Pena rieducativa. Quant’è difficile armonizzare teoria e pratica di Agnese Moro La Stampa, 20 novembre 2016 Ultimamente molte iniziative fanno sperare che sia possibile ridisegnare in concreto un modo diverso di organizzare le pene e la loro esecuzione. Dal punto di vista teorico tutto è chiaro; ci sono indicazioni precise nei Principi fondamentali e nella prima parte della nostra Costituzione: ogni persona e i suoi diritti sono inviolabili, anche se si è comportata male; le pene - al plurale, sottintendendo che sia falsa l’equazione pena = carcere - devono tendere alla rieducazione del condannato, niente punizione, niente vendetta. In modo molto più ambizioso cerchiamo un "ritorno indietro", un ravvedimento profondo. All’atto pratico, le cose sono diverse. Ma molte iniziative tendono a rendere più vicine teoria e pratica. C’è stata quella degli Stati Generali dell’esecuzione penale (www.giustizia.it/ giustizia/it/mg_2_19.page) promossi dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando, con una finalità conoscitiva e di riflessione che ha impegnato operatori, detenuti, studiosi. Con l’idea di dare vita a una seria riforma con opportuni provvedimenti legislativi, anticipati in parte dall’iniziativa di singoli parlamentari. Del resto, la stessa Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha, nel dicembre scorso, aggiornato in maniera significativa il "Nelson Mandela Rules" che definisce gli standard minimi che, in tutto il mondo, dovrebbero essere garantiti agli oltre 10 milioni di donne, uomini e bambini che scontano una condanna (altre info nei siti del United Nations Office on Drugs and Crime - Unodc unodc.org e della Organizzazione Non Governativa "Penal Reform" penalreform.org). La Penal Reform è uno dei partner dell’appena concluso "European Custody & Detention Summit", luogo di incontro di gestori dei luoghi di custodia, policy makers, esperti e industrie per uno scambio di buone pratiche, prospettive, innovazione (custodysum-mit.com/). Cosa che aiuta a capire come la detenzione e il controllo delle persone sia anche un business. Invece degli affari sarebbe più produttivo ed economico (e umano) per la società un profondo ripensamento - che ci avvicini allo spirito e alla lettera della Costituzione. In questo anno giubilare papa Francesco e tanti volontari del carcere credenti e non hanno cercato di farci riflettere. Un lavoro da continuare. L’Ass. "A Roma, Insieme-Leda Colombini" partecipa alla Giornata dei Diritti dell’Infanzia Ristretti Orizzonti, 20 novembre 2016 A Roma, Insieme-Leda Colombini" partecipa alla Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del prossimo 20 novembre. Tre anni fa, in occasione della ricorrenza della Giornata Mondiale dei Diritti dell’Infanzia, il Senato della Repubblica approvò una mozione che affermava esplicitamente il diritto dei bambini a non vivere dietro le sbarre. Un diritto per il quale fin dalla sua nascita, l’Associazione si è sempre battuta, impegnando i suoi oltre cento volontari nell’assistenza ai bambini da 0 a 3 anni che ancora oggi finiscono "in galera" con le loro madri. "Ci fa piacere annunciare - dice a questo proposito la presidente, Gioia Passarelli - che il 2017 sarà l’anno dell’apertura a Roma della "Casa di Leda", Una casa famiglia protetta completamente autonoma dal carcere, prevista da una legge approvata ben 5 anni fa, dove i piccoli vivranno senza sbarre alle finestre e accanto alle loro mamme, condannate a pene lievi, e inserite in un percorso di "recupero" teso al loro reingresso all’interno delle regole della società civile, in attuazione dell’articolo 27 della Costituzione che recita: "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Le toghe votano No, ma sperano che vinca il Sì di Errico Novi Il Dubbio, 20 novembre 2016 Incognita referendum anche sulle norme chieste dall’Anm. "Il governo scelga una via legislativa più rapida per darci le risposte che chiediamo". È il messaggio dell’Anm, e ha una spiegazione chiara: le toghe non si fidano del ddl penale. O meglio non si fidano del referendum, il cui esito rischia di mandare all’aria anche la riforma della giustizia e le modifiche che il sindacato dei giudici vorrebbe vedervi inserite. Ecco perché il direttivo dell’Associazione magistrati, riunito ieri in Cassazione, approva un testo in cui si ripromette di "indire con urgenza" una nuova assemblea qualora i provvedimenti "non vengano adottati nei tempi utili". E "nei tempi utili" vuol dire entro il 31 dicembre, deadline insuperabile per la questione che più preoccupa i giudici: l’innalzamento dell’età pensionabile a 72 anni. Nonostante gruppi come Md e magistrati di peso come Armando Spataro siano schierati per la vittoria del NO al referendum, è chiaro che all’Anm converrebbe il successo del Sì. In quel caso sarebbe tutto più semplice. Il ddl sul processo passerebbe con la fiducia, come il ministro Andrea Orlando ha prefigurato giovedì in un incontro con Piercamillo Davigo, e dentro ci sarebbero le due misure invocate dalle toghe: la soglia del pensionamento a 72 anni per tutti, appunto, e il ritorno a 3 anni come periodo minimo di attesa per poter chiedere il trasferimento. Ma con l’ormai probabile sconfitta del governo al voto del 4 dicembre, ogni successivo passaggio parlamentare è a rischio. "Il ddl evidenti difficoltà politiche", come dice Luca Poniz (Area-Md) nello snodo cruciale del direttivo di ieri. "Chiediamo al ministro della Giustizia e al premier Renzi che le modifiche sollecitate dall’Associazione magistrati diventino oggetto di un apposito decreto legge, o vengano almeno inserite in un testo meno subordinato alle variabili politiche, come il milleproroghe", chiarisce il segretario Francesco Minisci (Unicost). Non si arriva così nel dettaglio, nella mozione, ma il numero due dell’Anm è molto esplicito nell’indicare la via maestra. Non c’è minaccia di sciopero, da parte del sindacato dei giudici. Ma neppure una fiducia incondizionata nella prospettiva offerta dal guardasigilli. Il quale, nella lettera ufficiale inviata alla giunta di Davigo, si espone in prima persona: su pensioni e trasferimenti, promette Orlando, provvederemo già il 7 dicembre, alla ripresa dell’esame sulla riforma da parte del Senato. Ma basta un breve giro di interventi perché il parlamentino dell’Anm comprenda come "la buonafede del guardasigilli non basti a lasciarci tranquilli". In altri tempi si sarebbe parlato di ultimatum. In realtà quella dell’Anm sembra una manovra d’emergenza avviata giusto un miglio prima che la nave della legislatura si schianti sull’iceberg. Il direttivo parte con le parole tranquillizzanti del presidente Davigo e si chiude con un documento, approvato per acclamazione, segnata da forti preoccupazioni. Il numero uno della magistratura associata, e lo stesso segretario Minisci, fanno notare a inizio lavori che "un impegno scritto preso da un ministro è un fatto inedito nella storia dei rapporti fra magistratura e governo, se guardiamo agli ultimi anni". Ma è proprio il coordinatore della corrente davighiana "Autonomia & Indipendenza", Sandro Pepe, a insinuare i primi dubbi tra i componenti del parlamentino: un attimo prima, in modo quasi distratto, Minisci aveva accennato alla "possibilità, lasciata intravedere dal ministro, di porre la fiducia sul maxiemendamento". Pepe giustamente incalza: "Su questo dobbiamo avere certezze". E nel giro di qualche minuto i rappresentanti di tutte le correnti si danno la risposta da soli: se pure il ministro ci giurasse di mettere la fiducia, la vittoria del No al referendum renderebbe il campo impraticabile. I vulnus da correggere sono quelli introdotti dal decreto Cassazione: oltre allo strappo sulle pensioni, c’è appunto l’allungamento del periodo di legittimazione, cioè del tempo minimo che un giudice deve trascorrere nella sede assegnata prima di chiedere trasferimento. Renzi e Orlando non vedono ostacoli a una correzione almeno per i magistrati di prima nomina, per i quali si tornerebbe ai 3 anni rispetto ai 4 previsti nell’ultimo provvedimento. Tutto è precario, con un referendum decisivo ormai dietro l’angolo. Anche i rapporti tra toghe e politica. Il paradosso è che l’Anm stessa capisce quanto sarebbe inutile a questo punto agitare lo spauracchio di uno sciopero: non si sa neppure a quale governo e a quale premier andrebbe recapitato l’ultimatum, dopo il 4 dicembre. Si cerca di mettere in salvo gli obiettivi prima che la nave della legislatura entri in acque inesplorate, che fanno paura perfino ai magistrati. Quanto piacciono le grandi opere alla mafia di Giovanni Tizian L’Espresso, 20 novembre 2016 I clan hanno lavorato in quasi tutti i cantieri d’Italia. Piccoli e grandi. Da Sud a Nord. Expo, Tav, autostrade. E persino per le opere propedeutiche al ponte sullo Stretto. Expo, Salerno-Reggio Calabria, Alta velocità. E persino le opere preliminari per il ponte sullo Stretto. Grandi opere, grandi affari. Per pochi, non per tutti. In questa fortunata cerchia rientrano le aziende delle cosche. E dato che le vie del riciclaggio sono infinite, seguirle conduce spesso a indirizzi che non ti aspetti. In fondo, è ciò che ha fatto la procura antimafia di Roma: sentendo puzza di denaro sporco col timbro dei clan di ‘ndrangheta, ha illuminato quei canali ritrovandosi a un certo punto del viaggio nel bel mezzo dei cantieri delle grandi opere italiane. La scintilla dell’ultima inchiesta "Amalgama" è proprio questa, un tremendo puzzo di quattrini lerci che ha portato gli inquirenti sulla pista di un sistema in cui i protagonisti principali della storia sono manager dei più importanti colossi delle costruzioni, ingegneri esperti di direzione lavori, imprenditori che collezionano subappalti nelle grandi opere. Al centro di tutto c’è lei: la signora Mazzetta. Che da Tangentopoli in poi ha subito un’evoluzione costante, fino a trasformarsi in un do ut des fatto non tanto di scambi di denaro liquido, ma di favori in cambio di appalti, consulenze, incarichi. Sull’Espresso in edicola da domenica l’inchiesta "Corruzione in corso" mostra, attraverso documenti inediti, il Sistema che si arricchisce, in maniera illecita, lucrando con le infrastrutture strategiche per il Paese. Riciclaggio mafioso, dicevamo. I clan, nel settore delle costruzioni, hanno sempre detto la loro. Difficile trovare una grande o piccola opera in cui direttamente o indirettamente le imprese dei boss non abbiano lavorato. La storia dei cantieri italiani è costellata di padrini in doppio petto e con la partita iva che si sono inseriti nel business del calcestruzzo. Talmente normale, che anche i media non ci fanno quasi più caso. È notizia di pochissimi giorni fa, per esempio, la retata che ha portato in carcere l’estesa rete di fiancheggiatori del boss di Reggio Calabria Domenico Condello, detto "Micu u pacciu". Un’inchiesta durata alcuni anni che, oltre ad azzoppare il livello militare, ha svelato il network di aziende della galassia Condello. E proprio una di queste ha lavorato - agli atti c’è persino il numero di contratto stipulato - per il consorzio Eurolink, il gruppo di società composto in primis da Salini-Impregilo, Società Condotte d’Acqua e Cmc, che dovrà realizzare il ponte sullo Stretto. Eurolink ha affidato nel 2010 l’esecuzione di alcuni lavori alla cordata costituita da Teknosonda, Calabrese Pasquale e Calabrese Antonio per un valore, stimano gli investigatori, di oltre 1 milione di euro. La commessa riguarda la cosiddetta "Variante ferroviaria di Cannitello", un lavoro propedeutico alla grande opera dello Stretto. Non è raro che aziende sospette riescano a bucare i controlli, insinuandosi persino laddove esistono protocolli antimafia, all’apparenza molto severi, in pratica facili da aggirare. Sempre nella stessa indagine della procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho, il Ros dei carabinieri ha individuato altre imprese legata al clan Condello all’interno dei cantieri della Salerno-Reggio Calabria. In particolare nel sesto macrolotto, che arriva fino a Campo Calabro. Lo stesso pezzettino al centro delle inchiesta romana "Amalgama" sulle grandi opere. Anche in questo caso il general contractor era composto da Salini-Impregilo e Società Condotte d’Acqua. Se lasciamo la Calabria, direzione Lombardia, Milano, la situazione non migliora. Anzi. Per l’Expo 2015, è stato accertato come la ‘ndrangheta abbia realizzato numerosi lavori. Dai padiglioni a lavorazioni legate al maxi appalto della Piastra sulla quale poi sono stati montati i vari stand del mondo. Anche sull’Esposizione universale la magistratura ha indagato. I pm di Milano per quel che riguarda il filone delle tangenti, Reggio Calabria per le infiltrazioni mafiose. Ancora una volta corruzione e mafia si mostrano per quello che sono: due facce della stessa medaglia in un Paese esausto e la cui crescita è bloccata da un mercato che privilegia i furbetti e non i più competenti. Persino nel cantiere militarizzato della Torino-Lione, il Tav che taglierà in due la Val di Susa, le ‘ndrine sono riuscite a infilare i propri uomini. Emerge, per esempio, dall’indagine del Ros dei carabinieri e della procura antimafia di Torino. Mafia ad alta velocità, non esattamente una novità. Stesso copione lo ritroviamo nelle tratte Torino-Milano, Bologna-Parma, Napoli-Roma. Imprenditori delle organizzazioni che si sono occupati principalmente di lavorazioni specifiche, movimento terra in particolare ma non solo. Dell’intreccio tra mafie e corruzioni, ne ha di recente parlato la procura nazionale antimafia. Nella sua ultima relazione ha denunciato quanto le organizzazioni mafiose siano ormai dentro i sistemi corruttivi. E che al piombo, i padrini preferiscono la mazzetta quale principale strumento di entrata nei circuiti che contano. Insomma, prima provano a comprare il dirigente, il tecnico, il manager e, in caso di rifiuto, rispolverano i vecchi arnesi del mestiere. Ma è l’inchiesta della procura di Roma coordinata dal pm Giuseppe Cascini che rivela ancora una volta la saldatura tra i due mondi: corrotti e mafiosi sulla stessa barricata. Nelle informative dei carabinieri della Capitale c’è più di qualche indizio. Come per esempio il passaggio in cui Giampiero De Michelis, l’ingegnere dai mille incarichi, detto anche il "Mostro" dai manager dei general contractor, fa riferimento a un suo collaboratore. Tale Pasquale "Lillo" Carrozza. Chi è "Lillo"? È un geometra, "già dipendente della Società Condotte d’Acqua con la qualifica di capo cantiere presso i lavori di costruzione della Salerno-Reggio Calabria. Tratto in arresto dall’antimafia reggina nel 2012 per associazione mafiosa, truffa, frode nelle pubbliche forniture". Ecco cosa dicono di lui De Michelis e un altro intercettato: "Lillo", in pratica, accompagnava alcuni boss della ‘ndrangheta in Anas e agli stessi capi bastone forniva le proprie utenze telefoniche per fare chiamate riservate. Ma, stando al racconto dei due, Carrozza era considerato "l’intermediario tra la società Condotte e la ‘ndrangheta". De Michelis è un professionista stimato. Non per niente era dentro la società di ingegneria Sintel, di Giandomenico Monorchio, figlio del più noto Andrea, ex ragioniere generale dello Stato, poi in Infrastrutture Spa e ora ingaggiato da Salini Spa come presidente del collegio sindacale. Anche di questo e dei legami tra le varie indagini e personaggi coinvolti nelle grandi opere parlerà l’Espresso in edicola da domenica. De Luca, le parole della violenza e la politica che perde il rispetto di Roberto Saviano La Repubblica, 20 novembre 2016 Per me resta impresentabile, non alle elezioni ma davanti agli italiani, per la mancanza di consapevolezza del suo ruolo. Cosa significa, in terra di camorra, in quella che era conosciuta come terra di lavoro e ora invece è terra di disoccupazione, la condanna a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa a Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’economia e fedelissimo dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi? Significa sancire una sconfitta, non certo una vittoria. La sconfitta di chi in questi lunghi anni ha raccontato i rapporti tra criminalità e politica e con la sentenza ha avuto ragione. La sconfitta di chi credeva di poter immaginare un percorso diverso dove l’imprenditoria che va avanti, quella che crea ricchezza e che cresce, può essere imprenditoria legale, che vince onestamente. La sconfitta di chi nella politica - sono rimasti in pochi - vede ancora possibilità di cambiamento. Di chi ancora crede che la politica debba indicare una direzione, essere visionaria, dare l’esempio. E nelle ore in cui si ragionava su cosa significasse quella condanna - una condanna in primo grado arrivata dopo 141 udienze e oltre 200 testimoni ascoltati - ad abbassare il livello, a svilire ulteriormente il tenore del dibattito politico in un Paese che già crede che chi fa politica sia un ladro o un buffone, arrivano le pietre (pietre e non parole) che il governatore della Campania Vincenzo De Luca lancia a Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia, colpevole, secondo De Luca, di averlo inserito nella lista degli impresentabili alla Regionali del 2015 per un procedimento penale legato alla vicenda del Sea Park mai realizzato a Salerno, processo all’esito del quale De Luca è stato, lo scorso settembre, assolto. Per me De Luca impresentabile resta, non alle elezioni ma davanti ai suoi elettori, davanti agli italiani e ai cittadini campani, per la mancanza di consapevolezza del suo ruolo e l’incapacità di comprendere che il territorio su cui come governatore agisce, dà a termini come "infame" e a espressioni come "si dovrebbe ammazzare", significati precisi, che quotidianamente trovano una declinazione pratica. E allora mi sono chiesto se Cosentino, condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, avrebbe mai potuto pronunciare le parole che De Luca si è fatto scappare a margine dell’intervista a "Matrix". Me lo sono chiesto e mi sono riposto di no, perché Cosentino è nato e cresciuto in un territorio in guerra, quello dominato dal clan del casalesi; perché Cosentino sa e ha sempre saputo che dare dell’infame, esplicitare desideri di morte, hanno significati precisi. Come lo sa chi vive in determinate realtà pur non essendo camorrista. Sono messaggi che le organizzazioni criminali mandano, ordini che comunicano. Sentenze che decretano. Da qui la consapevolezza di quanto De Luca, da governatore della Campania, sia in realtà completamente inconsapevole rispetto al suo ruolo e rispetto a cosa voglia dire essere Politica in Campania. Perché la Politica non deve solo fare, ma anche essere. Essere rispetto, essere esempio, essere visione. Ma non voglio speculare sulle parole, perché in tutta onestà non credo che il governatore De Luca abbia mai avuto legami con la criminalità organizzata e spero di non essere mai smentito su questo, ma si è sempre presentato come un politico del fare e quindi mi sento legittimato nel domandargli dove sono le telecamere di videosorveglianza che dopo la morte di Gennaro Cesarano, avvenuta a settembre del 2015, aveva promesso come urgente priorità al Quartiere Sanità? Le telecamere sono state messe nelle zone turistiche, ma alla Sanità ha paura a camminarci chi ci vive, figuriamoci se ci vanno i turisti. È dal 6 settembre 2015 che gli abitanti della Sanità aspettano le 13 telecamere e i rilevatori di targa che ancora non ci sono e che avrebbero un effetto deterrente immediato. De Luca uomo del fare, De Luca fulmine di guerra, cosa sta aspettando? E ancora più grave considero la vicenda che riguarda la chiusura dell’Ospedale San Gennaro di cui si sta meritoriamente occupando tra gli altri padre Alex Zanotelli. Alla Sanità un ospedale non è solo un luogo dove si va per farsi curare, ma un presidio di legalità. Il primo reparto a essere chiuso è stato il più importante di tutti, il reparto maternità. E il danno è stato enorme perché ostetrici e ginecologi sono medici particolari, entrano nelle famiglie e in quel quartiere prendevano in cura tutti, dando consigli sull’alimentazione, provando a far diminuire il consumo di sigarette, facendo prevenzione. Come è possibile non capire quali saranno le conseguenze del mancato rispetto degli accordi con il territorio? Come è possibile che anche chiudere l’ospedale San Gennaro alla Sanità avrà ripercussioni nefaste sul contrasto alla criminalità organizzata? Ma poi mi domando quale sia la differenza tra il dare della cagna a una donna come ha fatto Trump e chiamare infame un’altra e dire "sarebbe da ammazzare". Nessuna: una violenza verbale premiata dall’elettorato che la ritiene garanzia di sincerità e quindi di onestà politica. Una violenza verbale calata in una realtà, quella che viviamo, in cui i ragazzini impugnano armi e altri si fanno saltare in aria. Quando capirà questa politica che le parole sono creazione di azioni? Che quando la politica parla male agisce male, quando parla violentemente agisce violentemente. Come dannazione non capirlo? Campania: l’appello del Premio Napoli "più cultura nelle carceri, la Regione ci aiuti" di Davide Gerbone Il Mattino, 20 novembre 2016 "La Regione sostenga le attività culturali all’interno delle carceri": è l’appello lanciato al governatore De Luca dalla Fondazione Premio Napoli, prima attraverso l’ex presidente Frasca e poi dal nuovo vertice Ciruzzi. Sull’abbrivio delle attività culturali fin qui portate avanti dalla fondazione grazie alla collaborazione di tante associazioni e dall’appoggio dei direttori degli istituti Poggioreale e Secondigliano, la Fondazione chiede che anche la Campania come già hanno fatto Emilia Romagna e Lombardia si dotino di un’ apposita legge regionale a sostegno di progetti culturali. Due pagine fitte e accorate per chiedere al governatore di lasciare aperta la porta che separa il mondo di dentro da quello di fuori. Così Gabriele Frasca, poeta, docente all’Università di Salerno e presidente uscente del Premio Napoli, pruna di passare la mano, prende carta e penna e scrive a De Luca: "Quest’anno ho concentrato tutte le attività della Fondazione Premio Napoli, che presiedo dal 2012, su un lavoro complesso a favore della popolazione carceraria degli istituti di Poggioreale e Secondigliano", premette. E illustrai dettagli di un esperimento riuscito: "Con la collaborazione di tante associazioni e con l’appoggio entusiasta dei direttori degli Istituti, ho dato vita alla rete "Napoli dentro e fuori", che si è prodigata in una serie di iniziative: corsi di lettura, incontri con autori di prestigio, cineforum, corsi di scrittura poetica, giornalistica e teatrale, proiezioni in anteprima di film, lezioni di filosofia sotto forma di allestimenti scenici e performance di vario genere. Tutto grazie alla generosità di giovani studiosi che al pari di tutti gli altri interessati hanno prestato le loro competenze e il loro tempo a titolo completamente gratuito". Nella lunga lettera, Frasca chiede un incontro a De Luca, sollecitando l’approvazione di una legge regionale a sostegno di progetti come quello che porta avanti da oltre un anno. L’intento è dichiarato: liberare particelle di cultura dentro il carcere. Facendo incontrare, al di là delle sbarre e oltre il muro dei reciproci pregiudizi, due facce di Napoli che spesso si ignorano. O, quando si incrociano, si guardano male. "Queste due anime della città, i giovani intellettuali e i detenuti, grazie al nostro progetto hanno dialogato. Hanno cominciato a conoscersi, a spiegarsi. Sarebbe un peccato se questo percorso si interrompesse", dice Frasca al "Mattino", a pochi giorni dalla cerimonia di premiazione, in programma venerdì 25 al teatro Sannazzaro. E indica la via per riprendere quel cammino che in questi giorni volge al termine. "Ameno due regioni si sono dotate di un’apposita legge: la Lombardia e l’Emilia Romagna. Mi appare quanto meno singolare che proprio la Campania, che produce purtroppo tanta popolazione carceraria, non ne abbia una", afferma il poeta. E aggiunge: "Una proposta di legge, che aveva Donato Pica come primo firmatario, venne depositata il 5 agosto del 2011. Ma non se ne fece nulla. Porse è giunto il momento di riprenderla". Una convinzione che va ben oltre un vago filantropismo. "Garantire un’offerta culturale a chi ha davanti a sé il tempo giusto per provare a ritrovare il bandolo della propria esistenza è fondamentale - argomenta il presidente del Premio Napoli -. Non solo perché le statistiche dicono che i detenuti impegna ti in attività culturali difficilmente tornano a delinquere, ma anche e soprattutto perché attraverso di loro si riesce a comunicare con le famiglie". A questo proposito, Frasca racconta il suo stupore dinanzi ai primi risultati: "A Secondigliano, il gruppo di quaranta detenuti che ha partecipato ai corsi di poesia ci ha chiesto di organizzare nel carcere una giornata per leggere le loro poesie alle famiglie. Persone che in passato si sono vantate di ben altre cose, ora vogliono mostrare la propria bravura nel comporre in endecasillabi: ecco, questo mi ha molto colpito". Quella voglia di porgere l’altro profilo dell’anima ha dato vita ad un evento che è stato registrato da Radio Tre e sarà raccontato in un libro. Ed è, quella dell’incontro tra detenuti e letterati, una sfida che ü successore di Frasca, l’avvocato penalista Domenico Ciruzzi, è pronto a rilanciare. "Mi insedierò il 9 dicembre, ma posso già garantire che sosterremo questa iniziativa. Nelle nostre carceri - racconta - il problema più grande è il sovraffollamento: basti pensare che a Poggioreale su 2mila detenuti soltanto seicento possono svolgere attività. Ecco, la mia presidenza si impegnerà contro l’imbarbarimento, riportando al centro del dibattito la presunzione di innocenza, il libero arbitrio, il garantismo. Temi che gli intellettuali, la letteratura, il cinema per troppo tempo hanno dimenticato". Sassari: visita di Angelo Urso (Uil-Pa) al carcere "una grande Asinara" di Alessandro Congia castedduonline.it, 20 novembre 2016 Carenze di organico, numerose problematiche nell’istituto penitenziario sassarese. La denuncia della Uil-Pa polizia penitenziaria. Hanno voluto trasformare la Sardegna in una "grande Asinara", senza prevedere l’incremento del personale di Polizia Penitenziaria negli Istituti. Il 29 novembre 2016 manifestiamo davanti al Dap anche per le problematiche sarde: "Nella visita all’Istituto sassarese - si legge nella nota della Uil-Pa - abbiamo avuto modo di constatare una consistente carenza organica nei vari ruoli pari a 110 unità, carenza che interessa anche i ruoli intermedi che devono coordinare i servizi degli Agenti. Le poche unità in servizio vengono distolte dai loro compiti principali per effettuare le videoconferenze dei detenuti al 41 bis presenti in Istituto. Il personale deve ancora fruire di 12.822 giorni di congedo ordinario, di cui 2.881 giorni relativi gli anni precedenti. Dall’inizio del 2016 si sono verificati 56 eventi critici, di cui 7 aggressioni a danno del personale e 8 tentati suicidi di detenuti che sono stati sventati grazie all’intervento tempestivo della Polizia Penitenziaria. Sono inoltre state effettuate 950 traduzioni e 33 piantonamenti in luogo esterno di cura che hanno interessato 1642 detenuti e l’impiego di 5061 Agenti. Dopo la visita si è riunito l’esecutivo regionale della Uil dove è stato analizzata la situazione del distretto. Purtroppo lo scenario dipinto è desolante, non si riesce ancora ad assegnare un Direttore in ogni Istituto così come i Funzionari non sono sufficienti per ricoprire le varie sedi dove necessita la loro assegnazione, caso emblematico proprio l’Istituto di Sassari dove non sono ancora stati ricoperti il coordinamento del Ntp ed il Vice comando con i citati Funzionari. Gli Istituti sardi ospitano detenuti al 41 Bis, Alta sicurezza; più è alto il livello di sicurezza richiesto, più dovrebbero essere sufficienti gli organici, l’Amministrazione ed il Governo hanno il dovere di prestare attenzione alle esigenze della Sardegna, devono essere garantiti interventi finanziari con adeguata integrazione degli organici. Il 29 novembre davanti al DAP sarà presente una delegazione della Uil Sardegna per rivendicare le problematiche anche del distretto sardo. Is Arenas (Ca): allarme nella colonia penale agricola, scoperto un caso di tubercolosi La Nuova Sardegna, 20 novembre 2016 I Sindacati denunciano la grave situazione sanitaria e i rischi per tutte le persone che sono entrate in contatto con il detenuto malato. Un caso di Tbc nella casa di reclusione di Is Arenas, riscontrato a un detenuto di origini romene proveniente da un carcere del Nord Italia. La denuncia viene dalla Fp Cgil-Polizia Penitenziaria, che con il suo coordinatore Sandro Atzeni ha inviato una note di protesta ai dirigenti regionali degli istituti di pena, evidenziando la grave situazione sanitaria che può essersi venuta a creare nella struttura di Is Arenas con contagi fra i detenuti e a danno dello stesso personale penitenziario con cui il detenuto affetto da tubercolosi è venuto a contatto, a cominciare dalla scorta che lo ha trasferito nel carcere isolano di Arbus. Ma ci sarebbero anche i passeggeri dell’aereo con cui è atterrato a Cagliari. Da parte sindacale si lamenta che il recluso sia giunto a Is Arenas senza che dalla struttura penitenziaria di provenienza sia stata riscontrata e comunicata l’infezione tubercolare in corso. Il caso è stato scoperto dal medico della casa di reclusione di Is Arenas al momento dell’arrivo del recluso. Prima un forte sospetto, poi è arrivata anche la conferma dall’ospedale di San Gavino dove il detenuto è stato accompagnato per approfonditi accertamenti. Milano: Angelino Alfano "per la città 150 soldati in più e stop ai profughi" di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 20 novembre 2016 Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, sceglie Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, per annunciare la svolta su sicurezza e migranti: l’arrivo di altri 150 militari per rinforzare i controlli in periferia e lo stop all’invio di profughi nel capoluogo lombardo a meno di situazioni eccezionali. L’arrivo del ministro, già fissato dopo la sparatoria mortale tra gang in piazzale Loreto di una settimana fa, cade a poche ore da un altro scontro fra giovani filippini sotto la Regione: secondo gli investigatori, una lite degenerata (6 gli arrestati). Il sindaco Giuseppe Sala, che aveva sollecitato l’invio dei militari, ribadisce che a Milano non c’è un allarme sicurezza. Il centrodestra polemizza sulla svolta per i migranti: "Risposta tardiva e insufficiente". La scelta del luogo è irrituale. Invece della prefettura in corso Monforte, il ministro dell’Interno Angelino Alfano sceglie Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, per annunciare la svolta su migranti e sicurezza: stop all’invio di profughi nel capoluogo lombardo a meno di situazioni eccezionali e l’arrivo di altri 150 militari per rinforzare i controlli in periferia. Si vanno ad aggiungere ai 650 già presenti in città per l’operazione Strade Sicure. In tutto saranno 800. Verranno create delle pattuglie miste (due militari e un agente o un carabiniere) che raddoppieranno il numero delle squadre in servizio. La decisione su quali luoghi pattugliare è affidata al prossimo Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza, ma dovrebbe riguardare zone della periferia e della semiperiferia milanese: via Padova, il quartiere Corvetto, San Siro, via Gola e via Imbonati. Con un’avvertenza però. A Milano non c’è allarme sicurezza. Lo dice Sala e lo ribadisce il ministro Alfano: negli ultimi nove mesi i reati sono calati del 7%. Gli omicidi, addirittura del 42, mentre i reati predatori scendono del 3%. Se l’arrivo dell’esercito era nell’aria già all’indomani della sparatoria in piazzale Loreto, quando il sindaco Beppe Sala aveva reiterato la richiesta di avere più militari in strada, il cambio di rotta sui profughi ha colto di sorpresa. Era stato lo stesso Sala a chiedere un "piano nazionale" del Governo per una distribuzione più equa. E ieri è arrivata la risposta dell’esecutivo: "Milano ha già fatto la sua parte - ha detto Alfano, seduto accanto a Sala e al prefetto Alessandro Ma- rangoni -. Ha raggiunto la sua quota e quindi se ci sarà un calo degli sbarchi, come è presumibile per il periodo invernale, ci sarà uno stop agli arrivi". Il titolare del Viminale indica anche la strada da seguire: "Il peso dell’immigrazione si sente soprattutto perché ci sono Comuni che non accettano arrivi scaricando il peso dell’emergenza sugli altri. Cercheremo di farli collaborare". Il ministro si riferisce ai Comuni che formano la provincia di Milano: "Su 134, solo 34 hanno detto sì all’arrivo dei migranti, contro 100 che hanno detto no". Sala, visibilmente soddisfatto, incassa la doppia vittoria: "Milano continuerà a fare la sua parte ma il tema è la dimensione del nostro impegno, perché ci sono città che non fanno la loro parte. Non è possibile che i sindaci della Lega dicano no all’accoglienza". I profughi ospitati in città sono 3.730, quelli nell’area metropolitana 5.400, nell’intera Lombardia 22.934 (il 13% del totale nazionale). Se la richiesta dell’arrivo dell’esercito aveva provocato molti mal di pancia nel centrosinistra, la visita di Alfano ha provocato la reazione del centrodestra: "Quella del governo è una risposta tardiva, che temo non sarà sufficiente a risolvere tutti i problemi - dice il governatore lombardo, Roberto Maroni, polemico anche per il mancato invito al vertice. La risposta vera è: stop immigrazione in Lombardia". All’attacco anche Matteo Salvini: "I militari servono ma non bastano, occorrono blocco degli sbarchi ed espulsioni di massa". Forza Italia è scesa in piazza insieme a Fdi, presenti Maria Stella Gelmini e Giovanni Toti: "Mi auguro che non sia la solita passerella - dice Gelmini - o un modo per chiedere un "sì" al referendum". Milano: Don Gino Rigoldi "la difficoltà è essere percepiti come marginali" di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 20 novembre 2016 "Non si diventa grandi da soli". Vale per tutti i ragazzini, ma per i figli degli immigrati - le seconde generazioni - vale di più. Ne è convinto don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile di Milano, promotore di tante iniziative di strada. Esiste un problema di devianza legato ai ragazzi di origine filippina? "Di sicuro alcuni di loro sono nel giro dello spaccio e del consumo di shaboo, un pericoloso acceleratore che fa perdere il senso della realtà. È un traffico che condividono con i cinesi". E i coltelli sono una consuetudine? "Ovviamente non per tutti, ma esistono gruppi che si danno un volto duro e circolano con qualche lama. Perché questa è la loro forma di "riscatto", di affermazione". Riscatto rispetto a cosa? "Rispetto ai loro genitori. Noi li consideriamo "integrati" perché frequentano le nostre case, anzi le curano, ma di fatto, soprattutto agli occhi dei loro figli nati e cresciuti qui, sono relegati a quel pezzo di mondo: spazzare per terra". Vuol dire che in realtà i filippini non sono integrati? "Voglio dire che i loro figli sono compressi tra la vita dei loro coetanei e quelle dei loro genitori. Non accettano come prospettiva quella di vivere facendo le pulizie e basta. Ed evidentemente all’interno della comunità filippina finora è stato piuttosto trascurato l’aspetto della cura, dell’attenzione per questi ragazzi che di fatto finiscono per trovarsi da soli in mezzo a due mondi: uno che non li attrae e uno che non li riconosce alcun ruolo. Ma non si diventa grandi da soli". Nel carcere minorile ce ne sono molti? "In realtà no. Per il traffico di shaboo vengono arrestati più cinesi. Ma questo non significa che non esista un problema di cui occuparsi". Sassari: "Marco Erittu fu ucciso nel carcere di San Sebastiano", il pg chiede tre ergastoli di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 20 novembre 2016 La Procura generale: "Non si suicidò, fu ammazzato". Gli imputati (cinque in tutto) in primo grado erano stati assolti. Un’ora e mezza per provare a ribaltare la sentenza di primo grado che aveva assolto tre dei cinque imputati dall’accusa di omicidio. Tre ergastoli era stata, il 23 giugno del 2014, la richiesta di condanna del sostituto procuratore della Repubblica Giovanni Porcheddu. E tre ergastoli è stata, ieri, la richiesta fotocopia del procuratore generale Gian Carlo Moi che arriva a nove anni esatti dalla morte del detenuto Marco Erittu, trovato senza vita nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. Il processo d’appello. "Il detenuto Marco Erittu non si è suicidato, è stato ucciso". Forti di questa convinzione i pubblici ministeri Sergio De Nicola e Gian Carlo Moi - rispettivamente sostituti procuratori della Procura generale nella sezione distaccata di Sassari e alla corte d’appello di Cagliari - avevano presentato appello contro la sentenza della corte d’assise di Sassari con la quale erano stati assolti dall’omicidio in concorso (per non aver commesso il fatto) gli imputati Giuseppe Vandi, Nicolino Pinna e Mario Sanna e dall’accusa di favoreggiamento (sempre in relazione all’omicidio Erittu) gli altri due imputati Giuseppe Sotgiu e Gianfranco Faedda. Il pm Giovanni Porcheddu aveva chiesto l’ergastolo per i primi tre e una condanna a quattro anni per gli altri due. Ieri, davanti alla corte d’assise d’appello presieduta da Plinia Azzena (a latere l’altro giudice togato Marina Capitta e i sei giudici popolari), il procuratore generale Moi ha ricostruito e ripercorso le tappe del processo di primo grado: perizie, testimonianze, comparazioni scientifiche e al termine della sua discussione ha chiesto alla corte di condannare i tre imputati principali all’ergastolo e Faedda e Sotgiu a un anno e sei mesi. E ha poi sollecitato, come già scritto nell’atto d’appello, di "disporre la parziale rinnovazione del dibattimento mediante l’espletamento di un’altra perizia medico legale sulla causa della morte e un accertamento tecnico sulla striscia di coperta in sequestro per la ricerca di tracce biologiche e l’estrazione del Dna per l’attribuzione alla vittima". La storia. Si sta parlando del caso Erittu, il detenuto trovato morto nella sua cella dell’ex carcere di San Sebastiano. Caso inizialmente archiviato come suicidio e poi riaperto in seguito alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Bigella che si era autoaccusato del delitto (è stato giudicato e condannato separatamente) chiamando in correità gli altri imputati. La corte d’assise aveva assolto tutti spiegano nelle motivazioni che l’istruttoria dibattimentale non aveva consentito "di acquisire, oltre alle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di Bigella, elementi idonei dotati di un minimo di certezza tali da far ragionevolmente ritenere che la morte di Erittu sia da ricondurre a un omicidio piuttosto che a un suicidio, così come concluso nelle prime indagini del 2007". I giudici si soffermavano sulla causa della morte e sulle "diverse e contrastanti opinioni dei consulenti" di accusa e difesa "che hanno un limite in comune: hanno effettuato le loro valutazioni sulla base del corredo fotografico effettuato in sede di autopsia". Non avrebbero cioè osservato direttamente il corpo della vittima. I dubbi della Procura generale. "Si parla di un detenuto rinchiuso in una cella liscia (singola e priva di suppellettili) che poche ore dopo è stato rinvenuto privo di vita per una causa mortis pacificamente non naturale (asfissia meccanica primitiva violenta) e che presentava al collo una striscia di coperta non agganciata ad alcun appiglio fisso (ma semplicemente poggiata all’asta della spalliera del letto) e che il dibattimento ha accertato non provenire dalle coperte presenti in cella". Circostanze, queste, che "escludono in radice la possibilità che sia stato il detenuto a "costruirla" e a usarla contro di sé (e quindi il fatto stesso del suicidio) e rendono palese la natura omicidiaria dell’evento, in piena conformità con le dichiarazioni di Bigella che ha confessato di aver personalmente ucciso Erittu su mandato di Giuseppe Vandi oltre che con la collaborazione di Nicolino Pinna al quale spettava il compito di simulare un suicidio) e del poliziotto penitenziario Mario Sanna (che ha reso possibile l’ingresso in cella)". Critiche al perito Avato. Forte, poi, la contestazione di Moi alle conclusioni cui arrivò il perito Francesco Maria Avato (che non aveva escluso l’ipotesi del suicidio) e in particolare le sue valutazioni sulla striscia di coperta: "La logica di Avato segue regole proprie ed è distante dalla regola che vige in ogni processo: quella che ritiene imprescindibile basarsi essenzialmente sui (veri) dati circostanziali che caratterizzano il caso concreto e la scena del crimine". La difesa. Confermati gli avvocati difensori: Agostinangelo Marras e Mattia Doneddu per Sanna, Pasqualino Federici e Patrizio Rovelli per Vandi, Luca Sciaccaluga per Pinna, Gabriele Satta per Sotgiu e Giulio Fais per Faedda. E poi i legali di parte civile Nicola Satta, Marco Costa e Lorenzo Galisai. Il processo riprenderà il 2 dicembre. Lucca: la Commissione regionale Sanità domani sarà in visita al carcere verdeazzurronotizie.it, 20 novembre 2016 Il presidente Scaramelli: "Proseguono nostri sopralluoghi nei penitenziari della Toscana. Verificheremo direttamente condizioni sanitarie, processi rieducativi e percorsi formativi". La Commissione regionale Sanità, presieduta da Stefano Scaramelli (Pd), sarà in visita alla Casa circondariale di Lucca lunedì 21 novembre. Alle 11, l’incontro con il direttore del carcere di San Giorgio, Francesco Ruello, quindi, alle 12, la visita della struttura penitenziaria. Con la commissione, parteciperanno alla visita anche Stefano Baccelli, presidente della commissione ambiente e consigliere espressione del territorio, e il garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, che ha già visitato la casa circondariale nel 2015 e nel 2013. "L’iniziativa - spiega il presidente Scaramelli - rientra nella decisione, presa da questa commissione, di constatare direttamente lo stato di salute, le condizioni sanitarie, i processi rieducativi e i percorsi formativi intrapresi o meno nelle carceri toscane per migliorare la qualità della vita di queste persone". La commissione è stata nelle scorse settimane al carcere di Porto Azzurro. "Con la Cassa circondariale di Lucca prosegue il sopralluogo dei penitenziari della Toscana, la cui situazione è stata giudicata critica in alcune realtà". Genova: Sappe; detenuto tossicodipendente si ferisce e aggredisce l’agente che lo soccorre primocanale.it, 20 novembre 2016 Un detenuto italiano tossicodipendente con problemi di psichiatrici, recluso nel carcere di Marassi, prima si è ferito in più parti del corpo poi, sporco di sangue, ha aggredito l’agente che lo stava accompagnando in infermeria. L’ennesimo episodio di autolesionismo e di violenza è stato denunciato da Michele Lorenzo, il segretario ligure del Sappe, il sindacato autonomo degli agenti penitenziari, che pone l’attenzione sul fatto che l’agente aggredito si dovrà sottoporree ad esami perché rischia di essere stato contagiato da una patologia infettiva. "Ci chiediamo - dice Lorenzo - cosa farà la direzione dell’istituto che, a nostro avviso gestisce in modo inadeguato l’istituto e non si preoccupa della carenza dei nostri organici. Da gennaio ad oggi a Marassi sono avvenute 75 colluttazioni, 103 azioni di autolesionismo, 44 danneggiamenti alle celle, 3 incendi, 6 tentati suicidi, 1 suicidio, sei aggressioni al personale". Saludecio (Rn): battaglia contro ex detenuti ospiti del parroco "noi non li vogliamo" La Voce di Romagna, 20 novembre 2016 Da tempo ospita nell’ex sala ricreativa accanto alla chiesa un gruppetto di ex detenuti arrivati dalla Papa Giovanni XXIII. Il sindaco tenta la mediazione ma don Tarcisio non cede. Oggi nuova protesta durante la Messa. Da qualche tempo don Tarcisio Giungi, parroco della chiesa di Saludecio, ospita nella ex sala ricreativa 5-6 persone proveniente dalla Papa Giovanni XXIII. La Comunità si è messa d’accordo con il prete e li ha spediti lì. Cosa che non è stata gradita dalla gente perché sono cominciate subito le proteste. "Sono ex detenuti - gridano dal Comitato Santa Maria del Monte - e noi non li vogliamo perché ci sono passati sopra. Non è questo il modo di fare. Si sono messi d’accordo tra di loro, siccome il parroco deve sistemare le sue stanze evidentemente in cambio dell’ospitalità gli hanno promesso qualcosa". Ortona (Ch): convegno "Il folle e il criminale. Ospedali psichiatrici giudiziari" abruzzonews.eu, 20 novembre 2016 Promosso dall’Associazione Romano Canosa, si terrà il 26 novembre prossimo presso il Teatro Tosti. L’Associazione Romano Canosa per gli studi storici ispirandosi al volume "Storia del manicomio in Italia dall’Unità ad oggi" (Feltrinelli) di R. Canosa organizza il convegno "Il folle e il criminale. Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) Pericolosità sociale e riforma del codice penale" il 26 novembre alle ore 16.30 al Teatro F.P. Tosti ad Ortona. Prima dell’approvazione della legge 81 del maggio 2014, i "folli rei" sono stati rinchiusi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) o manicomi criminali, in condizioni spesso disumane. A partire da questa data e dopo varie proroghe, gli Opg dovrebbero essere sostituiti da Residenze per le Misure di Sicurezza (Rems), ma la loro totale chiusura non è ancora avvenuta. La legge considera l’internamento nelle Rems una estrema ratio e in ogni caso una soluzione transitoria nei percorsi di cura. Oltre ai problemi suscitati dal mancato insediamento delle nuove strutture o, in alcuni casi, dal semplice cambiamento di facciata dei vecchi Opg, restano tanti interrogativi: le Rems sono un’alternativa adeguata a curare la follia? Si possono pensare misure diverse all’insegna di una cultura della deistituzionalizzazione? Poiché dietro l’internamento nell’Opg - oggi Rems - c’è sempre la valutazione della "pericolosità sociale" del "reo folle" è possibile una riforma senza prendere in considerazione anche le definizioni e i percorsi dischiusi da questo concetto previsto dal codice penale? Questi interrogativi saranno discussi affiancando il punto di vista di psichiatri e psicologi (Luigi Benevelli e Alessandro Sirolli), magistrati (Roberta Cossia) che svolgono - o hanno svolto - un lavoro sul campo, a quello di studiosi universitari di formazione diversa (sociologia, geografia diritto penale) quali Ciro Tarantino, Università della Calabria, Franco Farinelli Università di Bologna e Marco Pelissero Università di Genova, col compito di stimolare una riflessione sulle implicazioni culturali, sociali e politiche di un fenomeno prismatico come la follia. L’incontro si aprirà con il saluto di Giovanni Legnini, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Vincenzo D’Ottavio, Sindaco di Ortona, Daniele Piccione, Consigliere Parlamentare del Senato, Cristiano Maria Sicari, Ordine degli avvocati di Chieti. L’incontro è accreditato dall’Ordine degli avvocati di Chieti. L’Associazione Romano Canosa per gli studi storici costituita a Milano si propone di valorizzare l’opera di Romano Canosa, magistrato e storico di origini abruzzesi, attraverso l’approfondimento dei temi trattati nella sua vasta produzione con l’organizzazione di incontri e convegni, il coinvolgimento di studiosi di altre discipline correlate alla storia, la collaborazione di Istituzioni nazionali ed internazionali, l’istituzione di borse di studio, la partecipazione ad eventi editoriali e la pubblicazione di saggi e quaderni di studio. Rovigo: conclusa la prima edizione di "Arting Pot" alla Casa circondariale Rovigo Oggi, 20 novembre 2016 La magia della danza moderna contro l’isolamento. "Diamo a tutti la possibilità di godere dello spettacolo dell’arte". Dare a tutti la possibilità di godere di diverse forme artistiche e di riscattare situazioni di degrado urbano, sociale e culturale. Questo l’obiettivo di Arting Pot fusioni d’arte che ha concluso la prima edizione in carcere a Rovigo con al performance "Time of the Body" danzata da Thierry Parmentier e Yoris Petrillo, uno spettacolo di assoluto livello di danza moderna. Gran finale per il progetto Arting Pot - fusioni d’arte, promosso dal Circolo Arci "Il Tempo ritrovato" in collaborazione con Cantieri culturali creativi, Legambiente e una ricca rete di partner e sostenuto dalla Fondazione cassa di risparmio di Padova e Rovigo nell’ambito del bando "Culturalmente 2015". Con una performance artistica, realizzata venerdì 18 novembre e offerta ai detenuti del carcere di Rovigo, Arting Pot conclude la sua prima edizione, ricca di eventi culturali che hanno portato a Rovigo una fusione tra danza, musica, architettura, ambiente. "Portare arte dove arte non c’è, dare a tutti la possibilità di godere di diverse forme artistiche e di riscattare, attraverso queste, situazioni di degrado urbano, sociale e culturale. Questo - spiega Giorgia Businaro, ideatrice e coordinatrice del progetto - è sempre stato l’obiettivo di Arting Pot, questa è stata la filosofia che ci ha guidato nel lungo percorso attraverso luoghi e situazioni di abbandono, incuria, isolamento. Per questo non poteva esserci conclusione migliore per questo progetto: offrire uno spettacolo di alta qualità artistica a persone che non ne potrebbero altrimenti fruire rappresenta, secondo noi, il più alto traguardo che potessimo raggiungere". La performance "Time of the Body", sviluppata all’interno del delicato contesto carcerario, è stata ideata dalle coreografe Romina Zangirolami e Simona Argentieri e sviluppata dai danzatori Thierry Parmentier e Yoris Petrillo, che indagano il concetto di "relazione", l’esperienza dell’altro quale fattore di ricchezza. "Nato dalla constatazione che il Polesine sia terra ricca di potenzialità sotto il profilo culturale, artistico e ambientale, non pienamente sfruttate al fine di crearne volano di sviluppo sociale ed economico - continua Businaro - Arting Pot si pone, quali obiettivi prioritari, l’incentivazione, nei cittadini, del desiderio di riappropriazione e fruizione dei luoghi, valorizzando le potenzialità inespresse del Polesine in chiave culturale, sociale e turistica e la riduzione del disagio sociale attraverso la valorizzazione delle differenze culturali". Brindisi: "Peter Pan e l’Isola dei sogni", il libro scritto dai detenuti pugliatv.com, 20 novembre 2016 Il 3 dicembre a Brindisi presso il Palazzo Granafei Nervegna alle 17,30 ci sarà la presentazione del libro "Peter Pan e l’isola dei sogni", rivisitazione della fiaba originale di J.M. Barrie, scritto dai detenuti del carcere di Brindisi e prodotto dalla AlphaZTL Compagnia d’Arte Dinamica di Vito Alfarano. Il libro, Patrocinato dal Comune di Brindisi, è curato e illustrato dalla scrittrice brindisina Alessia Coppola ed è accompagnato da un dvd contenente audiolibro, video arte documentario e foto, il tutto tradotto anche in lingua inglese. Nell’audiolibro le voci di Marcello Biscosi e Norman Douglas Harvey leggono la fiaba riadattata dai detenuti con le musiche originali del compositore Nicola Rigato e l’ambientazione audio di Simone Pizzardo, entrambi veneti, e contiene anche le voci dei detenuti che leggono parti del testo della fiaba originale. Il video arte dal titolo "Peter Pan Syndrome", con la regia del coreografo brindisino Vito Alfarano e realizzato sempre con i detenuti della Casa Circondariale di Brindisi, da spazio ad una visione artistica della Sindrome di Peter Pan. Il video è stato selezionato e proiettato lo scorso 7 novembre a Roma al Med Film Festival (Festival del Cinema del Mediterraneo) e testimonia l’attività laboratoriale "Oltre i confini" che ha portato alla realizzazione del libro. Il laboratorio "Oltre i confini", svolto nel 2015, ha come obiettivo principale quello di fornire ai detenuti gli strumenti di socializzazione per una nuova riscoperta del sé e della relazione con gli altri, attraverso la conoscenza e la pratica dei linguaggi teatrali, scrittura, di movimento e musicalità seguendo uno specifico percorso formativo. Hanno collaborato al progetto: Alessia Coppola per le illustrazioni e la cura del testo; Silvio De Vito per la traduzione in lingua inglese; Nicola Rigato per le musiche originali e Simone Pizzardo per la sonorizzazione e montaggio audio; Marcello Biscosi, Pino Corsa e Norman Douglas Harvey per la voce; Pietro Cinieri per le riprese e montaggio; Vito Alfarano per la regia e la direzione artistica e organizzativa e laboratorio; Roberta Delli Ponti per le lezioni di yoga; Angelo Schettino per le lezioni di percussioni; Anna Maria Fumarola per le foto. L’evento è Patrocinato dal Comune di Brindisi e il Rotary Club Brindisi Appia Antica. Media partner Ciccio Riccio. I libri potranno essere acquistati in occasione dell’evento e successivamente presso AlphaZTL contattando il numero 3478172498. Catanzaro: all’Ipm presentazione di una ricerca sulla prostituzione soveratiamo.com, 20 novembre 2016 Si è svolto venerdì pomeriggio presso l’Istituto Penale Minorenni di Catanzaro la presentazione del racconto, in stile autobiografico, "Le prostitute vi precederanno. Inchiesta sul sesso a pagamento" di Charlie Barnao, docente di sociologia generale e della sopravvivenza presso l’Università degli Studi "Magna Graecia" di Catanzaro, in cui viene descritto e analizzato il mondo della prostituzione, nel tentativo di comprendere il punto di vista dei suoi protagonisti. La presentazione della ricerca etnografica durata oltre dieci anni - la prima del genere in Italia - a cura dell’autore, rientra tra le attività redazionali del periodico dell’Istituto "Il cielo è di tutti... quelli che hanno le ali", diretto da Vito Samà e Francesco Pellegrino, che è anche direttore della struttura carceraria, con l’ausilio del personale educativo e di Polizia Penitenziaria, con l’obiettivo di coinvolgere i minorenni e giovani-adulti detenuti su tematiche attuali da cui trarre spunto per la redazione dei rispettivi articoli. Barnao, che ha omaggiato i ragazzi di una copia del volume edito da Rubbettino, ha saputo rappresentare ai giovani detenuti l’interrogativo di partenza della ricerca "La prostituzione è il mestiere più antico del mondo? Forse", soffermandosi sulle funzioni sociali e sui significati sempre diversi in relazione al periodo storico in cui la stessa si manifesta. Attraverso la narrazione del suo lungo viaggio, condotto principalmente in Italia, ma con delle parentesi di alcuni mesi in Colombia e negli Stati Uniti, Barnao ha sfatato insieme ai ragazzi detenuti alcuni luoghi comuni sulla prostituzione, evidenziandone tendenze e principali caratteristiche, nonché confrontando la prostituzione femminile con quella maschile. I detenuti, appassionati dallo stile comunicativo di Barnao, hanno rivolto al ricercatore numerosi interrogativi sul tema, acquisendo direttamente la consapevolezza che il quadro che emerge è quello di un fenomeno complesso e variegato che si trasforma e si adatta velocemente alle esigenze del mercato, divenendo una lente di ingrandimento privilegiata per comprendere le trasformazioni odierne del rapporto tra uomo e donna. Barnao, insieme ai giovani detenuti, ha ritratto non solo le caratteristiche delle prostituite, lungo la scala piramidale che va dalla prostituzione di strada, passando da quella domestica e/o presso i night club, al fenomeno delle escort, ma anche quelle dei clienti, in particolare i frequentatori dei night club, lasciando emergere la caratteristica che accomuna quest’ultimi in tutto il mondo, ovvero uomini in crisi di identità, che hanno perso il controllo sulle donne e pagano la recita della seduzione, alla ricerca di una donna ideale, sensuale e sottomessa al loro volere. I detenuti, infine, sempre guidati dal docente Barnao, hanno consapevolizzato come nonostante i luoghi della prostituzione siano diversi e variegati tra loro, mantengano la caratteristica comune di essere luoghi isolati, lontano dal giudizio altrui, e tra questi ultimamente anche i luoghi virtuali del web dove spesso tanti giovani e adulti nascondono la propria identità alla ricerca di seduzione e/o per sedurre vittime inconsapevoli. Sanremo (Im): attori-detenuti in scena all’Ariston con lo spettacolo "Figliol prodigo" di Daniela Borghi La Stampa, 20 novembre 2016 I detenuti-attori di alta sicurezza della Casa di reclusione di Milano Opera tornano al teatro Ariston con il nuovo spettacolo, scritto e diretto da Isabeau (al secolo Isabella Biffi) con Fabio Perversi, Gino De Stefani e Osvaldo Pizzoli in occasione della Giubileo del carcerato. L’appuntamento è venerdì, alle 21: "Figliol prodigo" segue "L’amore vincerà", il musical che l’anno scorso ha entusiasmato e commosso il pubblico sanremese. Rappresentato anche in Vaticano e sostenuto da una lettera di Papa Francesco, vede in scena 14 attori-detenuti del Laboratorio Musical di volontariato ideato e curato dalla Biffi dieci anni fa. "Si tratta soprattutto di ex mafiosi con "fine pena mai", ossia l’ergastolo - spiega la regista - Solo qualcuno di loro riesce a ottenere la semi-libertà. Persone che non hanno conosciuto l’amore, e che si stanno riscattando anche grazie alla forza della recitazione. Soltanto per quattro di loro è rimasta la scorta, agli altri è stata tolta". Walter Vacchino, "patron" dell’Ariston: "La forza dell’amore fa cose impensabili. Questi attori hanno trasformato il muro del carcere in un confronto, e ora vivono tra i muri del palcoscenico di un teatro". Aggiunge: "Speriamo che questo spettacolo raggiunga il più largo pubblico possibile, per gli importanti valori e per l’emozione che arriva al cuore. Per questo abbiamo previsto una promozione: biglietti a 10 euro per gli under 14". Appello degli intellettuali per l’Europa: "è tempo di mobilitarsi per fermare i populisti" La Repubblica, 20 novembre 2016 Politici, uomini d’arte e cultura creano una piattaforma per far sentire la voce dei cittadini nella Ue e prevenire le derive nazionaliste. I promotori dell’appello: Guillaume Klossa, Sandro Gozi, Daniel Cohn-Bendit, Felipe Gonzalez, Robert Menasse, Roberto Saviano, David Van Reybrouck, Guy Verhofstadt, Wim Wenders. Come la Brexit, la vittoria di Donald Trump ancora una volta ci ha colto di sorpresa. Eravamo per lo più convinti che un approccio ragionevole al dibattito politico avrebbe prevalso su un discorso populista. Le radici della Brexit e della vittoria di Trump sono in gran parte le stesse: aumento delle disuguaglianze, ascensore sociale bloccato, paura della perdita di identità moltiplicata per la paura dell’immigrazione di massa, abbandono della questione sociale, sistema educativo e culturale carente, diffidenza verso élite ossessionate per i propri interessi personali e verso istituzioni pubbliche percepite come costose e inefficaci. In entrambi i casi, le conseguenze per gli europei e per il mondo sono rilevanti. Al rischio di disgregazione dell’Unione Europea, causato dalla Brexit, si aggiunge quello di un allontanamento progressivo tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea e della fine del mondo costruito nel dopoguerra, basato sul multilateralismo e sulla leadership benevola degli Stati Uniti. Il presidente americano eletto è stato chiaro: gli europei devono occuparsi di più della propria sicurezza, politicamente e finanziariamente. Le sue parole non fanno che accelerare una dinamica in atto sin dalla caduta del Muro di Berlino, 27 anni fa. Questi eventi non possono che galvanizzare i populisti del Vecchio continente, in vista degli appuntamenti elettorali o degli importanti referendum che si terranno nei prossimi mesi in Austria, Italia, Paesi Bassi, Francia e Germania. Ovunque, i partiti moderati sono minacciati. È dunque urgente agire. Se noi europei non impariamo rapidamente la lezione che viene da questi eventi, il crollo dell’Unione e la marginalizzazione dei nostri interessi e dei nostri valori in un mondo in cui presto non rappresenteremo più del 5% della popolazione (e dove nessuno Stato europeo farà più parte del G7) diventeranno sempre più probabili. Non avremo più i mezzi per essere ascoltati, né per garantire la sicurezza, mentre si moltiplicano le minacce alle nostre frontiere. Sarà sempre più difficile difendere i nostri interessi economici e commerciali - quelli della prima potenza esportatrice mondiale - quando la tentazione protezionista troverà sempre più consenso. La nostra idea di sviluppo sostenibile del pianeta rimarrà lettera morta. Non sarà più possibile finanziare i nostri modelli sociali fondati sulla redistribuzione, né i nostri importanti servizi pubblici. Nessuno dei nostri Stati ha gli strumenti per trovare, da solo, soluzioni a queste sfide. Ora più che mai, l’unità europea è indispensabile. L’urgenza è quella di trovare il modo di riconciliare i cittadini con il progetto europeo e di inventare l’Europa del futuro, capace di offrire speranza per tutti. L’Europa del futuro deve avere il cittadino nel cuore, e dimostrare che serve in modo efficace gli interessi di tutti i cittadini europei, e non solo delle proprie élite. È questa convinzione che ci porta al Movimento del 9 maggio, lanciato da cittadini e personalità da ogni provenienza, da ogni settore e da ogni sensibilità del continente, per far sì che l’Europa adotti senza indugio una tabella di marcia ambiziosa, concreta e pragmatica. La sfida è ridurre concretamente le disuguaglianze, stimolare la crescita, dare una risposta forte alla questione delle migrazioni, rafforzare la sicurezza dei cittadini, ambire a un’ulteriore democratizzazione dell’Unione e rimettere istruzione e cultura, fondamento della nostra identità democratica, al centro della Ue. Tra le nostre proposte ce ne sono alcune fortemente simboliche: la creazione di un Erasmus degli studenti medi; una politica di ricerca e sviluppo (R&S)comune nel campo della difesa; un raddoppio immediato del piano Juncker per gli investimenti; la creazione di liste transnazionali per le prossime elezioni europee. In parte siamo stati ascoltati dalle istituzioni europee, che hanno ripreso alcune delle nostre linee guida e adottato l’idea di una tabella di marcia. Ma oggi è necessaria più ambizione, è giunto il momento di lanciare una vera politica estera e di difesa europea. È tempo che l’Unione diventi una grande potenza politica, democratica, culturale, sociale, economica e ambientale. Il vertice europeo che si terrà a Roma il 25 marzo prossimo, in occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, dovrà rappresentare l’opportunità di un forte rilancio dell’Ue. Dovrà anche essere l’occasione per rafforzare la democrazia in Europa, sviluppando di metodi di democrazia deliberativa che possano permettere in modo efficace ai cittadini di contribuire alla definizione di priorità per il progetto europeo, e inventare i nuovi diritti e le nuove libertà del XXI secolo. Senza questo nuovo slancio politico rivolto ai nostri cittadini i demoni populisti che ora ci stanno indebolendo, ci porteranno alla sconfitta. La Storia varia nelle sue forme, ma il risultato sarebbe comunque disastroso. E la possibilità che l’Ue non festeggi neppure il suo 70° anniversario è concreta. Questa riscossa sarà possibile solo se le decine di milioni di cittadini che condividono la nostra ambizione si mobiliteranno per dare un futuro al nostro continente. È per questo che nel prossimo mese di gennaio creeremo una Piattaforma Civica Federale, ed è per questo che abbiamo lanciato in tutta Europa degli accordi civici per diffondere collettivamente la nostra voce. Dopo Parigi, lo scorso 15 ottobre, le prossime tappe saranno a Bratislava, Berlino, Roma e Bruxelles. Invitiamo tutti coloro che vogliono trasformare l’Europa a unirsi a noi. All’appello aderiscono anche: László Andor; Lionel Baier ; Mercedes Bresso; Elmar Brok; Philippe de Buck; Georges Dassis; Paul Dujardin; Cynthia Fleury; Markus Gabriel; Danuta Huebner; Cristiano Leone; Jo Leinen; Sofi Oksanen; Maria Joao Rodrigues; Petre Roman; Nicolas Schmit; Gesine Schwan; Kirsten van den Hul; René Van Der Linden; Philippe van Parijs; Luca Visentini; Vaira Vike- Freiberga; Cédric Villani; Sasha Waltz; Mars di Bartolomeo. Che cosa verrà dopo l’Isis? Il populismo mediorientale Di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2016 C’è stato un tempo in cui Siria e Iraq erano ancora il nome di due Paesi, di due nazioni, non soltanto di guerre infinite. La Siria da cinque anni e l’Iraq da due decenni sono il luogo di massacri indicibili e che pure abbiamo testimoniato. Siria e Iraq ormai esistono quasi soltanto con un acronimo, il Siraq, che a sua volta ne rievoca un altro, l’Af-Pak. La geopolitica non manca di fantasia: come chiameremo tra un pò di tempo la Libia divisa da tra Tripolitania e Cirenaica? E forse avremo ancora uno Yemen del Nord e uno del Sud, questa volta non separati delle ideologie ma dal settarismo. È un’illusione che la sconfitta del Califfato porterà a soluzioni pacifiche: la guerra al terrorismo verrà sostituita da altri conflitti perché lo Stato Islamico non è la causa ma il sintomo della disgregazione di popoli. La Russia stessa e gli Stati Uniti non hanno per niente le idee chiare sul da farsi, se non al massimo dividere i contendenti e mantenere le sfere di influenza rappresentate da basi militari, qualche pipeline e dagli interessi economici che fanno di alcuni attori regionali dei clienti di primo piano delle loro industrie belliche. Quando spiegheranno a Trump che gli Usa hanno sette basi militari nel Golfo e la Sesta Flotta in Bahrein a guardia delle rotte del petrolio, che l’Arabia Saudita è il terzo Paese del mondo per acquisti di armi, comprate per il 90% dagli Usa, è possibile che alcune dichiarazioni di campagna elettorale appariranno effimere. Si aspetta soltanto il momento in cui questi stati verranno definitivamente frantumati in entità diverse, magari riuniti sotto il nome che avevano prima come in una sorta di fiction ereditata dalla spartizione anglo-francese del secolo scorso per nascondere la realtà di un mondo di ex stati, popoli e Paesi. Solo israeliani e palestinesi non riescono a separarsi, al punto da fare apparire quasi obsoleta la formula "due popoli e due stati". Ma anche la separazione è complicata, l’ha evocata recentemente a Washington il governatore di Kirkuk se i curdi non si metteranno d’accordo con il governo centrale di Baghdad. La nuvola nera dei pozzi petroliferi incendiati dall’Isis che avvolge adesso Mosul e dintorni è un avvertimento che gli interessi sulla spartizione delle risorse saranno determinanti, qui come in Siria e in Libia. E pensare che il 1989 era finito con il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie. Eppure proprio quell’anno Slobodan Milosevic, celebrando i 600 anni della battaglia di Kosovo Polje, il Campo dei Merli, dava il via alla disgregazione della Jugoslavia di Tito che si è poi propagata nel tempo all’Est Europa fino all’Ucraina. Ma allora tutti correvano a Berlino a prendere un pezzo di Muro come un souvenir della fine della storia. C’è stato un tempo in cui si volevano costruire degli stati e addirittura sovranazionali che contenessero, etnie, culture, lingue diverse. Egitto e Siria provarono la riunificazione sotto il laico Nasser a fine anni 50 mentre si diffondeva l’ideologia panaraba del partito Baath fondato da un cristiano ortodosso e da un musulmano sunnita che accomunò per un breve periodo Damasco e Baghdad. Non sono finiti soltanto gli stati, sono finiti i popoli stessi, intesi come volontà di vivere insieme e di condivisione di una comunità politica e sociale. La caduta dei dittatori, da Saddam Hussein alle primavere arabe, ha mascherato con la loro fine il tramonto dell’era post-coloniale e dello stato-nazione che teneva a bada con metodi autocratici i tribalismi. Oggi si punta a creare entità autonome settarie o etnicamente pure basate su giuste rivendicazioni ma che si privano di pezzi di storia comune per giustificare la loro esistenza o ne resuscitano un’altra ormai archiviata. Anche la crisi della Turchia di Erdogan risponde a questa tendenza: quella di uno stato-nazione che ha dovuto rassegnarsi quasi un secolo fa all’identità turca per sopravvivere al crollo di un’Impero ottomano che era molto di più che turco. Al punto che oggi per contenere i curdi la Turchia ricorre alla violenza e all’espansione militare oltre i suoi confini. Non è un segnale di forza ma di debolezza. Finiti i popoli, con la loro complessità, ricchezza e molteplicità, è rimasto però anche qui in Medio Oriente il populismo, l’estremo tentativo di dare un senso purchessia a qualche cosa che si è esaurito, una sorta di degenerazione finale, accompagnata dalla menzogna che "puri" si vive meglio. Siria. Imminente la battaglia finale per Aleppo di Michele Giorgio Il Manifesto, 20 novembre 2016 Damasco prepara l’offensiva volta a riprendere Aleppo Est controllata da jihadisti e ribelli. I bombardamenti aerei continuano a fare vittime. Medici Senza Frontiere denuncia che gli ultimi raid hanno spazzato tutti gli ospedali da campo e le cliniche mobili. Mentre le truppe irachene avanzano lentamente da est verso Mosul incontrando una forte resistenza da parte dei miliziani dello Stato Islamico - i jihadisti usano cecchini, rpg e colpi di mortaio contro i soldati governativi giunti nelle zone di Muharabeen e Ulama dopo aver liberato il sobborgo di Tahrir - sull’altro fronte di guerra, quello siriano, sta per scattare un’offensiva decisiva. Le truppe siriane, assieme ai combattenti sciiti libanesi di Hezbollah e di altri Paesi, si preparano a lanciare un attacco su vari punti per riprendere i quartieri orientali di Aleppo controllati da quattro anni da jihadisti (spesso stranieri) appartenenti a varie organizzazioni, in particolare a Jaish Fateh al Sham (ex Nusra, il ramo siriano di al Qaeda) e Ahrar al Sham, e più marginalmente da ribelli descritti come "moderati". Damasco dopo aver respinto l’ampia offensiva lanciata a fine ottobre dai jihadisti contro il settore occidentale di Aleppo, sta ora ammassando le sue forze di terra a ridosso di Aleppo. L’intensità dei bombardamenti dell’aviazione siriana (e forse anche di quella russa) indica che l’offensiva potrebbe scattare tra qualche giorno. Riprendere Aleppo, la più importante delle città siriane dopo Damasco e un tempo principale centro economico del Paese, darebbe un eccezionale vantaggio militare e psicologico alle forze governative. Segnerebbe la sconfitta più grave negli oltre cinque anni di guerra civile per jihadisti, qaedisti e tutte le formazioni "ribelli" sostenute, in vari modi, dai governi occidentali e dai petromonarchi del Golfo. Tuttavia oltre a 250mila civili nelle zone orientali di Aleppo ci sono anche 7.000 jihadisti e miliziani ribelli nascosti dietro posizioni fortificate a Tariq al-Bab, Salikhin, Shaar, Sukk e in altri rioni. Pertanto la battaglia, come quella per la riconquista di Mosul, potrebbe andare avanti per settimane con altre migliaia di morti tra soldati, miliziani e persone innocenti. Ma è segnata. Le formazioni jihadiste non hanno alcuna possibilità di rovesciare le sue sorti. Per risparmiare ulteriori sofferenze e lutti ai civili dovrebbero perciò arrendersi e, come avevano proposto i russi alleati di Damasco nelle settimane passate, lasciare Aleppo Est e trasferirsi nella vicina provincia di Idlib ancora sotto il controllo di Jaish al Fateh, la coalizione islamista. Contro questa opzione è però schierato Abdallah al Muhaysini, il qaedista saudita che dopo aver combattuto per il Jihad in vari Paesi, inclusa la Cecenia, nel 2013 è giunto ad Aleppo dove ha preso il comando "spirituale" di Jaish Fateh al Sham e imposto la sua leadership alle altre organizzazioni ribelli. Così la battaglia per Aleppo continua e con essa non cessa il bagno di sangue quotidiano. I bombardamenti governativi - ufficialmente diretti contro i centri logistici dei jihadisti a Khan al-Asal, Kafr Hamra e Haraytan - oltre a fare morti (almeno 28 nelle ultime ore, un centinaio da martedì, secondo media legati all’opposizione e ai controversi "elmetti bianchi") aggravano la condizione dei civili. Medici Senza Frontiere sostiene che gli ultimi pesanti raid aerei hanno messo fuori uso tutti gli ospedali da campo e le cliniche mobili ad Aleppo Est, di cui una pediatrica. L’ultima sarebbe stata colpita venerdì sera. Nei quartieri in mano ai ribelli resterebbe operativo soltanto un ospedale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che nel 2016 si sono registrati 126 attacchi alle strutture sanitarie. Non cessano neanche i lanci di razzi di jihadisti e ribelli sulla zona ovest di Aleppo, sotto il controllo governativo. L’ultimo, secondo i media statali siriani, ha fatto almeno cinque vittime civili. Siria. L’Oms: "Ad Aleppo est non ci sono più ospedali" Avvenire, 20 novembre 2016 Almeno 27 civili sono morti ieri nei pesanti attacchi dal cielo e da terra del regime siriano su Aleppo est. Lo riferisce l’Osservatorio siriano per i diritti umani, spiegando che la parte orientale della città è sotto pesanti bombardamenti. Sempre ad Aleppo est, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, pesanti e ripetuti bombardamenti governativi hanno messo fuori uso tutti gli ospedali da campo e cliniche mobili della zona assediata dalle forze lealiste. Secondo altre fonti un solo ospedale sarebbe rimasto operativo un unico ospedale: "L’unico ospedale aperto è quello di al-Quds, ma la zona è sotto i bombardamenti", ha riferito il direttore dell’ospedale chirurgico al-Bayan, Mahmud Rahim Abu Bah che non ha escluso la riapertura di al-Bayan, la struttura bombardata mercolech, in un’altra zona della città. "È stato un giorno nero per la parte orientale di Aleppo. I bombardamenti in serie hanno causato darmi enormi ai pochi ospedali che operano ininterrottamente", ha ammesso la coordinatrice di emergenza di Msf, Teresa Sancristoval. Così gli Stati Uniti hanno messo in guardia la Siria e la Russia contro le "azioni atroci". In una nota della Casa Bianca, il consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice ha condannato i bombardamenti che hanno distrutto gli ospedali, aggiungendo che "il regime siriano e i suoi alleati, la Russia in particolare, sono responsabili delle conseguenza immediate e dilungo termine di tali azioni". Mosca deve "immediatamente" fermare le violenze e consentire l’arrivo aiuti umanitari, ha aggiunto la Rice. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha registrato 126 attacchi contro strutture sanitarie nel corso dei combattimenti in Siria nel 2016. Finora le parti in conflitto non sono state in grado di concordare un piano di soccorso, che consenta effettivamente di rifornire la popolazione di Aleppo est con viveri e medicinali. I ribelli temono che l’elezione di Donald Trump possa indebolire ulteriormente la loro posizione, soprattutto se prevarrà la scelta di rafforzare la lotta contro il Daesh e quindi su tale base un accordo di fatto con la Russia e con Assad. Proprio il presidente siriano ha definito Trump "un alleato naturale", impegnato com’è nella lotta contro i terroristi, termine con cui il regime definisce tutte le forze dell’opposizione. Turchia. Sulle spose bambine il governo ci ripensa di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 20 novembre 2016 Si arena, almeno per ora, il disegno di legge che prevede la non perseguibilità di chi, giudicato colpevole di abusi sessuali su minore, sposi la vittima della medesima violenza. Dopo le violente polemiche in Parlamento scatenate venerdì dai deputati del partito Chp il premier Binali Yildirim, su ordine del presidente Erdogan, ha dichiarato che il testo va discusso prima con le opposizioni. La discussione è rinviata alla prossima settimana. Non ne è affatto soddisfatto il ministro della Giustizia Beckie Bozdag che ha accusato "i social media" di aver "creato una polemica ad arte, falsificando la notizia e distorcendo la realtà". Ma il malumore per l’iniziativa si è diffuso anche all’interno del partito di maggioranza, solitamente monolitico. Nel disegno di legge era previsto che la norma avesse un valore retroattivo, ovvero applicabile a tutte le sentenze emesse fino all’11 novembre scorso. "Si tratta di cercare una soluzione a un problema concreto. Questo tipo di matrimoni - ha sostenuto il ministro Bozdag - esiste da secoli nella nostra società, dove sono i parenti a organizzare questo tipo di unioni, nell’ignoranza della legge". Il premier Yilidirim ha parlato di "circa 3mila famiglie" con dei parenti in carcere perché chi ha organizzato il matrimonio non conosceva il codice civile turco che vieta il matrimonio ai minori di 17 anni, con tutti i rapporti sessuali con minorenni perseguibili d’ufficio come "abusi sessuali". Ogni anno in Turchia ci sono migliaia di casi di matrimoni precoci o con una parte minorenne, che vengono alla luce solo nel momento in cui la donna partorisce in ospedale o quando ad accorgersi dell’unione illecita sono insegnanti o dirigenti scolastici. Rivolgendosi alla Camera ieri il capogruppo repubblicano Öztürk Ozel ha detto che "questa legge favorisce matrimoni sotto coercizione e condona il reato di violenza sessuale". Contrarie anche le associazioni per i diritti delle donne, come Kadem, che nel suo consiglio direttivo può contare Summeye Erdogan, figlia del presidente della Repubblica. In un comunicato, l’associazione per i diritti delle donne ha dichiarato che la legge si mostra "fallimentare" nella determinazione degli elementi della coercizione, "carente" nella verifica della reale volontà delle giovani e giovanissime donne coinvolte. Pakistan. Per la chiusura del Giubileo il governo libera 69 detenuti La Stampa, 20 novembre 2016 Il ministro per i Diritti umani: "Rilasciati i prigionieri coinvolti in reati minori che sono nelle carceri solo perché non in grado di pagare". Un gesto di clemenza, come richiesto da papa Francesco, in occasione del Giubileo della misericordia: in occasione della chiusura del Giubileo della misericordia, 69 detenuti del carcere centrale di Faisalabad sono stati liberati e molti altri saranno rilasciati, nei prossimi giorni, in altri istituti di detenzione pakistani. Il gesto è avvenuto in occasione della recente visita al carcere compiuta dal ministro federale per i Diritti umani, il senatore cristiano Kamran Michael, insieme con il vescovo di Faisalabad, Joseph Arshad, altri rappresentanti cristiani e rappresentanti del governo del Punjab e della magistratura. Per l’occasione il giudice del tribunale di primo grado Abid Hussain Qureshi ha disposto il rilascio di 69 prigionieri coinvolti in reati minori, che erano ancora in carcere perché, pur avendo scontato la pena, non erano in grado di pagare le sanzioni in denaro previste dalle condanne. In una nota inviata a Fides, il ministro Kamran Michael ha confermato che "nel quadro del programma del Ministero federale dei diritti umani, si è deciso di rilasciare i prigionieri coinvolti in reati minori che sono ancora nelle carceri solo perché non in grado di pagare le sanzioni. Tali sanzioni saranno pagate grazie a uno speciale fondo governativo", ha aggiunto. Il Ministro ha riferito che il Governo ha avviato il processo di liberare questi detenuti in tutto il Paese, aggiungendo che questo processo è partito nel carcere centrale di Faisalabad e che sarà esteso ad altri istituti di detenzione. Nell’ottica di un percorso di rieducazione, "il governo ha avviato speciali corsi di formazione al fine di rendere gli ex detenuti cittadini responsabili e aiutarli a reinserirsi nel tessuto sociale". L’iniziativa, ha spiegato, recepisce lo spirito "annunciato da papa Francesco in questo anno chiamato Anno della misericordia, per assegnare il fondamentale diritto alla libertà di questi prigionieri". "Questa politica mira anche a ridurre il numero dei detenuti nelle carceri pakistane, per garantire loro una migliore sistemazione nelle strutture", ha concluso. Il ministro Michael ha ispezionato diverse sezioni del carcere e si è incontrato con alcuni detenuti per informarsi sulle loro condizioni, assicurando di adottare i necessari provvedimenti per risolvere i loro problemi. In Pakistan vi sono 88 strutture di detenzione che ospitano la popolazione carceraria totale che supera 80mila detenuti, dei quali il 70% sono in attesa di giudizio. La capacità ufficiale del sistema carcerario è di circa 46mila unità, e il problema del sovraffollamento delle carceri si avverte dappertutto. Nel suo "Rapporto" del 2015, la "Commissione per i diritti umani del Pakistan", Ong diffusa in tutta la nazione, ricorda che "maltrattamenti e torture sono diffuse", mentre "le carceri ospitano il doppio delle persone rispetto alla loro capacità e in alcune celle, i detenuti non hanno nemmeno un giaciglio". Il sovraffollamento, si nota, non permette la separazione dei detenuti in base alle categorie (sotto processo o già condannati), né tra minorenni e adulti. Nel sistema penale pakistano esistono pene alternative come sanzioni e multe, disposte a volte dai tribunali per la condanna di delinquenti ritenuti non violenti. Paraguay. Per l’Anno della Misericordia indulto e migliori condizioni nelle carceri fides.org, 20 novembre 2016 Il presidente del Paraguay, Horacio Cartes, ha annunciato ieri,18 novembre, la concessione dell’indulto a 16 prigionieri, per lo più donne, rispondendo alla richiesta pronunciata da Papa Francesco ai capi di stato in occasione dell’Anno santo della Misericordia. Come appreso da Fides, In una cerimonia nel Palazzo del Governo, alla presenza dal Nunzio Apostolico, l’arcivescovo Eliseo Antonio Ariotti, Cartes ha concesso l’indulto, affermando di aver preso "con serietà" l’invito contenuto nella lettera in cui Papa Francesco ha chiesto la libertà per i prigionieri. L’indulto investe 16 persone, di cui 10 donne detenute nel penale del Buon Pastore, in quello di Juana Maria de Lara e nella prigione regionale di Encarnacion. Tutti saranno rilasciati entro domenica, ha detto il ministro della Giustizia, che ha anche annunciato un investimento di 80 milioni di dollari in infrastrutture carcerarie nel paese per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. La popolazione carceraria del Paraguay ammonta a 13.071 persone, anche se le infrastrutture hanno la capacità di ospitare 6.643 detenuti.