Dei "Robinù" del Sud è utile parlare anche nelle scuole del Nord Il Mattino di Padova, 21 novembre 2016 "Robinù" di Michele Santoro, il docu-film che racconta la storia dei baby boss della Camorra, uscirà il 6 e il 7 dicembre 2016 come evento speciale al cinema, distribuito da Videa. Noi speriamo che questo documentario sia visto anche nelle carceri, e che se ne parli molto, come si è iniziato a fare nella redazione di Ristretti Orizzonti: perché ci sono tanti detenuti adulti, che sono passati per il carcere minorile e vorrebbero portare la loro esperienza a questi ragazzi che si sentono definire dalla stampa "Baby Boss" e se ne gloriano, e non pensano che la loro vita non avrà niente di eroico, ma solo devastazione e deserto di sentimenti e di emozioni. Di questo "Robinù" è utile parlare anche nelle scuole del Nord del nostro Paese, perché tanti ragazzi, e anche tanti adulti capiscano che nascere in queste zone, invece che in altre, non è un merito ma una fortuna. E che essere onesti qui è molto più facile che esserlo nelle regioni dove crescono i Robinù raccontati da Santoro. Che poi finiranno facilmente nelle carceri per adulti, come racconta un giovane detenuto, già "vecchio di galera". Un contributo alla prevenzione chi meglio di noi detenuti può darlo? Una volta entrati in carcere non contiamo più nulla, e con noi anche i nostri familiari che non possono fare altro che seguirci in questa sofferenza. Allora mi domando a cosa serve rieducare persone che vivono spesso a un livello paragonabile a quello delle bestie, cosa si potrà aspettarsi dopo da una persona, che spesso viene ammaestrata come un animale ed educata solo ad ubbidire? Quello che servirebbe è partire da dove il nostro equilibrio ha cominciato a vacillare, e affrontare il problema dal nocciolo, e quel nocciolo non lo vedono ma siamo sempre noi, essere umani pronti a ricominciare, se casomai ne avessimo l’opportunità. Per la maggior parte siamo un frutto vecchio che rischia di ammuffire in carcere, e questo a tanti può sembrare l’unico modo di ripagare la società per il crimine scelto. Ma è la prevenzione invece che serve davvero, piuttosto che assistere ad un fallimento, sia nostro che di tutte le generazioni che verranno, senza neanche aver provato a cambiare le cose. E questo contributo alla prevenzione chi meglio di noi può darlo? Chi meglio di noi può sapere come è fatta questa vita che alla fine ti porta in galera, le emozioni che ti dà, che ti nega, quello di cui ti priva? Leggo articoli di giornali, guardo telegiornali con continui racconti di fatti di cronaca nera, di persone sempre più spietate nell’inseguire a volte quei sogni di gloria criminale, che abbiamo inseguito un po’ tutti noi detenuti. Chi scrive queste righe è un detenuto condannato a trascorrere la maggior parte della propria vita in carcere, per aver creduto in quel sogno, direi metaforicamente di essermi infatuato di una donna di nome "Malavita". Non a caso, ho deciso di scrivere un articolo proprio su questi sogni che ognuno di noi cerca di raggiungere disperatamente. In particolare voglio citare il caso di Mariano Abbagnara, in arte Robinù, ragazzo napoletano ripreso in un carcere minorile per un docufilm realizzato da Michele Santoro. Un’intervista che lascerebbe senza fiato un normale cittadino nel vedere il suo trascorso criminale e la sua pubblica fierezza nel sentirsi malavitoso. Sinceramente non mi meraviglia per nulla la sua intervista o meglio non mi impressiona, ho vissuto come lui la mia infanzia nel carcere minorile di Airola (Benevento) e senz’altro, per un giovane minore, vivere in una struttura carceraria a quell’età non gli darà qualcosa di costruttivo che lo farà cambiare stile di vita. Di sicuro quel ragazzo ha già scelto il suo destino, la sua scelta di vita l’ha già fatta con orgoglio, come anch’io feci alla sua età, non certo per colpa dell’istituto di Airola in sé e per sé, ma per il fatto che è proprio il carcere che può causare un effetto boomerang, come se si mettesse ancora benzina in una macchina impazzita che ha voglia di distruggere. Le parole pronunciate in quell’intervista da quel giovane appena 18enne, ripeto non mi meravigliano al contrario mi fanno rabbia, la stessa che avevo alla sua età, e che a tratti provo ancora adesso, grazie agli 11 anni già trascorsi in carcere dei miei 31 anni di vita. Mariano Abbagnara è in carcere per omicidio, e non posso certo schierarmi dalla sua parte, assistendolo nelle vesti di una specie di avvocato, non sarò neppure fra chi lo condannerà, semplicemente perché non conosco la sua storia e non so cosa abbia sofferto nella sua infanzia in quella terra contaminata dal male, che lo ha spinto verso un reato che lo ha segnato per tutta la sua vita. Potrò dire che è giusto perché in qualche modo andava fermato, ma non si poteva fare qualcosa prima per aiutarlo in quei quartieri difficili, dove la vita vale un pugno di spicci, dove si tenta di crescere a tutti i costi per affermarsi e riconoscersi in qualcosa di grande? Il carcere per lui, in questo momento di grande autostima che si ritrova a vivere, non farà altro che aumentare il suo status di criminale e il senso di onnipotenza che già possiede, dal momento in cui lo descrivono anche sui giornali come un giovane Boss. Purtroppo non si sta parlando di un singolo caso, ce ne saranno molti altri ancora che crederanno che vivendo in uno Stato ingiusto la miglior cosa è sostituirsi a quello Stato assente che in qualche modo è un nemico da combattere, come lui stesso ha espresso pubblicamente nell’intervista: col kalashnikov in mano non temo nessuno, nemmeno lo Stato. Quello che mi chiedo e dovrebbe chiedersi chi è pronto a giudicarlo, è: cosa ha fatto l’istituzione nella sua terra per questo ragazzo, che gli abbia aperto altri orizzonti? Scrivono su un giornale locale che il Baby boss infila a fatica qualche parola di italiano, sembra una sciocchezza eppure non lo è, perché è più facile impugnare una pistola a quell’età in quelle zone (e di certo non ci vuole un diploma per farlo) che parlare l’italiano in un contesto di vita assai difficile. Questo ci dovrebbe costringere a porci più di qualche domanda sulla sua istruzione scolastica, che è l’opposto di quello che avviene in una scuola del Nord Italia. Io che ho vissuto in quella terra, conosciuta meglio come la "Terra dei fuochi", ho provato gli stessi sentimenti e provo ancora rabbia verso l’istituzione che non ha fatto altro che punirmi a volte anche per reati non commessi. Ma soprattutto cosa ha fatto prima quando avevo bisogno di libri nuovi, di una casa con luce, acqua e gas, quando vedevo mia madre che si spaccava la schiena per sfamare tre figli senza una figura paterna? Sento dire spesso che lo Stato siamo noi popolo, a questo punto non mi sento Stato se nel 2016 esiste un Paese ancora spaccato in due. Vorrei far comprendere a chi può avere i mezzi e il potere per dare una svolta alla vita carceraria, dove servirebbe un cambiamento che aiuti a ricostruirsi gli affetti e non più a sopravvivere ma a vivere assumendosi le proprie responsabilità, che la svolta vera e propria è però un lavoro di prevenzione costante a cominciare dalle scuole, dalle carceri minorili e dai luoghi, da dove si possa dare un contributo che aiuti a salvare almeno una parte di questi ragazzi. Non riesco a capire perché l’Istituzione ha paura di mettere i detenuti o ex detenuti in primo piano in questo lavoro di prevenzione, perché non investe di più su progetti di confronto tra la società e gli esclusi che siamo noi. Investire in quelle terre povere, in quegli ambienti dove è più forte la crescita criminale, piuttosto che cercare solo di combattere assiduamente il crimine quando ormai questo è troppo esteso e radicato nel territorio. Da quando ho cominciato faticosamente questo lavoro di dialogo, di scrittura, di confronto, ho pensato che la nostra esperienza possa essere resa pubblica per dare un contributo e non una lezione come qualcuno vuole pensare. Tante volte noi siamo proprio gli esclusi senza considerazione e spesso senza diritto di parlare, ma nel caso però si vogliano cominciare a cambiare le cose non abbiate paura di far provare a questi scarti della società a dare qualche suggerimento, qualche idea, anche qualche consiglio ad una popolazione che potrebbe ascoltarci e farsi un carico di esperienza anche attraverso di noi, che più di tutti possiamo raccontare a questi ragazzi come si arriva a rovinarsi la vita in quattro mura sordomute come quelle delle galere. Raffaele Delle Chiaie L’Ict sbarca nelle carceri. Sei gli istituti di pena coinvolti dal 2017 di Marzia Paolucci Italia Oggi, 21 novembre 2016 Non sappiamo se diventeranno dei nerd i detenuti di Bollate, Opera, Rebibbia, La Spezia, Napoli e Nisida, i primi istituti di pena selezionati dal Ministero della giustizia per fargli sperimentare il mondo dell’Information communication technology. Ma una cosa è certa: l’intesa firmata a via Arenula il 10 novembre scorso punta a farli diventare "specialisti" del settore. Tre partner istituzionali tra Ministero della giustizia, dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e quattro esponenti del mondo Ict, professionale e del privato sociale si sono messi insieme per formare alle competenze base di Ict cento detenuti che diventino specialisti del settore. L’intesa è stata firmata alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando e dei capi dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo e della Giustizia minorile e di comunità Francesco Cascini con le società Cisco, Vodafone, Fondazione Vodafone, Cooperativa Universo e Confprofessioni. Il protocollo punta al recupero e al reinserimento sociale dei detenuti attraverso formazione e lavoro negli istituti penitenziari, condizione che permetterebbe anche la riduzione dei tassi di recidiva. E proprio sull’abbassamento della soglia di recidiva, si sono espressi il ministro Orlando e il capo dipartimento della Giustizia minorile: "Il tasso di recidiva in Italia", ha spiegato il titolare del dicastero, "resta tra i più alti d’Europa, con una tendenza generale sopra il 60%. Ma il lavoro è in grado di dare risultati sorprendenti. Bollate è un po’ un istituto modello. Ora vogliamo testare quell’esperienza anche in altre realtà e potremo vedere i risultati sull’indice di recidiva in un campo più ampio. Oltre a Bollate, partiamo con Opera, Rebibbia, il carcere della Spezia, di Napoli, di Nisida e poi si aggiungeranno altri quattro istituti". La prassi dice, infatti, che "dove ci sono attività finalizzate al reinserimento professionale e culturali, la recidiva è 18 punti in meno della media", distingue chiaramente Francesco Cascini, capo dipartimento della Giustizia minorile. Il progetto durerà tre anni prevedendo due fasi: la prima, da svolgersi nel 2017, prevedrà il coinvolgimento di almeno sei istituti di pena selezionati dal Ministero che saranno seguiti direttamente da Universo Cooperativa sociale Onlus. La Cooperativa avvierà inoltre un corso di formazione online per i docenti che insegneranno in almeno altri quattro istituti di pena. E qui si entra nella seconda fase, dal 2018, quando si applicherà lo stesso metodo formativo rivolto ai docenti perché possano insegnare Ict ai detenuti. La partenza di questa seconda fase è però condizionata a risultati soddisfacenti da ambo le parti e alla garanzia di finanziamento per l’esecuzione del programma. Differenziato il ventaglio di finanziamenti per il 2017: la fondazione Vodafone sosterrà i costi annuali di un formatore della cooperativa Universo che insegni le competenze It a dieci detenuti e li sostenga nella ricerca di un’occupazione. Lo stesso farà Cisco System Italia mentre Vodafone Italia donerà 130 personal computer ricondizionati per le aule didattiche, nell’ambito del suo progetto "Donazione cespiti aziendali a enti non profit" finalizzata tramite la sua fondazione, al recupero e riutilizzo di pc/laptop e prodotti informatici da donare a scuole, enti no profit per progetti socialmente utili ma anche comunità e individui in situazioni svantaggio. Ed è questo proprio il caso del carcere. I corsi "IT Essential" del programma Networking Academy avranno 200 ore annuali e saranno erogati da istruttori certificati Cisco per ogni istituto penitenziario che disporrà di aula informatica e collegamento internet attivo, sicuro e monitorato. A riguardo, il Ministero della giustizia, cita il protocollo, si impegna a promuovere la crescita del progetto per intero, dalla predisposizione di aule didattiche al collegamento internet. Legge sull’omicidio stradale. Lo smartphone al volante è pericolo costante (di galera) di Elisabetta Ambrosi Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2016 La legge sull’omicidio stradale prevede: ritiro della patente e 5 anni di carcere per lesioni, 15 per omicidio, 30 se fuggite. Quindi è ancor più giusto rinunciare al cellulare. Tutta colpa di quell’auricolare arrotolato che diventa un gomitolo impossibile da sciogliere, specie quando si ha fretta. In questi casi capita spesso che ci si limiti a tirare a malapena fuori uno dei due capi, e si tenti la telefonata con un orecchio, guidando con la testa mezza piegata, che altrimenti l’auricolare si stacca. Ma il problema c’è anche quando i due fili sono magicamente distesi - vale per gli individui particolarmente ordinati, a tratti ossessivi: dimmi che auricolare hai, ti dirò che persona sei - oppure quando si è dotati di avveniristico bluetooth: perché comunque il nome sulla rubrica bisogna digitarlo con la mano. In teoria, da fermi. In pratica, in movimento. Per non parlare di whatsapp, controllato compulsivamente anche in autostrada, magari per mandare una faccina alla zia decrepita e far sentire meno sola non tanto lei ma se stessi. Perché questo è il problema: lo smartphone al volante riscalda, crea un’atmosfera di presenza, come se i nomi della rubrica divenissero amorevoli presenze che affollano l’abitacolo. Per questo lo si tiene spesso in mezzo alle gambe, per palparne la consistenza, per essere sicuri che sia sempre lì - a volte si hanno vere crisi di panico: l’ho perso! Si pensa, proprio mentre si parla col collega - antidoto verso la nostra paura della morte: pare così inverosimile che si possa morire inviando un teschietto al nipote, o adocchiando la tenera foto del profilo dell’amica neomamma. Ma la nostra percezione visivo-emotiva si sbaglia. Perché secondo i dati, proprio l’invio di faccine, o la classica telefonata alla moglie - "amò, che hai mangiato oggi?" - hanno fatto per la prima volta aumentare, dopo quindici anni, le vittime della strada: 38 in più nel 2015. Certo, la cifra può sembrare piccola rispetto al numero dei morti (3.140 per il 2014, prendere nota). Ma è l’inversione che inquieta, perché legata all’incapacità di abbandonare il nostro piccolo tamagotchi, l’unico capace di ricreare quel senso di comunità che abbiamo prima fatto a pezzi, credendo di poter vivere come individui isolati, poi ricreato attraverso folle di chat e gruppi whatsapp. La sorte ha voluto, però, che proprio mentre assaporavamo il nostro nuovo affratellamento digitale, sia passata una legge sull’omicidio stradale tra le più severe d’Europa. Evitare il carcere - da 3 a 10 anni -se avete bevuto un po’o superato i limiti di velocità uccidendo o lesionando una persona, e magari scappando per il panico, sarà impossibile. Ritiro automatico della patente: 5 anni in caso di lesioni, 15 per omicidio, 30 se fuggite (consigliata lettura completa del testo). Dobbiamo dunque rinunciare al calore del nostro smarthphone vivente? Forse no. La terza via si chiama "co - mandi vocali". Faticosi da imparare. Comici da usare, quando vorrete inserire vocalmente disegnini o imprecazioni. Complicatissimi da insegnare all’anziano genitore. Se non riuscite, però, non resta che la terapia d’urto. Chiudere l’animaletto nel portabagagli. E riprenderne possesso solo una volta tirato il freno a mano. Caporalato, prova più semplice e applicazione in tutti i settori di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2016 In materia di caporalato, sebbene la legge 199/2016 abbia lasciato immutato il titolo dell’articolo 603-bis del Cp ("Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro") ora l’endiadi appare più giustificata e la nuova norma traccia una netta linea di demarcazione tra le due condotte, ossia tra i due segmenti del fenomeno collocati, rispettivamente, sul versante della domanda e dell’offerta di lavoro nero. Le modifiche all’articolo 603-bis del codice penale - Da questo punto di vista un ulteriore ausilio giunge all’interprete dal titolo della legge che ha novellato il testo dell’articolo 603-bis del Cp recante "Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo". Un fenomeno non esclusivo del settore agricolo - La percezione comune, infatti, è fortemente orientata dalle immagini di un caporalato, per così dire, "di campagna" in cui lavoratori - spesso extracomunitari - sono avviati in condizioni penose al lavoro nei campi o nelle strutture della piccola industria del comparto dell’allevamento. Ma è evidente che il problema si pone con altrettanta gravità nel settore delle manifatture tessili, in cui operano vere e proprie organizzazioni di sfruttamento su base, anche, etnica (il comprensorio di Prato e non solo). In questi casi la distanza della nuova fattispecie con quella della riduzione in schiavitù (articolo 600 del Cp) è davvero molto ravvicinata e v’è da chiedersi se la configurazione appena approntata dell’articolo 603-bis del Cp offra una modulazione sanzionatoria adeguata ai casi di maggiore gravità in cui è corretto operino i più gravi reati di cui all’articolo 600o 601 del Cp(cfr. Cassazione n. 10426/2015). Il reclutamento - La nuova norma distingue nettamente, come dicevamo, i due segmenti del mercato illegale del lavoro: quello della domanda e quello dell’offerta di prestazioni lavorative illegali. Sul versante dell’offerta l’articolo 603-bis del Cp rimaneggiato nel 2016 punisce "con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque … recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori". La nozione di reclutamento è chiara e trova esaustivi riferimenti nella giurisprudenza (cfr. Cassazione n.14591/2014) e in un’ampia riflessione dottrinale (tra tutti, S. Fiore, "(Dignità degli) Uomini e (punizione dei) Caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro", in Aa. Vv., "Scritti in onore di Alfonso Stile", Napoli 2014). Quel che appare, invece, profondamente mutata è la cornice descrittiva della condotta punita. La sinossi tra i testi che accompagna questa riflessione rende assolutamente evidente la drastica semplificazione che il legislatore del 2016 ha inteso introdurre. Innanzitutto è venuta meno la necessità che il reclutamento avvenga " mediante violenza, minaccia, o intimidazione". Questo costituiva un elemento costitutivo della precedente formulazione dell’articolo 603-bis del Cp ("chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione") particolarmente complesso da accertare. A esso si è sostituita, con maggiore ragionevolezza, un’apposita aggravante secondo cui "se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato". Il complessivo alleggerimento descrittivo del reato comporta, in modo automatico, un’intuitiva agevolazione dell’onere probatorio posto a carico dell’accusa. La precedente condotta di reclutamento della manodopera era, come dire, diluita in una miscela di ingredienti che rendeva spesso arduo la prova del reato. Un conto è punire oggi colui che recluta la manodopera "allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori", altro era pretendere, con il vecchio conio, che fosse sanzionato solo colui che "svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori". Il solo evocare la nozione di "attività organizzata" rimandava alle analoghe complicazioni sorte nell’interpretazione dell’articolo 260 Codice ambiente in materia di traffico illecito di rifiuti. Mentre prima il reclutamento era solo una delle modalità della condotta di intermediazione (per giunta organizzata), oggi il procacciamento dei lavoratori rappresenta il nocciolo duro della fattispecie. È da ritenere che il nuovo articolo del Cp annoveri nell’ambito del reclutamento tutte le attività che precedentemente erano qualificate come di intermediazione, dovendosi accedere a una dimensione lata, ovvero estesa, di reclutamento. Se, sotto l’assetto abrogato, l’intermediazione era stata efficacemente descritta come "l’insieme delle attività di facilitazione dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, siano esse esercitate previo rilascio di apposita autorizzazione da parte dell’autorità, ovvero solamente di fatto" (cfr. A. Giuliani, "I reati in materia di "caporalato", intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro", Padova, 2015, 143), dopo la legge 199/2016 è da concludere che le stesse condotte integrino comunque la nozione di reclutamento e, ove collocate su segmenti marginali rispetto al mero procacciamento materiale dei lavoratori, diano luogo ad ipotesi di concorso nel reato ex articolo 110 del Cp. In questo senso depone lo stesso articolo 603-bis, comma 1 n. 2), del Cp che sanziona chi "utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno". L’abbandono in prima battuta del termine "intermediazione" ha, comunque, il pregio indubbio di mettere da parte l’equivocità di un approccio "evocativo di uno schema civilistico (articolo 1754 del Cc) o giuslavoristico (articolo 4, comma 1, lettera c) del Dlgs 276/2003) (che) si rivela(va) fuorviante, perché la dimensione dello sfruttamento sistemico esclude che siamo di fronte ad uno schema civilistico apprezzabile" (così A. Di Martino, ""Caporalato" e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata", in "Diritto penale contemporaneo", 2015, 2, 116). Questo assorbimento della condotta descritta dall’articolo 603-bis del Cp del 2011 nella nuova cornice dell’articolo 603-bis del Cp del 2016 avviene proprio al fine di tracciare in modo netto i confini ambigui di un’attività di intermediazione illegale nel mondo del lavoro distinguendoli da quelli di una ricerca della manodopera "allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori". Lo spostamento delle condizioni di sfruttamento sul versante dell’elemento soggettivo del reato offre l’intuibile vantaggio di arretrare, e di molto, la soglia probatoria indispensabile a dimostrare la commissione del reato avvicinandola a quella propria di altre fattispecie (ad esempio, l’articolo 270-quater del Cp in tema di terrorismo). Caporalato, le contraddizioni di un abnorme meccanismo repressivo di Tullio Padovani Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2016 Il nuovo quadro normativo comprende anche una circostanza attenuante a effetto speciale, basata sulla collaborazione processuale. Si tratta della solita musica, che va in repertorio da quarant’anni a questa parte nelle più svariate occasioni. Non val la pena di soffermarsi sui contenuti, che ripetono moduli stagionati. Piuttosto, conviene osservare che la previsione di queste forme "premiali" segnala sempre fenomeni tanto diffusi e tanto radicati da non poter essere efficacemente contrastati con i normali poteri di controllo e coercizione: bisogna confidare sulla delazione collaborativa e sulla resipiscenza interessata di qualche delinquente. Il ventaglio repressivo - Un triste messaggio, soprattutto quando i fenomeni in gioco sono - come in questo caso - di carattere sociale e connessi ad attività che, in teoria, sarebbero, per loro stessa natura, suscettibili di controllo e di prevenzione. Le schiere di reietti che faticano nei campi del Belpaese sono sotto gli occhi di chi passa. Ma chi passa? Se la repressione è periclitante, il ventaglio repressivo si è tuttavia allargato. È prevista la confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del prodotto o del profitto del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento; l’articolo 603-bisviene, inoltre inserito tra i reati per cui l’articolo 12-sexies, comma 1, Dl 306/1992 prescrive la confisca allargata o per sproporzione. Last but not least, viene introdotta all’articolo 3 della legge una forma di "controllo giudiziario" quale forma alternativa al sequestro preventivo dell’azienda in cui è stato commesso il reato, "qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale presso cui è stato commesso il reato possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale" (articolo 3, 1° comma citato). Il controllo giudiziario, esercitato per il tramite di un amministratore giudiziario, consiste in una sorta di curatela finalizzata a impedire il verificarsi di "situazioni di grave sfruttamento lavorativo" (articolo 3, comma 2, citato). A prescindere dall’amenità del "grave" sfruttamento che sembrerebbe - paradossalmente - escludere la rilevanza di uno sfruttamento "lieve", la disposizione si presenta molto problematica. Poiché l’azienda cui essa si riferisce può concernere sia un imprenditore individuale sia un imprenditore societario, e poiché la legge introduce, per il delitto di cui all’articolo 603-bis del Cp,la responsabilità amministrativa dell’ente (articolo 6, legge citata), si tratta di stabilire se il congegno normativo predisposto dall’articolo 3 si riferisca indiscriminatamente a entrambe le categorie. La risposta sembra dover essere negativa, perché per gli enti il sequestro preventivo è disciplinato dall’articolo 53 del Dlgs 231/2001, ed è limitato al sequestro finalizzato alla confisca del prezzo o del profitto del reato. Si potrebbe forse sostenere che l’articolo 3 della legge citata costituisca una sorta di "integrazione aggiuntiva" implicita; ma così non può essere se si considera che il sequestro di un’azienda deborderebbe inevitabilmente in una deroga al regime delle misure cautelari di cui all’articolo 45 e seguenti, Dlgs 231/2001. Infatti, il sequestro dell’azienda si tradurrebbe in una interdizione cautelare all’attività di impresa, per la quale sono previsti presupposti e disciplina del tutto peculiari, che non è certo il caso di illustrare. È giocoforza ritenere dunque che l’articolo 3 della legge citata si riferisca soltanto all’azienda di un’impresa individuale. Il risultato ermeneutico non chiarisce peraltro tutti i dubbi; ne solleva anzi di nuovi. Poiché, a parità di condizioni, il regime dell’interruzione dell’attività disposta in via cautelare risulta, per l’imprenditore individuale e per quello societario, sensibilmente diverso (basta pensare alla difformità di presupposti, davvero notevole), sorge il problema della disparità di trattamento, che sembra piuttosto irragionevole; anzi, paradossale, visto che l’imprenditore individuale risulterebbe sottoposto a un regime comparativamente più stringente e severo. Sarà anche qui il caso di metter mano a un’altra riformetta. Procuratore diffama con falsi dossier il prof antimafia (che si è tolto la vita) di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 21 novembre 2016 Condannato a risarcire 800 euro La sentenza della Cassazione contro il magistrato Franco Antonio Cassata di Messina per aver infangato la memoria di Adolfo Parmaliana, docente suicida stremato dalla lotta contro il malaffare. La vedova: ma per tutti è sempre Sua Eccellenza. Era proprio lui, il corvo: l’allora procuratore generale messinese. Lo dice la sentenza della Cassazione che, depositata nei giorni scorsi, inchioda Franco Antonio Cassata, a lungo il più influente magistrato della città sullo Stretto, per una colpa infamante. La diffamazione pluriaggravata, con un dossier anonimo, di un morto: Adolfo Parmaliana, il docente suicida perché stremato dalla fatica di battersi contro il malaffare e una certa poltiglia giudiziaria. Sempre Sua Eccellenza - Una condanna piccola piccola: 800 euro. E spropositatamente bassa, per fare un esempio, rispetto ai nove mesi di carcere inflitti nel 2013 a un immigrato senegalese, mai arrestato prima, che dopo aver perso il lavoro aveva tentato di rubare in un supermarket un paio di confezioni di latte in polvere: di qua un dossier anonimo gonfio di veleni, di là il tentato furto di latte in polvere. Ma una condanna fondamentale per una città dove quel giudice era potentissimo. E che consente ora alla vedova del morto, Cettina, di chiedere un risarcimento in sede civile scartando ogni ipotesi di accordo bonario: "La cosa che più mi fa male è vedere come, nonostante le condanne in primo, secondo e terzo grado, lui si muova per Barcellona Pozzo di Gotto, la sua città, come fosse sempre Sua Eccellenza il Signor Procuratore Generale. Come se nessuno sapesse nulla. E gli fanno pure l’inchino. Un signorotto feudale". La battaglia contro il malaffare - Ricordate? Al centro di tutto c’è la storia di Adolfo Parmaliana, un professore universitario di chimica industriale descritto come "amante dei libri, dei vestiti eleganti, della Juve e idolatrato dai suoi allievi" che il 2 ottobre 2008, dopo anni di battaglie contro le piaghe della cattiva politica siciliana (perfino dentro la sinistra in cui si riconosceva) si uccise buttandosi da un viadotto autostradale. Combattivo segretario diessino di Terme Vigliatore, un paese a due passi da Barcellona, a sud di Milazzo, era stato appena messo sotto inchiesta per diffamazione (lui!) e l’aveva presa malissimo. La sua colpa, diceva, era aver fatto manifesti che ringraziavano Carlo Azeglio Ciampi per aver sciolto il consiglio comunale per le ingerenze della criminalità: "Giustizia è stata fatta. La legalità ha vinto. Tanti dovrebbero scappare… Se avessero dignità!". Aveva chiesto di essere interrogato dal magistrato. Richiesta lasciata cadere… La resa del professore - Sulla scrivania, quel giorno che si era messo al volante per raggiungere il viadotto, aveva lasciato l’orologio, il portafogli e una lettera: "La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, umiliarmi, delegittimarmi; mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore dello Stato e docente universitario". Chiudeva accusando "una magistratura che ha deciso di gambizzarmi moralmente". Ultime parole: "Questo sistema l’ho combattuto in tutte le sedi istituzionali. Sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio. Alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni. Un abbraccio forte, forte da un uomo che fino ad alcuni mesi addietro sorrideva alla vita". Un dossier anonimo pieno di fango - Colpito da quella morte, dove si impastavano mala-politica e mala-università, mala-amministrazione e mala-giustizia, il giornalista e scrittore Alfio Caruso, da sempre attento a questi temi (sono suoi "Da cosa nasce cosa" e l’ustionante "Perché non possiamo non dirci mafiosi") decise di farci un libro: "Io che da morto vi parlo". E stava quasi per finirlo dopo aver ricostruito una serie di vicende inquietanti quando ricevette un plico. Lo stesso spedito in contemporanea a Giuseppe Lumia, già Presidente dell’Antimafia. Conteneva un dossier anonimo pieno di fango. La faccenda sfociò in un’inchiesta. Sul margine di uno dei fogli del dossier anonimo (il diavolo fa la pentola ma non il coperchio...) era rimasto il timbro del telefono della cartoleria da dove era stato spedito. E dalla cartoleria fu possibile risalire al destinatario di uno dei fax del dossier: il numero 090-770424 era intestato alla Procura generale di Messina. Era solo la prima delle sorprese. La condanna, ma il risarcimento? - Convinto di essere intoccabile, il giudice Cassata accolse cerimoniosamente gli inquirenti reggini giunti a Messina per indagare su quel fax senza prendere la precauzione di svuotare l’ufficio da quanto c’era di compromettente. E cosa notò casualmente il capitano del Ros Leandro Piccoli in una vetrinetta? Un fascicolo con scritto "copie esposto Parmaliana da spedire". Istantanea telefonata al procuratore Giuseppe Pignatone che conduceva le indagini: "Che facciamo?" "Sequestrate". La carpetta, ricostruisce l’avvocato Fabio Repici che con la collega Mariella Cicero ha difeso il professore suicida, "conteneva quattro copie del dossier anonimo - senza il timbro dell’ufficio con il numero di protocollo - e su due di queste erano attaccati due post-it con su scritto "Procura ME" e "Procura Reggio C."". Possibile che un procuratore generale si fosse abbassato a quel livello? Le prove erano schiaccianti. Da lì il rinvio a giudizio per "diffamazione pluriaggravata in concorso con l’aggravante di aver addebitato alla presunta vittima fatti determinati e di aver agito per motivi abietti di vendetta". E dopo la condanna in primo grado, fu implacabile la sentenza d’appello confermata poi in Cassazione: "…tale ritrovamento è evidente spia di un lavoro di dossieraggio che vedeva l’imputato raccogliere carte per usarle contro la memoria del professore…". La memoria d’un morto. Suicida per difendere il proprio onore di uomo perbene. La parola adesso spetta ai giudici civili che dovranno stabilire quale sia il risarcimento dovuto alla famiglia. Ma esiste al mondo una cifra che possa minimamente risarcire una cosa così? Periferie. La necessità di una politica umile di Alfredo Alietti* Il Manifesto, 21 novembre 2016 Le periferie milanesi non sono abbandonate a un destino già scritto, segnato dal rancore e dalla passività. Nel 1977, un gruppo di militanti (comunisti) del Circolo Culturale Gramsci attivo nel quartiere Stadera, a Milano, sottolineava nella relazione sull’analisi delle condizioni di vita dei residenti. "Dai dati sulla popolazione emerge l’immagine di un quartiere in declino, economicamente, socialmente e culturalmente depresso, un quartiere di pensionati con forti connotazioni operaie ma anche con nuclei consistenti di marginalità e povertà, un quartiere segnato dalle scelte classiste e antipopolari… Un ghetto periferico dove sono stati confinati immigrati dal sud e scarsamente integrati". Concludevano con un monito che risuona tuttora: "Modificare questa immagine di squallore e di povertà incidendo sulla realtà socioeconomica del quartiere sembra un compito quasi impossibile ma che dobbiamo incominciare ad affrontare". Cosa si è fatto nei decenni successivi? Poco, quasi nulla. Anzi. Nel tempo, si sono cristallizzate le vecchie forme di esclusione e sono emerse inedite forme di marginalità sociale. I perché sono diversi. Innanzitutto, la mancanza di una politica abitativa che ha privilegiato la proprietà e il consumo di territorio per nuove inutili costruzioni piuttosto che il rilancio dell’edilizia pubblica e del mercato dell’affitto a costi accessibili. Tuttavia le periferie milanesi non sono abbandonate a un destino già scritto, segnato dal rancore e dalla passività. Questa rappresentazione suona stonata. Tale sguardo è l’esito di analisi affrettate che rafforzano il paradigma dell’emergenza e perseguono nella logica della stigmatizzazione. Ciò non significa banalizzare le tangibili problematiche di illegalità e degrado che si sono concentrate dentro le periferie. Tuttavia la periferia non è solo una terra di nessuno dove regna il disordine sociale e morale. In quegli spazi periferici si palesa, inascoltata, una ricchezza di progettualità, associazioni e comitati di quartiere che concorrono a contrastare l’abbandono delle istituzioni e le dinamiche di vulnerabilità che colpiscono gli abitanti. Sulla base di tale trama resistente è opportuno che gli attori politici della sinistra incominciassero a ritornare in quei luoghi che li hanno visti protagonisti, con strumenti e contenuti differenti rispetto al passato, in grado di cogliere l’articolazione del disagio sedimentato negli anni. Un’azione politica umile - opposta a quella, inutile, dell’invio dei militari riproposta dal ministro dell’interno Alfano - il cui obiettivo sia promuovere spazi di ascolto e dialogo per riaffermare i diritti di cittadinanza. *docente di sociologia urbana Università di Ferrara Salerno: il cappellano del carcere "Gentile poteva essere salvato" di Tommaso D’Angelo Cronache di Salerno, 21 novembre 2016 "Ivan Gentile poteva salvarsi". Ad affermarlo è don Rosario Petrone, parroco presso la casa circondariale di Fuorni. E, sul decesso del giovane avvenuto proprio in una cella del carcere il sacerdote ha spiegato che se la struttura avesse avuto a disposizione una sala intensiva forse poteva essere evitata la tragedia. Don Rosario ha parlato della morte del detenuto, spirato per infarto e trovato senza vita a letto, nel corso di un incontro dibattito svoltosi venerdì sorso presso la parrocchia Gesù Risorto, di Parco Arbostella. Tema dell’incontro con don Rosario Petrone, parroco da 6 anni della casa circondariale di Fuorni, è stato la Misericordia. "La Misericordia non ha sbarre" è l’esempio tangibile della forza della Fede utile ed essenziale per superare le tante difficoltà della vita quotidiana, ancor di più, in quei luoghi dove l’uomo viene spogliato di tutta la sua dignità come avviene nelle carceri. L’incontro rientra tra le attività promosse da don Nello Senatore e dalla Comunità della Chiesa del Parco Arbostella. All’incontro sono intervenuti oltre a don Rosario e don Nello anche Antonella Rotondo (responsabile gruppo liturgico) e Daniela Novi (preside dell’istituto nautico di Salerno). Il tema centrale del dibattito è stato il senso del peccato che, per quanto grande, incontra sempre il perdono di Dio quando attraversa il confronto con la giustizia umana e il pentimento del cuore ("La misericordia senza giustizia è cieca, la giustizia senza misericordia è ipocrita" Papa Francesco). La riparazione di una colpa non dura per sempre, ma deve aprire nuove prospettive di vita, come l’aiutare a guarire chi si è trovato nelle stesse difficoltà e la Giustizia terrena ovviamente non esclude la misericordia ma sono due concetti che camminano in parallelo. Papa Francesco ha indicato nell’accoglienza il grande segno distintivo del Giubileo della Misericordia, un segno che deve testimoniare la concretezza del Vangelo. Don Rosario nel corso dell’incontro ha evidenziato come la vita nelle carceri è dura e complicata e ha cercato di coinvolgere i partecipanti a collaborare attivamente per aiutare le persone attualmente detenute nel carcere di Fuorni e, al tempo stesso, offrire un contributo anche per il reinserimento degli ex detenuti "il compito del cappellano del carcere è fondamentale, ma anche la comunità parrocchiale deve abbracciare questo fardello per poter aiutare il fratello che ha peccato, per accompagnarlo in modo concreto verso la liberazione. Il problema delle carceri è un problema di tutta la Chiesa non solo mio. In carcere sto provando a realizzare piccoli progetti concreti per aiutare queste persone ad incontrare l’altro, perché la fede non si fa tra di noi, ma la si fa in modo concreto incontrando l’altro, annunciando il Vangelo. Io non sono prete facendo le processioni ma sono prete se riesco ad entrare nel cuore del fratello offrendogli la possibilità di cambiare superando il pregiudizio, e devo dire che in tutto questo il ruolo dei volontari, che vengono a parlare con i detenuti, è sicuramente fondamentale perché riescono ad insegnare la relazione tra le persone". Sulla morte di Ivan Gentile, 44 anni, trovato cadavere nella sua cella a Fuorni don Rosario chiarisce "il ragazzo purtroppo era malato di una cardiopatia e credo che se ci fosse stata una sala intensiva per curare l’infarto magari si sarebbe potuto evitare. Bisognerebbe potenziare maggiormente l’area sanitaria". Infine lancia un appello alle Istituzioni locali "magari se le Istituzioni e la magistratura di sorveglianza potessero dare una maggiore possibilità ai detenuti e mi riferisco proprio da un punto di vista di inclusione sociale anche lavorativo magari facendo nascere una cooperativa, che possa essere sostenuta anche dal Comune, per poter sviluppare in modo concreto un progetto di servizio civile e sociale che sarebbe molto utile perché si proverebbe, in questo modo, a far uscire l’ambiente carcerario dall’isolamento dalla società". Don Rosario partecipa attivamente all’associazione "Migranti senza Frontiere" composta da una trentina di volontari, dove si cerca di offrire accoglienza cristiana e reinserimento sociale a detenuti soggetti a misure alternative alla pena detentiva, con particolare attenzione agli immigrati, alle persone senza fissa dimora o in grave situazione di disagio. Milano: una casa per le mamme detenute, firmato il protocollo d’intesa di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 21 novembre 2016 La convenzione tra Ciao Onlus, Dap e Comune: "Creare uno spazio diverso dal carcere dove vivere la maternità". Quando il bambino romeno di 5 anni è stato costretto andare in carcere mentre chiedeva di restare a "casa", in quella struggente implorazione gli operatori che lo salutavano con le lacrime agli occhi hanno trovato ancora una volta la prova, di cui avrebbero fatto volentieri a meno, che il loro lavoro non era stato inutile. La conferma ora gli arriva anche dalle istituzioni con la firma domenica, in occasione della "Giornata internazionale dell’infanzia", del protocollo d’intesa tra l’associazione Ciao, da un lato, e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia e il Comune Milano, dall’altro. La casa famiglia protetta gestita dalla onlus Ciao, l’unica del genere in Italia, ospita madri in gravidanza, genitori ai quali sono stati concessi durante le indagini preliminari gli arresti domiciliari che hanno figli fino a 6 anni di età oppure con figli fino ai 10 anni se dopo essere stati condannati in via definitiva hanno ottenuto (a differenza della madre del piccolo romeno) la detenzione domiciliare. Ovviamente si tratta di persone che non hanno una casa, una condizione che si ripercuoterebbe ingiustamente sui figli se non ci fosse qualcuno in grado di ospitare i genitori. Da sei anni Ciao si occupa di queste persone, quasi sempre stranieri poveri, anche se in questo periodo la casa di via Magliocco sta assistendo anche una italiana con il suo bambino. L’obiettivo, spiega la presidentessa e direttrice dell’associazione Elisabetta Fontana, "è di creare un ponte tra carcere, famiglia e territorio per creare uno spazio che sia "altro" rispetto al carcere, in cui la madre possa vivere la propria maternità e il bambino stare in un luogo che garantisca il suo benessere". A stabilire come debbano essere organizzate queste strutture è la legge 62 del 2011 che fissa a sei il numero massimo di famiglie che possono essere ospitate in ciascuna di esse. Senza oneri per l’amministrazione pubblica, la Onlus vive grazie al sostegno di alcune fondazioni, Ciao gestisce attraverso uno psicoterapeuta, uno psicologo e un educatore un ampio appartamento in cui gli ospiti, controllati periodicamente dalle forze di polizia, possono svolgere una vita familiare normale contando su vitto, vestiti e farmaci gratuiti e non lontano dai servizi territoriali come stabilisce la convenzione firmata, oltre che da Fontana, dal direttore del Dap lombardo Luigi Pagano e da un rappresentante del Comune. Presenti anche l’assessore alle politiche sociali di Palazzo Marino Pierfrancesco Majorino, il presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna di Rosa e il giudice Chiara Valori in rappresentanza del presidente del tribunale di Milano Roberto Bichi. Sassari: Urso (Uil-Pa); al carcere di Bancali una carenza di 110 agenti La Nuova Sardegna, 21 novembre 2016 Il segretario generale della Uil Penitenziaria in visita nell’istituto di pena: "Il 29 a Roma in piazza anche per il caso Sassari". "Una consistente carenza organica nei vari ruoli pari a 110 unità". A tanto ammonterebbe - secondo il segretario generale della Uil Penitenziaria Angelo Urso - il deficit di agenti all’interno del carcere di Bancali. Due giorni fa il rappresentante sindacale ha fatto visita all’istituto di pena inaugurato nell’estate di tre anni fa e ha disegnato un quadro abbastanza preoccupante. "Hanno voluto trasformare la Sardegna in una "grande Asinara" - si legge in una nota del sindacato della polizia penitenziaria - senza prevedere l’incremento del personale di negli Istituti. Il 29 novembre 2016 manifesteremo davanti al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a Roma anche per le problematiche sarde". Secondo quanto ha potuto constatare il segretario generale della Uil Penitenziaria Angelo Urso la carenza all’interno del carcere di Bancali interessa anche i ruoli intermedi che devono coordinare i servizi degli agenti. "Le poche unità in servizio vengono distolte dai loro compiti principali - spiega il sindacalista - per effettuare le videoconferenze dei detenuti al 41 bis presenti in Istituto". E una così grande carenza di personale non può che influire sulle ferie e sui permessi degli agenti costretti, secondo i sindacati, a turni massacranti. "Il personale - aggiunge Angelo Urso - deve ancora fruire di 12822 giorni di congedo ordinario, di cui 2881 giorni relativi gli anni precedenti". E in una situazione così al collasso non possono non mancare quelli che i sindacati definiscono "eventi critici". "Dall’inizio del 2016 se ne sono verificati 56 - spiega Urso - di cui 7 aggressioni a danno del personale e 8 tentati suicidi di detenuti che sono stati sventati grazie all’intervento tempestivo della polizia Penitenziaria. Sono inoltre state effettuate 950 traduzioni e 33 piantonamenti in luogo esterno di cura che hanno interessato 1642 detenuti e l’impiego di 5061 agenti". Dopo la visita all’interno del carcere di Bancali si è riunito l’esecutivo regionale della Uil durante il quale è stata analizzata la situazione del distretto. "Purtroppo lo scenario dipinto è desolante - si legge nella nota del sindacato - non si riesce ancora ad assegnare un direttore in ogni istituto così come i funzionari non sono sufficienti per ricoprire le varie sedi dove necessita la loro assegnazione. Caso emblematico proprio l’istituto di Sassari dove non sono ancora stati ricoperti il coordinamento del Nucleo traduzioni e piantonamenti e il vice comando con i funzionari. Gli istituti sardi ospitano detenuti al "41 Bis" e "alta sicurezza" - si legge ancora nella nota - più è alto il livello di sicurezza richiesto, più dovrebbero essere sufficienti gli organici, Amministrazione e Governo hanno il dovere di prestare attenzione alle esigenze dell’isola e devono essere garantiti interventi finanziari con adeguata integrazione degli organici". Padova: da Lugo in 50 in visita al Due Palazzi "dentro il carcere con gli occhi lucidi" di Marialuisa Duso Giornale di Vicenza, 21 novembre 2016 Più o meno nella stessa ora in cui papa Francesco chiudeva la porta Santa a Roma, a conclusione dell’anno della Misericordia, un’altra porta si chiudeva a Padova, l’ultima della diocesi, alla presenza di una cinquantina di parrocchiani di Lugo, che con il sindaco Robertino Cappozzo e don Giovanni Dal Ponte hanno fatto visita al carcere Due palazzi, dove è cappellano don Marco Pozza. "È stata un’esperienza straordinaria" racconta don Giovanni. "Dove c’è Cristo, c’è un pezzo di Paradiso. Anche in carcere. Fuori c’era la nebbia, dentro il colore e la vita". "Ho aderito alla proposta consapevole che si trattava di un’occasione unica" afferma una dei visitatori. "Inizialmente avevo qualche riserva, una forma di rispetto per i detenuti. Non avrei voluto si sentissero in vetrina. Vedere tutte quelle porte che si aprivano e chiudevano, ascoltare le loro testimonianze è stata un’esperienza fortissima. Partono da un punto di svantaggio, ma possono diventare migliori e contribuire a far diventare migliori anche noi". Ma cos’ha di particolare questo carcere che ha colpito papa Francesco? "Penso che a colpire papa Francesco non sia stato tanto il carcere di Padova quanto il fatto che qui, come in altre carceri, ci siano uomini e donne che condividono la sua convinzione: che le vite possono cambiare" spiega don Marco Pozza. "Che gli uomini possono risorgere dalle macerie dei loro sbagli. Forse a Padova succede più che in altre carceri: ringraziamo il buon Dio che ogni giorno manda uomini e donne che non si stancano di tentare l’avventura del bene dietro le sbarre. Che si ostinano a raccontare che il lupo perde il pelo e, con l’amore, a volte è disposto ad abbandonare pure il vizio del male". Cos’ha rappresentato per i detenuti il giubileo della misericordia? "Hanno avuto l’occasione di sentirsi protagonisti di un’avventura baciata dalla Grazia. Di essere nel cuore dell’interesse del Papa e di tutta la Chiesa. Sapersi amati in un momento della loro vita nel quale, magari, meriterebbero meno di esserlo, è la scintilla che può far ripartire una storia". Che valore ha una comunità che si avvicina al carcere? "Il più elementare che è anche il più bello: la certezza che la società non si è dimenticata del tutto di loro. Avere la possibilità di confrontarsi, narrando le loro storie, rimettendosi in gioco, è avere la possibilità di guardare in faccia il male compiuto e prenderne le distanze. Non è facile per nessuno raccontare ad altri le pagine più tristi della propria vita: quando un detenuto ci riesce, in noi nasce la speranza che la sua storia, forse, sta cambiando". Fuori tutti corrono e si dannano, una cosa che non manca ai detenuti è il tempo. Come lo vivono? "C’è un doppio modo di considerare il tempo: da amico o nemico. Per l’ergastolano, può essere il nemico più acerrimo: non passa mai, logora, sfianca l’attesa, rende smunto ogni più piccolo gesto. Ma può anche essere un amico: avere del tempo a disposizione significa avere, magari per la prima volta, l’occasione per riflettere, studiare, apprendere un lavoro. Anche pregare o, se non altro, lavorare su se stessi. È la persona detenuta, però, a decidere se farselo amico o nemico". Cos’ha provato ieri? "La solita emozione nel vedere gente che entra convinta di conoscere il carcere ed esce con gli occhi lucidi. La sensazione è di aver dato l’occasione di verificare se ciò che pensano è ciò che è nella realtà, per cui alla fine di un anno non posso che essere felice di aver dato a più persone la gioia di un incontro, quello con i poveri più difficili da amare. Anche i più sorprendenti, però". Roma: "Cuore", per le detenute di Rebibbia in dono un’opera d’arte di Teresa Valiani Redattore Sociale, 21 novembre 2016 Due metri per tre e materiali di risulta per l’opera che l’artista Alan Bianchi sta realizzando al museo Macro di Testaccio. Il grande "Cuore" sarà portato il 6 dicembre nell’istituto di pena romano e le detenute potranno apporvi i loro pensieri. Live musicali e reading nell’evento promosso dalle associazioni "Il Viandante", "Marmorata 169" e da Radio Rock. Un cuore di due metri per tre e i pensieri rinchiusi delle donne detenute, la genialità di Alan Bianchi e la felice contaminazione con il museo Macro di Testaccio. Un carcere, quello di Rebibbia, che importa cultura ed esporta sperimentazione. Associazioni e sportelli che con testardaggine contribuiscono da anni a costruire, giorno dopo giorno, quel ponte con la società indispensabile per dare un senso alla parola detenzione. Sono questi gli ingredienti di "Un macro cuore a Rebibbia", l’iniziativa promossa dall’associazione culturale ‘Il Viandantè, dall’autrice e speaker di Radio Rock, Betta Cianchini, dall’artista Alan Bianchi e dall’associazione ‘Marmorata 169’, che culminerà il 6 dicembre con la consegna dell’opera all’istituto di pena romano. "Quello di BeeAnKee /Alan Bianchi - spiega Mario Pontillo, responsabile dello sportello Rebibbia dell’associazione ‘Il Viandantè - non è il classico cuore che ricorre nei biglietti d’auguri, ma la rappresentazione del muscolo cardiaco vero e proprio. L’artista sta lavorando all’opera in questi giorni, in concomitanza con la mostra di Reaction Roma, video installazione social che racconta Roma attraverso gli occhi di chi la vive e la attraversa, fino al 3 dicembre al Macro Testaccio Factory. Il cuore, alto circa tre metri e largo quasi due, è realizzato con materiali poveri, di risulta, come gli stracci portati dagli avventori della mostra, e percorrerà un itinerario molto significativo: dal Macro a Rebibbia per raccontare e testimoniare la connessione tra il dentro e il fuori, tra il mondo esterno e il carcere". Nell’istituto di pena, poi, verranno apposte sull’opera frasi e testimonianze delle detenute. "Il 6 dicembre sarà una giornata speciale - prosegue Mario Pontillo - perché vedrà sul palco di Rebibbia due temi specifici di Radio Rock: la musica e l’arte contemporanea. La donazione dell’opera ‘Cuorè sarà accompagnata da un live musicale di artisti selezionati dall’emittente e da un reading dei pensieri delle detenute di tutta Italia e di un giovane ergastolano ostativo che recentemente si è laureato e ha iniziato un nuovo percorso di vita. I pensieri verranno letti dall’autrice dello staff di Radio Rock, Betta Cianchini, dalla giornalista Elisabetta Galgani, presidente dell’associazione ‘Marmorata169’ e da anni impegnata sui temi sociali, da Franca Garreffa, docente di Sociologia della devianza all’Università della Calabria e da una staffetta di artiste romane". La stessa opera sarà quella che potranno vedere le detenute e i loro familiari durante i colloqui "con l’augurio - sottolineano gli organizzatori dell’evento - di non rivedere mai più quel ‘cuore ingabbiato’ ma di coltivare con loro nuovi percorsi". Ma perché proprio un cuore? "Perché da sempre l’uomo ha parlato di cuori che si donano ma solo verso un amato, un corrisposto - scrive l’artista Alan Bianchi nelle note -. Destinando ai nemici odio e guerra, proprio nel tentativo a volte reale a volte pretestuoso di fermare odio e guerra. Ma se a chi ha fame diamo cibo, a chi non sa diamo conoscenza, perché a chi riteniamo un nemico non diamo il cuore? Le cose si danno a chi ne ha bisogno. Il male ha bisogno di cuore. Non di bombe. Sei il "mio nemico"… e io ti faccio cuori". Avellino: presepi in città, all’opera anche i detenuti di Ariano Irpino di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 21 novembre 2016 Sono i detenuti del carcere di Ariano Irpino i primi concorrenti in gara per la sfida tra presepi promossa dall’associazione Touxion. Grazie alla Caritas diocesana e a don Costantino Pratola, il gruppo già selezionato per il progetto Costruiamoci un futuro e impegnato nel laboratorio di ceramica "Ceramica Arianese Libera", prenderà parte al concorso di Touxion, giunto alla terza edizione. I detenuti sono già al lavoro per realizzare la loro opera e affidare alla comunità arianese, tramite la Caritas, un messaggio di Natale. Presepi & Quartieri nasce per regalare nuova vitalità ai quartieri del Tricolle, attraverso l’atmosfera natalizia, promuovendo la cura degli spazi verdi in ogni rione cittadino, e incentivando l’aggregazione sociale e la solidarietà tra i cittadini. L’iniziativa mira a creare gruppi, che in totale armonia e indipendenza potranno creare nel proprio quartiere una rappresentazione della Natività. Il concorso è esteso anche alle parrocchie e alle associazioni con l’unica condizione che il luogo scelto per l’allestimento del presepe sia pubblico e di facile accesso (in una chiesa, in un angolo del quartiere ecc). L’iscrizione al concorso è gratuita e aperta a tutti e i quartieri partecipanti dovranno consegnarla entro le ore 24.00 del giorno 10 dicembre 2016, indicando il luogo in cui verrà esposto il presepe, presso la sede legale dell’associazione Touxion, oppure contattando Antonio Perna Big Wave al 329/3531717. Le regole dell’iniziativa sono poche e semplici. Innanzi tutto il tema è la natività: non ci sono altre linee guida. Quindi spazio alla creatività e alla fantasia. Una commissione, che sarà resa noto in concomitanza con la chiusura delle iscrizioni, valuterà il presepe di ogni quartiere, facendo visita alla comunità di ogni zona cittadina, in compagnia dello staff di Città di Ariano, che realizzerà un video delle opere in concorso. La premiazione avverrà nel corso di una serata - spettacolo. Ecco i criteri di valutazione dei presepi: originalità del lavoro, capacità di trasmettere il messaggio religioso proprio della Natività, partecipazione del quartiere ( bambini, giovani, famiglie) secondo lo spirito del concorso di creare aggregazione sociale, migliore interpretazione dell’idea fondamentale del concorso: incentivare le persone alla cura degli spazi comuni e al rispetto del decoro urbano, materiali utilizzati per realizzare il presepe. A conclusione del concorso, le strutture utilizzate per l’allestimento del presepe devono essere ripulite dalle squadre partecipanti. L’edizione 2016 si arricchisce della sezione presepi e quartieri d’Irpinia, una vera e propria sfida tra i vari paesi irpini sull’arte del presepe. Ogni paese è invitato a partecipare alla competizione, le comunità possono avvalersi dei comitati cittadini, associazioni, parrocchie che dopo aver compilato e presentato il modulo di iscrizione si occuperanno della messa in pratica del progetto. Il concorso è aperto a tutta la cittadinanza senza limiti di età, sesso, etnia, religione, estrazione sociale. Alla competizione è ammesso un solo presepe per ogni paese, pena l’esclusione; il primo ente del paese ad iscriversi, sarà l’unico a identificare l’area geografica di appartenenza. Ogni Gruppo (es. comitato, oratorio, associazione, azienda, società) deve presentare il modulo di iscrizione (all. A) debitamente compilato entro le ore 24.00 del giorno 08 dicembre 2016, indicando il luogo in cui verrà esposto il presepe, una breve scheda di presentazione dello stesso ed il numero dei partecipanti al progetto, oltre a versare una quota di iscrizione di 50,00 euro (anche attraverso lo sponsor di un soggetto economico presente sullo stesso territorio di appartenenza, che potrà esporre senza disturbo grafico vicino al presepe realizzato). Ogni paese partecipante deciderà una persona di riferimento. Entro il 15 dicembre i presepi dovranno essere pronti per il controllo da parte della giuria. I partecipanti hanno completa libertà di scelta per quanto riguarda i materiali da utilizzare, i soggetti e i temi da proporre, le misure ecc., anche in modo da poter realizzare un presepe dall’identità unica del paese di origine. I moduli di iscrizione devono essere presentati in via cartacea presso la sede dell’Associazione Touxion o tramite email. Il presepe deve essere esposto in un luogo all’interno del paese di facile accesso al pubblico, ad esempio, la sede del comitato, la propria parrocchia, giardini pubblici e così via. I presepi saranno valutati da 5 membri di giuria scelti nell’ultima settimana ricollegabili a vari interessi sociali e anche nell’ambito delle stesse iscrizioni. Sarà scelto un vincitore al quale sarà assegnato il I°premio. Tutti i vincitori saranno pubblicizzati con foto e video attraverso siti web del territorio. Inoltre ci sarà il premio social dove tutti i paesi concorreranno a chi raggiunge il maggiore numero di like e al quale sarà assegnato il premio social. Napoli: "Spes contra Spem", il docu-film contro l’ergastolo presentato a Secondigliano vocedinapoli.it, 21 novembre 2016 Il docufilm contro l’ergastolo ostativo, del regista Ambrogio Crespi, è stato prodotto da Indexway e Nessuno Tocchi Caino. Il progetto è nato grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Polizia Penitenziaria di Opera e con Radio Radicale. Venerdì 18 novembre è stato proiettato nel carcere di Secondigliano di Napoli. Il docufilm che denuncia la disumanità dell’ergastolo ostativo arriva anche a Napoli, dopo essere stato al red carpet dei festival del cinema di Venezia e Roma. Stavolta ad ospitare la proiezione della pellicola girata da Ambrogio Crespi, è il carcere di Secondigliano. Il tour per le case circondariali, promosso dallo stesso regista con Nessuno Tocchi Caino e il Partito Radicale, arriva anche nel capoluogo partenopeo. Sper contra spem è una frase pronunciata dall’apostolo Paolo di Tarsio, riportata in una sua Lettera ai Romani e che riprende una vicenda riguardante Abramo e la sua fede. Il non avere speranza ma essere speranza è l’interpretazione data da Marco Pannella che da sempre ha associato a questo concetto le vite dei detenuti condannati a non uscire mai più di prigione. Una pena di morte mascherata palesemente in contrasto con ciò che afferma l’articolo 27 della nostra Costituzione: "La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte". Il docu-film racconta le vicende di alcuni detenuti reclusi presso il carcere di massima sicurezza di Opera a Milano. I protagonisti sono in galera da almeno 15 - 20 anni, di cui diversi passati in isolamento (23 ore su 24 da trascorrere in cella) e molti di essi non usciranno più perché condannati all’ergastolo ostativo. Le loro storie sono tristi, delle vere e proprie tragedie narrate con forza, spontaneità e grande emotività. Volti segnati da un passato burrascoso ma da un presente apparentemente sereno. Il carcere come espiazione che ha permesso un lavoro introspettivo enorme. Lo scopo raggiunto di far conoscere a queste persone se stessi, cercando di comprendere il proprio trascorso rispetto alla situazione attuale di detenzione. Il carcere non esce mortificato da Spes contra Spem, anzi diventa necessario nel momento in cui è chiaro che se "Non capisci agisci" o se ti rendi contro che "L’autocoscienza è il tuo tribunale più severo". Comprendere che "La vita è diversa dall’esistenza. Sono concetti che non sono uguali. La vita è una e bisogna, appunto, approfittarne e viverla". Vite ed esistenze distrutte ma che attraverso il dialogo introspettivo e il confronto con gli altri, provano a ricucire se stesse ed a dare un senso agli anni che restano. Qui entra in gioco il concetto di sopravvivenza e dell’essere speranza, "Io sono contento di essere qui, se non fossi in galera magari mio figlio sarebbe morto o in carcere anche lui", oppure, "Quando uno dei miei figli è entrato in cella mentre l’altro, l’unica brava persona della famiglia, è morto per un incidente stradale, ho capito che dovevo dare alla mia vita una direzione diversa". I detenuti che si confessano esprimono tutto il loro senso di responsabilità per quello che hanno commesso ma non rinnegano la denuncia della barbarie rappresentato dall’ergastolo ostativo: "Che speranza si può avere nell’andare fuori di qui? Non è possibile, quindi o ti uccidi o vai avanti per inerzia. Sopravvivi solo per dare speranza alla tua famiglia, ai tuoi figli, a tua moglie, a tua madre. A rendere più sopportabile le loro umiliazioni". Ci sono però anche coloro che possono usufruire di permessi premio e che vengono sfruttati per il sociale, "Io amo andare nelle scuole per portare la mia esperienza. Istituti in quartieri a rischio come il mio. Se solo riuscirò a salvare almeno uno di quei ragazzi dalla strada presa da me in passato, vuol dire che la mia vita ha avuto un senso. Questa è la mia speranza". Alle voci dei detenuti si associano quelle degli ufficiali e del personale della Polizia Penitenziaria che dimostrano come "Il carcere sia un’unica comunità che coinvolge, non solo i detenuti, ma anche le guardie, gli ispettori, i cappellani e tutti coloro che lavorano e vivono in questa realtà", afferma Sergio D’Elia segretario dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Il grido è "Dare una possibilità a chi è cambiato dopo anni di detenzione e può dimostrare che nessuno nasce buono o cattivo in assoluto ma che spesso le condizioni della vita ci costringono a deviare. Non è una giustificazione per ciò che si commette ma lo Stato ha il dovere di dare un’altra chance alle vite di queste persone". Su tutte risuona come un fulmine la dichiarazione di Santi Consolo, presidente del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) ed ex magistrato e giudice della Corte d’Assise: "La Corte Costituzionale si è assopita sul tema. È necessario che urli la sua voce e dichiari incostituzionale l’ergastolo ostativo". La Spezia: il carcerato che interpreta se stesso in un musical di Sondra Coggio Il Secolo XIX, 21 novembre 2016 Le poesie scritte in cella da Andrea Ruiu, rapinatore di banche, oggi poeta, trasformate in uno spettacolo dalla band dei Visibì. Il messaggio: l’arte redime, e fa evadere dal vuoto interiore. L’attore Gérard Depardieu nelle vesti di Cyrano de Bergerac, il personaggio che scriveva per altri frasi d’amore. Lo stesso accade in carcere grazie ad un detenuto spezzino Il musical nasce in carcere: con lettere d’amore "per tutte". C’erano state solo due prove in carcere, chiuse al pubblico. Per la prima volta, alla Spezia, è andato in scena lo spettacolo musicale teatrale Riki canta Ruiu: tratto dalle poesie del detenuto spezzino Andrea Ruiu, musicate dal musicista spezzino Riccardo D’Ambra. Ruiu ha avuto il permesso di uscire per qualche ora dal carcere, per interpretare se stesso. La storia è semplice, e toccante, perché vuole essere un esempio di recupero di se stessi, dopo un errore. La storia delle rapine, che lo hanno portato in carcere, Ruiu l’ha rielaborata, e se ne è distaccato. Ha compreso di aver sbagliato, e di aver perso molto più di quanto credeva di ottenere, facendo soldi facili. In cella, ha provato una fortissima sofferenza esistenziale. È riuscito a emergere, solo scrivendo poesie. Non lo aveva mai fatto prima. La cugina Luciana Consiglio ne è rimasta colpita. Tanto colpita da mostrarle a Riccardo D’Ambra, cantante, e leader del gruppo musicale dei Visibì. È stato coinvolto un giovane regista, Francesco Tassara. Ha dato la sua disponibilità un attore, Andrea Bonomi. I contatto fra detenuto e compagnia teatrale, sono stati ovviamente pochissimi: per lo più a distanza. È stato fatto un lavoro in parallelo: Andrea Ruiu nella sua cella, i Visibì nel locale di prova. Si sono visti in carcere solo un paio di volte. È nato così uno spettacolo importante, in cui Andrea Ruiu interpreta se stesso: già rapinatore, oggi poeta, come confida in scena, parlando con l’attore Andrea Bonomi, che interpreta il ruolo ispirato ad un vero amico di cella. Due brande, un tavolino, e due uomini, che occupano metà del palco. Nell’altra metà, idealmente separati, ci sono i Visibì: il gruppo di Riki, frontman della band, che conta su Massimo Artino Innaria al basso, Maria Cozzani al violino, Gianmaria Simon alla fisarmonica, Manuel Picciolo voce e chitarra, ed Alessandro Artino Innaria al tamburo africano, djembe. Il Secolo XIX aveva già seguito una prova nel carcere della Spezia, grazie alla disponibilità della direttrice Maria Cristina Biggi e della polizia penitenziaria. Ora, ecco le immagini del debutto pubblico: un’ora e mezzo di canzoni, al termine delle quali Ruiu è stato riaccompagnato in carcere. Luciana ha fondato un’associazione musicale, la Rcr, Libera Iniziativa. Lo spettacolo: "Quando il dolore crea valore" girerà nelle carceri italiane. C’è anche un cd musicale, e Andrea Ruiu sta lavorando all’uscita del suo libro, con i testi. L’attore Bonomi racconta: "È uno spettacolo unico, perché il garante dei diritti dei detenuti e il sottosegretario alla giustizia hanno definito Ruiu "capace di un percorso riabilitativo eccellente", grazie al teatro e alla musica". Bologna: "I volti dell’alienazione", in mostra i disegni di Roberto Sambonet emiliaromagnanews24.it, 21 novembre 2016 Resterà aperta fino al 27 novembre la mostra "I volti dell’alienazione", disegni di Roberto Sambonet, allestita nella sala d’Ercole di Palazzo d’Accursio e inaugurata il 5 novembre scorso alla presenza dell’Assessore alle Pari Opportunità del Comune di Bologna Susanna Zaccaria, del senatore Sergio Lo Giudice, membro della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, e dei curatori Franco Corleone e Ivan Novelli. La mostra, promossa da La Società della Ragione, onlus impegnata sui temi del carcere, della giustizia e dei diritti umani e sociali e dall’Archivio pittorico Roberto Sambonet con la collaborazione di StopOpg e con il patrocinio della Regione Emilia Romagna, del Comune di Bologna e dell’ASP Città di Bologna, raccoglie 40 disegni e 70 studi dell’artista e designer milanese Roberto Sambonet. Il percorso espositivo racconta e indaga il complesso fenomeno del disagio mentale, attraverso i ritratti realizzati dall’artista tra il 1951 e il 1952 nel manicomio di Juqueri, a cinquanta chilometri da San Paolo in Brasile. Sambonet infatti ha trascorso sei mesi nei reparti dell’ospedale, conducendo una sua personale ricognizione e ha ritratto gli internati in una serie di opere di grande intensità, a china e a matita, ma tutte capaci di andare al di là del volto e mostrare pensieri, emozioni, sentimenti. Una sorta di viaggio di umana partecipazione, uno scavo nelle pieghe della malattia e della sofferenza, che nel 1977 è stato raccolto nel volume "Della Pazzia" (M’Arte Edizioni, Milano 1977), in cui l’artista accosta ai ritratti dei malati di mente testi di autori che nei loro scritti hanno affrontato e raccontato il tema della pazzia, come Allen Ginsberg, Dino Campana, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Edgar Lee Masters, William Shakespeare, Voltaire e altri. Roberto Sambonet, nato a Vercelli nel 1924, è stato un importante pittore, designer e grafico. Si è formato all’Accademia di Brera e ha partecipato attivamente alla vita cittadina frequentando l’ambiente delle avanguardie artistiche che avevano come punto di ritrovo il bar Giamaica. Ha partecipato all’avventura del gruppo dei Picassiani con Cassinari, Morlotti e Treccani. Tra il 1948 e il 1953 si è trasferito in Brasile, dove il suo linguaggio artistico ha vissuto una maturazione molto importante che lo ha condotto verso quell’essenzialità della linea che divenne tratto fondamentale della sua opera, nella pittura, nella grafica e nella produzione di celebri oggetti di industrial design. Il 31 marzo del 2015 era la data stabilita per la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il ritardo intollerabile di alcune regioni che non hanno predisposto strutture e programmi terapeutici individualizzati per l’uscita dalla istituzione totale e il progressivo inserimento nella società degli internati ha provocato la nomina di un Commissario da parte del Governo. Sono stati chiusi tre manicomi criminali, quelli di Secondigliano, di Reggio Emilia e di Aversa. Ormai rimangono rinchiuse contro la legge solo 27 persone ed entro la fine dell’anno si potrà procedere alla chiusura degli ultimi due Opg, Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto. Una rivoluzione culturale inimmaginabile sarà realizzata, cancellando per sempre l’orrore. La mostra intende essere un contributo tangibile alla campagna di sensibilizzazione per impedire il risorgere di logiche manicomiali, affermando i valori di civiltà, umanità e dignità. L’esposizione è già stata ospitata alla Fabbrica del Vapore di Milano, al Teatro Chille de la balanza di Firenze, al Palazzo Municipale di Ferrara, al Museo in Trastevere di Roma, al Museo Ken Damy di Brescia e a Palazzo Lanfranchi di Matera. Il catalogo illustrato è stato pubblicato da Palombi Editori. Giubileo. Dodici mesi dedicati a dar voce a chi soffre. Ma il mondo ascoltava? di Luigi Accattoli Corriere della Sera, 21 novembre 2016 Con il suo passo sciancato Bergoglio ha chiuso la Porta Santa dicendosi convinto che il Giubileo abbia "aperto" il cuore di tanti e sarà vero per i poveri di spirito: ma il vasto mondo ne ha saputo qualcosa? Si direbbe che per dodici mesi il Papa abbia gridato "misericordia" e il mondo delle armi e dei poteri abbia continuato a gridare ogni paura e per prima la paura dell’altro che fa vincere chi invita a chiudere i confini, che ha portato alla Brexit e a Trump, al raddoppio dei barconi che affondano. Il mondo non si è accorto della misericordia eppure Francesco ha fatto di tutto per farla sentire. È andato a Lesbo per i migranti, ad Assisi per la giornata delle religioni, ha incontrato Kirill a Cuba ed è volato a Lund per i luterani. Il Giubileo non l’ha avviato da Roma ma da Bangui, cioè dall’Africa più martoriata. Anche a Roma il Papa delle periferie ha detto e ha fatto: è andato a visitare ogni tribolato, le ragazze della tratta, i malati terminali, i giovani usciti dalla droga. I terremotati. Parrebbe che Francesco non abbia trovato un pieno ascolto neanche nella sua Chiesa: l’ha invitata a nuove misericordie ed è stato rimproverato. Forse è il destino di ogni profeta disarmato quello d’essere ascoltato da pochi e magari solo dai più inermi, come si è visto nelle giornate dei malati, dei senzatetto, dei carcerati. In quelle giornate è sembrato evidente che il suo grido aiutava qualcuno a restare umano. E dunque diremo che se pure ha gridato nel deserto, è bene che l’abbia fatto. Droghe. Curarsi al bar con la cannabis. "È meno tossica dei farmaci" di Marilena Vinci La Stampa, 21 novembre 2016 Arriva a Roma il Canapa Caffè: "Combattiamo l’ansia e rompiamo i tabù". Riscoprire la canapa indiana e i suoi usi alimentari e curativi sfidando la legge che la rende illegale. Accade in un locale pubblico di Roma nel quartiere storico e universitario di San Lorenzo, dove aprirà tra poco i battenti il Canapa Caffè. È un bar-negozio dove sarà possibile consumare cibi e bevande a base di questa pianta: da pasta, panini e torte fino alla birra e alle tisane, acquistare alimenti e cosmetici realizzati con la canapa e, per la prima volta in Italia, potersi curare inalando cannabis in un’apposita therapy room. Tutto previo tesseramento. L’idea nasce dall’esigenza di due trentenni, Carlo Monaco e Luigi Mantuano, di curarsi con la cannabis terapeutica: Carlo soffre di anoressia nervosa, Luigi di attacchi di panico. A prescrivere loro questa cura è stato un medico in Spagna che gli consigliato anche di coltivarsi le piante, cosa che in Italia però non si può fare, neanche se il fine è la salute. "L’idea del Canapa Caffè nasce dalla voglia di sdoganare un tabù e rendere accessibile una terapia che potrebbe sostituire almeno dieci farmaci di uso comune", afferma Carlo. Una scelta consapevole ma in qualche modo obbligata dagli sgradevoli e deludenti effetti dei tradizionali farmaci psichiatrici: "Non mi facevano stare al 100%, avevo nausea, vomito e mancanza di concentrazione - racconta Luigi - Si parla di benzodiazepine che portano a chiuderti, a stare in casa, mentre la cannabis è tutt’altro. I danni dei farmaci tradizionali a lungo termine sono molto più gravi di quelli che può fare un fiore. Con le benzodiazepine le case farmaceutiche dicono di curarci, in realtà ci intossicano". A seguire la terapia dei due ragazzi in Italia è il medico Carlo Privitera, convinto sostenitore dell’utilizzo della cannabis in parecchie patologie fisiche e mentali: "Secondo molti studi scientifici mondiali questo metodo rappresenta per molte malattie il gold standard, ossia il migliore per far star bene un paziente ". La cannabis terapeutica non ha qualcosa in più rispetto ai più comuni farmaci ma qualcosa in meno, assicura il medico: "Meno effetti collaterali. Mi sentirei la coscienza meno limpida nel prescrivere per esempio a un malato di sclerosi multipla l’interferone, che presenta effetti collaterali come epatite, febbre, artralgie e un peggioramento della qualità della vita". A poter essere trattate con la terapia della cannabis sono malattie neurodegenerative e con infiammazioni intestinali, tumori ed epilessia. A livello di patologie psichiatriche ansia e depressione. "Qualche dubbio sorge sulla schizofrenia - confessa il dottor Privitera - non perché ci siano effetti collaterali ma perché non esiste un sistema di supporto per il paziente durante la terapia". La controindicazione della cannabis terapeutica? Non ha a che fare con la salute ma col portafoglio. Curarsi con questa pianta è infatti molto dispendioso. Il prezzo oscilla tra i 21 e i 24 euro al grammo, la si può acquistare in farmacia o tramite Asl previa ricetta medica. "Per riuscire a comprarla per tutti abbiamo fatto un gruppo d’acquisto - dice Carlo - così siamo riusciti ad abbassare un po’ il prezzo". Il prezzo proibitivo e l’illegalità della coltivazione spingono molti a ricorrere al ben più conveniente mercato nero: "A Roma con 10 euro al grammo trovi erba terapeutica della Spagna, - spiega Carlo - comunque arriva". L’altra strada, percorribile come associazione, è appunto quella del gruppo di acquisto. Non è solo una questione di soldi, dice Luigi: "Vogliamo far notare la nostra presenza, siamo in tanti. Il Canapa Caffè nasce per questo". Intanto in Parlamento giace la proposta di legge per la legalizzazione della cannabis. Fino ad allora Carlo e Luigi rischiano 4 anni di carcere e fino a 30mila euro di multa. Stati Uniti. C’è un carcere in cui i detenuti fanno gli angeli custodi di Annalisa Lista west-info.eu, 21 novembre 2016 A prendersi cura dei detenuti depressi e con istinti suicidi ci pensano i loro compagni di cella. Succede nei penitenziari dello stato USA Idaho. Gli "angeli custodi" vengono selezionati sulla base di due criteri. Il primo, godere di ottima salute mentale e fisica. Il secondo, possedere un buon grado di istruzione per poter interagire al meglio con i loro sorvegliati e redigere i report a fine servizio. Con turni di 4 ore assistono in celle speciali chi ha bisogno di aiuto cercando di entrare in confidenza e intrattenerli con i più svariati argomenti. Il tutto sotto l’attento monitoraggio delle telecamere nascoste, necessarie in caso di pericolo per il pronto intervento dei secondini. Un programma di riabilitazione di successo che con le tensioni interne al carcere ha abbassato anche il tasso di suicidi. Russia: la legge sulle Ong ha 4 anni, la società civile è ridotta al silenzio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 novembre 2016 Oggi è il quarto anniversario dell’entrata in vigore in Russia della legge sugli "agenti stranieri". Fortemente voluta dal presidente Putin ed entrata in vigore il 21 novembre 2012 con l’obiettivo di ostacolare, stigmatizzare e in definitiva ridurre al silenzio le voci critiche delle Ong, la legge ha fatto pagare un prezzo elevato alla società civile russa in termini di chiusura delle sedi di organizzazioni non governative (Ong), attacchi alla reputazione, riduzione dei finanziamenti, intimidazioni e controlli. Dal 2012, 148 Ong sono state inserite nel registro degli "agenti stranieri" e 27 di loro hanno cessato le attività. Soggetti che svolgono un importante ruolo nella difesa dei diritti della gente comune o che in molti casi forniscono servizi che lo stato non garantiva, come la difesa legale, il monitoraggio ambientale o il sostegno psicologico alle vittime di discriminazione o di violenza hanno visto bloccato o rischiano di vedersi bloccare un vitale contributo al benessere del paese: Ong considerate impegnate in "attività politiche", sono state infatti etichettate come agenti stranieri. A finire nelle maglie della legge sono state Ong impegnate nei campi della discriminazione, della protezione delle donne e delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate (Lgbti), della conservazione della memoria storica, della ricerca accademica, della giustizia penale e della riforma del sistema penitenziario, dei diritti dei consumatori e di questioni ambientali. In alcuni casi l’applicazione della legge ha dato esiti surreali. Mentre la legge afferma chiaramente che "le attività per proteggere il mondo vegetale e animale" non dovrebbero essere considerare "politiche", almeno 21 Ong ambientaliste sono finite nel registro degli "agenti stranieri". Tra queste l’Ong "Dront" che ha sede a Nizhnii Novgorod. "Dront" ha chiesto di essere tolta dal registro ma la sua richiesta è stata rifiutata in quanto riceve "finanziamenti dall’estero". In realtà, le tre donazioni citate erano: 500 rubli dall’Ong russa "Bellona-Murmansk" per un abbonamento alla rivista; un prestito, restituito ancora prima del giudizio, da parte di un’altra Ong ambientalista finita nel registro degli agenti stranieri; e, ancora più sorprendente, un finanziamento da parte di "Sorabotnichestvo" una fondazione della Chiesa ortodossa russa che però riceve piccole donazioni da Cipro. L’Unione delle donne del Don ha invece subito una sistematica e accanita persecuzione. Questa Ong è stata tra le prime a finire nel registro degli agenti stranieri. Così, le attiviste hanno creato una nuova Ong, la Fondazione delle donne del Don ma anche questa, nell’ottobre 2015, è stata dichiarata agente straniero. Il 24 giugno 2016 alla presidente Valentina Cherevatenko è stata notificata l’apertura di un’indagine per violazione dell’articolo 330.1 del codice penale, per aver "consapevolmente evaso gli obblighi" ai sensi della legge sugli agenti stranieri. Se sarà giudicata colpevole, la donna rischia fino a due anni di carcere. Le autorità russe dovrebbero essere abbastanza forti da accettare critiche costruttive da parte dei gruppi della società civile e da imparare a lavorare con loro, non contro di loro. La legge sugli agenti stranieri mostra invece la loro debolezza e la paura che fa una società civile indipendente. Svizzera: un’associazione di detenuti per aiutare altri detenuti di Davide Illarietti ticinonews.ch, 21 novembre 2016 Tre pregiudicati che si conoscono in carcere e mettono a punto - anziché un piano di evasione, o nuovi progetti malavitosi - di cambiarlo, il carcere. Ma facendo le cose in regola. Iscrizione al registro di commercio, statuti, firme e timbri. È nata così nei giorni scorsi la prima associazione ticinese per i diritti dei detenuti, fondata da chi detenuto lo è o lo è stato. Si chiama Giustizialismo.ch e l’obiettivo "è quello di dare voce alla popolazione carceraria ticinese portando un contributo costruttivo al dibattito sulle strutture di pena nel nostro Cantone" spiegano Pierangelo Casarotti e Benjamin Caduff (presidente e segretario). Ancora "dentro" il primo, già "fuori" il secondo, assieme a un terzo ex compagno di detenzione - attualmente in regime di semi-libertà - hanno deciso di rimboccarsi le maniche. La voce dei detenuti - "Le carceri ticinesi hanno delle problematiche e stiamo cercando un dialogo costruttivo che permetta di risolverle" osservano i tre fondatori. "Sul fronte sanitario, lavorativo e del reinserimento sociale, ad esempio, crediamo che ascoltando le esperienze dei detenuti si potranno compiere dei passi avanti". Chi meglio di altri (ex) detenuti, per raccogliere pareri e segnalazioni? "Abbiamo attivato una hotline su cui potremo ricevere telefonate anonime dalla Stampa, offrendo consigli e assistenza legale e riportando agli organi competenti, dove tutt’oggi gli oltre 300 detenuti ticinesi non hanno una rappresentanza diretta". Il direttore: "Staremo a vedere" - Positivo al riguardo il giudizio del direttore delle Strutture carcerarie, Stefano Laffranchini, ma con qualche riserva. "Ben venga ogni contributo, purché il dialogo sia costruttivo. Un’associazione di detenuti ed ex detenuti può esprimere senz’altro un punto di vista importante, se agirà nel rispetto della legalità e del protocollo di sicurezza interno al carcere che vieta, ad esempio, ogni comunicazione tra persone in regimi di pena diversi". Macedonia. Censura: il caso del discusso giornalista Zoran Bozinovski, di Ilcho Cvetanoski balcanicaucaso.org, 21 novembre 2016 Accusato di associazione a delinquere e in carcere dall’aprile 2016, ancora in attesa di giudizio. Insieme a Montenegro, Russia, Azerbaijan e Turchia, la Macedonia è uno dei cinque paesi membri del Consiglio d’Europa che attualmente detengono giornalisti in carcere. Secondo la Federazione europea dei giornalisti, i giornalisti imprigionati sono uno in Macedonia e Montenegro, due in Russia, tre in Azerbaijan e 113 in Turchia. I report delle organizzazioni internazionali a tutela dei media, come Freedom House e Reporter senza frontiere, identificano la detenzione di giornalisti come una delle principali ragioni del costante declino della libertà dei media in Macedonia. Il rapporto 2016 di Freedom House classifica la Macedonia, insieme a Russia e Bielorussia, fra gli unici paesi in Europa con media "non liberi". Oltre alla detenzione, altri importanti fattori di critica riguardano l’impunità per chi aggredisce un giornalista, l’interferenza del governo nel mercato dei media attraverso grandi campagne pubblicitarie, i legami corrotti tra stato, partiti di maggioranza e proprietari dei media e intercettazioni illegali dei giornalisti. In merito alle detenzioni, il primo giornalista incarcerato è Tomislav Kezarovski, del quotidiano Nova Makedonija, condannato a quattro anni e mezzo di carcere per aver rivelato nel 2008 l’identità di un testimone, presumibilmente protetto, in un processo per omicidio. Nel corso del nuovo processo, il testimone ha confermato le scoperte di Kezarovski e ammesso di aver dato falsa testimonianza. Nonostante questo, ad ottobre 2013 il giornalista è stato condannato. Dopo massicce pressioni interne ed esterne, Kezarovski è stato infine liberato dopo aver scontato un anno e 10 mesi di reclusione. Il caso di Zoran Bozinovski - Zoran Bozinovski è un giornalista di lunga esperienza, per la maggior parte accumulata nella città di Kumanovo come corrispondente per diversi giornali e riviste. Noto fra la fine degli anni 1990 e l’inizio del 2000 per una serie di articoli sul contrabbando di tabacco e le attività criminali ad esso collegate, Bozinovski fu brutalmente aggredito con mazze da baseball in una stazione radio a Kumanovo, dove stava lavorando in quel momento. Negli ultimi anni, Bozinovski è stato per lo più attivo sul proprio blog Burevesnik, famoso per la pubblicazione di informazioni riservate sulle presunte irregolarità di governo e classe dirigente, pubblicato mentre risiedeva principalmente a Novi Sad, in Serbia. Bozinovski è stato anche autore di alcuni articoli controversi e complottistici. La teoria più famosa è quella secondo cui il famoso cantante macedone Toshe Proeski non sarebbe morto in un incidente stradale nel 2007 in Croazia, ma sarebbe stato ucciso dalla criminalità organizzata o forse sarebbe addirittura vivo e nascosto da qualche parte. Accuse di spionaggio - Nel 2012, le autorità macedoni hanno accusato un gruppo di 18 persone di far parte di una rete di spionaggio di alto profilo per conto di presunti servizi segreti di paesi vicini. Il gruppo è stato accusato di associazione a delinquere, spionaggio ed estorsione. Del gruppo, secondo la procura, avrebbe fatto parte anche Bozinovski, che avrebbe ricattato uomini d’affari, politici e funzionari pubblici chiedendo denaro per non pubblicare informazioni sensibili sul suo blog. Secondo i funzionari, oltre a Bozinovski, il gruppo comprendeva ex agenti dell’intelligence e della polizia, l’ex direttore della commissione reati finanziari e l’ex capo di gabinetto del presidente del Parlamento. Alla fine del 2014, 17 su 18 imputati sono stati condannati a pene dalla libertà vigilata a 15 anni di carcere: otto di loro per spionaggio, gli altri per reati minori. Unica eccezione Bozinovski, in quel momento in Serbia dove aveva chiesto asilo politico, e quindi sottoposto a processo separato. Come ricostruito dall’Associazione macedone dei giornalisti, Bozinovski è stato arrestato nel 2013 a Novi Sad, sotto mandato Interpol emesso dalla polizia macedone, passando poi oltre 300 giorni nel centro di detenzione di Novi Sad. Durante questo periodo, la costante protesta delle associazioni giornalistiche serbe ha portato al suo rilascio da parte delle autorità di Belgrado nell’ottobre 2014, ma alla fine di aprile 2016 Bozinovski è stato nuovamente arrestato ed estradato in Macedonia. Un processo in sospeso - Dopo oltre cinque mesi di detenzione preventiva, il processo non è ancora iniziato. A giugno, la Federazione internazionale dei giornalisti ha pubblicato una risoluzione urgente sollecitando le autorità macedoni a rilasciare Bozinovski. Inoltre, l’Associazione dei giornalisti della Macedonia (ZNM) ha messo in guardia l’opinione pubblica rispetto al ritardo ingiustificato del processo contro il giornalista, definito "politicamente motivato". "La corte sta violando i suoi diritti civili per un processo equo", sottolinea Naser Selmani, presidente di ZNM, aggiungendo che Bozinovski sta facendo sciopero della fame per ottenere il rilascio. Nonostante i ricorsi, l’inizio del processo è stato rinviato per la seconda volta "a causa della situazione personale e famigliare della giudice Sandra Krstic", informa un comunicato sul sito della ZNM. L’organizzazione accusa le istituzioni, il tribunale in primis, di applicare due pesi e due misure. "La corte non impone la detenzione per gli ex funzionari di governo sospettati di reati gravi, ma da quasi sei mesi detiene in custodia un giornalista senza un motivo ragionevole. Così la detenzione non serve per garantire un processo ininterrotto, ma diventa una punizione". Secondo l’organizzazione, il governo non solo non è riuscito a trarre insegnamenti dal caso Kezarovski, ma con la richiesta di estradizione di Bozinovski ha commesso un errore ancora più grave. Libano: il carcere minorile di Beirut diventa un palco, un progetto italiano Ansa, 21 novembre 2016 Solo uno spicchio di sole visita il cortile della sezione minori del superaffollato carcere libanese di Roumieh, sulle colline a nord-est di Beirut, ma la danza frenetica improvvisata da decine di giovani detenuti rende per pochi istanti normale la scena dove si svolge il concerto dei Kabila, gruppo tosco-libanese, tornati in Libano nell’ambito di un progetto finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.