Il business del vitto e del sopravvitto. Spese d’oro nelle carceri italiane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2016 Nelle carceri italiane si continuano a fare spese d’oro. Nonostante l’ultimo rapporto della Corte dei Conti, risalente al 2014, che mette all’indice il business del vitto e conseguentemente il sopravvitto, i prodotti di prima necessità in carcere continuano ancora ad avere prezzi alti e superiori alla media. Andiamo con ordine. Secondo il vecchio dossier dei magistrati contabili, lo Stato spende al massimo tre euro e 90 centesimi al giorno per i pasti dei detenuti. Eppure alla luce del numero di persone custodite nei penitenziari, l’importo complessivo diventa impressionante: nei quattro anni dal luglio 2013 allo stesso mese del 2017 il costo sarà di 390 milioni di euro. Questo perché non è stato calcolato il numero reale dei detenuti che, rispetto al 2013, è sceso. Rimane il fatto che con tre euro e 90 viene garantita la colazione, pranzo e cena a ciascun detenuto. Viene da se che nessun detenuto riesce a sfamarsi con quello che offre lo Stato. Motivo per il quale i detenuti sono costretti a ricorrere al cosiddetto "sopravvitto": gli alimenti da acquistare negli empori interni agli istituti. I prodotti in vendita sono gestiti dalla stessa ditta appaltatrice che fornisce anche i generi alimentari per la cucina. Il problema è che i prodotti in vendita hanno cifre da capogiro e non tutti i detenuti hanno la possibilità di acquistarli. Per capire i prezzi abbiamo l’esempio recente di un listino riportato da una lettera di denuncia dei detenuti del carcere di Secondigliano: 500 grammi di provola 4,30 euro, un chilo di banane 99 centesimi, cento grammi di prezzemolo 0,26 euro, una bottiglia di olio extravergine da un litro 4.99 euro, 250 grammi di caffè 2,70 euro, un chilo di scarole in confezioni 2,30 euro. una singola bottiglia d’acqua da un litro e mezzo va da 0,37 a 0,55 euro. E così via. I detenuti evidenziano nel prezzario anche alcuni articoli da cucina, come la bomboletta gr. 190 (2,05 euro) e una serie di articoli natalizi: biglietti augurali (1.35 euro), datteri gr. 250 (1,49 euro) e i mustaccioli gr. 400 (4,50 euro). E ancora: carta igienica 10 rotoli (2,42 euro), l’accendino bic (1.02 euro). L’istituzione del sopravvitto risale al 1920 - anno nel quale fu stabilito il Regolamento Generale per gli stabilimenti carcerari - e le ditte che si sono aggiudicate l’appalto per entrambe i servizi nelle carceri italiane sono 14 tra le quali spicca la Arturo Beselli spa con sede a Bergamo e filiali in altre zone della penisola che gestisce gli appalti dal 1930 (quasi un secolo) con un fatturato annuo di diversi milioni di euro. Da anni i detenuti segnalano che i prezzi sono troppo cari, e da anni i volontari che provano a fare una verifica nei supermercati della zona hanno verificato che i prezzi interni al carcere sono uguali a quelli dei negozi. Apparentemente quindi sembrerebbe che il costo del "sopravvitto" rispetti l’ordinamento penitenziario, il quale recita: "I prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è sito l’Istituto". Ma non è esattamente così. La regola dell’ordinamento è vecchia e andrebbe aggiornata. Era l’epoca in cui non esistevano i discount, e i prezzi erano accessibili. Oggi, soprattutto con la crisi economica, molte persone non possono permettersi di fare spesa nei negozietti e quindi ricorrono ai discount, oppure fanno acquisti nei mercati a Km zero dove hanno tagliato i costi del trasporto e distribuzione. Ma per i detenuti non è così. Per loro vale la dittatura del prezzo unico e ciò ha scatenato numerose "rivolte" nelle carceri. Un problema che esiste da anni. Eppure proprio grazie ad un esposto dei radicali, nel 2011, l’allora capo del Dap aveva predisposto un’indagine approfondita e una valutazione attenta sui costi del sopravvitto. Che fine ha fatto quell’indagine? "Il pericolo radicalizzazione è nelle carceri". Italia, l’allerta degli 007 di Lorenzo Bianchi Il Giorno, 22 novembre 2016 Il buco nero dal quale può sgorgare la violenza terrorista islamica sono le patrie galere. "Non garantiscono un livello di vita adeguato e quindi sono il luogo della possibile radicalizzazione", argomenta Gabriele Iacovino, numero uno degli analisti del Centro Studi Internazionali. Il ricercatore sottolinea le molte differenze con la Francia: "Le comunità islamiche italiane non sono numerose e quindi non possono nascondere gli attentatori, giovani immigrati di seconda o terza generazione, come è successo a Parigi per la strage del Bataclan o a Bruxelles per l’eccidio dell’aeroporto. La radicalizzazione però può essere una questione di tempo. Semplicemente noi siamo in una fase diversa. Ma le nostre capacità non bastano". L’analista del Ce.S.I. considera cruciale ma non sufficiente l’esperienza del Centro Strategico Antiterrorista nel quale confluiscono gli 007 competenti per l’Italia, quelli specializzati negli scenari esteri e tutte le forze dell’ordine. Anche secondo il generale Carlo Jean, ex generale di corpo d’armata e presidente del Centro Studi di Geopolitica economica, i numeri spiegano molte differenze: "Il Belgio ha centinaia di radicali che sono andati a combattere in Medio Oriente e la Francia da sola 1800. Da noi non superano il centinaio". L’altro asso nella manica sono, a suo avviso, gli ottimi rapporti dell’Intelligence italiana con i servizi segreti dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente, rapporti che consentono a molti 007 di infiltrarsi nei gruppi del terrore. Sono fili che risalgono alla missione in Libano degli anni ottanta. "Le relazioni con i servizi di sicurezza algerini e con quello che resta di quelli libici - ribadisce - hanno consentito di recente la liberazione dei due tecnici italiani rapiti a Ghat". Il generale sottolinea anche "l’addestramento delle forze dell’ordine che hanno dovuto affrontare sia il terrorismo interno sia il crimine organizzato che poi è molto affine al terrorismo", uomini "che si sono abituati a muoversi in un contesto fluido". Luciano Piacentini, già comandante delle Forze speciali del Col Moschin, e per molti anni in servizio nei ranghi dell’intelligence in diverse aree dell’Asia, considera le banlieu il vero punto debole dei francesi e affaccia un’ipotesi intrigante: "Nei flussi di migranti che andiamo a salvare in mare ci sono infiltrati jihadisti. Che senso avrebbe colpire l’Italia?". "L’Anno Santo - aggiunge Piacentini - si è concluso e non è successo nulla, benché fosse una occasione di grande importanza. Un attentato avrebbe avuto un enorme ritorno mediatico". "L’Italia ha mantenuto un profilo meno esposto - riassume Stefano Silvestri, consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali ed ex sottosegretario alla difesa - e un atteggiamento meno antagonista rispetto alla Francia che oltretutto, nella sua veste di potenza ex coloniale in Medio Oriente, colpisce di più l’immaginario collettivo". Sciopero dei magistrati onorari fino al 25 novembre, in tilt migliaia di processi Il Dubbio, 22 novembre 2016 Centinaia di processi rinviati ad altra data e attività giudiziaria a singhiozzo in tutta Italia: sono gli effetti dello sciopero nazionale che giudici di pace e magistrati onorari (in servizio presso tribunale e procure) hanno deciso di attuare da ieri fino al 25 novembre per protestare contro il governo "che si conferma incapace di fronteggiare l’emergenza giustizia disapplicando, tra l’altro, le pronunce della Corte Ue che censurano l’abuso dell’istituto del lavoro a tempo determinato e impongono il pagamento delle ferie e della previdenza agli stessi magistrati onorari". Stiamo parlando di più di 5000 soggetti che da soli riescono a trattare il 60% dei procedimenti civili e penali: appartengono all’ordine giudiziario ma non sono di carriera, nel senso che esercitano funzioni di giudice o pm in modo non professionale, e beneficiano solo di un’indennità e non di una retribuzione. Il governo, in particolare, è accusato di aver varato una legge che attribuisce alla categoria nuove competenze funzionali "omettendo di emanare i decreti applicativi e di reperire i mezzi per la copertura dei relativi compensi, segnalando addirittura ai capi degli uffici che tali nuove attività debbano essere svolte a titolo gratuito, ossia negando anche l’erogazione delle irrisorie indennità previste a legislazione vigente", si legge in una nota della Federmot. I magistrati contestano la legge delega di riforma della categoria, approvata dal governo ad aprile sulla quale l’Europa ha già avviato una procedura d’infrazione. Alberto Rossi, segretario generale dell’Unione Nazionale dei Giudici di Pace, ha spiegato: "Vogliamo che questa riforma della magistratura venga allineata alle direttive che arrivano dall’Europa. Non abbiamo nessuna tutela previdenziale né assistenziale. La nostra legge istitutiva non ha previsto alcuna forma di tutela e le proposte che si sono succedute negli anni ai diversi governi non sono mai giunte in porto. Senza di noi la giustizia si ferma: non meno di mezzo milione di processi resteranno al palo". Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente dell’Unione, Mariaflora Di Giovanni: "Il governo ci deve riconoscere la continuità del servizio, piene tutele previdenziali ed assistenziali, uno stipendio congruo e commisurato all’alta funzione da noi svolta". Media e processo penale, informazione spesso sbilanciata a favore dell’accusa Il Dubbio, 22 novembre 2016 Libro bianco delle Camere penali sui rapporti tra media e processo penale. Nella cronaca giudiziaria, la carta stampata italiana è generalmente sbilanciata in favore della parte dell’accusa, spara spesso titoli con impronta colpevolista e mentre assicura una copertura notevole nella fase delle indagini preliminari e degli arresti, non fa lo stesso quando si tratta del processo vero e proprio e ancora meno quando arriva la sentenza. È questa, in sintesi, la fotografia scattata dal "Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale" presentato ieri a Roma nella sede dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Il volume, a cura dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane, contiene un’analisi di 7.373 articoli su temi della giustizia penale pubblicati da 27 quotidiani italiani tra il 1° luglio e il 23 dicembre 2015. Presi in esami i principali quotidiani italiani. L’analisi dei titoli indica che, se il 48,9% è formulato in modo neutro, ben il 40,2% ha una "marcata impronta colpevolista" e solo il 3,9% è di "tipo garantista o a favore dell’innocenza". Passando invece all’analisi del contenuto dei pezzi, emerge che "è connotato da un’impronta colpevolista" il 29,2% degli articoli, mentre il 32,9% si limita a fornire la ricostruzione effettuata dall’accusa e solo il 24,1% ha una "impronta neutra". Un "taglio" innocentista è stato riscontrato in appena il 3,2% dei casi. Il rapporto precisa inoltre che quasi il 90% degli articoli con titoli "colpevolisti" presenta poi un testo classificato a sua volta come "colpevolista" o che riporta, senza aggiungere commenti, sola la ricostruzione del pubblico ministero. Quanto alle fonti delle notizie, "la gran parte proviene dall’accusa (33%) e dalla Polizia giudiziaria (27,9%), mentre solo il 6,8% è della difesa". L’indisponibilità del braccialetto elettronico non esclude la concessione dei domiciliari Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2016 Misure cautelari personali - Criteri di scelta delle misure - Applicabilità della custodia cautelare in carcere in deroga alla regola dell’inapplicabilità in caso di prognosi di condanna a pena non superiore a tre anni - Indisponibilità del braccialetto elettronico - Esclusione - Fattispecie. Ai fini dell’applicabilità della custodia cautelare in carcere, in deroga alla regola generale di cui al comma 2°-bis dell’articolo 275 c.p.p., che la esclude in tutti i casi in cui il giudice, operata una valutazione prognostica, ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni, non può farsi rientrare la circostanza che siano indisponibili gli apparecchi elettronici di controllo ex articolo 275- bis c.p.p. Tale situazione, infatti, non integra l’ipotesi derogatoria contemplata sempre nel comma 2-bis dell’articolo 275 c.p.p., secondo la quale "gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’articolo 284, comma 1°, c.p.p.": è evidente l’ontologica eterogeneità fra la mancanza di un domicilio ove disporre la misura domestica, che appunto deroga alla preclusione all’applicazione della misura intramuraria (circostanza ascrivibile all’indagato/imputato, seppure spesso incolpevolmente) - e l’indisponibilità degli strumenti di controllo previsti dall’articolo 275-bis c.p.p., invece dovuta a una carenza delle dotazioni della pubblica amministrazione (da queste premesse, la Corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza che, nell’aver sostituito la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari con la forma di controllo del braccialetto elettronico, aveva peraltro previsto che la misura gradata non fosse eseguita laddove si fosse accertata l’indisponibilità del braccialetto, in tal caso con il ripristino automatico della misura carceraria senza necessità di ulteriore provvedimento giudiziario; la Cassazione ha direttamente disposto gli arresti domiciliari senza mezzo di controllo). • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 31 maggio 2016 n. 23011. Misure cautelari personali - Braccialetto elettronico - Indisponibilità - Conseguenze. In tema di misure cautelari personali, il giudice sia nel momento di prima applicazione della misura cautelare (ex articolo 291 c.p.p.) sia nel caso di sostituzione della misura (ex articolo 299 c.p.p.), ove ritenga applicabile quella degli arresti domiciliari con il cosiddetto "braccialetto elettronico", deve verificarne la disponibilità e, in caso negativo, escluso ogni automatismo nella scelta di applicare la misura della custodia in carcere ovvero quella degli arresti domiciliari semplici, deve applicare quella ritenuta idonea, adeguata e proporzionata in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. In altri termini, l’accertata mancata reperibilità del dispositivo, impone al giudice una rivalutazione della fattispecie concreta, alla luce dei principi di adeguatezza e proporzionalità di ciascuna delle misure, in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. • Corte cassazione, sezioni unite penali, sentenza 19 maggio 2016 n. 20769. Misure cautelari personali - Misure coercitive - Arresti domiciliari - Prescrizione del braccialetto elettronico - Indisponibilità dello strumento tecnico - Conseguenze - Applicazione automatica della custodia in carcere - Esclusione - Fondamento. In tema di arresti domiciliari con la prescrizione dell’adozione del cosiddetto " braccialetto elettronico", l’eventuale indisponibilità dello strumento tecnico non comporta automaticamente l’applicazione della custodia cautelare in carcere, poiché tale circostanza non dipende da un comportamento addebitabile all’indagato. • Corte cassazione, sezione III penale, ordinanza 20 gennaio 2016 n. 2226. Misure cautelari personali - Misure coercitive - Arresti domiciliari - Dispositivi elettronici di controllo - C.d. braccialetto elettronico - Mancata sostituzione della misura della custodia in carcere con gli arresti domiciliari per indisponibilità dello strumento di controllo - Legittimità - Sussistenza - Fattispecie. In tema di arresti domiciliari con la prescrizione dell’adozione del cosiddetto "braccialetto elettronico", qualora il giudice non accolga un’istanza di sostituzione della custodia in carcere, a causa della indisponibilità di "braccialetti" da parte della P.G., non sussiste alcun "vulnus" ai principi di cui agli articoli 3e 13 Cost., perché la impossibilità della concessione degli arresti domiciliari senza controllo elettronico a distanza dipende comunque dalla intensità delle esigenze cautelari e, pertanto, è ascrivibile alla persona dell’indagato. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure il rigetto dell’istanza di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari motivato sulla base della non adeguatezza della misura meno afflittiva, in assenza del prescritto controllo elettronico, in considerazione del notevole allarme sociale connesso ai reati oggetto di indagine, nonché del livello e dell’intensità del pericolo di recidiva specifica). • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 23 novembre 2015 n. 46328. Misure cautelari personali - Misure coercitive - Arresti domiciliari - Prescrizione del braccialetto elettronico - Natura - Difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa per l’esecuzione - Conseguenze - Differimento dell’esecutività del provvedimento di sostituzione della custodia in carcere con quella domiciliare - Legittimità - Esclusione. In tema di arresti domiciliari, poiché la prescrizione relativa all’adozione del c.d. "braccialetto elettronico" non attiene al giudizio di adeguatezza della misura ma alla verifica della capacità dell’indagato di autolimitare la propria libertà di movimento, è illegittimo il provvedimento con cui il giudice, ritenuta idonea la misura domiciliare a soddisfare le concrete esigenze cautelari, subordina la scarcerazione alla disponibilità e alla effettiva attivazione del dispositivo elettronico, dovendo, invece, il detenuto, in caso di indisponibilità del "braccialetto", essere controllato con i mezzi tradizionali. • Corte cassazione, sezione I penale, sentenza 30 settembre 2015 n. 39529. Misure cautelari - Personali - Sostituzione della misura della custodia in carcere con gli arresti domiciliari e braccialetto elettronico - Concedibilità nelle ipotesi di indisponibilità dei dispositivi da parte degli organi di polizia - Contrasto nella giurisprudenza di legittimità - Rimessione della questione alle sezioni Unite - Necessità. In tema di misure cautelari personali, va rimessa alle sezioni Unite la questione relativa alla possibilità o meno di concedere la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari con previsione del controllo attraverso l’attivazione di dispositivi elettronici, anche nell’ipotesi di accertata indisponibilità degli stessi da parte della polizia giudiziaria. • Corte cassazione, sezione I penale, ordinanza 11 febbraio 2016 n. 5799. Anche chi rifiuta l’alcoltest va avvertito che può farsi assistere da un avvocato di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2016 Corte di Cassazione - Sentenza 49236. Non importa che il conducente rifiuti l’alcoltest: gli agenti devono comunque avvertirlo che ha la facoltà di farsi assistere da un avvocato. Dunque, il rifiuto di sottoporsi all’esame non cancella l’eventuale omissione dell’avvertimento. Lo precisa la Quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza 49236/2016, depositata ieri. Una pronuncia che sembra mettere un’ulteriore tessera nel complicato mosaico degli accertamenti su alcol e droga alla guida. Il ragionamento su cui si è basata la Corte, invece, è piuttosto semplice: il reato di rifiuto di sostenere al test (previsto, nel caso dell’alcol, dall’articolo 186, comma 7, del Codice della strada) presuppone che all’imputato sia stato prima chiesto dagli agenti di sottoporvisi. E, per effettuare la richiesta, occorre che l’organo di polizia avverta l’interessato della possibilità di far assistere al test il suo difensore di fiducia, come richiesto dall’articolo 114 delle Disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale. La precisazione si è resa necessaria perché in un passato anche recente la stessa Quarta sezione (sentenza 43845/2014) aveva escluso l’applicabilità dell’obbligo di avvertimento quando l’imputato rifiuta il test. Successivamente (sentenza 5369/2015), le Sezioni unite si sono pronunciate sul mancato avviso, stabilendo tra l’altro che l’obbligo di avvertire l’interessato scatta "prima" del test. Secondo la Quarta sezione, nel concetto di "prima" va compresa la richiesta che gli agenti devono fare al conducente da sottoporre al test e si può argomentare che il suo rifiuto avvenga necessariamente "dopo". Tra i punti che si devono ritenere fermi in materia di mancato avvertimento, si può ricordare che le Sezioni unite, nella stessa sentenza 5369 hanno stabilito che l’obbligo di avvisare è escluso solo per i test preliminari (gli accertamenti qualitativi non invasivi che si effettuano con precursori per selezionare i conducenti potenzialmente positivi che per questo vanno sottoposti al test "definitivo" in base al quale scatta l’imputazione). Altro punto fermo è che gli obblighi degli agenti riguardano solo l’avvertimento e non anche l’attesa dell’arrivo del legale. Dunque, se egli non può giungere sul posto in tempi ragionevolmente stretti (cioè prima che la concentrazione di sostanze proibite nell’organismo del guidatore scenda sensibilmente), il test può avere luogo legittimamente. Gli agenti non hanno nemmeno l’obbligo di provvedere loro a contattare l’avvocato nominato o di nominarne uno d’ufficio se il guidatore non ne indica uno di fiducia (Cassazione, sentenza 18452/2014). Lo Stato di diritto e il diritto di punire Aldo Masullo Il Mattino, 22 novembre 2016 Che in Cina sia stata eseguita una condanna capitale non è una notizia, data la frequenza con cui in quel Paese ciò avviene. Si tratta dunque di "normalità". A colpire è piuttosto il commento di un giornale di Pechino. Il giustiziato è un giovane contadino che aveva ucciso un funzionario del partito comunista. Costui aveva ordinato l’abbattimento della casa del giovane, che la stava ristrutturando nell’imminenza delle nozze ed era stato perciò fortemente sconvolto. Sul caso si era mobilitata l’opinione pubblica con la richiesta della salvezza dello sventurato mediante la conversione della condanna a morte in ergastolo. Ma in Cina la giustizia, come si dice, non guarda in faccia a nessuno e fa il suo corso fino in fondo! Il giornale di Pechino ha scritto: "È il trionfo dello Stato di diritto, perché la legge si attiene solo ai fatti e non ammette compromessi con i sentimenti della gente". Dunque, come nell’antico rigore romano, la legge è dura, ma è la legge. Si prescinda ora dal rilevare che in ogni moderna civiltà giuridica la valutazione di un delitto pur gravissimo come l’omicidio e l’irrogazione della pena tengono conto della particolare situazione in cui l’atto criminale si è compiuto, e pertanto nella sentenza sono eventualmente riconosciute le attenuanti (o addirittura le esimenti come nel caso classico della legittima difesa). Ciò che comunque nelle parole del giornale cinese inquieta è l’identificazione dello Stato di diritto con l’inflessibilità, anzi direi la spietatezza, della funzione punitiva, "senza compromessi con il sentimento della gente". Se questa logica fosse dominante anche presso di noi, come senza contraddirsi potrebbe il partito radicale, nello spirito di Marco Pannella, perseguire il pieno compimento dello Stato di diritto e al tempo stesso battersi per promuovere una riforma umanizzante delle pene, non tanto per una generica aspirazione al diritto mite quanto piuttosto per soddisfare una ragionata esigenza di punizione personalizzata? Si ometta pure l’ovvia osservazione che regole dettate dal legislatore legittimo in nome del diritto mite e della punizione personalizzata sarebbero anch’esse leggi dello Stato e dunque, se ciò avvenisse, il "sentimento della gente" non si troverebbe in intollerabile contrasto con la formale inesorabilità della legge, ma costituirebbe un materiale prezioso per suggerirle nuove linee. La questione va ridotta in termini elementari, a partire dal fatto che la maturazione civile appare frenata da vecchi modelli di stratificati pregiudizi. In breve, se nella coscienza comune lo Stato di diritto viene dai più immaginato ancora secondo il modello dell’astratta durezza punitiva, e se l’attenzione alle concrete situazioni delle persone e ai loro condizionamenti sociali si considera un mero umanitarismo peloso, allora ogni tentativo di umanizzazione della pena evidentemente appare come una minacciosa lesione del principio stesso dello Stato di diritto. In verità il chiarimento decisivo, seriamente argomentato, è a portata di mano. Esso si trova bell’e pronto in un libro del 1764 ovvero, come tutti sanno, nel trattatello Dei delitti e delle pene, scritto da un giovane illuminista lombardo di nome Cesare Beccaria. Nel capitolo XXVII si legge: "Uno dei più gran freni dei delitti non è la pesantezza delle pene, ma l’infallibilità di esse". Perciò "la severità di un giudice inesorabile", per essere utile "dev’essere accompagnata da una dolce legislazione". In ogni caso "la certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, ma unito con la speranza della impunità". Peraltro la pena prevista dalla legge non solo dev’essere moderata, mai più grave di quanto strettamente lo esiga la riparazione del danno sociale, ma soprattutto, come s’insiste nel capitolo XIX, dev’essere sentenziata con prontezza, evitandosi quanto più è possibile la carcerazione preventiva. Insomma non è la terribilità della pena a far desistere dal delitto. La pena prevista dalla legge sia dunque mite ma sia irrogata con prontezza, e sia certa la sua esecuzione! In questo quadro, lo Stato di diritto, i cui statuti garantiscono il rigoroso rispetto delle regole, e in particolare lo Stato non solo liberale nelle garanzie ma pure democratico perché legittimato dalla volontà popolare, non necessariamente, per non contraddirsi, si scontrerebbero con "i sentimenti della gente" calpestandone la normale pietà. Il rigore della legge è intollerabile quando la legge è feroce, e lo è non solo per la sua eventuale crudeltà, ma per il fatto che in genere bersaglio sono i mal cresciuti, gli sbandati, gl’impoveriti, i profughi, insomma quelli che oggi con malcelato disprezzo vengono considerati gli "scarti". Una giustizia giusta, in cui si esprima il senso profondo dello Stato di diritto, è certamente tale quando non guarda in faccia a nessuno, nel senso che non è rigida con gli umili e flessibile con i potenti. Essa però è giusta compiutamente, solo quando dispone di regole capaci di personalizzare la pena, cioè di renderla adeguata alla realtà del reo, alla sua storia, al bisogno di "cura" che la sua esistenza ha per potere rientrare nella vita della società. Senza questa sistematica capacità la giustizia non riattiva la vita del reo, ma irreversibilmente la mortifica. Essa allora si riduce ad agire come il mitico brigante Procuste, il quale a coloro che gli capitavano sotto mano imponeva di stendersi su di un letto, e quelli troppo bassi li torturava per allungarne gli arti, gli altri troppo alti per accorciarli. Oggi nella cultura europea, sotto le spinte convergenti di un più maturo umanitarismo razionale e di un nuovo umanitarismo religioso, pur tra molte incomprensioni e resistenze ideologiche, avanza timidamente la coscienza di un rapporto tra società e individui, rovesciato rispetto all’inveterata idea penalistica. Si comincia, sia pure ancora in pochi, a pensare che l’individuo, il quale viola la legge, sia in debito con la società. Di una persona che, condannata, ha scontato la sua pena, si usa infatti dire che "ha pagato il suo debito". Alcuni cominciano invece a pensare che sia la società in debito con l’individuo. Se il crimine è una patologia della società, ogni violazione della legge è un sintomo di questa patologia. Del resto, chi mai direbbe che un malato perché malato è in debito con il medico o con il servizio sanitario, e non invece che il medico e il servizio sanitario sono in debito di cura verso l’ammalato? Così, se si considerano le cose con limpida ragione, chi nel gioco delle forze reali risulta più forte è la società col peso schiacciante dei suoi colpevoli difetti, mentre enormemente più debole è l’individuo. A dividere dunque equamente le responsabilità di un delitto, in prima fila sul banco degl’imputati dovrebbe sedere la società, con le proprie difettose istituzioni e strutture, e nell’ultima fila come complice minore l’individuo. Uno Stato che sia di diritto, il diritto di punire deve meritarselo, facendo della punizione non un facile scarico delle sue responsabilità, un vile lavarsene le mani, ma l’occasione di un impegno di attenzione straordinaria ad personam per restituire il reo alla dignità di socius della comune impresa civile. Il giustizialismo peloso di Arturo Diaconale L’Opinione, 22 novembre 2016 Il problema non è il Governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che riunisce duecento amministratori locali in un albergo di Napoli e fa l’elogio del clientelismo illustrando l’elenco dei denari pubblici stanziati dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per convincere i meridionali a votare "Sì" al referendum del 4 dicembre. Il problema è Matteo Renzi che con il debito pubblico alle stelle e una crisi che si prolunga oltre ogni previsione e che non ha avuto alcuna frenata o inversione di rotta nei suoi tre anni di Governo, destina tre miliardi in Campania con il dichiarato proposito (svelato tranquillamente e spudoratamente da De Luca) non di rilanciare lo sviluppo, ma di assicurarsi il consenso al referendum del maggior numero di masse clientelari campane. Il problema costituito dal comportamento del Premier non si pone solo in Campania, ma in quasi tutte le regioni meridionali, quelle dove i sondaggi danno in forte vantaggio il "No" a causa di una tensione sociale che non è stata minimamente mitigata dalle sbagliate ed ininfluenti politiche economiche dell’attuale Esecutivo. Naturalmente non c’è nulla di nuovo sotto il sole italico. Puntare sulla clientela per raccogliere consenso è sempre stato il metodo più usato da tutti i governi che si sono succeduti da ben prima della formazione dello Stato unitario. E scoprire che Renzi si stia comportando come il tanto vituperato Comandante Achille Lauro, quello che prometteva i pacchi di pasta alla plebe napoletana, non stupisce affatto. Ciò che colpisce, semmai, è l’ostentazione pacchiana ed arrogante con cui si distribuiscono soldi pubblici a pioggia e si punta sul metodo clientelare per raccogliere il consenso necessario a ribaltare i pronostici sul referendum. Dai tempi di Lauro ad oggi sono passati molti decenni. E proprio per fare resistenza ad un fenomeno, che l’esperienza ha dimostrato essere la fonte primaria delle organizzazioni criminali incistate nel tessuto sociale meridionale, si è sviluppata una cultura definita della "legalità" che ha portato anche a definire alcune nuove fattispecie di reato per colpire un clientelismo inteso come cancro politico e morale del Paese. Perché mai questa cultura della legalità non si attiva per denunciare un esempio così lampante, dichiarato, ostentato e rivendicato di clientelismo immorale ed illegale? Come mai di fronte ad una notizia di reato così eclatante non scatta l’obbligatorietà dell’azione penale? Vuoi vedere come dopo il garantismo peloso il pelo è cresciuto anche al giustizialismo? Sciascia e le accuse di apologia della mafia di Valter Vecellio L’Opinione, 22 novembre 2016 Il 20 novembre di sedici anni fa Leonardo Sciascia ci lascia. Il "Corriere della Sera", coincidenze che sono - dice Sciascia - "incidenze", il giorno prima pubblica una lunga intervista ad Andrea Camilleri, curata da Aldo Cazzullo. Il titolo: "Gli scontri con Sciascia, la mia vita da cieco e il No al referendum". Ad un certo punto, Camilleri dice: "Nei giorni del sequestro Moro lui e Guttuso andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: Kgb e Cia, disse, erano d’accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer lo smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era nella direzione del Pci, cos’altro poteva fare? Leonardo la prese malissimo: "Tutti uguali voi comunisti, il partito viene prima della verità e dell’amicizia". Non ricordo interventi particolari di Camilleri nei giorni della polemica che oppose Sciascia a Enrico Berlinguer e Renato Guttuso. Forse ci sono stati, probabilmente "privati". Di pubblici non ne ho trovato traccia. Ma non è questo il punto. Il fatto è che le cose non sono andate come le racconta Camilleri. Di come si siano svolti i fatti posso dare testimonianza diretta, avendo avuto la possibilità di sentire dallo stesso Sciascia cos’era accaduto. In sintesi: nel maggio del 1977, e dunque molto prima dei giorni del sequestro di Aldo Moro, Sciascia si incontra con Berlinguer per parlare di cose che riguardavano la Sicilia; è accompagnato da Guttuso, che era stato tramite per ottenere l’appuntamento. Siccome il giorno prima c’era stato l’incontro di una delegazione democristiana con una delegazione comunista, e secondo i giornali e la televisione in questo incontro si era anche parlato di una potenza o di potenze straniere che potessero avere mano nel terrorismo italiano, ad un certo punto, finito il colloquio sulle cose siciliane con Berlinguer, Guttuso domanda se sia vero che avevano parlato di Paesi stranieri, e se uno di questi Paesi stranieri era la Cecoslovacchia. Berlinguer risponde di sì; e del resto non era una confidenza, non era un segreto, perché tutti ne parlavano. Berlinguer, quindi, non fa altro che riferire un sentito dire, l’aveva sentito dai democristiani, ne era a conoscenza e lo diceva. Lo stesso giorno dell’incontro con Berlinguer, Sciascia viene invitato a colazione dal pittore Bruno Caruso, al quale racconta questo fatto, esprimendo anche un senso di ammirazione per la sincerità di Berlinguer: come un elogio nei riguardi di Berlinguer, che era tanto spregiudicato e tanto libero da ammettere che si fosse parlato di quella cosa. Passati due anni, Sciascia è deputato, membro della Commissione Moro. A un certo punto viene un eminente democristiano, al quale chiede se sa qualcosa di potenze straniere che danno una mano al terrorismo italiano, di sospetti, di indizi. L’eminente democristiano dice di non saperne nulla, al che Sciascia ribatte: "Ma guardi, due anni fa, io ho avuto fortuitamente un incontro con Berlinguer, il quale mi ha raccontato tranquillamente questa cosa: quindi com’è che lei non ne sa nulla?". Tutto qui, l’intervento di Sciascia in Commissione Moro. Da lì però, esce alquanto deformato, come se Berlinguer avesse fatto delle confidenze su cose che risultavano a lui e non che lui avesse saputo dai democristiani. Questa deformazione provoca la smentita di Berlinguer, e in seguito la querela per diffamazione. Sciascia replica con una denuncia per calunnia. Guttuso è il testimone chiave, ma si allinea con Berlinguer, smentendo Sciascia. Il quale però poteva smentire Guttuso, perché il pittore, in presenza di un’altra persona, nella Pasqua del 1980, aveva ricordato il colloquio avuto con Berlinguer e il fatto che Berlinguer aveva parlato della Cecoslovacchia. Peccato che il giudice che ha avuto tra le mani sia la querela di Berlinguer sia la denuncia di Sciascia, si sia limitato ad ascoltare Berlinguer e Guttuso, non ha ascoltato Sciascia e quel che aveva da dire; ed ha archiviato tutta la vicenda. Questi i fatti, molto diversi da come li racconta Camilleri, il quale, poi, ancora una volta (l’aveva già fatto su "il Fatto Quotidiano"), si accoda a una tesi che non definisco perché dovrei far ricorso all’invettiva volgare: quella di aver reso, nei suoi libri, la "mafia simpatica. A teatro gli spettatori applaudivano, quando ne "Il giorno della civetta" don Mariano distingue tra "uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraquà". Leonardo mi chiedeva: "Ma perché applaudono?" "Perché hai sbagliato", gli rispondevo. Altre volte rendeva la mafia affascinante. "Lei è un uomo", fa dire a don Mariano. Ma la mafia non ti elogia, la mafia ti uccide; per questo di mafia ho scritto pochissimo, perché non voglio darle nobiltà...". Per restare solo a "Il giorno della civetta": famosissima la pagina evocata da Camilleri, che però omette dal ricordare che quella davvero importante è quella che viene prima: quando il capitano Bellodi sente che il mafioso - anche grazie alle protezioni politiche di cui gode a Roma - gli sta per sfuggire dalle mani. Lo capisce, e pensa a Cesare Mori, il "prefetto di ferro" che Benito Mussolini aveva mandato in Sicilia, e che aveva stroncato il brigantaggio; quando poi Mori comincia a pestare i piedi alla mafia, che è già entrata nel regime, il prefetto viene nominato senatore e rimosso. I metodi di Mori erano brutali, all’insegna del "fine giustifica i mezzi", al di là e al di sopra delle leggi. Fare come Mori, pensa per un attimo Bellodi. Una tentazione che scaccia subito: no, dice, bisogna stare nella legge. Piuttosto quello che serve è indagare sui patrimoni, mettere la finanza, mani esperte, come hanno fatto in America con Al Capone, a frugare sulle contabilità, e non solo dei mafiosi come Mariano Arena: annusare le illecite ricchezze degli amministratori pubblici, il loro tenore di vita, quello delle mogli e delle loro amanti, censire le proprietà e comparare il tutto con gli stipendi ufficiali; e poi, come scrive Sciascia: "tirarne il giusto senso". Quello che anni dopo fanno Beppe Montana, Ninni Cassarà, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: che cercano di "tirare il giusto senso" appunto indagando sulle tracce lasciate dal denaro, che non puzza, ma una scia la lascia sempre, a saperla leggere, a volerla trovare. "Tirare il giusto senso" significa anche anagrafe patrimoniale degli eletti; significa che ministri, parlamentari e amministratori pubblici devono vivere come in una casa di vetro, e devono rendere conto del loro operato agli elettori, che devono essere messi nella condizione di sapere. Se quei suggerimenti fossero stati accolti, probabilmente molte cronache giudiziarie, di ieri e oggi, ce le saremmo risparmiate. L’altra pagina importante e amarissima è l’ultima. Bellodi è tornato a Parma, c’è una festa, e si racconta una storia: quella di un medico del carcere che si mette in testa di cacciare i mafiosi sani dall’infermeria e ricoverarvi i detenuti malati. Il medico una notte è vittima di un’aggressione, un pestaggio all’interno del carcere. Nessuno lo aiuta, tutti gli dicono che è meglio lasciar perdere. Il medico è un comunista, si rivolge al partito. Anche il partito gli dice di lasciar perdere. Il medico allora si rivolge al capomafia, e gli aggressori vengono puniti. Un aneddoto amarissimo, e non ne sfuggirà il senso, il significato. Poi vengono i Camilleri a dirci che "Il giorno della civetta" è un romanzo che fa l’apologia della mafia! Friuli Venezia Giulia: da Tolmezzo a Trieste le celle "scoppiano" di Lillo Montalto Monella Il Piccolo, 22 novembre 2016 "Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni". Quando si parla di (svilenti) condizioni detentive, si tende sempre a citare Fedor Dostoevskij. O Brecht, o ancora Voltaire. Il concetto però è chiaro. Per verificare il grado di civiltà della regione Friuli Venezia Giulia è necessario anche valutare lo stato di salute delle sue carceri. Parliamo nello specifico di cinque istituti: Gorizia, Pordenone, Trieste, Tolmezzo e Udine. Ebbene, a voler incrociare i numeri diffusi da associazione Antigone, dal dossier "Dentro o fuori" di OpenPolis e dal Sindacato autonomo Polizia penitenziaria, si evince che le nostre prigioni non sono tra le più sovraffollate d’Italia (Brescia, Como e Lodi guidano la classifica), ma non se la passano benissimo. La regione potrebbe accogliere infatti un massimo di 476 detenuti, ma al momento ne sono presenti 619, con un tasso di affollamento del 130%. Una percentuale, questa, più alta rispetto a quella nazionale, che grazie alle riforme degli ultimi anni è scesa dal 151% del 2010 al 108%. Nei cinque penitenziari regionali, il Garante per le persone private della libertà rileva il sovraffollamento e le condizioni della sezione per detenuti omosessuali a Gorizia, aperta ad agosto, come le principali criticità da affrontare. "Lì ci sono tre detenuti che devono rimanere chiusi senza sorveglianza perché non ci sono guardie. Il loro numero fa sì che non possano accedere ad alcun corso (il minimo richiesto è di cinque persone) e siano costretti di fatto a passare le giornate isolati", denuncia il Garante Pino Roveredo. Tradizionalmente il nostro sistema carcerario presenta come caratteristiche: un elevato tasso di persone in custodia cautelare, una preponderanza di detenuti condannati a pene brevi rispetto alla media nazionale e un’alta percentuale di stranieri, commenta Alessio Scandurra dell’associazione Antigone. A Trieste addirittura i detenuti stranieri (102) sono più della metà di quelli totali (195). Secondo l’ultima rilevazione del 31 agosto, quando dietro le sbarre regionali si contavano 143 persone in più rispetto al previsto, ben 161 erano i carcerati ancora in attesa di primo giudizio. "Gli istituti con caratteristiche simili a quelli del Fvg sono i più difficili da gestire. C’è più turnover dei detenuti e questo crea un grande carico di lavoro. Non solo in termini di immatricolazioni, colloqui di primo ingresso e burocrazia annessa, ma anche a livello umano in quanto il momento più difficile di tutta la detenzione è quello iniziale", fa notare Scandurra. Se carceri ad alta volatilità come quelle nostrane sono dunque le più complesse da trattare, la situazione è resa ancor più complicata dall’endemica mancanza di personale tra gli agenti di polizia penitenziaria, i cui ranghi sono ridotti all’osso. La pianta organica prevista sarebbe di 598 unità, stima il periodico mensile del Sappe, Polizia Penitenziaria, ma al momento se ne contano in servizio solamente 497. A Gorizia, per sopperire alle mancanze di organico, i turni sfiorano le 16 ore consecutive. "L’Italia, tuttavia, è tra i Paesi con il più basso numero di detenuti per agenti in Europa - aggiunge Scandurra di Antigone. Siamo una nazione ricca di divise ma povera di altri tipi di figure". Nel sistema penitenziario italiano, infatti, il 90.1% dei dipendenti sono poliziotti, con un rapporto di 1,5 agenti/detenuto. In Spagna, Paese dalla popolazione incarcerata simile, i poliziotti sono la metà, con un rapporto agenti/detenuto di 3.6. In Inghilterra e Galles oltre il 30% del personale è composto da professionisti senza distintivo. "Un’erogazione migliore dei servizi ad altre figure professionali potrebbe rendere il meccanismo più efficiente - conclude Scandurra. La nostra modalità detentiva priva i detenuti di ogni autonomia e comporta un’elevata necessità di personale". Già, perché il problema non si risolve solo con l’assunzione di più agenti, anche per ovviare al tremendo stress psicologico che ha comportato l’aumento dei suicidi di agenti penitenziari in Italia. In regione ci sono appena sei magistrati di sorveglianza a gestire le pratiche che consentirebbero di alleggerire il sovraffollamento, mancano psicologi ed assistenti sociali. Profili, questi, che consentirebbero di abbattere il tasso di recidiva di ex detenuti una volta in libertà, che al momento veleggia oltre il 70%. Lucca: la Commissione regionale in visita al carcere San Giorgio "condizioni migliorate" luccaindiretta.it, 22 novembre 2016 Migliorano le condizioni dei detenuti del carcere di Lucca. Conclusi i lavori per il rifacimento della sala incontri con i figli, in via di attivazione e definizione i corsi di formazione per il reinserimento lavorativo, ampliamento della fascia oraria per l’incontro con i parenti, realizzazione del nuovo padiglione per le attività sociali e per il refettorio da sempre assente. Sono i dati principali emersi dal sopralluogo della Terza commissione (sanità e politiche sociali) effettuato questa mattina nel penitenziario. A prendere parte all’incontro il presidente della commissione sanità, Stefano Scaramelli, i consiglieri Stefano Baccelli, presidente della commissione ambiente, Nicola Ciolini e Ilaria Giovannetti che si sono confrontati anche con il direttore della struttura Francesco Ruello e con il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Franco Corleone. Proprio il garante Corleone sottolinea come, "dopo anni di denunce di condizioni insopportabili finalmente c’è un cambio di passo, favorito anche dalla diminuzione dei detenuti presenti. Certo, resta il grave problema dei tossicodipendenti, che non usufruiscono delle misure alternative". Come spiegato dal direttore della casa circondariale di Lucca, Francesco Ruello, ad oggi i detenuti sono 78, di cui 6 ammessi al regime di semilibertà. Detenuti ubicati tutti in una unità per stanza. Un’accoglienza possibile perché le presenze rientrano nella capienza della struttura, che si attesta sulle 70 unità. "Questa struttura in passato aveva ospitato oltre 200 detenuti - continua Ruello. Negli anni siamo passati dai 220 detenuti del 2012 a una media di 105 negli ultimi due anni. Dati del sistema informativo della direzione evidenziano che su un totale di 78 detenuti, 42 soggetti sono in posizioni giudicabili, 5 appellanti, 1 ricorrente, 30 condannati". Sulle condizioni di salute, invece, si rileva che su 78 detenuti i tossicodipendenti accertati sono 33. "Come indicato in commissione sanità e politiche sociali, le nostre verifiche hanno come priorità l’accertamento dello stato di salute e delle condizioni sanitarie dei detenuti - spiega il presidente Scaramelli. La necessità della visita a Lucca, infatti, era stata programmata, in particolar modo, per far luce su alcune criticità emerse dalla relazione annuale del Garante dei detenuti tra cui la condizione dell’infermeria che necessita di interventi urgenti, per altro già finanziati. Sarà nostra cura sollecitare l’attivazione di questi lavori nei prossimi mesi". "È importante per la città di Lucca il miglioramento della struttura che abbiamo potuto constatare con mano - afferma il presidente della commissione ambiente, Stefano Baccelli durante la visita di oggi - Dalle condizione di detenzione, all’attivazione di percorsi efficaci destinati al reinserimento lavorativo passa quella sfida di civiltà che mira all’inclusione e al recupero dei soggetti reclusi. Un obiettivo importante non solo per migliorare la qualità della vita dei detenuti e dei loro familiari, ma anche per la comunità nel suo complesso. Attraverso il recupero e l’integrazione possiamo raggiungere l’obiettivo alto e ambizioso del reinserimento sociale e lavorativo di questi soggetti. Bene dunque il miglioramento che ho potuto constatare rispetto all’ultima visita che avevo fatto, In questo quadro la collaborazione tra la casa circondariale, che molto ha fatto per il miglioramento della struttura, e il mondo del volontariato, molto attivo sul territorio, può essere un volano importante nell’azione di recupero e integrazione nella società di questi soggetti". Detenuti come risorse e non solo oneri per la società sono le parole chiave ribadite anche dei consiglieri Ciolini e Giovannetti che hanno confermato l’importanza di investire nel recupero di questi soggetti. La casa circondariale di Lucca, infatti, a differenza di altre strutture, sconta l’alto tasso di detenuti di giovane età affetti da tossicodipendenza. Genova: a Marassi ci sono almeno cento detenuti malati psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2016 La situazione del carcere genovese di Marassi si fa sempre più preoccupante. Nel fine settimana si sono verificati episodi di aggressione e tentato suicidio. Un detenuto italiano tossicodipendente con problemi di psichiatrici prima si è ferito in più parti del corpo, poi, sporco di sangue, ha aggredito l’agente che lo stava accompagnando in infermeria. La guardia penitenziaria vittima dell’aggressione si dovrà sottoporre ad esami perché rischia di essere stato contagiato da una patologia infettiva. L’ennesimo episodio di aggressione è stato denunciato da Michele Lorenzo, il segretario ligure del Sappe, il sindacato autonomo degli agenti penitenziari. "Ci chiediamo - si domanda Lorenzo - cosa farà la direzione dell’istituto che, a nostro avviso gestisce in modo inadeguato l’istituto e non si preoccupa della carenza dei nostri organici. Da gennaio ad oggi a Marassi sono avvenute 75 colluttazioni, 103 azioni di autolesionismo, 44 danneggiamenti alle celle, 3 incendi, 6 tentati suicidi, 1 suicidio, sei aggressioni al personale". Proprio nella notte di sabato un detenuto extracomunitario, di giovane età, ha tentato di impiccarsi con una corda ricavata dalle lenzuola del letto, legata alle sbarre della finestra del bagno. L’uomo in evidente stato confusionale è stato salvato dagli agenti della penitenziaria mentre erano già evidenti i primi segni del soffocamento. Al Marassi non c’è solo il problema del sovraffollamento (675 a fronte di una capienza massima di circa 541), ma c’è un numero impressionante di malati psichiatrici (almeno 100) e reclusi affetti da malattie infettive. Sempre il segretario ligure del Sappe, a tal proposito si domanda: "Cosa ci fanno detenuti così in carcere? Che fine ha fatto il protocollo Rems in Liguria?". Un problema, quest’ultimo, che non riguarda solo il carcere di Marassi. Il panorama delle malattie mentali nelle carceri italiane è molto variegato, con una prevalenza nettamente più alta rispetto a quella che si registra nella popolazione generale. Se fuori dal carcere, ad esempio, i disturbi psicotici si riscontrano nell’1% delle persone, dietro le sbarre la percentuale sale al 4%. Più alti sono anche i numeri della depressione: nei detenuti la prevalenza si attesta intorno al 10% contro il 2-4% della popolazione generale. Inoltre più della metà dei reclusi, il 65%, convive con un disturbo della personalità, una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra normalmente (5-10%). Al disagio mentale si sommano spesso i disturbi da stupefacenti, che tra i detenuti hanno una frequenza 12 volte maggiore (48% contro il 4%). Oltre alle tipologie dei detenuti, nel carcere genovese è in corso anche l’allarme cimici e zecche. Nemmeno un mese fa, diverse lesioni da morsi sono state riscontrate su un detenuto cinese. Bologna: la Garante Laganà "mai più bambini in carcere". E invoca una task-force Dire, 22 novembre 2016 "L’indignazione verso la presenza di bambini in carcere insieme alle mamme rischia di apparire retorica se non si traduce in un programma operativo concreto e risolutivo". A parlare è Elisabetta Laganà, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna e il riferimento è ai bambini presenti nella Casa circondariale di Bologna: a luglio era presente una mamma con il figlio di poco più di un anno, "il piccolo, inizialmente socievole ed espansivo, man mano che la carcerazione perdurava ha iniziato a mostrare segni di agitazione e angoscia, con alterazioni del sonno e dell’umore", che oggi grazie alla collaborazione tra l’Ufficio della garante e l’associazione Papa Giovanni XXIII si trovano presso l’associazione stessa dove la madre può terminare la pena residua. Al momento però alla Dozza ci sono due madri con due bambine, una di cinque mesi e l’altra di un anno. "La situazione, già di per sé problematica - ha detto la Garante - è aggravata dalla presenza nella sezione femminile dell’articolazione della salute mentale che ospita alcune detenute con problematiche psichiche gravi: è facilmente immaginabile lo stato di tensione al quale i piccoli sono esposti". Finora "molto è stato detto dalla politica e dalle istituzioni, molta letteratura scientifica è stata prodotta per evidenziare i danni permanenti provocati dalla carcerazione sui bambini ma nulla è stato realizzato in termini sostanziali - ha continuato Laganà. Accontentarsi del diminuito numero dei bambini in carcere significa considerare il diritto e la dignità in termini quantitativi: finché ci sarà anche un solo bambino in carcere il vulnus all’umanità resta perpetrato". Ecco perché secondo la garante, "al pari della chiusura degli Opg, andrebbe stabilito un rapido termine definitivo perché nessun bambino entri più in carcere, con conseguente rapida attivazione delle risorse esistenti, che sono molte". La proposta è convocare un tavolo congiunto inter-istituzionale per coinvolgere gli Enti locali e le associazioni che si occupano del tema per creare una task force che realizzi questo obiettivo. "Accanto a questo vi è la necessità di una risposta politica- ha concluso Laganà- Dato che i diritti umani non hanno appartenenza di parte, tutte le forze dovrebbero impegnarsi affinché l’interesse prioritario del minore, come dicono tante normative internazionali, non rimanga carta straccia". Roma: Todini (Poste Insieme Onlus) "Raggi apra casa famiglia per detenute e figli" Il Dubbio, 22 novembre 2016 "Sono mesi che tutto è pronto" per Casa di Leda, il centro di accoglienza per detenute e i loro figli, "tutta la parte burocratica è stata fatta e mi dispiace che oggi qui non ci sia nessuno che rappresenta il comune di Roma: da mamma a mamma, da Luisa a Virginia, faccio appello perché la casa possa partire entro l’anno". È quanto ha detto la presidente di Poste Italiane e della Fondazione, Luisa Todini, in occasione della presentazione, (a poco più di un anno dall’inizio della sua attività), del bilancio di Poste Insieme Onlus, la Fondazione di Poste Italiane nata per promuovere politiche di inclusione e solidarietà sociale. Sulla vicenda è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Sarebbe una risposta molto bella, se arrivasse prima di Natale sarebbe un segnale molto forte, anche una risposta al Giubileo della Misericordia voluto da Papa Francesco. Consentirebbe di togliere i bambini dal carcere dove stanno senza alcun tipo di condanna". La "casa famiglia" realizzata da Poste Italiane, è destinata, come analoghe iniziative presenti in altre città, ad ospitare sei detenute e i loro figli. Illustrando le ulteriori tappe dell’impegno di Poste Italiane prossimità alle famiglie ed al terzo settore con 44 nuovi progetti approvati e una inedita rete di volontariato aziendale di 1200 dipendenti, la presidente di Poste Italiane ha ricordato le iniziative di raccolta fondi a favore delle popolazioni colpite dal sisma già rese operative nei mesi scorsi, esponendo, insieme al sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi, un’iniziativa sociale che sosterrà i bambini e i ragazzi rimasti privi di uno o entrambi i genitori in un percorso di mentoring, accompagnamento scolastico ed inserimento professionale personalizzato. Il progetto, realizzato da Mentoring Italia Onlus, è finalizzato a supportare il percorso psicologico ed attitudinale delle nuove generazioni ed è stato finanziato attraverso il ricavato integrale di un folder filatelico emesso in precedenza da Poste Italiane, riproposto in vendita con scopi benefici a favore delle vittime del terremoto ed esaurito in pochissimi giorni. "I risultati del primo anno di attività di Poste Insieme Onlus e il rinnovato e più consistente impegno assunto oggi con 44 nuove progettualità sociali ed una rete di 1200 volontari - ha sottolineato Todini parlando più in generale dell’attività della Onlus - confermano come Poste Italiane sia un’azienda che è saldamente radicata da quasi 155 anni nel cuore e nell’anima del nostro Paese, vicina a famiglie e territori, in grado di intercettarne ed interpretare capillarmente bisogni ed aspettative, trasformandole da sempre in azioni concrete". Anche l’amministratore delegato, Francesco Caio ha sottolineato come "il percorso di sviluppo e trasformazione di Poste Italiane è imperniato su una costante attenzione al tema dell’inclusione sociale. Attraverso Poste Insieme Onlus e le numerose attività di corporate social responsibility, l’Azienda ha definito una strategia integrata che unisce ai valori della prossimità e della semplicità l’impegno solidale e responsabile degli organi aziendali e di tutti i suoi dipendenti in un agire comune, attraverso la condivisione di iniziative di volontariato". Cagliari: carcere minorile, sospetta Tbc per un ragazzino detenuto a Quartucciu Ansa, 22 novembre 2016 L’adolescente è stato ricoverato prima al Brotzu e poi all’ospedale di Is Mirrionis. Un ragazzino straniero di 16 anni, detenuto nel carcere minorile di Quartucciu, è stato ricoverato in ospedale per sospetta Tbc. Ora è nel reparto infettivi del Santissima Trinità, a Cagliari, dove si attende l’esito degli esami per la verifica della tubercolosi. Il ricovero, fanno sapere dal centro regionale di giustizia minorile, è avvenuto venerdì 18 novembre. Il ragazzino aveva accusato forti dolori all’addome, si sospettava un attacco di appendicite. È stato quindi ricoverato al Brotzu, ma dai primi accertamenti e dal riscontro delle lastre è emersa la possibilità della Tbc. È stato così deciso il trasferimento a Is Mirrionis. Appena arriveranno i risultati degli esami, nel caso dovessero essere positivi, inizierà la profilassi all’interno del centro per minori di Quartucciu a cui dovranno sottoporsi tra le 20 e le 25 persone, chiunque cioè tra operatori, agenti di polizia penitenziaria e detenuti - al momento si trovano 14 ragazzi - sia venuto in contatto con il 16enne. Viterbo: detenuto dà fuoco al materasso, sette poliziotti all’ospedale viterbonews24.it, 22 novembre 2016 Lo rende noto la Fns Cisl Lazio: "Sette agenti a Belcolle per intossicazione". "Venerdì 18 novembre, nel pomeriggio si è verificato un evento critico da parte di un detenuto monitorato come integralista islamico, all’interno della casa circondariale di Viterbo. Dopo aver danneggiato i suppellettili della propria stanza ed essersi barricato, ha dato alle fiamme il proprio materasso". Lo rende noto Massimo Costantino, segretario Fns Cisl Lazio. "Le unità di polizia penitenziaria immediatamente si recavano sul posto soccorrendo i colleghi in difficoltà ed evacuando i detenuti presenti nonostante la quasi totale assenza di visibilità e respirazione - continua nella nota - Durante le operazioni di evacuazione un altro detenuto integralista islamico cercava di incitare alla rivolta gli altri detenuti e tentava di aggredire i poliziotti che stavano cercando di spegnere le fiamme. Tutti i detenuti sono stati portati in salvo e nessun detenuto è rimasto intossicato gravemente". "Il bilancio per la polizia penitenziaria è stato di 7 agenti finiti al pronto soccorso di Belcolle, di cui due sono stati ricoverati per più di 24 ore per intossicazione da fumo, gli altri 5 dimessi con prognosi di 3-4 giorni. Purtroppo, ultimamente all’interno dell’istituto viterbese - prosegue nella nota il segretario, si verificano sempre più eventi critici di grave entità, finora risolti al meglio, nonostante la carenza di organico, di mezzi e il numero elevato di detenuti che non hanno alcun interesse a reinserirsi nella società. Plauso della Fns Cisl Lazio al personale di Polizia Penitenziaria che è intervenuta come sempre con professionalità. L’istituto di Mammagialla attualmente ospita 590 detenuti, 158 detenuti oltre la regolare capienza che dovrebbe essere di 432. Per la Fns Cisl Lazio è preoccupante quanto successo. Occorre in tutti gli istituti Penitenziari del Lazio una maggiore consistenza effettiva di personale di polizia penitenziaria ma anche incrementare le somme per mettere in sicurezza gli stessi istituti dato che le somme che arrivano dal Dap sono esigue". Carinola (Ce): detenuto tenta suicidio, salvato dalla Polizia penitenziaria casertanews.it, 22 novembre 2016 Un detenuto italiano del carcere di Carinola (Caserta) ha tentato il suicidio impiccandosi ed è stato salvato dall’intervento della polizia penitenziaria e dei medici della casa circondariale. "È stata salvata la vita a una persona - dice Ciro Auricchio dell’Unione dei Sindacati di Polizia Penitenziaria - ed evitata l’ennesima tragedia". "Restano - continua Auricchio - le preoccupazioni per una carenza di organico che limita la presenza dei poliziotti e genera difficoltà". "È arrivato anche il momento - sostiene Auricchio - che nei festivi e notturni aumenti il numero di operatori sanitari da parte Asl in servizio, visto che oggi c’è un medico e un infermiere per oltre 400 detenuti presenti". "Con organizzazione di presidio psichiatrico o di sostegno psicologico permanente vista presenza di detenuti ex tossicodipendenti e sex offender estremamente fragili". "Auspichiamo, nel più breve tempo possibile, il ripristino reparto detentivi sanitario", conclude il segretario dell’Uspp. Ieri un detenuto extracomunitario del padiglione "sex offender", reparto riservato a coloro che sono stati condannati per reati di natura sessuale, ha devastato alcune celle del carcere di Carinola, nel Casertano. L’uomo è stato bloccato dagli agenti della polizia evitando il peggio. "È difficile - sottolinea Ciro Auricchio del Unione dei sindacati di Polizia Penitenziaria - gestire detenuti estremamente problematici in una struttura di media sicurezza". "Auspichiamo - conclude Auricchio - che l’amministrazione penitenziaria accolga l’invito dei sindacati per un urgente tavolo di confronto. Imperia: ritrovato dalla polizia l’accusato di omicidio fuggito dall’Opg di Nizza Ansa, 22 novembre 2016 Era per strada e cercava un telefono, non ha opposto resistenza. È stato ritrovato mentre si aggirava sulla provinciale tra Perinaldo e Negi, nell’imperiese, il disabile psichico accusato di omicidio e evaso dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Nizza. Secondo le prime informazioni, l’uomo non ha opposto resistenza e sta per essere riaccompagnato alla frontiera di Ponte san Luigi per essere riconsegnato alle autorità francesi. L’uomo, che ha 39 anni e è originario del Principato di Monaco, è stato individuato per strada, vicino ai luoghi dove era stato avvistato ieri. Questa mattina presto si era recato da un frantoiano della vallata per chiedergli di poter fare una telefonata. Era molto agitato, bagnato e senza giacca e ha deciso di scappare di nuovo senza usare il telefono. Le ricerche intensificate nelle ultime ore sono valse a rintracciarlo e catturarlo. Determinante è stato l’apporto logistico della Protezione Civile di Seborga-Perinaldo-Vallebona. Il 39enne era fuggito dall’ospedale psichiatrico di Nizza il 17 novembre scorso dove era n cura dal 2013. L’uomo alla vista dei poliziotti ha tentato di scappare e nascondersi, ma è stato raggiunto e arrestato. Durante la perquisizione personale i poliziotti hanno trovato addosso allo stesso un coltello a serramanico della lunghezza complessiva di 22 cm. Attualmente è trattenuto nelle camere di sicurezza del Settore Polfrontiera e sono state avviate, tramite l’Organo di Polizia di Frontiera Francese, le procedure di riammissione attiva in Francia. Arienzo (Ce): "La Luce oltre… il buio", dibattito e spettacolo per i detenuti italia-news.it, 22 novembre 2016 "Non lasciatevi rinchiudere nel passato, la vera misura del tempo non è quella dell’orologio…. si chiama Speranza". Seguendo queste parole, pronunciate da Papa Francesco, l’associazione "Donare è… amore" di Pina Pascarella ha organizzato un dibattito-spettacolo nella casa circondariale di Arienzo, in provincia di Caserta, intitolato "La luce oltre il buio", che si terrà giovedì 24 novembre alle ore 15. L’evento sarà aperto dall’avvocato Angelo Pisani, esperto conoscitore di casi particolari, che presenterà il suo libro "Luci a Scampia". Interverranno: Mariarosaria Casaburo, direttrice del penitenziario di Arienzo, Marianna Adanti, direttrice aggiunta della casa circondariale di Benevento, il giudice Carmine Antonio Esposito, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, e Oriana Iuliano, magistrato di sorveglianza a Santa Maria Capua Vetere. Saranno presenti anche il formatore Massimiliano Toriello, Pina Pascarella, presidente dell’associazione "Donare è … Amore" ed organizzatrice, i penalisti Beniamino Esposito e Paolo Iuliano, il vicepresidente della Proloco Botteghino Angelo Librera, la deputata Camilla Sgambato, l’ex calciatore del Napoli Pasquale Casale e don Luigi Merola, il sacerdote che ha istituito la fondazione "A voce rè criatur". L’incontro sarà moderato dalla professoressa Mariantonietta Carfora e, fra una pausa e l’altra, gli ospiti saranno intrattenuti dalla musica di Pasquale Romano e la sua band, e da Romina Boccucci, soprano. "Per la prima volta organizzo un evento in un casa circondariale dalle caratteristiche peculiari: il pubblico sarà composto solo da detenuti - afferma Pina Pascarella -. La manifestazione rappresenta un appuntamento importante e motivo d’orgoglio, non solo perché crea un ponte culturale fra mondo carcerario e mondo "libero", ma anche perché i veri protagonisti saranno i detenuti stessi, in una precisa logica trattamentale, come un percorso significativo in prossimità del Santo Natale per dare loro la seconda opportunità, ad ampio spettro. Ringrazio personalmente chi mi ha permesso di coronare questo sogno, la dottoressa Mariarosaria Casaburo, direttrice della casa circondariale di Arienzo, e Marianna Adanti, direttrice aggiunta carcere di Benevento, Pasquale Romano, il suo gruppo musicale, e Romina Boccucci, artisti della mia associazione, che si esibiscono a titolo gratuito. Libri. "Il pregiudizio universale". Le catene di classe dietro le sbarre di Luigi Manconi e Stefano Anastasia Il Manifesto, 22 novembre 2016 Un’anticipazione dal volume "Il pregiudizio universale" (Laterza). La puntuale critica alla retorica sull’aumento della criminalità dovuta ai migranti. La legge è uguale per tutti: la pretenziosa affermazione che campeggia nelle aule di giustizia a imperitura tutela del sacro principio della parità di fronte al diritto, alla luce delle dure repliche della storia, meriterebbe una qualche correzione. O, almeno, il ricorso a un condizionale composto, un "dovrebbe essere", dal momento che purtroppo nella nostra lingua manca quel "modo del desiderio" che gli antichi greci chiamavano ottativo. Dunque, la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Questo, sì, potrebbe essere un buon punto di partenza. Naturalmente seguito dalla sua negazione (la legge non dovrebbe essere uguale per tutti), perché i nostri palati raffinati hanno imparato a riconoscere il sapore delle differenze e delle disuguaglianze, e sappiamo che diverse condizioni dovrebbero essere trattate diversamente, perché abbiano accesso ai medesimi diritti e ne siano ugualmente tutelate. Visto dal fondo della bottiglia, quel monito egualitario inscritto nei tribunali suona infatti beffardo e inclemente. Ogni anno in Italia, in nome di decine di migliaia di norme penali, si consumano centinaia di migliaia di processi, e altri vi si aggiungono, in una coda senza fine. Poi, però, sul fondo della bottiglia, negli istituti di pena, restano depositati sempre gli stessi, alcune decine di migliaia di persone, socialmente e anagraficamente connotate, condannate per quella decina di reati che riempiono le nostre carceri. Una grande macchina che ingloba di tutto, ma che alla fine distilla quella solita essenza di devianza e marginalità sociale. (…) Su 54.072 detenuti, 18.166 sono gli stranieri, un terzo del totale, quattro volte più che nella società libera. Si dirà: commettono più reati, anzi: vengono qui apposta per commetterli, al fine di trovare adeguate opportunità per la loro vocazione etnica criminale. Ma ovviamente non è così. Sì, certo, gli immigrati senza regolare titolo di soggiorno (coloro ai quali, in genere, noi e le nostre leggi non consentiamo di avere un regolare titolo di soggiorno) è probabile che incorrano più facilmente in violazioni della legge penale, dovendo vivere e guadagnarsi da vivere nell’irregolarità e nell’illegalità. (…) Ma la cittadinanza è solo uno degli indicatori della selettività sociale del carcere. Prendiamo, per esempio, i dati relativi all’istruzione e all’occupazione prima dell’arresto. Dietro le sbarre i laureati sono tutt’ora meno degli analfabeti, che costituiscono il 2,11% della popolazione reclusa. E il 26,36% non ha assolto l’obbligo scolastico e non ha il diploma di scuola media inferiore (un certo numero nemmeno quello elementare). Quando ancora se ne rilevava la condizione occupazionale (dicembre 2012), quasi il 60% dei detenuti era disoccupato o in cerca di prima occupazione, e tra chi aveva una qualifica professionale quasi il 70% risultava "operaio", pochi impiegati, qualche artigiano e poi improbabili imprenditori di se stessi, appena più dei liberi professionisti, la categoria meno frequente tra i detenuti, pari al 3,68% dei censiti. Ecco, è questa la composizione del carcere, predeterminata dalla diseguaglianza sociale esterna, che indirizza verso le istituzioni penitenziarie le espressioni della marginalità giudicate preoccupanti, prima e più che pericolose. Così in carcere si riversano la malattia mentale che non viene presa in carico sul territorio, l’abuso di sostanze stupefacenti che si mostri incompatibile con la vita di società (un quarto dei detenuti ha problemi di dipendenza, e una parte vi entra per la sola detenzione), l’immigrazione irregolare e le ragazzine rom con i loro bambini. In altre parole, oggi il carcere e, più in generale, l’intero sistema penitenziario, rappresenta un’istituzione per la quale la definizione più pertinente è quella di classista. Una grande e articolata agenzia che occupa spazi e funzioni, competenze e servizi, progressivamente lasciati scoperti dalla crisi del sistema di welfare. Un apparato di produzione e riproduzione allargata dei processi di esclusione e sperequazione. Insomma, vale per il diritto e per la giustizia quanto don Milani diceva a proposito della cultura: "non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali". In realtà, lo sappiamo, è un principio che riguarda tutti i beni, le risorse e le opportunità. E anche la legge: non può essere eguale per tutti, sopraffatta com’è da così tante disparità. Televisione. Lucia Annibali, "quando scegli la vita non torni più indietro" di Stefano Crippa Il Manifesto, 22 novembre 2016 Su Raiuno stasera la fiction sull’avvocata sfregiata dall’acido, interpretata da Cristiana Capotondi, "Io ci sono - la mia storia di non amore". Lucia Annibali ha un solo momento di cedimento, ed arriva alla fine dell’incontro di presentazione del film tv che Raiuno manda in onda oggi in prima serata dal titolo, Io ci sono - la mia storia di non amore. Quando le si chiede se teme il momento in cui l’aguzzino che l’ha sfregiata con l’acido, uscirà dal carcere: "Sì, ci penso ma poco. Penso a cose più divertenti e interessanti. Ma mi porrò il problema quando si presenterà". Il suo calvario come donna e la sua rinascita viene raccontata nel film, diretto da Luciano Manuzzi, coproduzione Rai Fiction Bibi Film tv prodotta da Angelo Barbagallo. A interpretarla Cristiana Capotondi, che vediamo nella prima scena durante la degenza nel reparto grandi ustionati dell’ospedale. La vicenda procede poi per flashback; dall’inizio della storia d’amore con Varani ai pedinamenti dell’uomo, passando per le minacce, gli schiaffi e la vendetta che si trasforma in incubo, fino alla terribile vendetta per mano di due sgherri. Oggi Lucia Varani vive a Roma e lavora come consigliere giuridico del ministero delle pari opportunità con una speciale attenzione alla violenza di genere: "Mi addolora - spiega - la facilità con cui vengono compiuti i crimini contro le donne. Bisogna intervenire negli anni della formazione, e offrire a tutti i ragazzi anche esempi maschili che incarnino valori positivi". L’avvocata di Urbino parla di un percorso difficile, fatto di diciotto interventi chirurgici e di un volto e una vita che non potrà mai essere la stessa: "Quel giorno è nata un’altra Lucia. Ho cercato di trasformare quella "esperienza" in qualcosa di positivo per gli altri, perché è importante riuscire a emanciparsi da quello che succede nella vita e donarlo agli altri". Per Cristiana Capotondi: "Aver conosciuto Lucia mi ha cambiato. Lei è un eroe, una persona che ha sfidato il dolore attraverso l’arma dell’ironia. Ha una leggerezza molto difficile da riscontrare in chi ha attraversato percorsi così tragici…". Il film - che si ispira al libro scritto a quattro mani dalla Annibali e da Giusi Fasano, cerca di far convivere i due aspetti della vita di Lucia riassunti nel titolo; la tragedia (La mia storia di non amore) e la rinascita (Io ci sono): "Su quel pianerottolo in cui si è consumata l’aggressione mi sono trovata di fronte alla morte. So che cosa si prova quando sai che la morte è a fianco a te. Ma in quel preciso momento ho deciso di reagire, ho scelto la vita e non torni più indietro". Una fiction che arriva alla vigilia della manifestazione contro la violenza sulle donne del 25 novembre: "È uno dei lavori più importanti che abbiamo prodotto - sottolinea Tinny Andreatta, il direttore di RaiFiction - perché tratta i temi della violenza e dei femminicidi che la cronaca ci ripropone con statistiche sconvolgenti. Il 31% delle donne fra i 16 e 70 anni ha subito almeno una forma di violenza fisica e sessuale nell’arco della propria vita. Ma gli atti di violenza sono il prodotto più estremo e tragico di una cattiva cultura che riguarda il femminile". Dentro la vicenda di Lucia il tema emblematico che scatena la violenza, è il possesso scambiato per amore, la mancanza di rispetto verso l’altro: "La storia di Lucia Annibali - prosegue Andreatta - ci è sembrata importante per il messaggio positivo che trasmette. Nonostante il dolore, nonostante la violenza, decide di fare della propria esperienza un esempio per altre donne. E uomini. E proprio a loro consiglio la visione, perché provino davanti a questo film il senso dell’orrore di quello che può essere il proprio atto di violenza". "Molti uomini - chiosa Cristiana Capotondi - non hanno saputo e voluto capire cosa siamo diventate. Gli siamo cambiate davanti agli occhi, e qualcuno non l’ha metabolizzato". Televisione. "Amore criminale", la violenza di genere diventa spettacolo di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 22 novembre 2016 Le migliori intenzioni sono lastricate di azioni sbagliate, come la nuova edizione del programma di Raitre presentato da Asia Argento. A volte, le migliori intenzioni sono lastricate di azioni sbagliate. Nel caso di Amore criminale, trasmissione di Raitre che da anni alterna alla conduzione attrici celebri, viene il dubbio che la migliore intenzione, quella di denunciare la piaga della violenza di genere, sia in realtà un espediente per fare audience. Arrivata alla nona edizione e costruita con la collaborazione di Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato, la seria partita lo scorso 4 novembre è condotta da Asia Argento, carisma e tatuaggi perfetti per sottolineare la drammaticità dell’argomento. Allertata da alcune amiche ed ex donne maltrattate che mi hanno detto: "Devi guardarla. È terribile", mi sono costretta ad andare fino in fondo a una puntata, durata un’ora e 44 minuti. Le storie narrate sono due: un italiano che ha violentato una ragazza, una giovane donna uccisa dall’ex fidanzato. Ci sono mille modi per raccontare un evento o un fenomeno. Dipende da che cosa si vuole ottenere, se far ridere, piangere, impressionare, capire, imparare o pensare. Amore criminale risponde perfettamente a tutti gli obiettivi emotivi, disattende del tutto quelli informativi, ammesso che li abbia. Quando il protagonista dello stupro parla di ciò che ha fatto, si dice pentito, ma dissemina il racconto di scuse. L’abbandono della madre da piccolo, la nuova donna del padre, la vita sbandata, le droghe e l’alcol, la ragazza che lo lascia per questo e lui che una sera violenta una ragazza per strada: "Così, di punto in bianco", come dice lui stesso, quasi che un gesto del genere possa essere gettato dal fato sulla testa di uno a caso. Non contenti, gli autori fanno seguire a questa testimonianza senza contraddittorio la voce dell’ avvocato che giustifica il proprio cliente dicendo che la violenza è nata da una pulsione latente o dall’uso di droghe e alcol. Eh già, è sempre colpa di qualcos’altro, poverini. Non va meglio con la vicenda della giovane uccisa dall’ex fidanzato. Qui si abbonda con la ricostruzione delle liti, del delitto, si cercano le lacrime del padre e delle amiche, si commisera, di nuovo si giustifica. C’è poi sottotraccia un messaggio preciso. Siccome la giovane si era innamorata di un clandestino senegalese, si cerca nel passato di lei l’evento che l’ha fatta deragliare dal buon senso portandola prima ad abbandonare l’università, poi a fidanzarsi con quell’ "Uomo ridicolo", come lo descrivono le amiche di lei. Anche qui gli autori ci dicono che il clic avviene quando la mamma della giovane muore e lei, a poco a poco, si stacca dalla famiglia. Poi c’è l’affondo finale, l’appello della seconda moglie del padre che si chiede: "Perché non ne sei uscita? Perché non ti sei ribellata? Perché gli hai permesso di farti questo?", come se l’onere della soluzione del problema fosse solo sulle spalle della donna, e non su quelle dell’aggressore il cui gesto viene spiegato così dallo psichiatra intervistato: "Lui non ha accettato il rifiuto per ragioni culturali". In quasi due ore si è riusciti a spettacolarizzare un delitto, a non scavare nelle ragioni profonde che spingono gli uomini a essere violenti, a non dire che sono loro a doversi curare e a farsi domande, a tacere che sul territorio ci sono strutture che aiutano le vittime e ora anche gli uomini maltrattanti, a non raccontare come se ne può uscire, a giustificare le violenze maschili addebitandole a eventi indipendenti dalla volontà, a sottintendere che, in fondo, se lei è finita così è perché non ha più ascoltato chi davvero le voleva bene. Se lo scopo di Amore Criminale era usare la violenza contro le donne per fare spettacolo, ci sono perfettamente riusciti. Droghe. "L’accozzaglia fumosa" che dice no alla legalizzazione della cannabis di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 novembre 2016 C’è anche la Lega nell’accozzaglia fumosa che ha votato no all’emendamento presentato da Sinistra italiana in commissione Bilancio, alla Camera, che impegnava il governo a disporre il monopolio di Stato sulla cannabis e destinarne i proventi alla ricostruzione post terremoto. Carroccio e Pd si ritrovano così fianco a fianco sulle posizioni più proibizioniste; ma per carità, ha spiegato Matteo Salvini, un po’ di pragmatismo è d’obbligo, per esempio "io legalizzerei e regolamenterei la prostituzione, non certo la cannabis", ha detto il leader leghista intervenendo su Radio1 a "Un giorno da pecora". Oltre a Sel, a votare a favore dell’emendamento sono stati i deputati pentastellati, la componente civatiana del Gruppo Misto e la deputata del Pd Susanna Cenni, l’unica dei quattro democratici che siedono nella V commissione di Montecitorio (dove fino a mercoledì proseguirà l’analisi della legge di Stabilità) che sono anche tra i firmatari della pdl per la legalizzazione promossa dall’intergruppo parlamentare. "Nel mio ruolo di relatore di maggioranza - ha spiegato al manifesto il dem Mauro Guerra - ho dato parere contrario e invitato al ritiro dell’emendamento, cosa che non è avvenuta perciò ho votato contro". Francesco Laforgia, che pure fa parte dell’intergruppo promosso dal radicale Benedetto della Vedova, non era presente "per motivi familiari". Mentre il quarto, Marco Marchetti, in commissione si è astenuto perché "favorevole alla legalizzazione, ma non è certo questo il modo". A spiegare cosa c’è che non va nel "modo" è la 32enne Giuditta Pini: "Dopo mesi di intergruppo parlamentare, decine di audizione, discussioni e dibattiti, mentre la legge sulla legalizzazione aspetta in commissione, spiace questa polemica sugli emendamenti" di Si, che sono, secondo la deputata dem, "addirittura più restrittivi della proposta di legge". Inoltre, aggiunge Pini, non era quella la sede giusta "in cui discutere di legalizzazione", argomento sul quale invece "mi era parso di capire che stavamo facendo un lavoro serio e insieme". Al contrario, per Daniele Farina, primo firmatario dell’emendamento che era stato sottoscritto anche da alcuni deputati Pd e della maggioranza, "è un pessimo segnale quello dato dalla commissione Bilancio al Paese. Meglio lasciare i soldi alle mafie piuttosto che destinarli ai terremotati: fino a 5 miliardi di euro già dall’anno prossimo. Si dirà che la discussione sul bilancio non è la sede giusta - continua il deputato di Sinistra italiana. Tuttavia, fino ad oggi, nelle "sedi giuste" si è lavorato per tenere la palla in tribuna. Mi auguro che in futuro si cambi passo. Anche perché, come dimostrano i recenti referendum Usa, sul tema il mondo sta correndo mentre il Parlamento italiano rimane visibilmente ostaggio di fallimentari ideologie". Talmente ostaggio che, per essere sicuri di non sbagliare, al voto sull’emendamento cannabis si è applicato - unico nella seduta della commissione Bilancio - il controllo nominale. Pippo Civati sul suo blog spiega che "l’emendamento proponeva di inserire nella legge di bilancio una norma per recuperare risorse per miliardi di euro, ben più di quanto le voci della manovra non riescano a fare". Con una stima cauta, aggiunge, "tra risparmi e gettito fiscale, 5 miliardi di euro all’anno". Ma la neonata alleanza Lega-Pd per fermare l’unica politica ormai possibile, caldamente consigliata perfino dalla Direzione distrettuale antimafia dopo il decennale fallimento del proibizionismo, "conferma - secondo Civati - solo il fatto che la maggioranza di governo non è favorevole alla legalizzazione. Che il premier non si esprime, mentre i suoi ministri sì (e contro). Che il Pd sull’argomento è diviso". E in effetti sembra quasi coraggioso l’endorsement del governatore della Toscana Enrico Rossi in favore della legalizzazione perché, afferma, "lo ritengo l’unico modo per sottrarre i giovani alle grinfie della criminalità organizzata", oltre a "portare benefici di carattere economico come dimostrato da alcune esperienze in Europa e Nord America". L’emendamento bocciato verrà comunque ripresentato da Si in Aula. In ogni caso, il voto della commissione "nulla toglie e nulla aggiunge" all’iter parlamentare di legalizzazione, sostiene il sottosegretario Benedetto della Vedova. Che ovviamente prevede: "Il momento della verità per il ddl cannabis legale sarà dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre". Cina. Impronte digitali addio. Per farti riconoscere devi metterci la faccia di Lorenzo Carbone Il Dubbio, 22 novembre 2016 La azienda cinese Baidu ha lanciato quella che potrebbe essere una rivoluzione copernicana in campo tecnologico: il riconoscimento facciale. E lo slogan perfetto potrebbe essere: "il documento che non potrai mai perdere: la tua faccia". La località di Whuzen, a sud di Pechino sulla costa del Mar Cinese, è un centro storico celebre per i suoi canali e la sua architettura, visitato da milioni di persone ogni anno. Qui la Baidu ha installato la sua ultima invenzione. Quando un visitatore arriva a Whuzen, viene scattata una foto e viene registrata nel database. A ogni tornello c’è un tablet che registra il viso del visitatore e lo mette in relazione con la foto scattata all’inizio del tour e prego si accomodi, in 0.6 secondi il tornello si apre o rimane chiuso. "Sempre avrai la tua faccia con te" spiega il capo della ricerca Andrew Yan-Tak Ng, "Sebbene non sia una soluzione a ogni tipo di autenticazione personale, il riconoscimento facciale possiede alcune caratteristiche che gli altri metodi usati fino ad oggi non hanno". Senza dubbio, a Whuzen i tempi delle file che tanto odiamo e di cui tanto ci lamentiamo sono state praticamente azzerate, secondo quanto riportato da chi lavora nel campo del turismo in quella località. Non solo, il metodo impiegato dalla Baidu possiede una percentuale di infallibilità del 99.7%. L’uso di autenticazione biometrica non è nuovo: le impronte digitali vengono usate già da tempo, ma non sono sempre efficaci perché le impronte digitali cambiano con il tempo, si usurano e creano problemi ai lettori biometrici. Lo stesso vale per la lettura della retina: sembra infatti che una ottima foto di un occhio potrebbe passare i controlli come se si trattasse di un occhio umano reale. Ed ecco allora la vera rivoluzione: il sistema della Baidu capisce se si tratta di una persona in carne ed ossa o di una riproduzione fotografica o plastica. In questo caso dunque sarebbe impossibile truccare il sistema di riconoscimento, e rimarrebbe come unica opzione quella di prendere in ostaggio una persona. L’azienda cinese non è la sola che usa questo metodo da fantascienza, anche la Microsoft la utilizza per l’autenticazione d’avvio di un Surface tablet e MasterCard lancerà all’inizio del prossimo anno il riconoscimento facciale per la compravendita online. Secondo quanto dichiarato dalla Baidu, questo metodo verrà presto brevettato per l’apertura delle porte di casa e per i grandi concerti e gli eventi di massa, per evitare la rivendita di biglietti non personalizzati. La domanda che si pongono gli scettici è: quando questa tecnologia verrà sviluppata e lanciata sui mercati, avremo ancora la possibilità di scappare o semplicemente di passare un pò di tempo da soli? Iran: "Nessuno tocchi Caino"; pena di morte, nel 2016 in già 477 esecuzioni Avvenire, 22 novembre 2016 Nel 2016 al 13 novembre in Iran sono state compiute almeno 477 esecuzioni, di cui 186 riportate da fonti ufficiali, mentre 291 casi sono stati segnalati da fonti non ufficiali: lo scrive nel suo Rapporto sulla pena di morte in Iran l’Ong "Nessuno tocchi Caino", che in una nota ricorda che sono "dati significativamente inferiori rispetto al numero delle esecuzioni dello stesso periodo del 2015 (anno in cui vi sono state almeno 970 esecuzioni), ma sempre allarmanti". L’Ong rivolge un appello a Federica Mogherini, l’Alto Rappresentante Ue, perché affronti la questione della pena di morte in Iran. Bahrein: Amnesty; non rispettati impegni su diritti umani amnesty.it, 22 novembre 2016 In un nuovo rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha dichiarato che, cinque anni dopo la rivolta del 2011 in cui manifestanti pacifici vennero picchiati, feriti e uccisi, le riforme introdotte per rispondere alle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza devono ancora portare giustizia alla maggior parte delle vittime e dei loro familiari. Il rapporto descrive in dettaglio le gravi carenze riscontrate nell’azione di due organismi istituiti nel 2012, che secondo le autorità del Bahrein e quelle del Regno Unito - strenuo alleato del regno del Golfo persico - avrebbero dovuto dimostrare l’impegno a migliorare la situazione dei diritti umani. "Nessuno nega che il governo del Bahrein abbia fatto bene a istituire organismi per indagare sulle violazioni dei diritti umani e portare di fronte alla giustizia i responsabili, ma purtroppo queste riforme risultano profondamente inadeguate. I maltrattamenti e le torture da parte delle forze di sicurezza proseguono, in un contesto di radicata impunità segnato dalla mancanza d’indipendenza del potere giudiziario" - ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice per la ricerca presso l’Ufficio regionale di Amnesty International di Beirut. "Un vero cambiamento dev’essere ben più che di facciata. Le autorità del Bahrein non possono continuare a ingannare il mondo con una mera patina di riforme, quando l’assunzione di responsabilità per le violazioni dei diritti umani scarseggia e i difensori dei diritti umani continuano a venire arrestati in modo arbitrario, a subire condanne a seguito di processi iniqui, a essere privati della nazionalità o a vedersi impedito di viaggiare all’estero" - ha commentato Maalouf. La brutale repressione delle proteste del 2011 suscitò l’indignazione internazionale. Su raccomandazione della Commissione indipendente d’inchiesta del Bahrein, istituita dal re Hamad bin Isa al-Khalifa, le autorità emendarono alcune leggi e costituirono alcuni organismi di monitoraggio e per indagare e processare persone sospettate di aver commesso violazioni dei diritti umani. Tra queste istituzioni, dal 2012 vi sono l’ufficio del Difensore civico presso il ministero dell’Interno e l’Unità speciale per le indagini presso l’Ufficio del procuratore generale. Entrambe hanno ricevuto formazione e sviluppo delle rispettive capacità istituzionali da parte del Regno Unito. Sebbene abbiano ottenuto qualche risultato, Amnesty International giudica che queste due istituzioni non siano state in grado di fermare in modo significativo le violazioni dei diritti umani. "La descrizione fattane dal governo di Londra come istituzioni modello è profondamente falsa, come illustriamo nel nostro rapporto. Invece di raccontare mezze verità al mondo intero sui progressi del Bahrein, il Regno Unito e gli altri alleati internazionali dovrebbero smetterla di dare priorità alla difesa e alla cooperazione in materia di sicurezza, a scapito dei diritti umani" - ha sottolineato Maalouf. L’ufficio del Difensore civico è generalmente reattivo nel segnalare le denunce di tortura e di altre gravi violazioni dei diritti umani all’Unità speciale per le indagini. Tuttavia, in alcuni casi, non ha assunto rapide iniziative per proteggere i detenuti dai maltrattamenti e dalla tortura, indagare sulle loro denunce o assicurare il loro accesso alle cure mediche. Ad esempio, nonostante i ripetuti allarmi di Amnesty International circa il rischio che il difensore dei diritti umani Hussain Jawad potesse subire torture dopo il suo arresto, avvenuto il 16 febbraio 2015, l’ufficio del Difensore civico non ha verificato immediatamente le condizioni del detenuto e non è riuscito a evitare che venisse torturato. Jawad ha riferito di essere stato bendato, picchiato con le mani ammanettate dietro la schiena e minacciato di violenza sessuale se non avesse "confessato". L’ufficio del Difensore civico ha anche ritardato di due anni l’inchiesta sulla denuncia di tortura sporta da Mohamed Ramadhan, guardia di sicurezza aeroportuale, condannato a morte dopo essere stato giudicato colpevole di aver preso parte a un attentato. L’Unità speciale per le indagini, dal canto suo, ha sottoposto a procedimento 93 appartenenti alle forze di sicurezza ma sono risultati condannati solo 15 funzionari di basso livello. Nessun alto dirigente delle forze di sicurezza che sovrintendeva alle gravi violazioni dei diritti umani del 2011 è mai stato incriminato. Dei casi di maltrattamento o tortura, decesso in carcere o uccisione illegale registrati da Amnesty International a partire dalla rivolta del 2011, solo 45 su circa 200 sono arrivati a processo. Ali Hussein Neama, 16 anni, venne ucciso da un agente di polizia nel settembre 2012. Nonostante le prove fotografiche e il certificato di morte indicassero che il ragazzo era stato colpito alle spalle, l’Unità speciale per le indagini ha concluso che l’agente agì per autodifesa contro il ragazzo e un altro manifestante che stavano scagliando bombe Molotov. L’Unità speciale per le indagini risulta anche lenta nell’esame delle denunce. In un caso, le sono voluti oltre due anni per raccogliere elementi sulle torture riferite da un prigioniero di coscienza, col risultato che prove scientifiche e altri indizi sono andati persi. Sia l’ufficio del Difensore civico che l’Unità speciale per le indagini non sono riusciti a ottenere la fiducia dell’opinione pubblica, in parte per la percepita mancanza d’indipendenza e d’imparzialità. Entrambi gli organismi sono considerati eccessivamente vicini al ministero dell’Interno e ad altre istituzioni di governo e alimentano la disistima non tenendo adeguatamente informate vittime e famiglie sugli sviluppi delle indagini. La giornalista Nazeeha Saeeda ha raccontato che nel 2011 è stata picchiata, presa a calci, umiliata e sottoposta a scariche elettriche mentre veniva interrogata dalle forze di sicurezza. Tre anni dopo, l’Unità speciale per le indagini l’ha condotta nella medesima stanza delle sevizie perché riconoscesse i suoi torturatori. Nonostante il trauma e pur avendo identificato cinque persone, il caso è stato chiuso per "assenza di prove". Un altro caso emblematico è quello di Ali Isa al-Tajer, che ha denunciato di essere stato torturato per 25 giorni. L’ufficio del Difensore civico non è stato in grado di garantire che egli fosse tenuto in un luogo sicuro e protetto dalla tortura, mentre l’Unità speciale per le indagini non ha agito tempestivamente sulla sua denuncia, evitando anche di disporre una visita di un medico legale. Entrambi gli organismi non hanno reagito agli allarmi che il detenuto era sottoposto a tortura né hanno tenuto informata la sua famiglia sugli sviluppi delle indagini. "L’ufficio del Difensore civico e l’Unità speciale per le indagini hanno la possibilità di apportare i tanto necessari cambiamenti e di migliorare la situazione complessiva dei diritti umani. Ma per essere davvero efficaci, devono operare con trasparenza e rapidità e dimostrare la loro indipendenza, nell’ambito di un più ampio progresso verso la fine dell’impunità e delle pratiche repressive e in direzione di una reale indipendenza del potere giudiziario" - ha aggiunto Maalouf. "Il governo del Bahrein prese una decisione importante quando creò le due istituzioni, conferendo loro un mandato tale da poter favorire un reale cambiamento. Ora deve dare l’esempio, dimostrando che gli ostacoli politici e giudiziari all’impunità possono essere superati e che ha il coraggio necessario per rendere l’ufficio del Difensore civico e l’Unità speciale per le indagini due istituzioni solide, in grado di ottenere la fiducia dell’opinione pubblica e agire efficacemente contro le violazioni dei diritti umani" - ha concluso Maalouf. Egitto. Revocato l’ergastolo al presidente deposto Mohammed Morsi La Stampa, 22 novembre 2016 L’esponente dei Fratelli musulmani resta in carcere per una ulteriore accusa di spionaggio. La Corte di cassazione dell’Egitto ha revocato la condanna all’ergastolo contro il presidente deposto Mohammed Morsi dei Fratelli musulmani e ha ordinato un nuovo processo sul caso che ruota attorno alle accuse di spionaggio con il gruppo palestinese Hamas. La settimana scorsa la corte aveva revocato anche la sentenza di condanna a morte nei confronti di Morsi in un caso diverso. L’ex presidente, eletto dopo le rivolte del 2011, resta comunque in carcere per una ulteriore accusa di spionaggio. Nell’estate del 2013 un colpo di stato guidato dall’esercito e dall’attuale presidente Abdel Fattah al Sisi, ex generale, aveva portato all’arresto di Morsi e all’imposizione di una giunta militare. Dal dicembre del 2013 il governo egiziano aveva dichiarato i Fratelli Musulmani un’organizzazione terroristica e ne aveva arrestato e poi condannato centinaia di dirigenti e simpatizzanti, Morsi compreso. Venezuela: Foro Penal; 108 prigionieri politici ancora in carcere voce.com.ve, 22 novembre 2016 I prigionieri politici, quelli rinchiusi nelle carceri venezuelane, sono ben 108. Tra questi anche Antonio Ledezma, ex Sindaco di Caracas; Betty Grossi, detenuta nel Sebin; il giovane Raul Emilio Baduel, figlio del generale la cui azione fu determinante nella liberazione dell’estinto presidente Chàvez detenuto nell’isola La Orchila durante il tentativo di "golpe" nel 2002; e l’avvocato Marcello Crovato. Stando all’avvocato dell’autorevole Ong "Foro Penal Venezolano" fino al mattino del 21 novembre, nelle carceri sparse per il Venezuela, erano ben 108 i prigionieri politici. Alfredo Romero, Direttore della Ong, ha reso noto, attraverso il suo account Twitter, che negli ultimi giorni è stato liberato solamente Rosmit Mantilla. L’accordo preso con il Governo, nell’ultimo incontro avvenuto con l’accompagnamento del Vaticano, sarebbe stato la liberazione della metà dei prigionieri politici. Alcuni dirigenti dell’Opposizione, specialmente i militanti delle frange più estreme e radicali, considerano che i prigionieri politici sono "ostaggi" in mano del governo che li usa per ricattare il Tavolo dell’Unità. Ancora una volta, corre voce della prossima liberazione dell’ex Sindaco di Caracas, l’italo-venezuelano Antonio Ledezma. La famiglia mantiene il massimo riserbo mentre in seno al partito Alianza Bravo Pueblo nè confermano nè smentiscono.