurde. Eppure accadono. C’è un numero dell’Istat che, da solo, mette paura: circa 6,7 milioni di donne hanno subìto una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Ma se martedì sera il film che racconta la storia di Lucia Annibali è stato visto da 5 milioni di persone, allora vuol dire che qualcosa si può fare: che le cose cambiano. Vuol dire che quel lato oscuro degli uomini - non solo di quelli che commettono i reati, i femminicidi - in qualche modo sta uscendo dal buio. Il livello di consapevolezza, seppure con fatica, sta crescendo in un Paese che, dobbiamo ricordarlo, ha conservato nel suo codice penale il delitto d’onore fino al 1981. Quasi due donne su tre, se entrano in questo tunnel, ne parlano con qualcuno, anche se sono poche a rivolgersi ai centri specializzati (meno del 5%). Eppure la fiducia nei confronti delle forze dell’ordine è triplicata. Segnali intermittenti, in una società nella quale questioni come queste sembrano riguardare sempre gli altri. Forse invece bisogna fare uno sforzo per uscire da qualche luogo comune, un’apertura necessaria ad affrontare questi pezzi di vita che ci riguardano. In una società che appare per certi versi sempre più bipolare: da un lato aumenta il grado di consapevolezza, dall’altro cresce l’iperviolenza nei confronti delle donne. Impegno civile e realtà quotidiana vanno di pari passo. E la giornata di domani, dedicata proprio alla violenza contro le donne serve a questo. A parlarne. I reati commessi sono di una gravità inaudita e ogni volta ci si chiede se si sarebbero potuti evitare. Domanda tremenda per le vittime, per i loro genitori, per i loro figli, quando non sono loro stessi vittime. Domanda tremenda ma senza risposta. Certo che se al silenzio si sostituisce la condivisione, la tutela dei propri diritti, la fiducia nella legge, allora la probabilità di uscire dalla storia maledetta mostro-vittima potrebbe diventare una possibilità. Anche per questo domani il sito Corriere.it, per la prima volta, realizzerà una diretta tv di sette ore nella quale si racconteranno storie, tragedie, ma anche, e soprattutto, possibili vie d’uscita. Di persone che si impegnano per arrivare al cambiamento. Dall’arcivescovo di Milano, Angelo Scola ai leader sindacali. Da Susanna Camusso al consigliere delegato di Intesa San Paolo, Carlo Messina al presidente dell’Assolombarda Gianfelice Rocca. Perché forse cambiare il racconto, far circolare idee, testimonianze di chi è rimasto vittima ma anche di chi, dai poliziotti agli psichiatri, aiutano le persone a uscirne. E uscire dal silenzio, può servire. Condannare senza se e senza ma la violenza, ma non smettendo mai di cercare di capire perché. Di interrogarsi sulle vie d’uscita. Sulle soluzioni. Sulle norme che possono migliorare il quadro legislativo. Sull’attenzione che è necessaria. Forse su una nuova educazione alla reciprocità. Perché, come scriveva Martin Luther King, quello che spaventa "non è la violenza dei cattivi ma l’indifferenza dei buoni". Crescono le spese militari, nel 2017 l’Italia spenderà almeno 23,4 miliardi di € di Sara De Carli Vita, 24 novembre 2016 Le spese militari in Italia continuano a crescere, nonostante le dichiarazioni contrarie della politica. Nel 2017 l’Italia spenderà almeno 23,4 miliardi di euro: 64 milioni al giorno, lo 0,7% in più rispetto al 2016 e il 2,3% in più rispetto alle previsioni. Lo rivela il primo rapporto dell’Osservatorio Mil€x. Un quarto della spesa militare totale (+10% rispetto al 2016) va in nuovi armamenti. Alle aziende del comparto difesa andrà l’89% degli incentivi alle imprese previsti dal Mise. "Sulla Difesa non si può più tagliare, dopo che negli ultimi dieci anni le risorse a disposizione sono state ridotte del 27%. Tutto quello che si doveva tagliare si è tagliato, ma ora sul capitolo Difesa è venuto il momento di tornare ad investire": così ha detto di recente il ministro della Difesa, Roberta Pinotti. In realtà, analizzando i bilanci del suo stesso ministero, fra il 2005 e il 2014, non c’è stato un taglio bensì un aumento delle risorse del 7%: da 19 a 20,3 miliardi, che significa in sostanza che il budget per la Difesa in rapporto al PIL in Italia resta costante, fra l’1,28 e l’1,25% del Pil. E anche nel 2016 c’è stato un aumento del 3,2% (20 miliardi) rispetto al budget 2015 (19,4 miliardi). Spese militari in aumento, altro che tagli - A mettere in fila con ordine e chiarezza i dati, spesso incomprensibili per i non addetti ai lavori, è il primo rapporto annuale sulle spese militari italiane realizzato dal neonato Osservatorio Mil€x. Mil€x è un progetto lanciato qualche mese fa da Enrico Piovesana e Francesco Vignarca (lo avevamo presentato qui) con la collaborazione del Movimento Nonviolento, nell’ambito delle attività della Rete Italiana per il Disarmo. È uno strumento di monitoraggio indipendente, ispirato ai principi di obiettività scientifica e neutralità politica che, riconoscendo l’esigenza di mantenere efficienti e moderne le nostre forze armate, ritiene nondimeno necessario rendere più trasparenti le spese militari italiane, analizzandone in maniera obiettiva gli aspetti critici inerenti alla loro razionalità, utilità e sostenibilità, in particolare per quanto concerne i programmi di acquisizione di armamenti. Quella di oggi è un’anticipazione (in allegato) dal momento che il primo rapporto annuale verrà pubblicato a gennaio 2017: abbastanza però per farsi per la prima volta un’idea di quanto valgano davvero in Italia le spese militari, al netto delle dichiarazioni delle politica. Scopriamo così che nell’ultimo decennio le spese militari italiane sono cresciute del 21% (del 4,3% in valori reali) salendo dall’1,2 all’1,4% del PIL: più dell’1,1% dichiarato dalla Difesa. L’andamento storico evidenzia una netta crescita fino alla recessione del 2009 con i governi Berlusconi III e Prodi II, un calo costante negli anni post-crisi del quarto governo Berlusconi, una nuova forte crescita nel 2013 con il governo Monti, una flessione con Letta e il primo anno del governo Renzi e un nuovo aumento negli ultimi due anni. Nel 2017 l’Italia spenderà per le forze armate almeno 23,4 miliardi di euro: significa 64 milioni al giorno, 2,6 milioni ogni ora. Significa lo 0,7% in più rispetto al 2016 e il 2,3% in più rispetto alle previsioni contenute nei documenti programmatici governativi dell’anno scorso. Dove vanno questi soldi? Cosa incide? La prima voce riguarda il costo del personale, per via della lentezza con cui viene applicata la riforma Di Paola del 2012, per cui ancora oggi nell’esercito ci sono più comandanti che comandati. Si registrano forti aumenti per le spese dell’operazione ‘Strade Sicurè (da 80 a 120 milioni di euro) e del trasporto aereo di Stato. Questa voce sale a 25,9 milioni (erano 17,4 nel 2016), di cui 23,5 milioni rappresentati solo dal costo del nuovo Airbus A340 della Presidenza del Consiglio: un aereo utilizzato solo una volta in un anno per una missione di imprenditori italiani a Cuba, il cui costo totale per otto anni (2016-2023) risulta essere di 168,2 milioni (noleggio e assicurazione) più 55 milioni di carburante, per una media di 27,9 milioni all’anno. 15 milioni al giorno per nuovi armamenti: servono davvero? - Un quarto della spesa militare totale però (+10% rispetto al 2016) va in nuovi armamenti. L’Italia per gli armamenti nel 2017 spenderà 5,6 miliardi di euro, 15 milioni al giorno, 600mila euro all’ora. Li pagherà in gran parte il Ministero dello sviluppo economico: nel 2017 l’89% degli incentivi alle imprese del Mise andrà infatti al comparto difesa. La scelta di destinare gran parte dei finanziamenti per le imprese a questo settore, che in Italia conta 112 aziende (12 grandi e cento piccole e medie) per un totale di 50mila occupati e 15,3 miliardi di fatturato (dati Aiad), rischia di penalizzare il settore industriale civile e in particolare il comparto della Pmi, che da solo conta (al netto delle micro-imprese con meno di 10 dipendenti) 137mila aziende per un totale di 3,9 milioni di occupati e 838 miliardi di fatturato (dati Cerved). Non si tratta peraltro di una scelta inedita: in Italia governi di ogni colore hanno regolarmente sovvenzionato l’industria militare nazionale, per un valore che - considerando solo i programmi principali - supera i 50 miliardi di euro. Stati Uniti. California, Nebraska e Oklahoma: il boia torna a pieno ritmo di Marco Cinque Il Manifesto, 24 novembre 2016 Il 2016 sembrava l’anno giusto per festeggiare una sensibile regressione della pena di morte negli Stati uniti. Da una recente statistica del Pew Research Center, infatti, risulta che quello in corso è l’anno con meno esecuzioni capitali dell’ultimo quarto di secolo. Dal mese di gennaio i boia statunitensi hanno giustiziato 17 persone, con altre 3 esecuzioni previste entro la fine dell’anno, per un totale di 20, il minimo storico dal 1991, quando vennero portate a termine "soltanto" 14 esecuzioni. Tuttavia, negli stessi giorni in cui gli Usa eleggevano il nuovo presidente, i cittadini di tre stati, California, Nebraska e Oklahoma, hanno votato anche in rispettivi referendum, i cui esiti non hanno affatto smentito i risultati che incoronavano contemporaneamente il repubblicano Trump. La California è lo Stato che vanta il braccio della morte più affollato, con 750 condannati. Tra la proposta referendaria 62, che chiedeva l’abolizione definitiva della pena di morte e la proposta 66 che, al contrario, auspicava addirittura l’accelerazione delle procedure per le uccisioni legalizzate, il 52% degli elettori ha votato per quest’ultima opzione. Il problema è che se adesso la proposta 66 venisse applicata alla lettera, sarebbe una vera e propria mattanza; parecchi giuristi si augurano che non sarà così, altrimenti dovremmo assistere "all’esecuzione di una persona a settimana per 14 anni". Poi è toccato al Nebraska, dove la pena di morte era stata abolita nel maggio 2015 e reintrodotta dopo appena una manciata di mesi con il consenso del 57% dei cittadini. Infine l’Oklahoma, paese forcaiolo (percentualmente ha il numero più alto di esecuzioni in rapporto al numero di abitanti), che ha confermato la sua ferale tradizione con il 67% degli elettori. Dopo questo voto l’Oklahoma è diventato il primo Stato americano che legittima la pena capitale, includendola nella propria stessa Costituzione. Eppure lo stesso sondaggio del Pew Research Center, soltanto il 30 settembre scorso, aveva rivelato una sensibile decrescita di consensi verso la pena di morte da parte dei cittadini americani, con il 49% che restava favorevole alla legge dell’occhio per occhio. All’interno di queste percentuali, come riportato anche dal Comitato Paul Rougeau nel suo ultimo "Foglio di collegamento", è interessante vedere come si pongono le varie categorie della cittadinanza statunitense. Tanto per cominciare, si conferma che la maggioranza dei Repubblicani (72%) continua ad essere favorevole alla pena di morte, mentre solo il 34% dei Democratici lo è. Per quanto riguarda gli "indipendenti", la percentuale è equamente ripartita (45% a favore, 44% contrari). Anche il sesso, la razza, il credo religioso e il livello culturale fanno pendere il piatto della bilancia da una parte o dall’altra: i maschi sono più favorevoli alla pena di morte delle femmine (55% contro 43%), i bianchi lo sono molto più degli afroamericani e degli ispanici (57%, contro rispettivamente 29% e 36%), i protestanti evangelici sono favorevoli (69%) mentre i cattolici sono quasi equamente ripartiti (43% favorevoli, 46% contrari) e, concludendo la rassegna, le persone che hanno conseguito almeno la licenza della scuola superiore sono meno "forcaiole" di quelle meno colte (43% contro 51%). Come se non bastasse, però, adesso anche il New Mexico si è messo nella scia della triade di Stati tornati a quei fasti medievali che permettono ai governi di disporre della vita dei propri cittadini. Nel New Mexico la pena di morte era stata abolita da sette anni, ma l’attuale Governatrice repubblicana, Susana Martinez, sta facendo di tutto per ripristinarla, pretendendo che il Parlamento del suo Stato approvi la legge per la reintroduzione già a gennaio. In tema di diritti umani, sembra che negli Usa tutte le più rosee aspettative si siano infrante nella manciata di poche settimane ed ora, con l’avvento di Donald Trump, forse ci sarà da aspettarsi il peggio. Francia. Sciolta l’associazione "Sanabil" di aiuto ai detenuti musulmani Nova, 24 novembre 2016 Per ordine del ministero dell’Interno francese è stata sciolta l’associazione Sanabil, sospettata di legami con il radicalismo islamico. L’organizzazione si occupava di aiutare i detenuti musulmani nelle carceri francesi e le loro famiglie. Lo riferisce "France Soir", precisando che a dare l’annuncio è stato il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve. L’associazione Fraternità musulmana Sanabil era monitorata dal 2010, anno della sua creazione, ed era comparsa in molteplici dossier legati a indagini coinvolgenti terroristi. Come affermato dal ministro, la decisione di sciogliere Sanabil è stata presa sulla base di un articolo del codice per la sicurezza interna riguardante le associazioni che "si appellano all’odio o alla violenza o sono dedite a comportamenti suscettibili di provocare degli atti terroristici". Secondo un comunicato del ministero dell’Interno, "l’associazione incoraggiava alla radicalizzazione durante il soggiorno carcerario" e cercava di "radunare i detenuti attorno alla causa jihadista". Anche il terrorista Amedy Coulibaly, che fece strage presso il supermercato ebraico Hyper Cacher nel gennaio 2015, aveva partecipato a un evento dell’associazione nel 2014. Sanabil ha respinto tramite Facebook ogni addebito. Nigeria. In un anno uccisi almeno 150 attivisti per il Biafra di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 novembre 2016 In un rapporto appena pubblicato, Amnesty International ha accusato l’esercito nigeriano di aver condotto una spietata campagna di esecuzioni extragiudiziali e atti di violenza che, dall’agosto 2015, ha causato la morte di almeno 150 attivisti pacifici pro-Biafra nel sud-est del paese. Il rapporto, basato sull’esame di 87 video e 122 fotografia e su un totale di 193 interviste (146 delle quali a testimoni oculari) riguardanti manifestazioni e altre iniziative organizzate tra l’agosto 2015 e lo stesso mese del 2016, accusa i militari nigeriani di aver impiegato una tattica volta a uccidere e neutralizzare un nemico, ad esempio sparando proiettili veri con scarso o nullo preavviso dell’intenzione di disperdere la folla, piuttosto che a garantire l’ordine pubblico durante iniziative pacifiche. A partire dall’agosto 2015 i militanti e i simpatizzanti dei Popoli indigeni del Biafra (Ipob) hanno organizzato una serie di proteste, marce e riunioni per sollecitare la creazione di uno stato biafrano. La tensione è aumentata dopo che il 14 ottobre 2015 è stato arrestato Nnamdi Kanu, leader dell’Ipob, tuttora detenuto. Il maggior numero di attivisti pro-Biafra è stato assassinato il 30 maggio 2016, Giornata della memoria del Biafra (non va dimenticato che quasi 50 anni fa il tentativo di istituire lo stato del Biafra aveva dato luogo a una guerra civile durata dal 1967 al 1970). La notte prima dell’iniziativa convocata nella città di Onitsha, nello stato di Anambra, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione in abitazioni private e in una chiesa dove la gente stava dormendo. E lo stesso 30 maggio, le forze di sicurezza si sono rese responsabili di ulteriori uccisioni. In totale, nel giro di due giorni, sono morte almeno 60 persone e almeno altre 70 sono state ferite. Il numero effettivo delle vittime potrebbe essere persino assai più elevato. Amnesty International ha poi esaminato le immagini di un raduno pacifico di militanti e simpatizzanti dell’Ipob all’Istituto nazionale di educazione superiore di Aba, il 9 febbraio 2016. I militari hanno circondato il gruppo e hanno aperto il fuoco con proiettili veri, senza alcun preavviso. Secondo testimoni oculari e attivisti locali per i diritti umani, molti dei partecipanti al raduno di Aba sono stati portati via dai militari. Il 13 febbraio, in un fossato nei pressi dell’autostrada di Aba, sono stati rinvenuti 13 cadaveri, tra cui quelli di alcuni manifestanti che erano stati presi dai militari. Tutte le manifestazioni dell’Ipob esaminate da Amnesty International sono state in larga parte pacifiche. In quegli sporadici casi in cui vi sono stati episodi di violenza, si è trattato soprattutto di reazioni alle sparatorie delle forze di sicurezza. Alcuni manifestanti hanno lanciato sassi, bruciato copertoni e, in un caso, aperto il fuoco contro agenti di polizia ma il livello di violenza usato contro intere manifestazioni resta ingiustificabile. Amnesty International ha anche riscontrato centinaia di arresti arbitrari - anche di persone ricoverate in ospedale per le ferite - e maltrattamenti e torture contro i detenuti. Nonostante le schiaccianti prove di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali e torture, a carico delle forze di sicurezza nigeriane, le autorità non hanno avviato quasi alcuna indagine. Nei rari casi in cui un’indagine è stata aperta, non c’è stato alcun seguito. A causa dell’apparente mancanza della volontà politica necessaria per indagare e punire i responsabili, l’esercito continua a compiere impunemente violazioni dei diritti umani e gravi crimini. Oltre alle indagini, Amnesty International chiede al governo nigeriano di assicurare adeguata riparazione alle vittime e ai loro familiari. Infine, Amnesty International sollecita la fine dell’impiego dell’esercito nella gestione delle manifestazioni e garanzie che le forze di polizia siano adeguatamente istruite, addestrate ed equipaggiate per svolgere operazioni di controllo della folla in linea con gli standard e le norme del diritto internazionale. In particolare, le armi da fuoco non dovrebbero mai essere usate per controllare la folla.