Le Rems sono già piene e 195 persone sono in lista d’attesa per il ricovero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 novembre 2016 Mentre sono 52 gli internati nei due Ospedali Psichiatrici giudiziari ancora aperti. Rimangono ancora aperti due ospedali psichiatrici giudiziari, mentre le Rems risultano già piene e quindi privi di posti disponibili. Secondo l’ultima relazione del commissario straordinario Franco Corleone, a fine giugno risultavano ancora internati negli Opg 52 persone: 26 a Montelupo Fiorentino e 26 a Barcellona Pozzo di Gotto. Sempre Corleone ha recentemente promesso che entro Natale gli internati saranno trasferiti definitivamente nelle Rems in via di realizzazione. Nel frattempo nelle Rems, sempre a fine giugno, risultavano internate 573 persone, di cui ben 217 solo a Castiglione delle Stiviere. In ogni caso il totale delle persone in misura di sicurezza detentiva risulta essere 768. A queste però vanno aggiunte le 195 persone "in lista d’attesa", cioè raggiunte da un provvedimento di misura di sicurezza detentiva in attesa di ricovero nelle Rems. Buona parte di queste persone è con misura di sicurezza provvisoria e per questo c’è pressione da parte dell’associazione "stopOpg" per richiedere un provvedimento del governo per impedirne il ricovero nelle Rems, che altrimenti diventano una risposta impropria e sovradimensionata, anziché l’extrema ratio come prevede la legge 81/2014. Nel frattempo, come già detto, le Rems a disposizione risultano piene. Per questo si sono verificati casi di persone che rimangono ancora in carcere, nonostante che il magistrato abbia disposto il ricovero nelle residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza. Come il caso di Federico Bigotti, un ragazzo che era in carcere per l’omicidio della madre Annamaria Cenciarini. Il giudice l’ha assolto per incapacità di intendere e di volere, disponendone il ricovero presso una Rems. È stato scarcerato dopo mesi, ma per mancanza di posti è stato trasferito presso il reparto di psichiatria dell’ospedale di Perugia. Dal 13 luglio 2016 Bigotti andava trasferito in un ospedale psichiatrico giudiziario "da eseguirsi - così ha scritto il giudice - mediante ricovero in una Rems". Era stato chiesto alla procura di individuare una struttura riabilitativa, considerando la rilevantissima pericolosità sociale del soggetto. A distanza di quattro mesi non è stata data esecuzione alla misura e Bigotti risultava ancora in carcere. Tutto questo per la mancanza di posti nella Rems di Volterra. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha anche rifiutato Bigotti negli ospedali psichiatrici aperti, dove si trovano ancora "pazienti per i quali non è stato ancora eseguito il ricovero presso Rems". Un fatto di cui è stato informato anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Nel frattempo in alcune Rems sorge il problema della gestione. Dai report di StopOpg emerge un quadro delicato circa la misura di contenzione e, soprattutto, il ruolo del personale sanitario che ancora non è ben definito. Inoltre in alcune Rems mancano programmi di recupero, progetti di cura, il rapporto con il territorio e formazioni lavoro. Il rischio che diventino mini Opg è quindi all’orizzonte. Poi alcune Rems - come quella di Volterra - sono state realizzate presso strutture con sbarre e inferiate preesistenti, quindi lontano dallo spirito delle residenze che non devono avere nulla a che fare con un ambiente carcerario. Però non mancano esempi virtuosi come la Rems di Casale di Mezzani, vicino Parma. Ha accolto con successo 21 ospiti e ne ha dimessi 11, reinserendoli in percorsi di cura nei rispettivi territori. Oggi segue nove persone e il rapporto con la comunità locale è molto buono. Siamo quasi nel 2017 e forse, almeno per quanto riguarda la definitiva chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari, riusciremo a rispettare la legge che di proroga in proroga era stata sempre rimandata. Tutto ebbe inizio nel 2011 quando un video della commissione d’inchiesta sul servizio sanitario, guidata dall’allora senatore Ignazio Marino, portò alla luce quello che l’ex presidente Napolitano avrebbe poi definito "l’orrore medievale" degli ospedali psichiatrici giudiziari. Con il loro carico di umanità dolente e dimenticata, reclusa in condizioni disumane, tra sporcizia e disperazione. L’indignazione montata davanti a quelle immagini raccapriccianti indusse il governo a disporre per legge la chiusura di queste strutture entro il 31 marzo del 2013. Tuttavia il sipario sugli Opg non era ancora calato. La loro fine è stata infatti rinviata per ben due volte e l’ultima proroga, firmata "con rammarico" dall’ex Capo dello Stato, fu fissata alla fatidica data al 31 marzo 2015 scorso. Non riuscendo a rispettare, nemmeno in quel caso, i termini, il governo ha nominato Franco Corleone come commissario straordinario per il superamento definitivo degli Opg. Doveva rimanere in carica per sei mesi, ma gli è stato prorogato l’incarico per portare a compimento la missione. Il punto su sovraffollamento delle carceri, Opg e Rems di Chiara Formica 2duerighe.com, 23 novembre 2016 Al 31 gennaio 2016 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 52.475, e la capienza regolamentare era di 49.480 posti. Il livello attuale di presenze è il più basso registrato da molti anni, almeno dal 2006, in seguito all’indulto. Oggi, però, si registra anche la più alta capienza mai raggiunta in Italia, ad esempio nel 2010, la capienza regolamentare era di 45.022 posti, ma i detenuti erano all’incirca 67.475: quindi quasi 15.000 carcerati in più e 4.400 posti in meno. Propongo alcuni dati empirici per concretizzare singolarmente la condizione delle prigioni italiane: giugno 2010, Casa Circondariale di Napoli Poggioreale: la capienza regolamentare era di 1.347 posti e vi erano presenti 2.701 detenuti. L’istituto ha, nel 2016, una capienza regolamentare di 1.644 detenuti, e dal 2010 il numero dei carcerati è diminuito di 800 unità. Giugno 2010, Casa Circondariale Regina Coeli di Roma: la capienza regolamentare era di 640 posti, e i detenuti erano 1.073. Oggi la capienza regolamentare si è ridotta a 624 posti e le presenze si aggirano attorno alle 850 unità. Giugno 2010, Casa Circondariale-Casa di reclusione di Firenze-Sollicciano: capienza regolamentare di 521 posti e 989 detenuti. Oggi: capienza di 494 posti e circa 700 detenuti. Giugno 2010, Casa Circondariale di Como: capienza regolamentare di 421 posti e 529 detenuti, di cui 468 uomini e 61 donne. Oggi la capienza è stata notevolmente ridotta a 226 posti, e le presenze sono ancora intorno alle 400. Questo carcere è, tutt’oggi, uno dei più sovraffollati del Paese. Il sovraffollamento è una piaga del sistema penitenziario italiano, che negli anni 90 fino ai primi anni 2000 ha assunto una deformazione cronica e causa di molti problemi. Nel luglio 2009, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti di un recluso che aveva trascorso un periodo di detenzione usufruendo di uno spazio vitale di 3mq. Pochi mesi dopo, nel gennaio 2010 il governo italiano dichiara lo stato di emergenza, conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari. E ancora nel luglio 2011, esattamente un anno dopo, il Presidente della Repubblica parla di un’emergenza assillante; l’8 gennaio 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna di nuovo l’Italia, con la più volte richiamata sentenza Torreggiani, in conseguenza della quale il nostro Paese è chiamato a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario entro il 28 maggio 2014. Il caso Torreggiani è sottoposto all’attenzione della Corte nell’agosto 2009, per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea, che prevedeva la proibizione dei trattamenti inumani e degradanti: i 7 ricorrenti, detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, denunciavano proprio questi trattamenti. La mancanza di spazio vissuta dai detenuti consisteva nella reclusione in celle triple, con meno di 4mq disponibili a testa. Tale periodo di detenzione variava, in base al detenuto, dai quattordici ai cinquantaquattro mesi, e all’insufficienza dello spazio si aggiungeva la privazione dell’acqua calda e la scarsità di illuminazione e di ventilazione nelle celle. La sentenza Torreggiani viene chiamata "sentenza pilota", poiché rappresenta un momento di svolta, dopo il quale, a partire dal 2013 una serie di iniziative hanno marginalizzato il problema, riuscendo a limitarlo, anche se non a risolverlo totalmente. È inutile ricordare come il sovraffollamento comporti diffusione rapida di malattie ed epidemie; diminuisca la sopportabilità degli sbalzi climatici, rendono insopportabile il caldo, così come il freddo; nullifichi la privacy e l’intimità del detenuto; renda difficile disinfettare e pulire luoghi importanti, quali la zona docce e le mense. Ancora in aprile del 2014, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per il trattamento degradante subito da un detenuto affetto da problemi di incontinenza, denunciando il ritardo nelle prestazione delle cure e rilevando le condizioni di angoscia, inferiorità e umiliazione, nelle quali era costretto a vivere a causa della condivisione della cella con altri reclusi e dell’assenza di idonei servizi igienici. Essere costantemente trattati da bestie, può indurre a pensare di esserlo veramente: essere assemblati e stivati come merce avariata non agevola certamente l’introiezione e l’elaborazione del senso di colpa per i reati commessi, ma al contrario aumenta esponenzialmente la frustrazione e la voglia di rivalsa contro uno Stato che ha offeso e umiliato. Lo squilibrio degli equilibri mentali - La questione della salute mentale è il problema nel problema: la detenzione è portatrice di disagio, soprattutto psichico: celle sovraffollate, detenuti chiusi per venti ore al giorno. La reazione del carcere di fronte a squilibri o cedimenti psichici è stata quella di sottovalutare e scaricare la "rogna" agli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), ex manicomi criminali, sei in tutto il Paese. Si ricorreva ad uso massiccio di psicofarmaci (ancora oggi il 50% della popolazione carceraria ne fa uso). Il problema è sorto nel momento in cui gli Opg era stracolmi di uomini ridotti in frantumi dalle dinamiche del carcere: nei primi anni 2000 ospitavano più di 1500 persone. Dopo che istituzioni internazionali, come il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, ha iniziato ad indagare, la Corte Costituzionale, nel 2003 dichiara che gli Opg non sono la soluzione, anzi parte del problema. Un passo in avanti è stato fatto, quindi, con l’abolizione degli Opg, nel 2015, almeno sulla carta, per essere sostituiti dalle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di sicurezza (Rems) e dall’implementazione di percorsi terapeutici sul territorio. La prima prova è stata fatta a Torino, con la Settima, diventata il Sestante, uno dei primi reparti di Osservazione psichiatrica d’Italia. L’Ordinamento penitenziario ha istituzionalizzato la creazione di repartini, almeno uno per ogni provveditorato, operativi dal 2004: Roma, Monza, Napoli-Secondigliano, Palermo e Genova. Il compito dei repartini è quello di curare, trovare un equilibrio e decidere se le condizioni di salute mentale del detenuto siano compatibili con la carcerazione. Sono stati predisposti psicologi, terapeuti, educatori per seguire terapie mirate e personalizzate, che prevedono un contatto periodico con l’esterno. Ma ciò che avviene nella realtà è molto più complesso delle prescrizioni normative. Il Sestante, ad esempio, è un reparto che fatica a stare in piedi: si arriva fino a 25 posti letto, mentre gli altri reparti di osservazione psichiatrica hanno cinque, otto dieci posti al massimo. Come dice un dottore del Sestante: "Questo è un brutto posto e non tutti sono tagliati per lavorare qui". Più della metà degli operatori del Sestante non regge e se ne va alla prima occasione. La presidente dell’Antimafia Bindi: "sul carcere duro troppi ricorsi, serve riflessione" Il Dubbio, 23 novembre 2016 "Sul 41 bis stiamo riflettendo". La presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi già qualche mese fa aveva timidamente aperto alla possibilità di un confronto sul carcere duro. Uno strumento che più e più volte l’Europa ha contestato al nostro paese paragonandolo alla tortura. "Siamo disponibili a fare tutte le valutazioni per capire se ci sono regole non rispettose della dignità della persona, come si fa in uno stato democratico", disse infatti Bindi. E il tema del carcere duro è tornato oggi anche in commissione Antimafia: "Premesso che l’istituto del 41 bis costituisce un indefettibile strumento nel contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso e che la sua valenza non può in alcun modo essere messa in discussione, e che la normativa è stata migliorata nel tempo, vi sono tuttavia degli aspetti meritevoli di approfondimento con particolare riguardo ai profili dell’effettività dell’istituto stesso, della durata di applicazione e delle concrete modalità di attuazione anche con riferimento alle problematiche dell’edilizia penitenziaria", ha infatti affermato la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, in apertura di seduta che reca l’audizione del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Bindi ha poi spiegato che "da qualche tempo c’è un ricorso massiccio da parte dei difensori di diversi detenuti sottoposti al 41 bis alla Corte Europea per i diritti dell’Uomo. Premesso che questo ricorso è assolutamente legittimo, ciò impone di ponderare bene tutti gli aspetti delle vicende sia ai delle opportune prospettazioni difensive nelle sedi giudiziarie europee anche rispetto al concorso esterno, come evidenzia la vicenda Contrada, sia ai fini della valutazione del rischio di tenuta, sul lungo periodo, del regime detentivo speciale, soprattutto dopo la vicenda di Provenzano rimasto fino alla morte al 41bis, nonostante le perizie mediche avessero da tempo evidenziato la sua incapacità di intendere e di volere". Magistratura Democratica, baluardo dei diritti di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 23 novembre 2016 Congresso di Md, a Bologna è rinato un soggetto rigorosamente garantista. Donald Trump ha annunciato che nominerà un giudice della Corte Suprema anti-aborto. L’American Civil Liberties Union ha comunicato che l’opposizione alle politiche liberticide, razziste, medievali di Donald Trump avverrà usando tutti gli strumenti giudiziari possibili nonché portandolo davanti a tutte le Corti americane, locali, statali, federali. La via della protezione dei diritti umani e delle garanzie fondamentali passa negli Stati Uniti dalle aule di giustizia. Il matrimonio egualitario è stato conquistato con una sapiente strategia giudiziaria durata vent’anni. Che c’entra Magistratura Democratica con Donald Trump? Md ha tenuto il suo congresso a Bologna tra il 3 e il 6 novembre. Un congresso a cui ho avuto l’onore di partecipare e intervenire. Un congresso dove si respirava a pieni polmoni un’aria di grande consapevolezza del proprio ruolo strategico nel nome della interdipendenza e indivisibilità dei diritti civili, politici, sociali, economici e culturali. Ecco cosa c’entra la nostra Md con il loro Trump. C’entra nel senso che in una fase come quella attuale, dove la politica su scala planetaria è debole o addirittura anti-democratica, il ruolo della giurisdizione a protezione e promozione dei diritti fondamentali è ancora più necessario. Abbiamo bisogno di una magistratura democratica e progressista. Ne abbiamo bisogno per almeno cinque ragioni diverse. Ne abbiamo bisogno per frenare le tendenze liberticide che arrivano da settori xenofobi della politica. Non a caso Md ha approvato una mozione sul diritto d’asilo insieme all’Associazione studi giuridici immigrazione. Ne abbiamo bisogno per costruire azioni di contenzioso strategico di fronte all’inazione della politica. La mancata introduzione del delitto di tortura è stata stigmatizzata da Corti interne e internazionali. Non è bastato a convincere le forze politiche restie a colmare la lacuna normativa in atto. Pur sapendo che il nostro non è un sistema di common law bisogna pensare a un’azione che sia additiva e non meramente resistenziale. Ne abbiamo bisogno per compensare decisioni e posizioni di altro pezzo della magistratura che invece è avanguardia della conservazione. Ne abbiamo bisogno per condizionare il linguaggio presente nel dibattito pubblico intorno alla giustizia. Non abbiamo bisogno delle sberle pedagogiche di cui ha parlato Piercamillo Davigo affinché la legge sia rispettata, così come non abbiamo bisogno della zero tolerance del possibile futuro Segretario di Stato americano. È bello andare a un congresso di giudici, magistrati di sorveglianza e pubblici ministeri, come a Bologna, e sentire altre parole chiave: non intolleranza ma dignità. Md ha approvato una mozione che ripropone la questione carceraria, partendo dalla dignità umana, puntando sulle alternative alla detenzione e finanche mettendo in discussione quel totem che è il regime di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Infine ne abbiamo bisogno per avere nelle nostre campagne un partner forte, autorevole. Una delle nostre campagne è per la legalizzazione della cannabis. La partecipazione attiva di un’associazione di magistrati nel dibattito intorno a un tema che divide nettamente l’opinione pubblica e le forze politiche potrebbe avere un impatto decisivo nella campagna che le associazioni da tempo hanno messo in campo, proprio partendo dall’esperienza statunitense che ha per ora messo in soffitta la war on drugs. Md fu protagonista contro la Iervolino-Vassalli, per il referendum del 1993 e contro la Fini-Giovanardi, ora sarà certamente un alleato prezioso per la riforma. A Bologna è rinato un soggetto rigorosamente garantista. * Presidente di Antigone "Il sistema Carminati non era mafia" di Carlo Bonini La Repubblica, 23 novembre 2016 Roma, le deposizioni di due ex ufficiali del Ros, ora nei Servizi, autori delle indagini: "Era corruzione". Nell’aula del processo Mafia Capitale, esattamente come era accaduto con la deposizione di Raffaele Cantone, una nuova testimonianza, questa volta di un ex ufficiale dei carabinieri oggi passato ai Servizi, consente alle difese di tenere vivo il dubbio su quella parola, mafia, che di questo processo è il cuore. Perché nelle oltre tre ore di deposizione del maggiore Francesco De Lellis, già comandante di sezione di uno dei due Reparti del Ros che hanno condotto l’indagine sul Sistema Carminati- Buzzi, contano alla fine le due risposte chiave alle domande proposte da Ippolita Naso, avvocato della difesa di Massimo Carminati. "Nelle indagini che avete condotto sull’acquisizione degli appalti da parte delle cooperative di Buzzi, avete mai riscontrato le caratteristiche del metodo mafioso?". De Lellis prende una pausa. Dice: "Sulle caratteristiche mafiose dell’organizzazione lavorava il reparto Anticrimine del Ros del colonnello Stefano Russo". La Naso insiste. "Questo lo so. Ma voi, come secondo Reparto, questo metodo mafioso lo avete riscontrato, o no?". "No", concede De Lellis. Quindi, l’affondo. "Sempre in relazione all’acquisizione degli appalti, avete riscontrato episodi di ricorso alla violenza o all’intimidazione mafiosa?". "No. Noi per le questioni che riguardavano la nostra indagine non abbiamo riscontrato questi episodi". Il senso delle parole di De Lellis non cambierà quando a fare le domande sarà l’avvocato di Buzzi, Alessandro Diddi: "Lei ha mai detto alla Procura che da quanto emergeva dagli accertamenti del suo reparto Buzzi era un associato per mafia?". "No". Le risposte di De Lellis sono insufficienti per accreditare la circostanza che al Sistema Buzzi-Carminati, l’indagine del Ros, attraverso due suoi distinti Reparti, abbia guardato con occhi strabici. Che vi fu insomma un conflitto di valutazioni sul merito di ciò che, tra il 2012 e il 2014, intercettazioni e pedinamenti andarono svelando. Ma sono abbastanza per non consentire di liquidare le valutazioni dell’ex ufficiale come le semplici considerazioni tecniche di un investigatore che, nella divisione interna del lavoro che si era data il Ros, si muoveva esclusivamente sul lato delle "turbative d’asta" e delle corruzioni. È un punto oggettivamente segnato dalle difese, che tuttavia devono disarmare - e di questo può legittimamente compiacersi la Procura - nel tentativo di portare a casa l’intera posta dell’udienza di ieri. Vale a dire, dimostrare che l’inchiesta fu figlia di una "macchinazione", di un’imputazione costruita a tavolino. Su questo punto, le risposte di De Lellis non offrono sponde. Ma, soprattutto, di questa ipotesi fa giustizia la deposizione di chi lo ha preceduto. Quella di Massimiliano Macilenti, anche lui oggi ai Servizi, e primo ufficiale del Ros ad avviare l’indagine su Carminati tra il 2010 e il 2011, quando ancora il canovaccio investigativo si muoveva sul terreno del riciclaggio e delle rapine da parte di esponenti della stagione dell’eversione nera (da Ciavardini a Carminati) e non del 416 bis. Macilenti restituisce un quadro trasparente e logico della genesi dell’indagine, esclude che Carminati possa aver lavorato o continuato a coltivare rapporti coi Servizi. Spegne sul nascere ogni suggestione. Quelle che anche Carminati continua a lamentare, quando, con un fuori programma, chiede la parola per delle dichiarazioni spontanee. "In questo processo, presidente, sembra di stare al Monopoli. Ogni volta si ritorna alla partenza. Solo i carabinieri fanno finta di non aver ancora capito da dove venissero le mie disponibilità finanziarie nel 2000. Ancora non è chiaro? Dalla rapina del 1999 alle cassette del caveau al Palazzo di giustizia. Perché è vero che c’erano un sacco di documenti. Ma pure qualche soldo". L’ex Nar prende la parola in aula: la mia ricchezza veniva dalla rapina al caveau del Palazzo di Giustizia Market abuse, pene doppie alla Corte Ue di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 23232/2016. Per sbrogliare la matassa del ne bis in idem nel caso di doppio procedimento penale e amministrativo la parola passa a Lussemburgo. La Corte di cassazione, Seconda sezione civile, con ordinanza interlocutoria n. 23232 depositata il 15 novembre, ha deciso di sospendere il procedimento nazionale e sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea alcuni quesiti interpretativi. Nodo centrale è l’incidenza dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, vincolante in base al Trattato di Lisbona e relativo al principio del ne bis in idem, sull’apparato sanzionatorio interno disposto con il recepimento della direttiva 2003/6 sul divieto di market abuse, modificata dalla 2014/57. A rivolgersi alla Cassazione, un amministratore assolto in sede penale ma destinatario, successivamente, per decisione della Consob, di sanzioni amministrative pecuniarie per abuso di informazioni privilegiate. Sanzioni ad alto tasso di afflittività - a suo dire - e tali da renderle simili a quelle penali secondo i criteri formulati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a partire dal caso Engel. Di qui l’impugnazione del provvedimento sanzionatorio pecuniario disposto in base all’articolo 187-bis del Dlgs 58/1998 contenente il "Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria" (modificato varie volte). Tra i diversi motivi di impugnazione, anche la circostanza dell’assoluzione in sede penale che avrebbe dovuto bloccare ogni altro procedimento in grado di portare a sanzioni che, nella sostanza, per il loro carattere particolarmente afflittivo, hanno natura penale. E ciò in violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea, norma che vieta un doppio procedimento per uno stesso reato per il quale un individuo sia stato già assolto o condannato, e della sentenza Grande Stevens. La Cassazione aderisce alla nozione di medesimo fatto prospettata sia dalla Corte di Strasburgo sia da quella di Lussemburgo, facendo riferimento non alla qualificazione giuridica, ma al dato fattuale della stessa condotta. Nel caso in esame, si era formato, con la pronuncia di assoluzione, il giudicato in sede penale e certo le sanzioni amministrative erano particolarmente afflittive, tanto più che alla misura pecuniaria si era aggiunta quella interdittiva. Così, la Cassazione, prima di decidere, ha chiesto agli euro-giudici di chiarire la portata dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali che deve essere applicato visto che la normativa interna deriva dal recepimento del diritto Ue. Di conseguenza, la Cassazione ha scelto di anteporre alla questione di costituzionalità il rinvio a Lussemburgo, che potrebbe portare all’immediata disapplicazione del diritto interno. La Cassazione, tra l’altro, mettendo a confronto le sentenze di Strasburgo con quelle di Lussemburgo, evidenzia che non si può "affermare che la giurisprudenza euro-unitaria escluda la duplicazione del procedimento con la stessa nettezza con cui si è espressa la sentenza della Corte Edu Grande Stevens". Questo ha spinto la Cassazione a decidere di passare la questione agli euro-giudici, che dovranno chiarire se l’articolo 50 precluda, in caso di assoluzione definitiva, "senza alcun apprezzamento da parte del giudice nazionale, di avviare altri procedimenti che portino all’applicazione di sanzioni che per natura e gravità sono qualificabili come penali". Da chiarire, poi, se nel valutare l’applicazione del principio del ne bis in idem, il giudice deve tenere conto dei limiti di pena previsti dalla direttiva 2014/57. Anche per i tabulati serve il via libera del Parlamento di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 49538/2016. Per ottenere o anche solo trattare i tabulati telefonici dei parlamentari - e non solo per le intercettazioni - è necessaria l’autorizzazione preventiva della Assemblea di appartenenza. L’obbligo scatta nel primo momento in cui l’autorità giudiziaria - anche attraverso la polizia o i consulenti - si accorge di essere sul terreno sensibile della tutela che deve essere accordata non tanto e non solo ai singoli deputati o senatori, ma quanto piuttosto alla funzione parlamentare. Con una lunga motivazione la Sesta penale della Cassazione - sentenza 49538/16, depositata ieri - riapre una coda del caso Genchi/De Magistris (inchiesta Why not?) riconoscendo il diritto al risarcimento ai parlamentari finiti nella rete del consulente informatico dell’ex sostituto procuratore di Catanzaro. La questione era sorta, come si legge nella ricostruzione in atti, dopo che dalla memoria di un cellulare in uso a un indagato - e finito sotto sequestro - erano stati associati i nomi di deputati e senatori alle utenze numeriche. In quel momento, scrive la Sesta, diventava chiaro il contesto in cui si stava muovendo l’indagine, contesto che avrebbe dovuto condurre immediatamente alla richiesta di autorizzazione a procedere parlamentare - cosa che De Magistris invece non fece. L’ambito che merita protezione, argomenta l’estensore della sentenza, è "la sfera delle comunicazioni del parlamentare" e più in generale il flusso delle comunicazioni delle Assemblee, a cui deve essere garantita la massima autonomia decisionale "rispetto ad indebite invadenze del potere giudiziario". Proprio per questo non è neppure ammissibile un sindacato a posteriori del Parlamento sull’attività "invasiva" posta in essere dall’autorità giudiziaria - per valutarne o meno l’illiceità - perché in tal modo si attribuirebbe all’Assemblea parlamentare il potere di sanare, rendendoli utilizzabili, mezzi di prova acquisiti contra constitutionem. Da qui la Corte fa derivare la violazione della legge 140/2003 sulle garanzie parlamentari. Quanto al consulente di De Magistris, Gioacchino Genchi, la sentenza non solo lo riconosce responsabile dell’illecito in concorso con l’ex magistrato di Catanzaro, ma lo qualifica anche come "determinatore" della condotta del magistrato inquirente, per aver "elaborato i tabulati di comunicazioni acquisiti senza autorizzazione e riferibili a parlamentari, quale consulente tecnico del pubblico ministero e quindi quale pubblico ufficiale". Spetterà ora all’appello civile quantificare il risarcimento danni nei confronti dei parlamentari Pisanu, Mastella. Rutelli, Minniti, Gozi, Gentile e Pittelli. Calabria: le carceri di Crotone e di Arghillà tra le peggiori. Lo denuncia il Sappe wesud.it, 23 novembre 2016 Carceri affollate e agenti di polizia penitenziaria insufficienti. È la denuncia fatta dal Sappe che chiede un intervento del Ministro Olrando, in particolare per Crotone e Arghillà. "Ci si dovrebbe vergognare per com’è stato lasciato allo sbando per molto tempo il personale di polizia penitenziaria della Calabria, pesantemente sotto organico e in condizioni insalubri, indecenti e vergognose. E invece non sembra fregare a nessuno di come vengono maltrattati gli agenti in servizio nelle carceri regionali. Invito il Ministro della Giustizia Andrea Orlando a mandare subito gli ispettori ministeriali nelle carceri di Arghillà e Crotone, le peggiori della Calabria". Questa la denuncia di Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe a margine del consiglio regionale del sindacato in corso di svolgimento a Catanzaro. Capece, che è accompagnato dal segretario generale aggiunto Giovanni Battista Durante e dal segretario nazionale Damiano Bellucci, parla di "una situazione assurda, da tempo ben nota a tutti ma che non ha ancora scandalosamente trovato una soluzione nonostante le costanti denunce del primo sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe". Dai dati diffusi dal sindacato, lo scorso 31 ottobre le dodici carceri della Calabria erano complessivamente affollate da 2.689 detenuti, 2.640 uomini e 49 donne. L’organico regionale degli agenti di polizia penitenziaria è fissato in 1.478 unità ma in servizio ve ne sono poco meno di 1.400, ed altri a breve andranno in pensione. Ma è sulle condizioni delle carceri di Arghillà e Crotone che "punta il dito" il segretario generale del Sappe Capece. "Ad Arghillà, carcere con 320 detenuti ristretti e una sezione di alta sicurezza, l’organico degli agenti conta più di 50 unità assegnate provvisoriamente per far funzionare la struttura. I nostri agenti di polizia penitenziaria alloggiano in alcune celle ed usano l’acqua di un pozzo, disagio condiviso con i detenuti. Ci sono solamente un ispettore capo ed un vice Ispettore, non ci sono Sovrintendenti ed anche il direttore è a mezzo servizio, assegnato provvisoriamente e solo alcuni giorni alla settimana". "A Crotone", denuncia ancora il leader nazionale del Sappe, "la situazione regge solamente per la professionalità dei poliziotti. Sono stati accorpati più posti di servizio per fare fronte alle esigenze di servizio con il poco personale a disposizione, che deve addirittura ancora fruire delle ferie del 2014 e di moltissimi riposi settimanali, maturati ma non goduti". "Le istituzioni si dovrebbero vergognare per come vengono trattati i poliziotti in carcere e per le pessime condizioni nelle quali sono costretti a lavorare", conclude. "Il degrado di Crotone ed Arghillà è vergognoso e il Sappe, come primo e più rappresentativo sindacato della polizia penitenziaria, chiede al Ministro della Giustizia Andrea Orlando di mandarvi subito gli ispettori ministeriali. Da parte nostra, come Sappe rappresenteremo ancora una volta ai vertici nazionali e regionali dell’amministrazione penitenziaria tutte queste criticità della Calabria, sollecitando urgenti ed adeguati interventi". Abruzzo: la pasticceria entra in carcere, da Conpait 12mila € a fondo perduto per start up Ansa, 23 novembre 2016 Nel 2017 la pasticceria "made in Italy" entrerà nelle carceri italiane per insegnare ai detenuti una professione che "faciliti il loro reinserimento nella società"; "il progetto pilota potrebbe partire in Abruzzo tra febbraio e marzo del nuovo anno". Si tratta di un progetto di formazione della Conpait, Confederazione Nazionale Pasticceri Italiani sostenuto dal Sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli presentato questa mattina nel corso del convegno ‘La pasticceria italiana in Italia e nel mondo. Da Expo 2015 a Expo 2020: Milano Dubaì organizzato da Conpait presso la Biblioteca del Senato a Roma. "Questo è un sogno che ho insieme al presidente Conpait - sottolinea la senatrice Chiavaroli - perché il carcere è un mondo sconosciuto e spesso distante dalle città ma invece molto vicino a quello che accade nelle nostre società". Secondo la Chiavaroli infatti "quello che accade in carcere influenza molto la nostra società con una recidiva del 70%, per questo tale progetto rappresenta un percorso rieducativo importante". "Ancora dobbiamo individuare l’istituto in cui si svolgeranno i corsi, ci stiamo lavorando, ma partiremo tra febbraio e marzo del 2017" spiega Federico Anzellotti, presidente Conpait per cui "la vera innovazione è che oltre alla formazione daremo la possibilità ai detenuti che hanno frequentato il corso di aprire una micro attività, curandogli la start up e dandogli un fondo perduto di 12 mila euro". "Per la formazione e il sostegno di nuove attività abbiamo stanziato 120 milioni di euro nel triennio 2015-2018 - ricorda Anzellotti, fondi stanziati grazie al contributo delle 9.000 aziende della Confederazione". I corsi per i detenuti saranno tenuti da pasticceri scelti tra gli iscritti alla Confederazione. "La nostra sarà una formazione non fine a se stessa, noi vogliamo creare nuovi imprenditori che possano lavorare" conclude Anzellotti. Trento: il presidente Dorigatti ha deciso "il Garante dei detenuti non passerà" di Donatello Baldo ildolomiti.it, 23 novembre 2016 Il presidente del consiglio Dorigatti ha deciso lo stralcio della norma: "Si altererebbe l’equilibrio tra maggioranza e opposizioni". Nel senso che l’ipotesi di inserire la sua costituzione all’interno di un articolo della legge di stabilità discussa a breve nella sessione del Consiglio provinciale dedicata al bilancio è stata bloccata. "Nella legge di stabilità è contenuta una disposizione estranea ai contenuti che la legge di stabilità dovrebbe avere", ha scritto il presidente Dorigatti in risposta alle osservazioni di Ugo Rossi. Si riferisce ovviamente alla norma che avrebbe permesso di evitare la discussione in Consiglio e permettere all’Aula di licenziare manovra di bilancio e assieme l’istituzione del garante. "Nella legge di stabilità dovrebbero essere incluse disposizioni che hanno effetti finanziari diretti", quindi, a parere di Dorigatti, non quelle su altri argomenti non legate al bilancio. "Osservo che i provvedimenti connessi alla manovra godono di una corsia preferenziale giustificata dalla rilevanza primariamente finanziaria della manovra", continua il presidente del Consiglio. Come a dire che gli altri argomenti devono passare attraverso la discussione. "Altrimenti si altererebbero i meccanismi del lavoro consiliare e l’equilibrio che in essi trovano le ragioni della maggioranza e quelle delle opposizioni". Ragioni legittime, anche quelle della minoranza consiliare, ma capaci di bloccare da otto anni la discussione e la decisione in merito al tema del garante. Una figura a tutela dei detenuti e delle loro famiglie che in Trentino, a differenza del resto del Paese, non è istituita. "Capisco i diritti dell’opposizione - spiegava Mattia Civico nei giorni scorsi - ma anche la maggioranza ha il diritto e il dovere di tradurre in legge la propria linea politica e le proprie priorità". Il tema è ancora quello dell’ostruzionismo che le minoranze utilizzano per sbarrare la strada a ogni legge che affronti il tema dei diritti civili. Così è stato sulla legge contro l’omofobia, così sarà per quella sulla doppia preferenza di genere e dopo lo stop di oggi sembra che questo sia il destino anche dell’istituzione del garante dei detenuti e del garante dei minori. Trento: il consigliere Mattia Civico all’attacco di Dorigatti "non si tagliano i diritti" Il Trentino, 23 novembre 2016 Alla fine il presidente del consiglio Bruno Dorigatti ha deciso di stralciare dalla legge di stabilità la norma che istituiva il Garante dei detenuti e dei minori. Le motivazioni sono che la norma non ha effetti finanziari diretti, e dunque non si giustifica il suo inserimento nella Finanziaria, tanto più che il tema del Garante dei detenuti - che è sul tavolo da otto anni - è un tema con una forte rilevanza consiliare. Il governatore Ugo Rossi e il consigliere Pd Mattia Civico (promotore del ddl sul garante) avevano concordato questa strada per bypassare l’ostruzionismo delle opposizioni, essendo i tempi della Finanziaria contingentati. Ma Dorigatti li ha stoppati. E Civico ieri si è fatto sentire: "La legge di stabilità è l’atto politico che maggiormente connota la stessa identità di un governo e di una coalizione. Che è fatta non solo dall’allocazione delle risorse di cui disponiamo, ma anche dagli ideali che ci muovono. Mi pare che, se le norme che riguardano i diritti fondamentali non possono essere incluse nella norma di stabilità, allora il presidente del consiglio, l’ufficio di presidenza e i capigruppo dovrebbero farsi carico di garantire piena agibilità d’aula nella discussione di tali tematiche. Il rispetto rigoroso delle regole non può essere il bavaglio alle idee di nessuno". Firenze: la Fns-Cisl visita il carcere di Sollicciano "situazione grave" gonews.it, 23 novembre 2016 "Il degrado della struttura è evidente". Questo l’intervento del segretario generale Fns Cisl Fabrizio Ciuffini: Lo scorso 18 novembre, nell’ambito delle attività c he il Sindacato di Polizia Penitenziaria può effettuare, la Segreteria Regionale della Fns Cisl Toscana ha verificate le condizioni degli ambienti di lavoro interni alla Casa Circondariale di Sollicciano. Ne è emerso un quadro disastroso che con una specifica nota è stata relazionata al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria dott. Martone ed alla Dr.ssa Stefanelli quale Direttore del carcere. Con ulteriore documento (completo della suddetta re lazione tecnica) questa Segreteria ha informato del le condizioni anche il sindaco della Città Dario Nardella. Lo stato di degrado strutturale è molto avanzato, c on infiltrazioni d’acqua diffuse, associate ad una condizione di scarsa igiene ambientale. Ci sono centinaia di aperture nelle lunghe pareti dei corridoi (sono praticamente saltate una miriade di mattonelle in " vetro-cemento") che rendono vana la spesa pubblica per riscaldare tali ambienti. Appare chiaro che la dispersione del calore è quasi totale. Molti dei cancelli che in passato erano stati automatizzati sono tornati ad un uso manuale (con le vecchie chiavi per intenderci) perché manca la manutenzione de motori. Delle due cucine esistenti, utili a preparare i pasti dei circa 750 detenuti presenti, ne funziona un a sola soltanto; spazi comuni, come ad esempio la chiesa e la sala cinema al Reparto femminile, sono interdetti all’uso per gravissime carenze strutturali. Ma anche una parte importante per la sicurezza dell’Istituto, il muro di cinta, è inutilizzabile dopo un crollo avvenuto un anno prima e la dichiarata inagibilità certificata dopo un controllo dei Vigili del Fuoco. In alternativa il reparto di Polizia penitenziaria si è organizzato con strumenti di controllo elettronici e con servizi di Ronda con automezzi e Personale per la vigilanza armata. Ma il muro rimane lì, senza interventi per la sua messa in sicurezza, rappresentando un rischio nei già tanti rischi del lavoro in carcere, rischi per possibili ulteriori crolli che costringono il Personale ad una ulteriore attenzione. Sollicciano rimane poi uno degli Istituti sovraffollati, visto che a fronte dei 490 posti continua ad ospitare circa 750 detenuti e tra questi circa 80 sono donne (con 3 Bambini) nonostante in regione il fenomeno sovraffollamento riguarda ormai solo alcuni Istituti. Al contrario invece il Personale di Polizia Penitenziaria rimane carente nella dotazione numerica che a front e di 696 Unità previste dal Decreto Ministeriale ve de mancare circa 100 Unità tra Personale comandato provvisoriamente ad altre Sedi e quello mancate in modo assoluto per mancate assunzioni. La riduzione di capacità di spesa del Ministero del la Giustizia è motivo poi di ulteriori difficoltà; una parte dei problemi infatti (ad esempio pulizie ambientali e manutenzione ordinaria della Struttura) potrebbe essere affrontato con l’immissione al lavoro dei Detenuti. Invece in carcere il dato della disoccupazione è l’opposto di quello che i Cittadini vivono fuori delle mura. Risultano inseriti nel lavoro circa il 20% della popolazione detenuta, mentre il restante 80% è sostanzialmente inoperoso (una situazione questa contraria anche alla missione costituzionale dell’art. 27 per il recupero e la riabilitazione delle Persone condannate). Insisteremo perché anche le altre Istituzioni e la Politica non lascino in queste condizioni Sollicciano, scaricando su utenza ed Operatori tutta questa pesante situazione. Fabrizio Ciuffini, segretario generale Fns Cisl Rimini: protesta a Saludecio "no agli ex detenuti". Don Tarcisio: è prevalsa paura newsrimini.it, 23 novembre 2016 In una trentina domenica mattina si sono presentati, con tanto di striscioni, davanti alla chiesa di Santa Maria del Monte, frazione di Saludecio, per dire no all’ospitalità in un salone della canonica di un piccolo gruppo di ex detenuti che, scontata la pena, hanno deciso di continuare a lavorare nell’azienda agricola di San Facondino della comunità Papa Giovanni XXIII. Si tratta di 8 persone che dormono già li da otto mesi. A queste dovrebbero aggiungersene altre 3 per una sistemazione che da provvisoria, diventa più a lungo termine. La protesta è montata soprattutto nei confronti del parroco don Tarcisio Giungi, anche se la decisione è stata condivisa con il consiglio pastorale: "La decisione non l’ho presa da solo - ha spiegato Don Tarcisio Giungi, coordinatore unità Pastorale Trasfigurazione alla nostra trasmissione Tempo Reale, ma mi sono confrontato con il consiglio pastorale e con il consiglio per gli affari economici. È vero non ci siamo confrontati con tutti, e provo a mettermi anche nei panni dei residenti che hanno visto questa decisione come qualcosa caduta dall’alto. Ma credo fermamente sia una modo per mettere in pratica il Vangelo e permettere a persone che hanno già pagato per i loro errori di fare un reale percorso di integrazione. Da mesi collaborano con la vita della comunità. Ad esempio, in occasione delle messe il 13 di ogni mese stendono centinaia di sedie, sono presenti con un banchetto dei loro ottimi formaggi". Il comitato spontaneo di cittadini chiede che i locali restino a disposizione dei residenti per iniziative ed eventi. "Se fosse questo il problema cade subito, perché come abbiamo detto ai residenti c’è la possibilità di utilizzare il piano inferiore della canonica, della stessa capienza dell’altro. Ma credo non sia questo il problema, ma la paura delle persone. La reazione è stata molto forte, eccessiva. Quello che dobbiamo fare ora è creare occasioni di conoscenza dei residenti con gli ex detenuti, per vincere la paura. I problemi sociali non esistono. Quelle persone dormono lì da otto mesi e non è mai successo nulla". Il 30 novembre alcuni rappresentanti del comitato incontreranno il Vescovo di Rimini Monsignor Lambiasi. Nel frattempo si è deciso di non avviare i lavori di sistemazione della struttura. Cagliari: ripensare coi giovani detenuti il carcere minorile di Quartucciu di Manuela Arca L’Unione Sarda, 23 novembre 2016 I giovani detenuti del carcere minorile di Quartucciu giovedì saranno protagonisti di un incontro culturale pensato per "Ripensare gli spazi di vita dell’istituto penitenziario". Appuntamento giovedì (ore 18.30) nell’Aula magna della Facoltà di architettura in via Corte d’Appello a Cagliari. L’iniziativa, voluta dall’associazione Malik e nata in collaborazione con l’Università di Cagliari, il Dipartimento di ingegneria civile ambientale e architettura, il Centro di Giustizia minorile per la Sardegna, l’Istituto superiore di Fotografia e comunicazione integrata, le associazioni "A buon diritto", "Mariole`" e la Libreria Edumondo, vuole essere un contributo alla riflessione sul tema della "dimensione spaziale" della pena. Il programma prevede la lettura di brani tratti dalle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci a cura di Marco Peroni (voce), Mario Congiu (chitarra). Interverranno Luca Zevi, architetto, coordinatore del tavolo "Spazio della pena: architettura e carcere" (Stati Generali dell’esecuzione penale) e co-autore del libro "Il corpo e lo spazio della pena", Ediesse, e Valentina Calderone, Direttrice di A buon diritto - Associazione per le libertà. Durante la serata sarà anche presentato il progetto sperimentale "Fuori luogo". Il dibattito e le conclusioni saranno affidati a Maria Del Zompo, rettrice dell’Università di Cagliari, Antonello Sanna, direttore Dipartimento Ingegneria civile, ambientale e architettura, Giampaolo Cassitta, dirigente Centro per la giustizia minorale e Giovanna Allegri, direttrice Istituto penale per minorenni di Quartucciu. L’incontro sarà curato e moderato da Barbara Cadeddu. Ferrara: i detenuti dell’Arginone "Papa Francesco, vieni tra noi" La Nuova Ferrara, 23 novembre 2016 L’invito al Pontefice in occasione della chiusura della Porta Santa in carcere (1 dicembre). A Bergoglio dedicata la canzone "Pope is Pop". "Papa Francesco sarai con noi?" È questo l’invito rivolto al Papa dai detenuti del Carcere di Ferrara che l’1 dicembre realizzeranno un flash mob in suo onore, per festeggiare simbolicamente la chiusura del Giubileo. E potrebbero essere proprio i carcerati dell’Arginone a portare Papa Francesco a Ferrara. "Sarà un evento storico - scrivono gli stessi carcerati in un comunicato - in quanto si tratta del primo flash mob in assoluto realizzato all’interno di un carcere maschile italiano". All’iniziativa hanno aderito spontaneamente 70 carcerati da tutto il mondo: europei, africani, americani, asiatici e dal diverso credo religioso cattolici, musulmani e ortodossi, danzeranno, uniti, sulle note di "POPE IS POP", un’inedita canzone funky dedicata a un Papa così sui generis e "pop", per il suo modo di essere "popolare", così vicino ed in mezzo alla gente e anche così legato alla tematica dei carceri e dei detenuti. È un segnale forte della possibilità della convivenza delle "diversità": un microcosmo così problematico come quello di un carcere crea un modello comportamentale di civiltà. L’evento si svolgerà giovedì 1 dicembre al Teatro della Casa Circondariale Costantino Satta di Ferrara, dalle ore 10 del mattino. Il programma prevede la conferenza stampa di presentazione, a seguire il balletto dei detenuti, poi spazio per realizzare interviste ai detenuti stessi e agli organizzatori (il direttore del carcere Paolo Malato, Vice Commissario Annalisa Gadaleta, la dottoressa Loredana Onofri, responsabile Area Educativa, Igor Nogarotto autore di "Pope is pop", Roberta Micci coreografa) e un rinfresco finale. Palermo: "Palcoscenico legalità", laboratori teatrali con giovani detenuti Ansa, 23 novembre 2016 Dare ai detenuti la possibilità di partecipare a un laboratorio di mestieri teatrali improntato a un lavoro di squadra. È il senso dell’iniziativa "Palcoscenico legalità" dell’associazione "Co2 Crisis opportunity onlus" che ha tra i suoi obiettivi quello di professionalizzare giovani esclusi e che il 28 novembre avvierà il progetto con alcuni giovani dell’istituto penale minorile Malaspina di Palermo. "Un vero e proprio tirocinio professionale durante il quale i detenuti imparano, ad esempio, a costruire un impianto scenotecnico, montare l’illuminazione e l’impianto di amplificazione, partecipando così sia alle prove tecniche che alla recitazione", spiega Giulia Minoli, vicepresidente di Co2 Onlus. Un percorso già collaudato con i detenuti dell’istituto penale minorile di Airola, con i quali è stato scritto e realizzato lo spettacolo "Aspettando il tempo che passa", con un laboratorio teatrale guidato da Emanuela Giordano. Il palcoscenico della legalità è un percorso che prevede una sinergia continua tra teatri, istituti penitenziari, scuole e società civile. "Nelle storie che raccontiamo il dolore, l’ingiustizia e la rabbia si trasformano in coscienza civile, determinazione, impegno quotidiano, resistenza. In nome di questa resistenza sono nate iniziative di recupero di terre e proprietà confiscate alle mafie", aggiunge Giulia Minoli che con Emanuela Giordano è stata l’autrice del testo "Dieci storie proprio cosi", racconto sulle vittime innocenti della criminalità organizzata realizzato in collaborazione con Libera, Addiopizzo, Noma, fondazione Falcone e centro studi Paolo Borsellino. Rappresentato anche al teatro Biondo di Palermo, lo spettacolo tornerà nel capoluogo in occasione del prossimo anniversario della strage di Capaci. Trento: "Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere", una mostra su misericordia e utopia agensir.it, 23 novembre 2016 In concomitanza con il Giubileo della Misericordia e con il Progetto Utopia 500, promosso in occasione dei 500 anni dalla pubblicazione di Utopia di Tommaso Moro, il Museo diocesano Tridentino presenta al pubblico la mostra "Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere", visitabile nelle sale del piano terra fino al 27 marzo 2017. Il progetto espositivo, che ha ricevuto il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Trento, intende aprire uno spiraglio sulla realtà del carcere, un luogo "altro", spesso distante dall’esperienza quotidiana. "Senza avere l’ambizione di spiegare o documentare la vita all’interno di un penitenziario, la mostra invita i visitatori a riflettere su un tema tanto attuale quanto complesso", si legge nella presentazione dell’iniziativa. Due le parole guida per il visitatore in questo viaggio tra immagini, suoni e racconti: misericordia e utopia. I due sostantivi fanno riferimento, il primo, a un sentimento rivolto a quanti "vivono nelle più disparate periferie esistenziali" (Misericordiae Vultus, Papa Francesco); il secondo, ad un’aspirazione ideale per immaginare un "altrove" forse irraggiungibile. Partendo dalle visionarie Carceri di Giovanni Battista Piranesi e passando attraverso le immagini di fotografi, registi e pittori contemporanei, il visitatore sarà gradualmente introdotto in quel mondo "a parte" rappresentato dal carcere. Un mondo fatto di spazi, immaginati o reali, abbandonati o vissuti; di silenzi, rumori, parole, ricordi, voci e racconti. "Fratelli e sorelle: racconti dal carcere!" non è solo una mostra. Nella convinzione che il diritto a prendere parte alla vita culturale della comunità sia di tutti, il Museo diocesano Tridentino ha ideato un progetto formativo rivolto ai carcerati della Casa circondariale di Spini di Gardolo (Trento). L’iniziativa intende "stabilire, attraverso l’arte, un collegamento capace di mettere in relazione carcere, museo e società, ponendo al centro il detenuto, con la sua capacità di autonoma interpretazione e rielaborazione creativa". L’equipe di lavoro, oltre al personale del Museo diocesano, vede la partecipazione del noto artista trentino Matteo Boato. Parallelamente al lavoro dentro il carcere, i ragazzi dell’Istituto comprensivo Valle dei Laghi, guidati dall’artista Sergio De Carli, lavoreranno sul lessico carcerario. Al termine del progetto, denominato Un viaggio per parole e immagini, le opere realizzate presso la Casa Circondariale e l’Istituto comprensivo verranno esposti in museo come ideale prosecuzione della mostra Fratelli e sorelle; racconti dal carcere. Brescia: carcere di Verziano, un caffè per aiutare i terremotati di Silvia Ghilardi Corriere della Sera, 23 novembre 2016 Appuntamento in palestra il 10 dicembre, giornata internazionale dei diritti umani: la palestra della casa di reclusione si trasformerà in un grande bar dove sorseggiare un caffè prodotto dai detenuti e mangiare una brioche in compagnia di una ventina di loro. Anche una tazza di caffè può fare la differenza. Il 10 dicembre il carcere di Verziano apre le sue porte per una colazione in favore delle popolazioni colpite dal terremoto. Dalle 9 alle 11 la palestra della casa di reclusione si trasformerà in un grande bar dove sorseggiare un buon caffè prodotto dai detenuti e mangiare una brioche in compagnia di una ventina di loro. Questo "coffee morning" sarà l’occasione per parlare delle problematiche della vita al di fuori del carcere. L’offerta minima è di 10 euro. La data scelta per questo appuntamento - organizzato dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale in collaborazione con l’associazione Carcere e Territorio - coincide con la Giornata internazionale dei diritti umani. "Per una volta vogliamo fare qualcosa noi per chi sta fuori e far capire che in carcere vivono esseri umani che se aiutati si possono reinserire" spiega Manuel, detenuto a Verziano. Per accreditarsi inviare una mail entro il 30 novembre a info@act-bs.it indicando per ogni persona che vuole partecipare nome, cognome, luogo e data di nascita, estremi di un documento identificativo, comune che l’ha rilasciato e scadenza. Balamòs Teatro. "Appunti Antigone" a Ferrara, C.R. di Giudecca e Padova Ristretti Orizzonti, 23 novembre 2016 Giovedì 24 novembre alle ore 21.00 presso il Centro Teatro Universitario di Ferrara si conclude la rassegna teatrale "uno sguardo al cielo" con la presentazione dello studio teatrale "Appunti Antigone" ispirato all’omonima tragedia di Sofocle e diretto da Michalis Traitsis regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro. "Appunti Antigone" sarà replicato venerdì 25 novembre alle ore 16.00, presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca (ingresso riservato agli autorizzati) nell’ambito del progetto teatrale "Passi Sospesi" di Balamòs Teatro alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e in occasione delle celebrazioni della giornata mondiale contro la violenza sulle donne e mercoledì 14 dicembre alle ore 11.30 presso il Teatro MPX di Padova nell’ambito della rassegna "Teatrando" riservata alle scuole del territorio. In scena gli allievi del laboratorio teatrale del Centro Teatro Universitario di Ferrara: Giulia Aguzzoni, Chiara Baroni, Edoardo Buriani, Claudia Cincotti, Riccardo Guidarini, Stefano Massarenti, Federica Mazza, Filippo Stefanoni, Giulia Tiozzo e la partecipazione di Nawal Boulahnane, collaborazione artistica Patrizia Ninu, disegno luci Cristina Iasiello. Per la replica del 24 novembre l’ingresso è gratuito fino a esaurimento dei posti disponibili, con prenotazione obbligatoria a: conversazionilutto@unife.it, 349/35 93 164. A Tebe la lotta tra i due fratelli Eteocle e Polinice, l’uno difensore della città, l’altro aggressore, finisce con la morte di entrambi. Eteocle viene seppellito con tutti gli onori per volere del re Creonte, mentre Polinice, il nemico, rimane insepolto e la sua anima non potrà riposare. Antigone, sorella dei giovani morti e promessa sposa di Emone, figlio di Creonte, decide di sfidare il volere del re per dare sepoltura al fratello morto. L’altra sorella, Ismene, cerca di convincerla: è Creonte che stabilisce le leggi, e bisogna obbedire. Ma Antigone è decisa nel suo proposito. Creonte la condanna alla prigionia eterna, ma poi su consiglio dell’indovino Tiresia decide di liberarla. Troppo tardi, Antigone si è uccisa. Emone, addolorato, si uccide a sua volta, e alla notizia della morte del giovane anche la madre regina, Euridice, muore. Antigone, il dramma di una donna di cui, nei secoli si è detto, scritto, interpretato, riletto, messo in scena, da diversi punti di vista e contesti. Un nome, Antigone - "nata contro" - che già di per sé sembra introdurre il tema portante della tragedia: l’opposizione e lo scontro tra le leggi della natura e quelle del potere, tra la pietas e la ragion di stato, tra l’amore e i razionali principi della legge, tra la vita e la morte, tra la giustizia e il suo contrario. Antigone che diviene metafora e mito di ogni ribellione, in particolare quella femminile, non solo come asserzione di una supremazia etica della donna, ma come profondità della cura che non contempla abbandoni, ma solo comprensione, vicinanza, com/passione, al di fuori e al di sopra dell’accanimento e della irriducibilità del potere. Antigone che oltrepassa ogni confine, lingua, pelle e religione, nella resistenza e coerenza alle leggi di umanità, in lotta contro le crudeli e bendate leggi terrene. Il copione proposto attinge da svariati testi su Antigone. Non segue disciplinatamente il susseguirsi della tragedia sofoclea ma procede come un quaderno di appunti e di accenni di quadri, in un esercizio continuo di luci e ombre, che del resto punteggiano il dramma in ogni versione. E come in una fotografia che indugia su un dettaglio e s’imprime in una precisa angolatura, lo sguardo di Antigone viene colto in un profondo senso di solitudine e nella malinconia della perdita. E forse il teatro, la cui forza è trasformare il dolore, persino la morte, in immagine poetica, alla fine interroga se stesso e lo spettatore: se e come sia possibile recuperare la vista, ritrovando uno sguardo di desiderio e di impegno per ricercare nuove rotte. E provare a ripartire ogni volta. Oltre ogni morte e sconfitta. Il progetto "uno sguardo al cielo", diretto dalla Prof.ssa Paola Bastianoni, è realizzato in collaborazione fra Università di Ferrara, Master "Tutela, diritti e protezione dei minori", Comune di Ferrara, Onoranze funebri Amsef e Pazzi Onoranze funebri. La rassegna teatrale è realizzata in collaborazione con Daniele Seragnoli, direttore del Centro Teatro Universitario, e con Michalis Traitsis di Balamòs Teatro. Il progetto teatrale "Passi Sospesi" è diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura teatrale dentro e fuori gli Istituti Penitenziari di Venezia. Migranti. Raimondi: "Profughi, l’Europa non ripeta l’errore che fece con la Shoah" di Angelo Picariello Avvenire, 23 novembre 2016 Intervista al giudice italiano da un anno al vertice della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo: è in corso una crisi umanitaria senza precedenti. Sull’immigrazione l’Europa - voltandosi dall’altra parte - rischia di scrivere un’altra pagina di disumanità, come fu per la Shoah. La Corte europea dei diritti dell’uomo segue con attenzione e preoccupazione questo vasto fenomeno fatto di respingimenti alla frontiera, di muri eretti e di trattenimenti prolungati. Ed ha già pronti i suoi "paletti" da far valere con i singoli Stati quando dovessero arrivare alla sua attenzione ricorsi per violazione dei diritti umani. Il presidente, l’italiano Guido Raimondi (da un anno al vertice della Corta di Strasburgo) parla del ruolo della Cedu nel pieno di una crisi migratoria che definisce "senza precedenti", esposta a rischi innumerevoli di violazioni umanitarie, che riportano alla mente l’orrore di oltre 70 anni fa, che pensavamo di esserci lasciati alle spalle. "La coscienza della orribile negazione della dignità umana che si verificò con l’Olocausto, e le altre atrocità perpetrate in quel periodo oscuro della storia dell’umanità, ha fortemente contribuito ad affermare l’idea che la protezione della dignità umana si imponga su quella fino allora mai contestata della sovranità nazionale", ricorda. "Senza la diffusa indignazione dovuta a quegli eventi gli Stati difficilmente avrebbero consentito quella forte limitazione della loro sovranità contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che conferisce alla Corte di Strasburgo la possibilità di emettere sentenze vincolanti per i singoli Stati, fino a imporre la modifica delle loro leggi". Ora, però, l’Europa rischia di smarrire quell’insegnamento, di fronte a questa nuova sfida epocale. "La ricetta non ce l’ha nessuno, ma l’Europa non può sfuggire al suo compito storico", dice Raimondi. Il presidente della Cedu parla a margine della cerimonia del premio "Diritti umani" intitolato alla memoria del giudice costituzionale Maria Rita Saulle, organizzato dall’istituto di studi politici San Pio V, conferito ogni anno alla miglior tesi di dottorando di ricerca sull’argomento. "Bisogna trovare il modo per trasformare questo grande problema che abbiamo di fronte in opportunità", auspica. La Corte non è stata ancora chiamata a pronunciarsi, ma è pronta a farlo. E, sebbene non abbia poteri per intervenire d’ufficio, ha già ben chiaro, su casi che dovessero arrivare alla sua cognizione, la linea da tenere sugli aspetti più delicati: le condizioni delle strutture di accoglienza, i tempi delle procedure e - soprattutto - sulla tutela dei minori migranti senza i loro genitori. "Ci aspettavamo una valanga di ricorsi, ma finora non è avvenuto. Non ancora, almeno. Probabilmente perché sono ancora in corso nei paesi interessati procedure di asilo. Ma la Corte è già ben attrezzata di fronte a probabili ricorsi, e ha elaborato una serie di principi chiari e facilmente applicabili, per gestire il contenzioso". Dove vengono accolti, come vengono sistemati, come vengono gestite le identificazioni e le domande di asilo? "Sono tutti aspetti su cui la vigiliamo attentamente. Perché quand’anche si tratti di cosiddetti "clandestini" essi vanno sempre trattati in linea con i principi di umanità, predisponendo strutture in grado di offrire loro un minimo di conforto". Entra in ballo il tema della privazione di libertà. "Gli Stati hanno la possibilità di ricorrere alla cosiddetta "retenzione amministrativa". Ma il nodo è la sua durata. Che può diventare, giocando sulle parole, vera e propria "detenzione". "Privare un immigrato irregolare della sua libertà è possibile, ma solo per il tempo strettamente necessario a effettuare i dovuti accertamenti circa la loro identità e l’eventuale richiesta di asilo. La Convenzione di Ginevra prevede una gran differenza per il fatto che si tratti o meno di persone sospettate di reati". E, se non ci sono specifici sospetti, "la "retenzione" richiede il rispetto di assoluta diligenza da parte degli Stati. Una persona che viene privata delle sue libertà non deve essere trattenuta un minuto di più del necessario. E occorre una legislazione adeguata a garantirlo", avverte Raimondi. Ma soprattutto c’è un mondo di "invisibili" che da soli non sono nemmeno in grado di fare ricorso: la mente va al triste fenomeno dei minori non accompagnati. Secondo l’Europol a inizio 2016 erano circa 10mila quelli scomparsi una volta arrivati in Europa. Stando ai dati diffusi dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) su 154mila migranti sbarcati sulle coste italiane nel 2015 oltre 16mila erano minori, e di questi ben 12.360 risultavano non accompagnati, pari all’8 per cento del totale degli arrivi. "Il problema dei minori non accompagnati - conferma il presidente Raimondi - è molto grave. L’interesse del minore va assolutamente salvaguardato e protetto. Gli Stati sono tenuti a porre in essere tutto quanto è necessario per tutelarli, anche rinunciando, se necessario, a privare della libertà i genitori del minore, se questo fosse pregiudizievole per il suo interesse". Il fenomeno riguarda in larga misura proprio il nostro Paese, terra di frontiera e approdo del Sud Europa, si calcola che ne siano spariti in Italia, nel corso del solo 2015, oltre 5mila. "Al momento, però, non ci sono state ancora sentenze su casi italiani, mentre ci sono state per casi francesi". In Francia ha fatto molto discutere, qualche settimana fa, lo sgombero del campo di Calais, soprannominato la "giungla", dove erano accampati migliaia di migranti diretti inutilmente oltre Manica. È l’Europa dei muri e delle barriere, in Ungheria, Bulgaria, Austria. "Finora non c’è un fascicolo aperto su Calais, ma probabilmente ne avremo", prevede Raimondi. "Gli Stati sono liberi di regolare i flussi migratori, ma da questo a creare dei muri che possono dar luogo a violazioni gravi ed emergenze, ne passa", avverte il presidente della Corte europea per i diritti umani. "Su tutti questi fenomeni saremo molto attenti a valutare le violazioni di diritti umani che dovessero essere sottoposti al nostro giudizio". Migranti. Caso Mered, colpo di scena "generale" di Lorenzo Tondo Il Manifesto, 23 novembre 2016 Mentre si apre il processo al presunto mercante di uomini estradato dal Sudan, un’inchiesta del "Guardian" conferma il clamoroso scambio di persona ricostruito anche dal "manifesto": il cittadino eritreo in carcere a Palermo non è "il Generale". "L’uomo in carcere in Italia sta pagando al posto mio. E mi dispiace per lui". Lo scrive il famigerato trafficante di uomini Medhanie Yehdego Mered in una conversazione privata su Facebook con un amico di vecchia data. È quanto emerso da un’inchiesta esclusiva pubblicata ieri dal Guardian, nel giorno della prima udienza del processo al presunto mercante di uomini estradato lo scorso maggio dal Sudan. Da quasi cinque mesi, una cella del carcere di Pagliarelli, nel capoluogo siciliano, ospita un giovane eritreo che i pm dicono essere Yehdego Mered, detto "il Generale", il più sanguinario tra i trafficanti in Libia. Ma poche ore dopo il suo arresto a Khartoum, in un’operazione coordinata dai pm palermitani in collaborazione con gli agenti della Nca britannica (corrispettivo dell’Fbi nel Regno unito), sui maggiori siti d’informazione iniziarono a circolare le testimonianze di numerosi rifugiati che sollevavano dubbi sull’identità dell’uomo estradato. Sono tutti eritrei, vittime giunte in Europa sui barconi della morte del "vero Mered". E, come ricostruito da un’altra inchiesta pubblicata sul manifesto lo scorso 13 ottobre, tutti sostengono che l’uomo catturato a Khartoum non è lui. La vittima dell’errore sarebbe infatti un rifugiato eritreo di 26 anni, Medhanie Tesfamariam Behre. "Behre è solo un giovane profugo che mungeva vacche in Sudan in attesa di raggiungere l’Europa", diranno di lui parenti e amici. "Non sono io Mered - dichiarerà il ragazzo il giorno dell’interrogatorio - abbiamo in comune solo lo stesso nome di battesimo". Medhanie Yehdego Mered non è un eritreo qualunque. I suoi connazionali lo conoscono bene. I procuratori di Palermo Maurizio Scalia, Gery Ferrara e Claudio Camilleri nel 2015 ne tracciano un profilo preciso e terrificante nelle carte dell’operazione "Glauco II". "Sono il nuovo Gheddafi", si vanta al telefono il "Generale", 34 anni. Cinico e arrogante, parla dei migranti come merce da caricare e scaricare. "Quest’anno ho lavorato bene - ripete al telefono - ne ho fatti partire 8.000". Gode di complicità eccellenti Mered. E soprattutto guadagna bene. I profitti viaggiano su cifre a sei zeri. Una montagna di soldi che Mered custodirebbe in un conto a Dubai. Di lui gli inquirenti hanno anche una foto, rilasciata agli organi di stampa lo scorso anno. Capelli lunghi, baffi e al petto un grosso crocifisso d’oro che penzola su una maglietta azzurra. È proprio quella foto ad alimentare i primi sospetti su un possibile scambio di persona. Il ragazzo dallo sguardo spento, con le manette ai polsi, appena estradato a Roma dal Sudan non gli somiglia affatto. Ieri il Guardian, che segue la vicenda dal giorno dell’estradizione del giovane, ha pubblicato il contenuto di una chat privata su Facebook (di cui anche il manifesto è in possesso), in cui il "vero" Mered esprime ad un suo connazionale e confidente il "dispiacere" per il clamoroso scambio di persona: "Hanno fatto un errore con il suo nome. Spero venga rilasciato al più presto. Lo sanno tutti che non è lui il trafficante. Mi dispiace, sta pagando in carcere al posto mio". Nella chat, Mered fornisce inoltre alcuni dettagli sui suoi rapporti con altri trafficanti: "A volte la gente dice tante falsità sul mio conto - scrive l’eritreo - Dicono che faccio tutto io e che lavoro con le barche di Ermias (altro famigerato mercante di uomini, ndr). C’è tanta altra gente che lavora e guadagna più di me. Io sono solo uno dei tanti". Sull’attendibilità del profilo Facebook del vero Mered, confermato da altri due testimoni, è la stessa procura a fornire le prove: l’account utilizzato dal trafficante per scrivere all’amico è infatti lo stesso individuato dalla Procura di Palermo lo scorso anno e contenuto nelle carte dell’inchiesta Glauco II. Tra le informazioni presenti nel profilo di Mered, spunta anche un numero di telefono libico, oggi inattivo: è lo stesso intercettato dai pm nel 2014. In quelle stesse carte gli investigatori puntano l’indice su una donna eritrea: Lidya Tesfu, che, secondo la Procura sarebbe moglie di Mered e pubblicano un estratto del suo profilo Facebook. E sarà una foto ripescata dal Guardian proprio sul profilo social della donna ad evidenziare ancora una volta il clamoroso errore delle autorità: nell’immagine infatti la ragazza siede accanto all’uomo che il quotidiano britannico indica come il vero Mered, nel giorno del suo matrimonio civile con la bella Lidya. La settimana scorsa, sempre il Guardian, aveva pubblicato una serie di foto che ritraevano il vero trafficante, felice e sorridente, a un altro matrimonio a Khartoum, quello del nipote Filmon. Gli scatti risalgono all’ottobre del 2015. In tutte le immagini, il volto di Mered sembrerebbe identico a quello dell’originale foto segnaletica rilasciata dalla Procura lo scorso anno. Intanto, a Palermo, dopo l’udienza tecnica della scorsa settimana, prosegue il processo al ragazzo estradato davanti alla Quarta sezione penale - presieduto dal giudice Raffaele Malizia - dopo l’udienza tecnica della scorsa settimana. "Già, ma chi stiamo processando? - si chiede l’avvocato Michele Calantropo, difensore del cittadino eritreo arrestato - Il rischio concreto è che si faccia il processo alla persona sbagliata. Qui bisogna prima accertare l’identità reale della persona che si vuole processare. Noi sosteniamo che Medhanie Tasmafarian non è il Generale, il trafficante di esseri umani". Durante le indagini preliminari, i pm avevano chiesto di accorpare il procedimento a carico di Mered Yedhego con un altro processo, attualmente in corso, quello denominato "Glauco 2". L’udienza è stata quindi rinviata al 28 novembre prossimo in vista di una nuova composizione del collegio. Nessun commento da parte della Procura di Palermo, in silenzio stampa sul caso dallo scorso luglio. Ribadiscono invece piena fiducia nei loro agenti quelli della Nca. Migranti. "Tutti sanno che Mered non è un trafficante" di Saul Caia Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2016 Da circa 5 mesi nel carcere palermitano Pagliarelli è detenuto un cittadino eritreo, che secondo la Procura di Palermo è Mered Medhane Yehdego, il "Generale", uno dei più influenti trafficanti di uomini del Corno d’Africa. Eppure i giornalisti del quotidiano britannico The Guardian sono convinti che si tratti di uno scambio di persone, e secondo la loro ricostruzione il detenuto sarebbe in realtà Medhanie Tesfamariam Berhe, uno studente eritreo di 29 anni. "Hanno fatto un errore con il suo nome, ma tutti sanno che non è un trafficante". A parlare è il vero Mered Medhane Yehdego, nel corso di una conversazione privata con un amico di vecchia data che lo aveva contattato tramite Facebook. Quest’ultimo lo informa della vicenda italiana, vissuta dal connazionale Berhe, per la quale lo stesso Mered prova compassione. "Spero sia rilasciato - scrive nella chat il trafficante all’amico - perché lui non ha fatto nulla. Non possono fargli nulla". Nel giorno della prima udienza del processo Glauco 2, celebrato al Tribunale di Palermo, il quotidiano inglese ha pubblicato gli stralci della conversazione, insieme alla foto del matrimonio civile tra Mered e la compagna Lidya Tesfu. Già in precedenza, i giornalisti del Guardian avevano diffuso gli scatti del 2015 di un’altra cerimonia nuziale a Khartum in cui figurava il trafficante e i suoi familiari. "Ma chi stiamo processando? - commenta al Fatto l’avvocato Michele Calantropo, legale di Berhe - Il vero Medhane Mered oggi è libero e chiacchiera su Facebook con i suoi amici, mentre il mio assistito è ingiustamente detenuto". La difesa ha presentato un elenco corposo di testimoni, e chiamerà a deporre i familiari di Berhe e diversi cittadini eritrei che hanno conosciuto direttamente il trafficante Mered, viaggiando nei suoi barconi partiti dalla Libia e diretti nelle coste siciliane. I procuratori palermitani Calogero Ferrara, Maurizio Scalia e Claudio Camilleri che formano l’accusa, hanno chiesto l’accorpamento dei processi a Mered e Glauco 2, quest’ultimo legato all’inchiesta di trafficanti eritrei, ritenendo che gli atti investigativi siano gli stessi. Dall’altra parte invece, la difesa chiede che Berhe sia separato dagli altri imputati, evidenziando che le intercettazioni presentate dalla Procura sono state registrate in un periodo successivo all’inchiesta Glauco 2. Inoltre l’avvocato Calantropo preme affinché si faccia luce sulla vera identità di Berhe, per evitare che si continui ad accusare la persona sbagliata. In aula si attende anche Atta Wehbrebi Nuredin, l’eritreo a capo di un’organizzazione di trafficanti di esseri umani, oggi collaboratore di giustizia della Procura palermitana, che nel corso dell’inchiesta aveva confermato di conoscere il collega Mered, identificandolo con la foto tratta del suo profilo Facebook. Però il giorno dell’arresto di Berhe, il collaborante Nuredin interrogato dai magistrati ha dichiarato di non sapere chi è quella persona. "Ho sentito le notizie relative all’arresto di un trafficante avvenuto in Sudan ed estradato in Italia - dice Nuredin ai magistrati - e dopo averne visionato le foto dichiaro di non riconoscerlo". Droghe. All’Accademia Pontificia si parla di tossicodipendenza di Valter Vecellio Il Dubbio, 23 novembre 2016 All’apparenza è uno dei tanti "appuntamenti" di carattere scientifico con "puntate" nell’etica; dai un’occhiata veloce al cartoncino, e l’accantoni, possibile segnalibro. E invece no, il 23 e 24 novembre sarà utile tenere occhi e orecchie aperte, e prestare attenzione. Il convegno è organizzato dall’Accademia Pontificia delle Scienze, e il titolo già dice molto: "Narcotics: Problems and Solutions of This Global Issue". L’Accademia Pontificia, insomma, che periodicamente "nutre" il mondo cattolico su tematiche importanti e delicate (scienza, tecnologia, bioetica, epistemologia?), decide di affrontare le questioni relative alla droga e alla tossicodipendenza. Vale la pena di dare un’occhiata alla brochure che annuncia l’evento. L’obiettivo, "fissato" in inglese e spagnolo, in buona sintesi è quello di raggiungere un consenso per "investire nell’istruzione, nella prevenzione, nella salute, nel trattamento della dipendenza" e, in alcuni casi, nelle alternative alla detenzione che - e qui la frase chiave - sono più utili per contrastare il traffico di droga che il fare affidamento prioritariamente alla criminalizzazione delle vittime". Si dirà che distinguere tra grandi narco-trafficanti e consumatori; tra chi spaccia e chi assume la sostanza, è scoprire l’acqua calda. Bisognerebbe dirlo ai sostenitori della legge Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze, i cui effetti deleteri solo in parte sono stati limitati grazie all’intervento della Corte Costituzionale che saggiamente ne ha eliminato alcuni aspetti palesemente in contrasto non solo con la Costituzione, ma con il "semplice" buon senso. Proseguiamo nella lettura del documento introduttivo all’evento. Recita così: "Seguendo un desiderio particolare di Papa Francesco, L’Accademia Pontificia di Scienze, organizza un Workshop di due giorni su: "Narcotics: Problems and Solutions of this Global Issue" il 23 e 24 novembre 2016. Il sistema attuale che esamineremo presenta numerosi aspetti: la storia dell’uso di droga dal punto di vista culturale e geopolitico; i diversi tipi di sostanza; i centri di produzione e di distribuzione e le tipologie di consumo. Particolare attenzione sarà rivolta alla prevenzione dell’uso di queste sostanze da parte di adolescenti e giovani. Oggi le questioni relative all’abuso di sostanze sono senza dubbio di attualità, le droghe sono uno dei flagelli del nostro mondo globalizzato, nonostante le enormi risorse impiegate in tutto il mondo per combattere la produzione e il traffico di droga. L’Unodc stima che nel 2013 (gli ultimi dati disponibili sono riferiti a quell’anno), 247 milioni di persone in tutto il mondo hanno consumato droghe vietate, uno su venti è di età compresa tra 15 e 64 anni: un incremento di un milione rispetto il precedente anno. Dato ancora più allarmante è che 28 milioni sono indicati come "problem drug users" (un milione in più dell’anno precedente). Solo uno ogni sei ha avuto accesso a qualunque tipo di trattamento per la dipendenza". Di tutto rispetto il panel dei relatori e dei partecipanti: esperti provenienti dai quattro angoli del mondo, e tra gli italiani rappresentanti dell’Associazione Libera (padre Tonio Dell’Olio), e della comunità Papa Giovanni XIII (don Aldo Bonaiuti), lo scrittore Roberto Saviano (autore di quel "ZeroZeroZero" che meriterebbe maggiore attenzione di quanta ne abbia avuta, non fosse altro per l’impressionante mole di documentazione che contiene); e studiosi dagli Stati Uniti, Portogallo, Messico, Austria, Spagna, i paesi scandinavi? Ah!, un’altra "piccola" sorpresa: tra gli italiani invitata come osservatrice esperta, figura la professoressa Carla Rossi, membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Luca Coscioni (e iscritta al Partito Radicale), che proprio dalle frequenze di "Radio Radicale", il 3 ottobre scorso aveva dichiarato: "Sono sicura che se si spiegasse a papa Francesco qual è la situazione della politica sulla droga e delle conseguenze, sarebbe infinitamente più avanti di tanti politici e giudici ignoranti?". Sorprende ancora una volta, questo pontificato. Il papa venuto "da quasi la fine del mondo" inizia il suo mandato abolendo la pena di morte e introduce nei codici di Città del Vaticano il reato di tortura (l’Italia ancora non l’ha fatto). Atti simbolici, certamente; ma di indubbio significato. E poi più volte richiama l’attenzione sulle carceri, la dignità che va assicurata a tutti e nessuno escluso (l’Italia ha collezionato una quantità incredibile di condanne dalle corti di giustizia europee); un’attenzione, quella di papa Bergoglio, che il 6 novembre scorso si è ulteriormente manifestata con l’esplicita invocazione-appello per un gesto di "clemenza", mentre la "sua" piazza San Pietro ospitava i radicali che in sostegno a quel gesto avevano organizzato una marcia dal carcere romano di Regina Coeli fin sotto le finestre del Vaticano? Ora, questo convegno, importante per la qualità dei relatori e dei partecipanti, e significativo per il solo fatto che si svolge sotto l’egida dell’Accademia Pontificia delle Scienze. Convegno, come si ha cura di sottolineare, "risposta a un desiderio particolare del pontefice"; e quella frase finale: la necessità di individuare politiche alternative per il contrasto al traffico di droga che "altro" dalla criminalizzazione delle vittime. "Il nostro workshop", si legge nel documento introduttivo della Pontificia Accademia, "intende focalizzare specificamente sugli aspetti scientifici, presentando le conseguenze dell’abuso di sostanze (sia leggere che pesanti) sui nostri corpi e sui nostri cervelli, come anche il potenziale uso medico di certe droghe su malattie e disturbi specifici. Altri aspetti che saranno discussi includono la relativamente facile produzione illecita di droghe (nelle città, nei quartieri poveri and nelle zone rurali); le strategie che combattono le condizioni che incoraggiano l’uso di droghe; lo sfruttamento dei ragazzi nelle organizzazioni criminali che dispensano narcotici; e gli effetti della legalizzazione delle sostanze leggere sulla nostra società?". Quale che siano esito e conclusioni del convegno, è importante, significativo, che ci sia. E "naturalmente" viene da chiedersi: ma dalle parti di palazzo Chigi nessuno si accorge di quello che sta accadendo a poche centinaia di metri, "oltretevere"? Analoghe giornate di studio, riflessione, confronto, è di qualche significato che non vengano in mente a nessuno dei pur numerosi "inquilini" dei ministeri che comunque da queste problematiche sono interessati: Esteri, Interni, Giustizia, Istruzione, Salute, ma anche Rapporti con il Parlamento, Affari regionali? Alla fine, sono questi i problemi veri, quelli "sentiti" e non solo "percepiti" dai cittadini, dagli elettori, dal paese che siamo. Lì, nei palazzi del "potere" laico, quando se ne accorgeranno? Medio Oriente. Un muro per i palestinesi anche in Libano di Michele Giorgio Il Manifesto, 23 novembre 2016 L’esercito libanese ha cominciato la costruzione, per presunte ragioni di sicurezza, di una barriera intorno al più grande dei campi profughi palestinesi nel Paese dei Cedri. Circondati da muri, nella loro terra e ora anche in un Paese arabo. È il destino dei palestinesi, in particolare dei profughi. L’esercito libanese ha iniziato a costruire un muro di cemento alto diversi metri e torri di guardia intorno ad Ain al Hilweh (Sidone) il più grande, con circa 80mila abitanti, dei campi profughi palestinesi nel Paese dei Cedri. Un muro che ufficialmente dovrà impedire che i ricercati, specialmente i jihadisti in fuga, trovino rifugio nel campo ma che ben rappresenta la condizione degli oltre 400mila rifugiati palestinesi in Libano, di fatto segregati nei loro campi, esclusi da decine di lavori, costretti a sopravvivere grazie agli aiuti umanitari internazionali e locali. L’avvio dei lavori della barriera intorno a Ain al Hilwe, progettata nei mesi scorsi e che sarà completata in 15 mesi, coincide con l’ascesa alla presidenza del Libano dell’ex generale Michel Aoun, che non ha mai nascosto la sua storica avversione per la presenza dei palestinesi. E non è insignificante che tutte le formazioni politiche libanesi, incluse quelle che si proclamano dalla parte dei diritti dei palestinesi, siano rimaste in silenzio rispetto a una costruzione che trasformerà in una enorme prigione. Sono deboli e isolati i palestinesi in Libano, non in grado di impedire la realizzazione di questo "muro della vergogna". Anzi hanno dovuto fingere di aver coordinato il progetto con le autorità libanesi. "Il muro è stato costruito al di fuori del campo e lontano dalle aree abitate, queste costruzioni servono a risolvere problemi di sicurezza", si è affannato a spiegare il generale Mounir al Maqdah, capo della sicurezza palestinese ad Ain al Hilwe. Anche al Maqdah però ha dovuto riconoscere che il muro avrà un effetto negativo sugli abitanti del campo. "Le implicazioni psicologiche di questo muro saranno negative e difficili da superare" ha ammesso, aggiungendo che l’esercito ha accettato alcune modifiche al percorso della barriera e alle posizioni delle torri di guardia. In rete però le proteste sono aumentate con il passare delle ore. Sui social non pochi hanno paragonato il muro di Ain al Hilwe a quelli costruiti da Israele in Cisgiordania, al confine con l’Egitto e a quello che correrà lungo il confine orientale della Striscia di Gaza. A distanza di nove anni dalla distruzione del campo profughi palestinese di Nahr al Bared (Tripoli), rimasto per mesi sotto il fuoco dell’artiglieria dell’esercito libanese intenzionato a stanare i jihadisti di Fatah al Islam che vi si erano rifugiati, anche Ain al Hilwe paga il conto della penetrazione di gruppi di islamisti radicali che approfittano del vuoto di sicurezza che regna nel campo profughi. Le formazioni palestinesi, a cominciare da Fatah, hanno provato senza successo ad impedire che i jihadisti creassero delle basi nel campo. E in questi ultimi tempi non sono mancati gli scontri a fuoco con morti e feriti. Nel giugno 2015 uno dei leader di Fatah, Talal Balawna, fu assassinato da "sconosciuti", un’uccisione che ha anticipato gli scontri armati di due mesi tra Fatah e Jund al Sham, andati avanti per più di una settimana. Jund al Islam da allora ha fatto il bello e il cattivo tempo ad Ain al Hilwe, fino all’arresto due mesi fa da parte dell’intelligence libanese del suo fondatore, Imad Yasmin, che è anche un leader dello Stato islamico. Un clima di cui i profughi sono le vittime e che invece ha contribuito ad alimentare la propaganda dei tanti che in Libano considerano i campi palestinesi un "problema" da risolvere anche con le maniere forti. Ad alcune centinaia di chilometri di distanza da Ain al Hilwe, nel Neghev, centinaia di abitanti del villaggio beduino palestinese di Um al-Hiran lottano contro la demolizione delle loro case, ordinata nel 2015 dalla Corte Suprema di Israele. Le ruspe ieri hanno preso posizione ai bordi del villaggio protette da ingenti forze di polizia mentre gli abitanti, sostenuti da volontari stranieri e attivisti della sinistra israeliana, si sono distesi sul terreno nell’estremo tentativo di salvare le loro case. Nel frattempo i loro avvocati hanno presentato un nuovo ricorso. Per le autorità israeliane Um al-Hiran sarebbe un villaggio illegale e al suo posto è prevista la costruzione di un centro abitato ebraico, Hiran. È una beffa amara per gli abitanti beduini che furono spostati di autorità in quella zona nel 1956, dopo essere stati sgomberati dalle loro terre di origine. I progetti nel Neghev (Piano Prawer) prevedono l’evacuazione di decine di migliaia di beduini che vivono in centri non riconosciuti dallo Stato. In Cisgiordania, dove ieri al posto di blocco di Qalandiya è stato ucciso un palestinese che avrebbe tentato, secondo le autorità israeliane, di accoltellare un soldato, si attende l’avvio di nuovi progetti per l’espansione delle colonie israeliane con la benedizione di fatto di Donald Trump. Il neo presidente ha detto in diverse occasioni di non considerare gli insediamenti coloniali un ostacolo alla pace. Afghanistan. La Cia sospettata di aver torturato detenuti afgani di Andrea Barolini lifegate.it, 23 novembre 2016 Un documento della Corte penale internazionale punta il dito contro l’esercito Usa e la Cia. Le torture sarebbero state decise dai vertici americani. Fatou Bensouda, procuratrice della Corte penale internazionale che indaga sui crimini commessi in Afghanistan, ha fatto sapere che è stata raccolta "una base ragionevole" di indizi che permette di ipotizzare trattamenti crudeli effettuati ai danni di "presunti membri di al-Qaeda e dei talebani" arrestati nella nazione asiatica e trasferiti in Europa in prigioni segrete della Cia. In un documento reso pubblico il 14 novembre della stessa Bensouda, si spiega che alcuni membri dell’esercito americano e della Cia avrebbero fatto ricorso a metodi che costituiscono crimini di guerra: "Torture, trattamenti crudeli, attentati alla dignità personale e stupri". L’esame preliminare della Corte ha in particolare identificato in tutto 88 vittime a partire dal mese di maggio del 2003. Soprattutto, il rapporto sottolinea che "la gravità dei crimini è incrementata dal fatto che essi sarebbero stati perpetrati eseguendo piani o politiche approvati dalle più alte sfere del governo degli Stati Uniti" dell’epoca. Ovvero dall’amministrazione repubblicana guidata da George W. Bush. L’obiettivo sarebbe stato quello di ottenere informazioni importanti riguardanti il conflitto afgano, anche attraverso l’uso di specifiche tecniche d’interrogatorio violente. Alcune pratiche, come ad esempio il waterboarding (la simulazione di annegamento) sono state poi vietate, nel 2009, dall’amministrazione Obama. Le prigioni segrete già oggetto di un’inchiesta - Il tutto all’interno di centri di detenzione segreti, la cui esistenza era stata rivelata per la prima volta nel 2005. Due anni dopo, il Consiglio d’Europa aveva chiesto al senatore svizzero Dick Marty di indagare sulla questione: il parlamentare aveva denunciato quindi "una ragnatela mondiale" di reclusioni e trasferimenti illegali di prigionieri effettuati dagli Stati Uniti, con l’appoggio di alcune nazioni europee. Si tratta in particolare di Polonia, Romania e Lituania: Paesi che avrebbero avviato una serie di inchieste tramite i propri sistemi giudiziari interni. Tuttavia, la procuratrice Bensouda ha affermato di non aver avuto la possibilità di verificare se tali indagini mirino esclusivamente ad individuare eventuali esecutori materiali o se puntino a ricostruire l’intera catena di comando e, dunque, a comprendere da chi siano partiti gli ordini. Iran: pena di morte; da "Nessuno Tocchi Caino" un appello alla Mogherini Il Dubbio, 23 novembre 2016 Sono almeno 2.691 i prigionieri giustiziati in Iran dall’inizio della presidenza di Rouhani (tra il 1° luglio 2013 e il 13 novembre 2016). Il dato emerge dall’aggiornamento del Rapporto di Nessuno Tocchi Caino sulla pena di morte in Iran nel 2016, presentato ieri al Senato, nel corso di un seminario promosso da United Against Nuclear in Iran. Insieme al rapporto è stato presentato anche un appello a Federica Mogherini firmato da eminenti personalità del mondo della cultura: Liliana Cavani, Erri De Luca, Roberta Mazzoni, Francesco Patierno, Marco Risi, Susanna Tamaro, Sandro Veronesi, Marco Vichi. "Se nei primi sei mesi del 2016, dopo l’entrata in vigore a gennaio dell’accordo sul nucleare e la revoca delle sanzioni, la bilancia nei rapporti commerciali fra Iran e Unione europea ha registrato un saldo positivo con una crescita su base annua del 43%, la bilancia della giustizia e dei diritti umani nei rapporti tra regime dei Mullah e cittadini iraniani continua a registrare un saldo negativo sotto molti aspetti" è uno dei passaggi più significativi dell’appello a Federica Mogherini. Nel rapporto di Nessuno Tocchi Caino si legge che il 15 novembre 2016, con 85 voti a favore, 35 contrari e 63 astensioni, il Terzo Comitato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una nuova risoluzione che esprime seria preoccupazione per le numerose violazioni dei diritti umani in Iran. Nel 2015 sono state effettuate almeno 970 esecuzioni, rispetto alle 800 del 2014 e alle 687 del 2013. È stato il numero di esecuzioni tra i più alti nella storia recente dell’Iran, che lo classifica come il primo "Paese-boia" del mondo in rapporto al numero di abitanti. Nel 2016, al 13 novembre, sono state effettuate almeno 477 esecuzioni, di cui 186 (circa il 40%) sono state riportate da fonti ufficiali iraniane (siti web della magistratura, televisione nazionale, agenzie di stampa e giornali statali), mentre 291 casi (circa il 60%) sono stati segnalati da fonti non ufficiali (organizzazioni non governative per i diritti umani o altre fonti interne iraniane). L’impiccagione è il metodo preferito con cui è applicata la Sharia in Iran, ma nell’aprile 2013 è stata reinserita la lapidazione in una precedente versione del nuovo codice penale che l’aveva omessa come pena esplicita per l’adulterio. Le esecuzioni di minorenni al momento del fatto sono continuate nel 2016 e, al 13 novembre, sono state almeno 5: 2 per casi di omicidio, 2 per droga e 1 per sodomia. Nessun caso è stato riportato da fonti ufficiali iraniane. Pakistan: governo ascolta richiesta vescovo cattolico e annuncia rilascio 100 detenuti agensir.it, 23 novembre 2016 Il governo del Pakistan ha annunciato di voler rilasciare 100 detenuti per reati minori prima di Natale in seguito alla proposta di monsignor Joseph Arshad, vescovo di Faisalabad, ispirato dal messaggio di Papa Francesco per il Giubileo della Misericordia. Il provvedimento è stato seguito da Kamran Michael, l’unico ministro cattolico nel governo del primo ministro Nawaz Sharif, che presiede il Ministero per i diritti umani. È allo studio anche un altro provvedimento per ridurre il numero dei detenuti e migliorare le condizioni nelle carceri. "63 prigionieri, la maggioranza musulmani, sono già stati liberati dal carcere centrale di Faisalabad - dice all’agenzia cattolica asiatica Ucanews padre Nisar Barkat, direttore della Commissione diocesana per il dialogo interreligioso e l’ecumenismo. Altri saranno rilasciati dal carcere centrale di Lahore e dalla provincia meridionale del Sindh nei prossimi mesi". Mons. Arshad, che è anche responsabile della Commissione nazionale giustizia e pace dei vescovi pakistani, ha ringraziato il governo per averlo ascoltato: "Il valore della misericordia non riguarda solo i cristiani ma tutti. È stato coraggioso seguire il messaggio di Papa Francesco".