Il Sottosegretario Gennaro Migliore "carcere, basta tabù: il governo sfida i populisti" di Errico Novi Il Dubbio, 1 novembre 2016 "Occuparsi del carcere è una scelta di sinistra. È un’opzione che mette in atto nel modo più concreto una visione chiaramente progressista". Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia, è reduce dalla visita al carcere "Due Palazzi" di Padova, la prima che si ricordi a cui abbia partecipato un presidente del Consiglio. Conferma che da parte del governo c’è una svolta anche comunicativa sulla politica penitenziaria. E che con il premier, il guardasigilli e il sottosegretari a verificare le condizioni dei detenuti "si materializza anche l’attenzione dell’esecutivo verso la parte della società che vive le condizioni di disagio più estreme. Vogliamo praticare una politica", dice il sottosegretario, "che non prende mai le distanze dalle aree di maggiore sofferenza della società". Il carcere passa per essere un tema che porta poco consenso: il governo vuole sfidare il tabù? La visita a Padova è il coronamento di una serie di interventi molto concreti fatti in questi anni. Prima abbiamo affrontato il sovraffollamento, poi abbiamo compiuto anche una scelta in termini di visibilità: uscire dalla logica dell’occultamento seguita da precedenti governi. Perché parla di occultamento? Perché diversi esecutivi hanno preferito il più delle volte non parlare affatto della questione penitenziaria. Oppure, penso al governo Berlusconi, hanno scelto di farne solo una questione immobiliare: l’allora ministro Castelli varò un gigantesco piano per realizzare nuove carceri ma non si preoccupò affatto di come far diminuire la recidiva e aumentare quindi la sicurezza. Voi ritenete di averlo fatto? Siamo arrivati nel momento in cui il sovraffollamento aveva raggiunto il punto più alto ed era arrivata anche una sanzione europea con la sentenza Torreggiani. Siamo intervenuti innanzitutto con la messa alla prova: e oggi non a caso le persone sottoposte a misure alternative alla detenzione sono passate da 22?23mila a 41mila. I dati dicono che quanto più l’esecuzione viene fatta al di fuori delle carceri tanto più diminuisce la recidiva, e quindi si dà ai cittadini maggiore sicurezza. Siete andati a Padova che da questo punto di vista è un modello. È uno degli istituti in cui viene applicata con più intensità una forma di detenzione basata sul reinserimento lavorativo, e i risultati si vedono: lì ci sono almeno 150 persone impiegate, dal call center alla pasticceria. Mi faccia dire che un altro investimento a cui il governo tiene molto è quello sulla polizia penitenziaria, la cui riqualificazione è essenziale perché parliamo di chi sta a contatto diretto coi detenuti. Tutto per ridurre sempre più la recidiva: gli interventi compiuti dal ministro Orlando sono mossi da questo obiettivo, la presenza di Renzi a Padova è il riconoscimento del lavoro fatto. Vi assumete anche un rischio politico notevole, considerata la scarsa popolarità delle politiche sul carcere. Guardi, noi ci sentiamo vicini alle sollecitazioni che un uomo come Marco Pannella ha fatto arrivare alla politica nel corso di tutta la sua vita: parliamo di un vero combattente per l’affermazione dello Stato di diritto. Ricordo ancora che l’unico messaggio alle Camere inviato dal presidente della Repubblica Napolitano è stato quello sulla condizione penitenziaria. E che papa Francesco ha voluto il giubileo dei detenuti, che si terrà domenica prossima. Intende dire che nel discorso pubblico sul carcere qualcosa sta cambiando? C’è sicuramente un gran lavoro da fare per vincere paure irrazionali. Ma noi abbiamo una precisa responsabilità: garantire la sicurezza. Non possiamo cedere ad altre tentazioni. Chi lo fa, non è che compie solo un peccato di demagogia ma un vero e proprio attentato. Noi pensiamo invece che il contrasto alla radicalizzazione all’interno degli istituti e lo sforzo di non far peggiorare la pericolosità di chi vi è recluso passano anche per un lavoro culturale importante. Non a caso è questo il governo che ha convocato gli Stati generali dell’esecuzione penale. Pensa sia necessario stralciare la delega per la riforma penitenziaria dal ddl penale? No, si deve puntare a portare a casa l’intero disegno di legge. Non vedo perché dovremmo pensare allo stralcio proprio ora che alcune resistenze su parti del provvedimento paiono superate. Penso che nel giro di qualche settimana possiamo arrivare all’approvazione. Le resistenze di cui parla sono quelle dell’Anm? Lunedì della scorsa settimana c’è stato un incontro importante a Palazzo Chigi, sia con l’Anm che con il Consiglio nazionale forense. Da tutte e due le parti sono arrivati contributi che consentono di fare passi avanti. Si deve procedere rapidamente per intervenire tanto sui tempi di prescrizione quanto sul carcere. A proposito di magistrati e avvocati: i primi non vogliono dare il voto ai secondi nei Consigli giudiziari. Il ministro intende proporre un’iniziativa di legge per consentire che anche la classe forense contribuisca alle valutazioni di professionalità dei magistrati: io vorrei ricordare che una parte della magistratura è sempre stata d’accordo su questa modifica, e credo la si debba realizzare. Torniamo ai detenuti: domenica a San Pietro arriverà la marcia per l’amnistia dei radicali. La loro iniziativa è servita a creare un clima diverso: io domenica sarò al giubileo dei detenuti, è giusto che vi partecipi tutta l’amministrazione penitenziaria, è un atto storicamente rilevante. Saremo lì ad ascoltare papa Francesco, ma io ho sempre condiviso tantissime delle battaglie dei radicali. Il loro rigore e la loro competenza sono uno stimolo per la democrazia. Sull’amnistia, auspico che non ce ne sia bisogno: e cioè che si riesca a non dover ricorrere a provvedimenti straordinari e automatici perché si mettono in campo quelli strutturali e duraturi. La promessa di Orlando "spazi senza barriere per gli incontri tra genitori detenuti e figli" risorgimentoitaliano.news, 1 novembre 2016 Ad oggi, gli incontri tra bambini e padri detenuti avvengono ancora attraverso i vecchi "separatori". Nel 2014, Bambinisenzasbarre siglava il primo protocollo europeo per la tutela dei diritti dei figli di detenuti". A ridosso della visita di Premier e Ministro della Giustizia al carcere di Padova, si sta diffondendo l’eco delle dimostrazioni d’intenti governative in merito alla gestione del problema carcerario. Dopo la presa di distanze ufficiale di Matteo Renzi rispetto alla possibilità d’ introduzione dell’amnistia e il riconoscimento dell’indubbio sovraffollamento dei penitenziari, ad essere toccato è stato un altro nervo scoperto del sistema, quello dei minori figli di detenuti all’interno delle strutture. A sviluppare il punto c’ha pensato il Ministro Andrea Orlando: "Saranno organizzati degli spazi senza barriere per gli incontri dei detenuti con i loro figli - ha dichiarato nei giorni scorsi. (Fonte: ristretti.org). Tema molto sentito, quest’ultimo, a fronte delle richieste che, pressanti, arrivano dal mondo della detenzione. Al momento, le visite avvengono attraverso alcuni separatori che occupano le stanze dei colloqui tra detenuti e familiari. Ma la situazione non piace agli operatori del settore che da tempo denunciano la scarsa conformità psicologica del "trattamento" riservato ai bambini che, loro malgrado, diventano ospiti anche solo per qualche ora delle Case Circondariali. Come informa il Garante dell’Infanzia, nel 2014 è stato siglato un protocollo d’intesa tra il ministero della Giustizia e l’associazione Bambinisenzasbarre, una vera e propria Carta dei Diritti, il cui testo - tra i vari passaggi - prevede al punto 5 "la raccolta di dati che forniscano informazioni sui figli dei genitori detenuti, per rendere migliori l’accoglienza e le visite negli Istituti penitenziari". Orlando intende proprio andare in questa direzione? Se con l’istituzione dei cosiddetti "spazi gialli" si è inteso alleggerire la fase dell’attesa del colloquio per quei minori che hanno padri detenuti, oggi rimaniamo riponiamo fiducia nell’applicazione di un modello d’incontro da realizzarsi attraverso modalità alternative a quelle attuali. I Radicali: marcia per l’amnistia, sono 5.044 i reclusi che aderiscono al nostro digiuno Il Dubbio, 1 novembre 2016 "Da oggi, presso la sede del Partito radicale, ci sarà ogni giorno una conferenza stampa fino al giorno della marcia, affinché la stampa si assuma la responsabilità di informare i cittadini su questa nostra iniziativa", ha dichiarato Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino, che insieme a Maurizio Turco, Rita Bernardini, Irene Testa, tutti della presidenza del Partito radicale, e Paola di Folco ieri hanno partecipato alla seconda conferenza stampa del partito Radicale per presentare la IV marcia per l’amnistia, intitolata a Marco Pannella e Papa Francesco, che si terrà nella capitale il 6 novembre prossimo, da Regina Coeli a Piazza San Pietro, in occasione del Giubileo dei Carcerati. "Sono ad ora 5.044 le lettere di carcerati giunte al Partito radicale e a Radio Carcere che faranno un digiuno di dialogo il 5 e 6 novembre per manifestare la loro adesione alla nostra iniziativa", ha sottolineato Rita Bernardini, in sciopero della fame da 22 giorni. "Mi fa piacere leggere un passaggio che abbiamo ritrovato in molti messaggi ricevuti: "vogliamo manifestare con questo sciopero della fame, insieme alle nostre famiglie, per i nostri diritti, per una giustizia giusta e umana, per essere accanto a voi che non ci abbandonate mai e per il nostro Garante Marco Pannella", ha aggiunto. Per Paola di Folco, in sciopero della fame dal 9 ottobre, "il numero così alto di detenuti in sciopero della fame ha un significato particolare e ha segnato un processo culturale ed educativo che viene da un luogo in cui lo Stato di diritto è compromesso: i detenuti ci insegnano come ci si comporta anche quando si è vessati. Tuttavia è lo Stato che avrebbe dovuto farsi carico della rieducazione dei detenuti". Davigo (Anm): "per far funzionare la giustizia serve il numero chiuso a Giurisprudenza" La Repubblica, 1 novembre 2016 Il presidente dell’Anm a Bologna per presentare il libro scritto con Gherardo Colombo: "La politica non riesce a incidere sulla lobby degli avvocati". La prima cosa da fare per far funzionare meglio la giustizia in Italia? "Il numero chiuso nelle facoltà di giurisprudenza". Lo sostiene Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati che, a Bologna, ha presentato il libro "La tua giustizia non è la mia. Dialogo fra due magistrati in perenne disaccordo", scritto a quattro mani con l’amico Gherardo Colombo, con il quale ha anche condiviso l’esperienza del pool di Mani pulite. "Per far funzionare meglio la giustizia - ha detto Davigo - serve una massiccia depenalizzazione, ma bisogna disincentivare chi fa girare a vuoto la macchina della giustizia. Se dimezzassimo il numero dei processi, si dimezzerebbe anche l’onorario degli avvocati: la politica non è riuscita ad avere ragione della lobby dei tassisti, figuriamoci con gli avvocati. Un terzo degli avvocati dell’Unione Europea sono italiani e oggi il 92% dei laureati in giurisprudenza, visto che la pubblica amministrazione non assume da venti anni e che nelle aziende private ci sono sempre meno sbocchi per i giuristi, diventano avvocati". Per Davigo e Colombo, comunque, la serata bolognese è stata un bagno di folla. Nel loro libro ripercorrono le tappe della loro carriera, ma tracciano anche molte idee per la riforma della giustizia, confrontando i loro due punti di vista diversi in una presentazione nella quale si punzecchiano affettuosamente. "Gli esseri umani - ha detto Davigo - agiscono in base alle loro convenienze e in Italia rispettare la legge non conviene. È vero che all’estero si rispettano di più le regole perché le persone sono più educate. Ma forse lo sono perché sono state educate a forza di sberle". Una posizione contestata da Colombo, che ormai da anni ha lasciato la magistratura. "Condividiamo - ha detto, riferendosi a Davigo - il fatto che la giustizia funzioni male e potrebbe funzionare meglio. Ci divide lo scopo: secondo Davigo la giustizia dovrebbe essere repressiva, io credo che dovrebbe essere inclusiva, dovrebbe cioè far sì che le persone siano recuperate a vivere positivamente con gli altri". Appalti "diabolici" come e più di prima. Inutile l’Anac di Cantone di Alberto Ziparo Il Manifesto, 1 novembre 2016 Grandi Opere. Glu ultimi scandali nel settore dimostrano che l’Autorità anti-corruzione così com’è non serve. Non sorprende l’ennesimo scandalo sulle Grandi Opere. È un settore che necessiterebbe di una radicale bonifica politica, gestionale e normativa; ma in cui - al di là della formale abrogazione della "criminogena" Legge Obiettivo - tutto prosegue come e più di prima. Confermando anche la sostanziale inutilità - o peggio la funzione di "foglia di fico" - dell’Anac, l’Autorità nazionale anti-corruzione diretta da Raffaele Cantone. Il comparto è infatti controllato da un oligopolio di imprese, banche e finanziarie infiltrato da associazionismi speculativi di tutti i tipi, che assume l’appalto di un’opera, consorziandosi, con alternanza tra grandi imprese per la direzione. E quindi - ancora con i meccanismi della legge Obiettivo - mette in piedi un meccanismo in grado di decidere quasi tutto, nonché di attrarre ingenti flussi di capitale, disponendo così di un immenso potere di condizionamento su politica e enti locali; fino alla capacità di imporre anche la più inutile e dannosa delle opere. Spesso poi la necessità di abbattere tempi e costi aggiunge il sovra-mercato della cattiva progettazione e dell’iper-semplificazione illecita delle procedure. Valutazioni d’impatto ambientale (Via) inesistenti o fasulle; vincoli paesaggistici ignorati; o si "semplificano o simulano" le conferenze dei servizi. Un quadro di illegalità diffusa in cui, oltre a comandare la corruttela, si favorisce l’infiltrazione di mafia e ‘ndrangheta. Come dimostrano diverse inchieste giudiziarie, figure "affidabili" per il sistema assumono posti-chiave e quindi impongono decisioni, anche anomale e bizzarre. In non pochi casi pezzi di opere - o gli interi manufatti - sono decise da "accordi diabolici", con determinazioni condizionanti per la governance. Come nel caso del sotto-attraversamento Tav di Firenze, di cui Ferrovie ammette finalmente l’inutilità e gli impatti, prospettando un nuovo progetto di superficie; ma senza cancellare il tunnel sotto il centro storico: uno spreco e un regalone alle lobby degli escavatori. Il nuovo Codice degli Appalti doveva segnare una svolta, anche per il previsto ritorno alla pianificazione; ma è bloccato dalla mancanza dei molti provvedimenti attuativi. Continua invece a imperversare "l’eterna emergenza" che facilita sprechi, corruttele e criminalità alimentato - oltre che dalla "sopravvivenza" della Legge Obiettivo - dallo Sblocca Italia e del Decreto Madia. Materia su cui un’eventuale vittoria del Sì al referendum accentuerebbe confusione e distorsioni. I casi di questi giorni (L’AV Milano-Genova, il People Mover di Pisa e l’eterna Salerno-Reggio Calabria, i cui lavori non finiranno, ma s’interromperanno a fine anno, con parata governativa di copertura dell’imbroglio), compreso ciò che la procura di Reggio Calabria ha rilevato su Expo nell’ambito di varie inchieste di ‘ndrangheta ("oltre il 70% dei lavori eseguito da quel tipo di impresa"), dimostrano che l’Anac o si cambia o si chiude. Così com’è è inutile, anche per il suo clamoroso sottodimensionamento: ha accettato compiti e funzioni che avrebbero bisogno di 10 mila addetti. Certo, copre con dichiarazioni d’intenti e azioni inefficaci la prosecuzione di sprechi e corruttele. Anche le minacce di "commissariare" le opere crediamo facciano ridere gli interessati: come nel caso dell’Expo, l’eventuale commissario si trova a "lavorare con i soliti", con l’esclusione magari di qualche dirigente "troppo esposto". Specie quando un’opera - in tutto o in parte - è stata decisa per favorire determinate presenze, e in genere quando si deve davvero "bonificare" - l’unica strada è costituita dall’interruzione dei flussi di denaro; ovvero dell’annullamento dei contratti e dei relativi appalti. Carla, bruciata dall’ex, scrive a Mattarella: "è omicidio d’identità, subito una legge" di Dario Del Porto La Repubblica, 1 novembre 2016 La lettera indirizzata al Quirinale: "Servono pene più severe". Le fiamme le hanno devastato il corpo, ma non le hanno tolto la voglia di vivere e di combattere. "Caro presidente, sono Carla Caiazzo". Comincia così, la lettera indirizzata al Quirinale dalla trentottenne napoletana bruciata viva a Pozzuoli dal suo ex "nonché - ricorda - padre della bimba che portavo in grembo". Ventidue righe in cui Carla, attraverso "Repubblica", si rivolge direttamente al capo dello Stato, Sergio Mattarella: "Ti scrivo perché oggi, più che mai, da vittima voglio rappresentare un momento di riscatto e di riflessione per tutte le donne che subiscono, in silenzio, le violenze dei propri uomini. Occorre fare qualcosa. Subito". E poi: "Ti scrivo per chiederti di sollecitare il nostro legislatore ad individuare, sulla scorta di quanto sta tristemente accadendo, una nuova figura di reato che punisca severamente coloro che, nel loro intento delittuoso, colpiscono le donne e, soprattutto, le cancellano dalla società civile". Al presidente, Carla sottopone la proposta elaborata assieme al suo legale, l’avvocato Maurizio Zuccaro: l’introduzione di "quello che, con il mio difensore, abbiamo denominato ‘omicidio di identità’". Per far comprendere le ragioni che hanno ispirato quest’idea, Carla ripercorre ancora una volta il suo dramma: "Il primo febbraio scorso sono rimasta vittima della ignobile violenza di un uomo, il mio ex uomo, il quale non ha saputo fare altro che attentare alla mia vita dandomi fuoco. E insieme alla mia vita, ha attentato a quella della bambina". La piccola Giulia è venuta alla luce prematura, grazie all’intervento dell’équipe dell’ospedale Cardarelli, e oggi ha nove mesi. L’imputato, Paolo Pietropaolo, è in carcere, il processo si sta celebrando con rito abbreviato. I pm Raffaello Falcone e Clelia Mancuso hanno chiesto la condanna a 15 anni di reclusione per tentato omicidio e stalking. Carla si è costituita parte civile con l’assistenza dell’avvocato Zuccaro. Il giudice Egle Pilla potrebbe emettere la sentenza già all’udienza del 23 novembre. Ma c’è qualcosa che né i medici né la magistratura potranno restituirle: "Il mio aggressore ha voluto ed è riuscito a deturpare il mio volto. Mi ha ammazzato lasciandomi viva", dice e per questa ragione chiede al presidente Mattarella di farsi promotore presso il Parlamento per una legge che riconosca "l’omicidio d’identità". "Io, come la povera Lucia Annibali (l’avvocata sfigurata con l’acido n.d.r.) siamo vittime di chi ha voluto cancellarci, distruggere, deturpare il nostro viso. Il viso - ripete - quello che ci consente di riconoscerci e renderci riconoscibili alla società". Da quella drammatica mattinata, la vita di Carla è cambiata per sempre. Ha già subìto 21 interventi chirurgici e altri ne dovrà subire. Solo da pochi giorni riesce, a fatica, a prendere in braccio la bambina. "Il coma, le tantissime operazioni...oggi il riscatto. La mia fede ci ha salvati, ma la violenza che oggi subiscono le donne non può essere tutelata solo dalla fede. Purtroppo non sono stata la prima e non sarò l’ultima vittima della bieca violenza ormai diventata una triste abitudine degli uomini". Dal 2012, afferma, "le vittime del femminicidio sono il triplo di quelle di mafia e camorra messe insieme. La serialità di queste condotte non può più lasciare inerme il nostro legislatore, che deve essere attento ai mutamenti della società civile, coglierne le disfunzioni e porre rimedio attraverso un intervento deciso e puntuale". Quindi lancia l’appello: "Non abbiamo più tempo. Occorre, da subito, trovare strumenti idonei per proteggerci". Così, Carla si affida, idealmente, al capo dello Stato. A chi le sta vicino, ha confidato di sognare di poter essere, un giorno, ricevuta al Quirinale. "Il tuo ruolo e la tua sensibilità saranno determinanti. Con affetto. Carla Caiazzo". Trattativa Stato-mafia. Il Gup: "Papello" frutto di manipolazioni di Ciancimino jr Corriere della Sera, 1 novembre 2016 Le motivazioni della sentenza che ha assolto l’ex ministro Dc Calogero Mannino. Il giudice Marina Petruzzella: "Lo ha fornito in fotocopia e senza dare motivazioni plausibili. L’uso di copie impedisce l’accertamento della autenticità". Il "papello", l’elenco con le richieste che Totò Riina avrebbe fatto allo Stato per fare cessare le stragi mafiose, è "frutto di una grossolana manipolazione" di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo e teste principale del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Lo dice il gup Marina Petruzzella che ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha assolto uno degli imputati del processo sul presunto patto tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino. "Ciancimino ha fornito solo una fotocopia" - Ciancimino "lo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all’estero non avrebbe impedito la consegna dell’originale - scrive il gup - ed è evidente che le fotocopie, con l’uso di carte e inchiostri datati, impediscono l’accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura; non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dall’estero, come da lui sostenuto, né perché non potesse dirlo ai pm e ha detto di non conoscerne l’autore". "E naturalmente - stigmatizza il giudice - non si può non sottolineare come il castello accusatorio si sia fondato su documenti prodotti da Massimo Ciancimino in semplice fotocopia e non in originale". Contro Mannino "prove inadeguate" - Il gup nelle motivazioni della sentenza con cui, il 3 novembre del 2015, ha assolto dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato l’ex ministro Mannino parla di prove "inadeguate", di "suggestiva circolarità probatoria", di "interpretazioni indimostrate". In oltre 500 pagine il giudice, che ha processato l’ex politico in abbreviato, sostiene che i pm non abbiano portato la prova che Mannino sarebbe stato il motore della cosiddetta trattativa tra lo Stato e la mafia. Rito abbreviato - Mannino scelse il rito abbreviato a differenza dei suoi coimputati accusati di avere, ciascuno nel proprio ruolo, dato vita al presunto patto che Cosa nostra avrebbe stretto con pezzi delle istituzioni negli anni delle stragi mafiose. Per gli ufficiali del Ros, gli ex politici come Marcello Dell’Utri, boss come Totò Riina, Antonino Cinà e Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino è in corso un altro processo davanti alla corte d’assise di Palermo. "Non c’è qualcosa, come delle fonti orali o documentali che dimostrino - scrive il giudice - il collegamento tra l’iniziativa dei Ros di interloquire con Vito Ciancimino e l’evento ipotizzato dall’accusa di un accordo tra Mannino e Cosa nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stagista della mafia, le scelte del Governo". Il rapporto con i Ros - "Allo stato degli atti appare improvabile, da un punto di vista processuale, che applica i canoni della gravità e della precisione indiziaria degli elementi di fatto su cui fondare un ragionamento probatorio, collegare il fatto che Mannino si raccomandasse con i Ros alla interlocuzione tra i Ros e Vito Ciancimino e alla scelta di sostituire Scotti col manniniano Nicola Mancino e con le dimissioni successive di Martelli – prosegue. È ragionevole ritenere che i descritti comportanti di Mannino con Guazzelli e con i Ros siano stati determinati dalla volontà di trovare una protezione speciale, approfittando certamente della sua pregressa conoscenza con Subranni e dei privilegi che gli derivavano dal suo ruolo di potente politico". Il giudice parla di "elementi di sospetto, che non hanno quindi una grave e autonoma natura indiziaria" e che "se considerati come se possedessero tali connotati possono prestarsi ad interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fin dei conti prive di specifico valore dimostrativo processuale". La mafia, gli affari, i padroni, l’inquinamento: ecco il grande sistema dei rifiuti in Sicilia di Antonio Fraschilla La Repubblica, 1 novembre 2016 Inchiesta su un settore che ogni anno muove oltre 1 miliardo di euro. Ecco cosa si nasconde dietro questo grande affare. Un settore che ogni anno muove un miliardo di euro, un fiume di denaro che alimenta il più grande business economico in Sicilia: quello dei rifiuti. Repubblica ha condotto un’inchiesta lunga su questo mondo. Svelando chi sono i padroni di questo business e come si stanno affidando milioni e milioni di euro con gare anomale, appalti vinti da ditte in odor di mafia, cartelli e strane rinunce. Oppure, in alcuni casi, con strani affidamenti diretti in nome della perenne emergenza: e i soldi vanno sempre alle solite ditte. In questa nostra inchiesta che abbiamo pubblicato a tappe sul giornale, abbiamo raccontato anche delle infiltrazioni della mafia con nomi e cognomi di boss e famiglie di Cosa nostra che hanno imposto assunzioni e contratti. Un mondo ad alta tensione, quello dei rifiuti, come dimostrano le minacce e le pressioni nei confronti di sindaci e amministratori. Alla fine, comunque, una cosa è certa: il grande affare va di pari passo con il grande spreco. Nell’Isola in questi ultimi anni sono andati in fumo 15 miliardi di euro per avere un sistema che mette il rifiuto ancora in discarica, facendo fare affari d’oro soprattutto ai tre privati che li gestiscono. E nei pochi casi in cui si fa la differenziata, per mancanza d’impianti parte del rifiuto finisce sempre in discarica: un grande bluff alle spalle dei cittadini. Ma c’è di più. In questo sistema c’è anche una Terra dei fuochi di Sicilia, con 15 milioni di tonnellate di rifiuti, provenienti anche dalla Campania, smaltiti illegalmente: e anche qui c’è la mano della criminalità organizzata. Ai link tutti gli articoli che raccontano il sistema marcio dei rifiuti in Sicilia. Con nomi e cognomi. Mandato d’arresto Ue: stop all’esecuzione verso la Romania Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 31 ottobre 2016 n. 45757. L’esecuzione del mandato d’arresto verso la Romania resta bloccata fino a quando il Paese di emissione non è in grado di dare garanzie sul regime di detenzione. Per la Cassazione esiste un rischio concreto di trattamenti inumani e degradanti nelle carceri rumene, che impone al paese richiedente di fornire notizie sui metri quadrati a diposizione del detenuto, sulla presenza di tavoli, sedie, sulla somministrazione dei pasti e sul riscaldamento. I confini della coartazione quale criterio distintivo tra estorsione e truffa Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2016 Reati contro il patrimonio - Truffa o estorsione - Elementi costitutivi e alternativi - Criterio distintivo. Il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto materiale sia connotato dalla minaccia di un male, va individuato specificamente nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della vittima. Dunque, siamo di fronte a una truffa se il male minacciato viene ventilato come possibilità ed eventualità non direttamente o indirettamente proveniente da chi lo prospetta, dimodoché la persona offesa non risulta coartata ma si determina volontariamente alla prestazione (ingiusto profitto del soggetto agente) perché tratta in errore dall’esposizione di un pericolo inesistente. Si configura, invece, l’estorsione se il male minacciato viene indicato come certo e realizzabile a opera del reo o di terzi, poiché in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato. • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 25 ottobre 2016 n. 44942. Reati contro il patrimonio - Truffa o estorsione - Elementi costitutivi e alternativi - Criterio differenziale - Definizione di "coazione" e "manipolazione". Sia nella truffa che nell’estorsione la condotta criminosa è finalizzata al conseguimento di un ingiusto profitto che costituisce il prezzo pagato dalla vittima per sottrarsi al male minacciato: il criterio differenziale consiste nella coartazione o nella semplice manipolazione della volontà della persona offesa. Nella coazione (estorsione) la vittima ha la percezione di non avere alternative per evitare il pregiudizio paventato dall’agente: la sua volontà dunque è assolutamente "costretta" ad aderire alla richiesta del reo. Nella truffa, invece, la volontà della vittima è semplicemente "manipolata" in quanto la minaccia del pericolo immaginario induce solo in errore la persona offesa mediante il raggiro o artificio. • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 25 ottobre 2016 n. 44942. Estorsione - Estremi - Estorsione e truffa - Criteri distintivi - Individuazione - Fattispecie in tema di estorsione realizzata con la minaccia dell’intervento di un "siciliano". In tema di distinzione fra estorsione e truffa per incusso timore di un pericolo immaginario deve ritenersi condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale è configurabile l’estorsione quando il male minacciato venga prospettato come certo e realizzabile a opera dell’agente o di altri a lui in qualche modo legati in coercitiva della minaccia, mentre è configurabile la truffa quando si prospetti la mera possibilità di un male non proveniente, comunque, direttamente o indirettamente dall’agente. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto correttamente ravvisato il reato di estorsione in un caso in cui l’agente, a sostegno delle proprie ingiuste pretese, aveva prospettato che, ove le stesse non fossero state soddisfatte, vi sarebbe stato l’intervento di un non meglio identificato "siciliano" che avrebbe inteso essere risarcito di un preteso torto da lui subito). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 16 novembre 2015 n. 45504. Reati contro il patrimonio - Delitti - Estorsione - Estorsione e truffa - Distinzione - Criterio - Individuazione - Danno prospettato - Reale o immaginario - Valutazione "ex post" e non "ex ante" - Fattispecie. Il criterio differenziale tra il delitto di truffa aggravato dall’ingenerato timore di un pericolo immaginario e quello di estorsione, risiede solo ed esclusivamente nell’elemento oggettivo: si ha truffa aggravata quando il danno immaginario viene indotto nella persona offesa tramite raggiri o artifizi; si ha estorsione, invece, quando il danno è certo e sicuro a opera del reo o di altri ove la vittima non ceda alla richiesta minatoria. Ne consegue che la valutazione circa la sussistenza del danno immaginario (e, quindi, del reato di truffa aggravata) o del danno reale (e, quindi, del reato di estorsione) va effettuata "ex ante" essendo irrilevante ogni valutazione in ordine alla provenienza del danno prospettato ovvero allo stato soggettivo della persona offesa. (Fattispecie, nella quale la Corte ha qualificato come truffa aggravata la condotta dell’imputato, che, presentandosi come agente di polizia in borghese ed esibendo un falso distintivo, induceva la persona offesa a farsi consegnare la somma di 500,00 euro, minacciando di elevare verbale di contravvenzione per infrazioni al codice della strada per il superiore importo di 1300,00 euro). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 16 dicembre 2014 n. 52121. Chiromante - Estorsione - Truffa - Distinzione. Per la chiromante che predice un futuro nero, avvertendo però che i mali in agguato possono essere evitati ricorrendo alle sue arti magiche si configura il reato di truffa, ma non di estorsione. Se la chiromante evoca disgrazie immaginarie facendo credere ai clienti nella sua possibilità di scansare la "mala sorte", facendo anche supporre che può essere lei stessa l’artefice dell’evento negativo, questo atteggiamento fa scattare il reato di estorsione. Mentre la truffa sta nel trarre profitto dalla credulità di chi, spaventato da pericoli immaginari, si "determina" a pagare, ma senza la minaccia che rende il gesto obbligato. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 31 ottobre 2012 n. 42445. Informare i familiari dell’esistenza di un debito non viola la privacy del debitore di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2016 Tribunale di Cagliari - Sezione penale - Sentenza 18 maggio 2016 n. 1912. Se i genitori vengono informati dalla società di recupero crediti dell’esistenza di un piccolo debito del figlio, non è configurabile alcuna violazione della privacy del debitore. Difatti, il reato di trattamento illecito di dati personali non è integrato, anche in caso di diffusione di notizie riservate, se la condotta illecita sia consistita in una irregolarità tale da non produrre un danno apprezzabile all’identità personale del soggetto ed alla sua privacy. Ciò si desume dalla sentenza 1912/2016 del Tribunale di Cagliari. Il caso - Protagonista della vicenda è un’operatrice telefonica di una società di recupero crediti, imputata per il delitto di trattamento illecito di dati personali, di cui all’articolo 167 del Codice della privacy (D.lgs. 196/2003). In particolare, l’impiegata era accusata di aver comunicato telefonicamente alla madre del debitore, senza il consenso di quest’ultimo, l’esistenza del debito di circa 800 euro che il figlio aveva nei confronti di un istituto di credito, avvertendola che in assenza del pagamento ci sarebbe stata una segnalazione alla Banca d’Italia. Il debitore, in qualità di persona offesa, aveva poi in giudizio attaccato i metodi sin troppo aggressivi degli operatori della società di recupero crediti, spiegando che la telefonata non autorizzata presso l’abitazione dei genitori lo avrebbe fatto passare per truffatore agli occhi dei genitori, destabilizzando ancor di più il già difficile rapporto tra familiari. La decisione - Il Tribunale non ritiene però che il reato sia stato commesso. La norma di cui all’articolo 167 del Codice della privacy, infatti, sanziona solo le violazioni che determinano un danno direttamente ed immediatamente collegabile nei confronti del soggetto cui i dati raccolti sono riferiti. E non anche le semplici violazioni formali o irregolarità procedimentali, ovvero quelle inosservanze che producono un "vulnus minimo all’identità personale del soggetto ed alla sua privacy". E nel caso di specie, anche se la telefonata può aver causato una reazione negativa della madre nei confronti del figlio, "la vicenda - precisa il giudice - non è tale da potersi dire abbia determinalo alcun un danno patrimoniale e può, comunque, ricondursi in quel vulnus minimo della identità personale del soggetto privo di rilevanza penale". nell’istituto piemontese la scorsa settimana era scoppiata una protesta Giustizia: le sentenze della Corte di Cassazione di Nicola Ferri* Corriere della Sera, 1 novembre 2016 Una recente circolare del Primo presidente della Corte di Cassazione invita i consiglieri delle Sezioni civili ad adottare motivazioni sintetiche delle sentenze al fine di accelerare i tempi di definizione dei processi. Occorre ricordare che la redazione della motivazione è solo l’anello finale di una lunghissima catena che inizia con la presentazione del ricorso in cancelleria e si chiude con il deposito della sentenza. Se fossimo in un Paese normale con un normale sistema giurisdizionale e un normale codice di procedura, anche il giudizio della Cassazione, giudice della sola legittimità, si svolgerebbe all’insegna della normalità, ossia di quella ragionevole durata imposta dall’ art.111 della Costituzione. Ma in tema di giustizia l’Italia, com’è noto, non è un Paese normale: infatti, accanto ad un processo penale, vantiamo un complicatissimo processo civile di 3/5 gradi, che sembra costruito apposta per durare oltre ogni accettabile limite temporale. Nato nel 1942, il codice di procedura tuttora resiste sotto il peso dei suoi 840 articoli che negli ultimi 20 anni vari guardasigilli si sono illusi di rimodernare con varie leggine rendendo ancora più intricato l’ impianto originario. Non è dunque normale che la durata media dei processi civili in Cassazione sia di 3 anni e 5 mesi nelle Sezioni ordinarie e di 5 anni e 5 mesi nella Sezione tributaria, con una pendenza, al 31 agosto 2016, di 107.000 processi! In questo quadro disastrato il solo intervento sulla sinteticità motivazionale rischia di produrre effetti limitati, ma tuttavia un passo ulteriore potrebbe essere quello di adottare per le sentenze la forma più snella delle ordinanze, un’esperienza già tentata in passato per un breve periodo. Come uscire dunque dalla crisi che minaccia la Corte, cui spetta di assicurare "l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale" (art. 67 dell’Ordinamento giudiziario)? Nell’attesa che il ministro della Giustizia si convinca che questo codice non funziona e che bisogna risolvere i gravissimi problemi di funzionamento di un apparato ormai al collasso, per evitare il "default" del Palazzo di piazza Cavour, vorrei indicare due misure strutturali: 1) la riduzione dei Collegi da 5 a 3 giudici (erano 7 fino al 1941) con il presumibile raddoppio delle sentenze annuali e la fortissima riduzione dell’arretrato; 2) la nomina, da parte del Csm, di consiglieri di Cassazione per meriti insigni (a norma dell’art. 106 della Costituzione) tra avvocati e professori universitari esperti in diritto del lavoro e tributario per rinforzare le due Sezioni della Corte maggiormente gravate dall’ arretrato. È vero che la crisi della Cassazione appare come una impervia montagna da scalare, ma da qualche parte occorre pur cominciare! *Già Sostituto Procuratore Generale della Cassazione Ivrea (To): un detenuto scrive "episodi di violenza inaudita" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 novembre 2016 Presunti violenti pestaggi e detenuti ridotti in fin di vita nel carcere di Ivrea, in provincia di Torino. A denunciarlo è un detenuto di nome Matteo Palo e lo fa con una lettera pubblicata dal sito InfoAut. "Lo faccio per difendere e tutelare i detenuti del carcere di Ivrea, dopo che il giorno 24 e 25 del mese di ottobre in questo istituto gli agenti penitenziari hanno usato violenza indiscriminata", scrive nella lettera. Poi il detenuto prosegue denunciando che le guardie penitenziarie sarebbero state supportate dagli agenti provenienti dal carcere di Vercelli e avrebbero picchiato almeno cinque detenuti utilizzando idranti e manganelli. Ma non finisce qui. La denuncia di Matteo Palo dipinge uno scenario a tinte fosche parlando di due detenuti ridotti in fini di vita a tal punto che "né i dottori né gli educatori hanno preso il coraggio di fare una prognosi". "Tutti si sono rifiutati come se niente fosse - denuncia sempre il detenuto -, omettendo che cinque persone hanno subito abusi e pestaggi dallo Stato che doveva tutelarli. In questo Istituto funziona così, sia gli agenti che gli operatori, sia il comandante che la direttrice non hanno minimamente idea di come funziona un Istituto di pena". Matteo Palo nella lettera spiega che il suo grido di allarme è rivolto alle istituzioni e ai giornalisti, in particolar modo si rivolge ai Radicali affinché si attivino, altrimenti "gli abusi continueranno". Da alcune notizie raccolte da Il Dubbio sembrerebbe che Armando Michelizza, il Garante dei detenuti di Ivrea, abbia confermato i fatti denunciati. Ma non solo. Emerge la difficoltà di operare come mediatore perché il carcere risulterebbe ingovernabile con delle degenerazioni per ristabilire l’ordine. Come già riportato da Il Dubbio, nel carcere c’è stata una protesta da parte di alcuni detenuti proprio per denunciare le condizioni degradanti. Ma a causa della mancanza di mediazione, la protesta è proseguita e si è ingigantita fino al punto che sarebbe intervenuta una "squadretta" proveniente da un altro carcere. Le versioni risultano diverse ma sta di fatto che due detenuti sono stati trasferiti in un altro carcere e alcuni hanno riportato dei lividi su tutto il corpo. Per nessuno di loro sarebbe stato redatto un referto medico. La lettera choc del detenuto Matteo Palo, come già detto, è un grido di aiuto rivolto anche ai radicali. Rita Bernardini, raggiunta da Il Dubbio, si chiede "quanti al Dap conoscano la preoccupante condizione detentiva del carcere di Ivrea". Poi aggiunge: "Temo che persino episodi delicatissimi di tentato suicidio non siano segnalati nei tempi dovuti, se non addirittura omessi. Una situazione fuori controllo, lasciata amministrare esclusivamente alla repressione securitaria. Se pensiamo che all’interno sono ristrette persone, anche molto giovani, con problemi psichiatrici e di tossicodipendenza - che dovrebbero essere aiutate, ascoltate, piuttosto che malmenate - è facile rendersi conto di quanto la casa circondariale sia lontana dal dettato costituzionale e dalle leggi vigenti". Sempre la radicale Rita Bernardini conclude: "Strano, infine, che il magistrato di sorveglianza non sia ancora intervenuto, visto che il contesto è conosciuto da tempo". Una situazione che peggiora sempre di più. Già nel passato era stata denunciata la condizione fatiscente del carcere. L’associazione Antigone, dopo la sua ultima visita, ha redatto un rapporto allarmante dove espone le condizioni critiche di vivibilità generale della casa circondariale di Ivrea. L’istituto penitenziario presenta condizioni strutturali piuttosto fatiscenti e poco adatte alla realizzazione di attività. Da un lato, necessiterebbe di massicci interventi di ristrutturazione, al contempo la presenza di vari circuiti (comuni, semi-protetti, primo livello tdp, transessuali, collaboratori di giustizia) rende difficile l’utilizzo al meglio degli spazi. Una delle due sezioni riservate ai nuovi arrivati, per esempio, prevede un regime a celle chiuse e mancano gli spazi per svolgere attività al di fuori della cella. Qui le persone rimangono ben oltre il mese previsto, prima di essere collocate in altre sezioni. Si segnala inoltre la grande criticità determinata dalla coesistenza di detenuti omosessuali e transessuali, collocati in un’unica sezione, cosa che ha generato tentativi di violenze scaturiti in una denuncia. La prevista entrata in funzione della nuova sezione per articolo 21 e semiliberi, inoltre, non ha tuttora avuto luogo e continua a essere utilizzata la vecchia sezione collocata all’interno della zona detentiva. Particolarmente preoccupante - ha annotato Antigone - è la carenza di personale trattamentale: sono presenti soltanto 3 educatori, mentre da più di un anno gli assistenti sociali non frequentano più l’istituto. Una sola psicologa è presente in istituto per 23 ore al mese. Purtroppo anche questo istituto penitenziario risulta sovraffollato. Secondo le ultime statistiche messe a disposizione dal Dap, risultano 225 detenuti su una capienza massima di 192. L’alto numero di isolamenti disposti dalla direzione, insieme ai frequenti atti di autolesionismo, suicidi o di morti per cause da accertare, evidenziano un clima generale teso all’interno dell’istituto. L’ultimo suicidio c’è stato a luglio di quest’anno: un cinquantenne si è infilato la testa in un sacchetto insieme a una bomboletta di gas che poi ha aperto. Sondrio: Garante dei detenuti, per il dopo Racchetti c’è Marina Martinelli La Provincia di Sondrio, 1 novembre 2016 Due votazioni e lunga pausa per la discussione dei capigruppo, ma alla fine decisione quasi unanime. Sono servite due votazioni e una lunga pausa per la discussione fra i capigruppo, ma alla fine il consiglio comunale ha scelto il nuovo garante delle persone limitate nella libertà con un voto quasi unanime. A succedere a Francesco Racchetti sarà Marina Martinelli, dentista sondriese che negli anni scorsi ha partecipato come volontaria alle attività teatrali in carcere: 26 i voti ottenuti nella seconda votazione, con tre schede bianche e una nulla. Le candidature arrivate in municipio erano cinque, cioè Martinelli, Carlo Bariassina, Alberto Bussani, Francesco Ghilotti e Michele Moggipinto, fra i quali i consiglieri erano chiamati a scegliere con voto segreto. La prima della votazione tra i gruppi di maggioranza si sono evidenziate posizioni diverse: Marco Bacchetti di Sondrio città ideale ha annunciato il sostegno per Ghilotti mentre Roberta Songini del Pd a nome del suo gruppo si è espressa a favore di Maggipinto. I gruppi di opposizione, invece, hanno lamentato l’assenza di "un confronto preventivo" nei giorni scorsi. Alla fine, dall’urna della prima votazione sono uscite 12 preferenze per Maggipinto, 11 per Ghilotti e quattro per Martinelli, con tre schede bianche, numeri ben lontani dalla maggioranza di due terzi richiesta dal regolamento per eleggere il garante. A quel punto la seduta è stata sospesa per consentire ai capigruppo di confrontarsi e alla fine nella seconda votazione su Martinelli si è raggiunta la maggioranza qualificata richiesta. Monza: la Regione rimette a nuovo la falegnameria del carcere di Marco Galvani Il Giorno, 1 novembre 2016 Macchinari moderni e formazione, un archistar disegnerà gli arredi. È sempre stata uno dei vanti del carcere di Monza. Ma la crisi degli ultimi anni ha colpito anche le "imprese" oltre le sbarre. La falegnameria in particolare. Che da un paio di mesi, dopo aver consegnato l’ultima commessa, ha quasi fermato l’attività. I macchinari non lavorano più come una volta, quando i quattro detenuti-legnamèe trasformavano i tronchi degli alberi tagliati all’intano del Parco di Monza in panchine e cestini, realizzavano arredi per giardini e terrazzi, gli arredi completi della casa protetta per donne in difficoltà della Cascina Gantalupo, e ancora cucine, letti, armadi, comodini, tavoli e sedie. Oltre agli arredi dell’area esterna in cui i papà detenuti possono incontrare e giocare con i propri figli in visita, pannelli e allestimenti scenografici, cassette per il vino, cavalli a dondolo, nidi e mangiatoie per uccelli e soprammobili. Tutto in legno. Tutto made in Sanquirico. Sotto la gestione della Cooperativa sociale 2000. L’attività ora ha rallentato. Ma è pronta a rimettersi in moto grazie a un accordo fra Governo, Regione Lombardia e Federlegno per "favorire la formazione professionale dei detenuti che potranno conseguire le qualifiche proprie della filiera degli operatori del legno", la soddisfazione del senatore di Forza Italia, Andrea Mandelli. "Durante la mia visita al carcere di Monza, pochi mesi fa, avevo preso un impegno per cercare di migliorare la difficile situazione sia di chi lavora nell’istituto penitenziario sia dei detenuti - spiega, Per gli agenti è stato coinvolto il Comune per un maggiore coinvolgimento della città, mentre per i detenuti si concretizzerà un progetto virtuoso che prepara la strada per il reinserimento lavorativo di chi sconta una pena". In particolare, grazie anche al sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli, "la Regione rimetterà a nuovo i circa 600 metri quadrati della falegnameria della Casa circondariale di Monza, acquisterà macchinari moderni e garantirà la formazione professionale dei detenuti attraverso il Fondo sociale europeo - spiega l’Assessore regionale alla Formazione, istruzione e lavoro, Valentina Aprea. Mentre il Governo con Federlegno si impegnerà a individuare un archi-star per disegnare arredi che saranno autoprodotti e utilizzati per le celle dei detenuti, con la supervisione di maestri falegnami". Torino: i piccoli vandali castigati con il lavoro per la comunità di Massimo Massenzio La Stampa, 1 novembre 2016 La scorsa primavera distrussero il centro di aggregazione di Tetti Francesi. L’improvviso cambio di gestione dei centri di aggregazione giovanile, deciso dall’amministrazione comunale di Rivalta durante lo scorso inverno, aveva scatenato proteste e polemiche. In particolare a Tetti Francesi i nuovi educatori non erano stati accolti nel migliore dei modi un gruppetto di ragazzi aveva vandalizzato la struttura di via Fossano per protestare contro un semplice rimbrotto. Da quel bruttissimo episodio, che ha portato alla denuncia di tre giovani e alla chiusura del centro d’incontro, è nato un percorso di riparazione che ha portato i ragazzi a impegnarsi a fondo nel mondo dell’associazionismo locale e si è concluso con un toccante "incontro di ricomposizione" nella sala del Consiglio comunale di Rivalta. Ci sono voluti sette mesi, ma adesso quei giovani hanno capito di aver sbagliato e quella pagina nera è definitivamente alle spalle. Davvero difficile immaginarlo in quel freddo pomeriggio dello scorso 3 marzo, quando la primavera era ancora lontana e le strade si stavano riempiendo di neve. La struttura di via Fossano era piena e un’operatrice aveva invitato alcuni ragazzi ad abbassare il volume della musica. La reazione era stata violentissima: sedie e tavoli rotti, soffitti e porte rovinati, danni per migliaia di euro. Il Comune decise la chiusura immediata del centro e la sospensione di tutte le attività, rimaste poi ferme per due mesi. I tre responsabili, dopo l’esposto dell’amministrazione, erano stati facilmente identificati e denunciati dai carabinieri di Orbassano. Nei mesi scorsi, su delega della Procura presso il Tribunale dei Minori hanno avviato un progetto con la polizia locale di Rivalta: "Questo percorso, iniziato a maggio, è terminato in maniera positiva con l’incontro di ricomposizione - ha spiegato l’assessore alle Politiche Giovanili Marilena Lavagno - I ragazzi si sono impegnati a fondo nei centri estivi e hanno dato una mano anche alle associazioni locali". La chiamano "giustizia riparativa" e dimostra di dare buoni frutti, focalizzando l’attenzione sulle motivazioni che spingono alcuni minori a infrangere le regole, piuttosto che sulla che sulla punizione da infliggere. All’incontro in Comune erano presenti anche le famiglie dei tre giovani rivaltesi: "Una delle parole più utilizzate da tutti, ragazzi compresi, è stata proprio "opportunità" - continua Lavagno - Inoltre si è posto l’accento sul senso di appartenenza alla comunità e sulla possibilità di mettersi in gioco in nuovi ambiti. Elementi molto significativi per un percorso finalizzato alla responsabilizzazione dei giovani, attraverso una gestione collettiva delle conseguenze di un evento negativo". Imperia: la Uil-Pa protesta "carcere senza medici e infermieri durante la notte" sanremonews.it, 1 novembre 2016 "L’Istituto continua a vivere la piena emergenza - prosegue Pagani che punta il dito contro l’Amministrazione Penitenziaria in merito al Sovraffollamento dell’Istituto". "Continuano oramai a non interessare più a nessuno le condizioni del carcere di Imperia. Oltre al sovraffollamento con 96 detenuti invece di 69 previsti, ora l’assurda decisione di fare a meno di medici ed infermieri dalle 22 alle 8 del mattino". Interviene in questo modo Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari, rilancia l’allarme e presenta la drammaticità e la realtà del carcere di Imperia. "L’Istituto continua a vivere la piena emergenza - prosegue Pagani che punta il dito contro l’Amministrazione Penitenziaria in merito al Sovraffollamento dell’Istituto: Imperia non deve contare più di 80 detenuti al massimo, soglia fissata dal precedente Provveditore ligure e rilancia l’obiettivo della Uil, cioè impedire ingresso dei detenuti nelle ore notturne. Di notte il carcere dovrà restare chiuso se non sarà così sarà protesta, Non è possibile che il personale di Polizia Penitenziaria di Imperia resti abbandonato dalla sua stessa Amministrazione e ci auguriamo che Comandante e Direttore dell’Istituto (che non sembrano preoccuparsi minimamente del problema) abbiamo compreso chiaramente la pericolosità e i forti rischi che l’istituto corre in quelle ore, soprattutto in termini di sicurezza e ora anche senza assistenza sanitaria, perché a rischio è la sicurezza sociale" "È giunto il momento - termina Pagani - che le Istituzioni, in Primis l’Amministrazione Penitenziaria, si assumano le responsabilità prima che sia troppo tardi. Non comprendiamo per quale motivo l’Amministrazione si ostini a non voler decidere e comunicare alle altre Forze di Polizia e chi di dovere che la Casa Circondariale di Imperia sarà chiusa nelle ore notturne". Cuneo: Osapp; due detenuti extracomunitari devastano il reparto accoglienza del carcere cuneocronaca.it, 1 novembre 2016 "Nella nottata del 30 ottobre, due detenuti extracomunitari rispettivamente di anni trenta e trentatré, in carcere per rapina, furto ed altro, ristretti al reparto accoglienza della Casa Circondariale di Cuneo, hanno completamente devastato, senza alcuna giustificazione, le celle detentive in cui erano allocati tanto da rendere necessaria la chiusura della sezione. Alla successiva allocazione dei predetti presso il reparto isolamento uno di loro ha completamente devastato l’ulteriore cella assegnatagli. A denunciare l’episodio è l’Osapp - (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del Segretario Generale Leo Beneduci. Non senza difficoltà e dopo diverse ore - indica il leader sindacale dell’Osapp - la normalità è stata ripristinata grazie all’intervento del personale di Polizia Penitenziaria colà presente malgrado il fatto che anche dalla restante popolazione detenuta ivi ristretta pervenissero evidenti segnali di intemperanza e di malumore diretti al personale quasi che, nella struttura sussista una sorta di predominanza dei ristretti rispetto all’istituzione penitenziaria. Rispetto a tali episodi e alle condizioni accennate, del tutto simili in Cuneo a quelli di molti altri penitenziari Italiani - conclude Beneduci - nonostante i danni alle persone e alle cose e a cui si provvede a integrale spese della collettività siamo certi che non si porrà alcun genere di miglioramento o correttivo, fino a quando la politica metterà in mano la gestione delle carceri italiane a figure che non ne hanno le attitudini, soprattutto in relazione all’attuale pericolosità interna ed esterna della popolazione detenuta. Per tali motivi si rende indispensabile che il Presidente del Consiglio Renzi e il Ministro della Giustizia Orlando immaginino e realizzino l’avvicendamento degli attuali vertici dell’Amministrazione Penitenziaria Centrale. Benevento: "Il tempo in croce", premiati i detenuti del Centro di salute mentale penitenziaria di Mariateresa De Lucia ottopagine.it, 1 novembre 2016 A Benevento i detenuti vincono un premio con un’opera creata insieme a Liceo Artistico e Cesvob. Erano i manicomi criminali. Poi li hanno chiamati Opg. Infine gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari sono stati aboliti nel 2013 ma chiusi definitivamente solo nel 2015. Ora ci sono i "Centri del servizio di salute mentale penitenziaria". La storia che vi raccontiamo arriva da lì. Si forma dietro le mura, ma supera barriere e cancelli. E vince in una competizione in cui le parole d’ordine sono speranza e rinascita. Come trascorre il tempo in un centro di salute mentale penitenziario? Cosa accade dall’alba al tramonto? Le ore si contano per uscire o per morire? A Benevento lo hanno raccontato gli stessi detenuti con un progetto speciale: Liberinarte, realizzato con il Ce.S.Vo.B Cantieri di Gratuità e il Liceo Artistico di Benevento nella Casa Circondariale diretta da Maria Luisa Palma. Da aprile a giugno i detenuti del Centro Diurno del Servizio di Salute Mentale Penitenziaria "Giallo Basaglia" si sono impegnati nel progetto artistico che ha appena ricevuto un premio. Si intitola "Il tempo in croce" l’opera composta da 12 tele che descrive lo scorrere del tempo all’interno delle mura. Un lavoro che è stato giudicato tra i migliori e più rappresentati al concorso "Arte dal carcere: verso il futuro" bandito dalla città di Massa Carrara, tanto che sarà in mostra nell’aula della Corte d’Assise del centro toscano dal 6 novembre al 30 settembre 2017. "Il tempo in croce" è il risultato del laboratorio condotto dal professor Biagio Maio del Liceo Artistico di Benevento con gli alunni della classe VC dello stesso istituto e in collaborazione con tutta l’equipe di "Giallo Basaglia". Dalla curiosità degli alunni nell’incontrare i detenuti è nata l’idea di rappresentare il tempo all’interno del carcere, mediante la realizzazione di 12 tele. Ogni tela raffigura un momento della giornata. Dall’immagine degli spaghetti che rappresentano l’ora del pranzo, vissuta dai detenuti come tempo durante il quale possono liberamente esprimersi e far riaffiorare alla propria mente sapori ed odori sempre meno familiari, e proprio come scorre il tempo in una cella anche le tele scandiscono i diversi momenti trascorsi in compagnia. A rappresentare attimi di aggregazione ci sono le carte, sempre pronte su un tavolino per cercare di accelerare il tempo e far arrivare il prima possibile la luna e con essa la notte, quella che mette a riposo i pensieri. In ultimo, ogni mattina a dare la sveglia è il rumore del ferro delle sbarre, la battitura. Ogni colpo sul ferro rappresenta quella tumultuosa routine che per fortuna ed inesorabilmente passa, per dare inizio ad un nuovo giorno. Al centro delle tele vi è la fessura della serratura con il mondo fuori, circondata dalle impronte digitali di tutti i partecipanti al progetto, detenuti, alunni, operatori e volontari. Appesa ad un filo, la chiave, simbolo che può rappresentare due opposti, la "chiusura" ma anche "l’apertura" verso il mondo esterno. E se il premio rappresenta una grande soddisfazione il risultato più bello è arrivato dagli incontri con i quali i detenuti hanno avuto la possibilità di entrare a contatto con il mondo esterno attraverso l’arte. E poi il messaggio lanciato al mondo esterno. Gli operatori lo raccontano così: una vita routinaria, troppo spesso deprivata che diventa un catalizzatore di disagio psichico. Questa esperienza può essere considerata un laboratorio di ricerca per la salute mentale penitenziaria. Questo modello può essere allargato a tutta la struttura penitenziaria, al fine di migliorare la gestione della salute mentale in carcere, prima ancora della malattia. La semplicità con cui può essere espressa l’arte rappresenta un "calcio", che poco alla volta è riuscito ad abbattere un muro che con il tempo è stato eretto tra il mondo esterno e quello dentro le mura". Isernia: seminario formativo della Ceam per la pastorale carceraria, il bilancio molisenews24.it, 1 novembre 2016 Operatori e detenuti a confronto, attraverso la mediazione penale: "Cambiare il modo di comporre la giustizia". Una proposta di legge dove al perdono vanno corrisposte le norme giuridiche attraverso la figura della mediazione penale è quanto emerso durante il Seminario di formazione Ceam per la pastorale carceraria svoltosi sabato 29 ottobre ad Isernia, in Molise. Secondo la Chiesa il perdono è uno strumento di riconciliazione. Sono dunque gli strumenti giuridici che vanno umanizzati come ha sottolineato don Virgilio Balducchi Ispettore Generale dei Cappellani delle carceri in Italia. La questione delle carceri rimane tra i temi sociali e politici più scottanti anche nelle culture democratiche ancora troppo divise tra giustizialisti e permissivisti. I primi considerano le carceri delle "discariche sociali" come le definisce il noto sociologo polacco Zygmunt Bauman realtà esterne dalle città in cui la punizione deve prevalere sul recupero. I secondi invece ritengono - correndo il rischio di non distinguere il grado di pericolosità del colpevole o la sua disponibilità a pentirsi - che le carceri facciano più male che bene perché "anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini e donne più fragili o più pericolosi". Sollecitati da una nuova cultura giuridica e dalla scelta di soluzioni umanamente percorribili per gestire i penitenziari, i Vescovi della Ceam hanno inteso programmare nell’Anno Santo della Misericordia e in prossimità del Giubileo dei carcerati indicato da papa Francesco, un Seminario di Formazione rivolto ad operatori di pastorale carceraria e volontari delle carceri a confronto con i "fratelli" detenuti. La compassione e l’umanità della riabilitazione rimangono i due fondamenti sui quali anche Papa Francesco, a partire dal suo discorso del 5 luglio con i detenuti del carcere di Isernia, e incontri successivi nelle altre realtà carcerarie della Nazione, invita tutti a celebrare il Giubileo dei carcerati il prossimo 6 novembre 2016. Promuovere una cultura umanizzante a partire dalle carceri. La cultura del Perdono a partire dalla Giustizia, come giustizia riconciliatrice. Perché "la Misericordia senza Giustizia - ha detto monsignor Bregantini nel primo intervento del seminario - è buonismo, la giustizia senza misericordia diventa giustizialismo. Chi ha commesso un reato deve pagare il suo prezzo ai soggetti offesi, ma deve poterlo fare sul sentiero della redenzione e con dignità perché le ferite possano diventare feritoie". Nel secondo intervento don Virgilio Balducchi ha spiegato come "in carcere si vede come lavora Dio. Se un detenuto percepisce che qualcuno gli vuole bene, si sente perdonato e si predispone all’assunzione di responsabilità del male fatto agli altri. Solo allora chi ha sbagliato può intraprendere il percorso della misura alternativa al carcere nella quale la società deve credere. Per questo c’è bisogno di puntare alla mediazione penale come punto di incontro tra colui che ha fatto il male e colui che l’ha subito". Dopo le testimonianze di operatori e detenuti che hanno sottolineato l’importanza delle misure alternative, monsignor Camillo Cibotti, vescovo di Isernia-Venafro ha concluso che "Il carcere è terribile soprattutto per la famiglia del detenuto e per questo va umanizzato. La sofferenza è una via obbligata da percorrere ma va sostenuta. Non rinforziamo le sbarre, lavoriamo per tagliarle". Campobasso: sabato e domenica prossimi il Giubileo dei carcerati di Aldo Ciaramella molisenetwork.net, 1 novembre 2016 Gli eventi giubilari dell’arcidiocesi di Campobasso-Bojano si concluderanno con il Giubileo dei carcerati nella casa Circondariale di Campobasso. In sintonia con il Giubileo dei Carcerati che si svolgerà in san Pietro a Roma, il vescovo di Campobasso mons. Gian Carlo Bregantini ha posto l’attenzione alla realtà sociale delle carceri nello stesso giorno in cui si celebra il santo patrono dei carcerati, san Leonardo. Sabato 5 e domenica 6 novembre 2016 con un programma articolato attraverso riflessioni e Celebrazioni Eucaristiche, il giubileo dei carcerati vedrà la partecipazione di 100 ristretti della III sezione nel pomeriggio di sabato 5 insieme al personale, ai volontari ai cappellani, alla Polizia Penitenziaria. "Sarà l’occasione per dire grazie - ha detto con slancio il vescovo Bregantini - sarà il grazie a tutti i volontari e ai diversi cappellani che si sono adoperati con zelo e passione". Un segno ma anche una testimonianza di speranza dentro il silenzioso cammino di reinserimento, la costante di vicinanza alla realtà sociale delle carceri come sfida del reinserimento sociale. "E questo è il reinserimento, il cammino che tutti dobbiamo fare!" Esortazione di forte slancio che papa Francesco ha lasciato in eredità il 5 luglio in Molise, durante l’incontro con detenuti e il personale della Casa circondariale di Isernia. "E per questo - ha ricordato papa Francesco - c’è bisogno di un percorso, di un cammino, sia all’esterno, nel carcere, nella società, sia al proprio interno, nella coscienza e nel cuore. Fare il cammino di reinserimento, che tutti dobbiamo fare. Tutti. Tutti facciamo sbagli nella vita. E tutti dobbiamo chiedere perdono di questi sbagli e fare un cammino di reinserimento, per non farne più. Alcuni fanno questa strada a casa propria, nel proprio mestiere; altri, come voi, in una casa circondariale. Ma tutti, tutti. Chi dice che non ha bisogno di fare un cammino di reinserimento è un bugiardo! Tutti sbagliamo nella vita e anche, tutti, siamo peccatori. E quando andiamo a chiedere perdono al Signore dei nostri peccati, dei nostri sbagli, Lui ci perdona sempre, non si stanca mai di perdonare. Ci dice: "Torna indietro da questa strada, perché non ti farà bene andare su questa". E ci aiuta. E questo è il reinserimento, il cammino che tutti dobbiamo fare". Fossano (Cn): i valori salesiani hanno varcato le mura del carcere cuneocronaca.it, 1 novembre 2016 Detenuti, studenti e formatori del Cnos-Fap, centro di formazione professionale della sede di Fossano, hanno partecipato a un quadrangolare di calcio nel carcere "Santa Caterina". Le partite, disputate alla presenza di due arbitri ufficiali Aia (associazione italiana arbitri), si sono svolte sotto l’egida della Figc, Federazione italiana gioco calcio. Attraverso lo sport, il mondo della formazione professionale, che porta l’impronta di don Bosco, ha coinvolto e fatto sentire accettato quello di chi sta pagando gli errori che ha fatto. Il tutto con l’obiettivo di portare avanti la collaborazione anche nella società. I valori salesiani hanno varcato le mura del carcere creando un ponte che porterà a collaborazioni future tra la struttura e il centro di formazione professionale. È quanto successo l’altro pomeriggio nella casa di reclusione "Santa Caterina" a Fossano. L’occasione è stato il quadrangolare di calcio che ha visto scendere in campo detenuti, formatori e studenti del CNOS-FAP della città degli Acaja. "Noi abbiamo quattro sedi (Fossano, Saluzzo, Savigliano e Bra, ndr) - ha spiegato Maurizio Giraudo, direttore provinciale dei Cnos-Fap della provincia di Cuneo. Lancio un’idea: una prossima partita tra una nostra rappresentanza provinciale, detenuti, agenti e Comune di Fossano. Questo è il modo migliore per conoscersi e apprezzarsi". Le partite si sono svolte sotto l’egida della FIGC con 2 arbitri AIA. "Ringrazio il centro di formazione per la disponibilità e la FIGC per la presenza e per aver regalato ai detenuti 5 palloni da calcio" ha detto Antonella Aragno, educatrice del carcere. Dopo la benedizione di don Bartolo Pirra, neo direttore del CFP di Fossano, il calcio d’inizio affidato a Teresa, volontaria della Caritas di Fossano. La cronaca: la prima partita tra detenuti (squadra blu) è formatori è stata molto combattuta ma si è conclusa 7 a 5 per i ristretti; la seconda tra detenuti (squadra gialla) e studenti persa dai ragazzi per 2 a 1. Poi le finali: per il terzo e quarto posto, gli allievi hanno battuto i formatori; per il primo e secondo la squadra blu dei detenuti ha battuto la gialla. Il pomeriggio si è concluso con la merenda preparata dagli studenti del settore turistico-alberghiero della sede di Savigliano del Cnos-Fap e dai detenuti. La cattiva coscienza della nostra politica di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 1 novembre 2016 I tentativi di rintuzzare la sfida dell’antipolitica culturalmente subalterni al nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si presenta come una delle virtù principali la riduzione del numero dei parlamentari. I tentativi della politica di rintuzzare la sfida dell’antipolitica sono fiacchi, controproducenti, spesso corrivi, culturalmente subalterni al nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si liscia il pelo al gatto dell’antipolitica presentando come una delle virtù principali della riforma la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, un aspetto secondario rispetto a quelli che davvero contano: fine del bicameralismo paritario, indebolimento dei (oggi fortissimi) poteri di veto, maggiore stabilità e maggiore capacità decisionale dei governi. Ci sono due tipi di antipolitica, una vera e una finta. L’antipolitica vera non è oggi di moda (lo è stata ai tempi di Reagan e Thatcher). È quella che non vuole una politica impicciona, che ha per ideale - da perseguire benché non possa mai essere compiutamente realizzato - lo "Stato minimo", uno Stato che si occupi di fronteggiare emergenze e sfide alla sicurezza e di produrre pochi beni pubblici essenziali, lasciando il resto al mercato e al libero associazionismo volontario. Ma non è questa l’antipolitica oggi di moda. È di moda l’antipolitica finta, la quale convoglia il disprezzo dei cittadini sulla politica ma pretende altresì che la politica resti l’impicciona di sempre (non si propongono privatizzazioni e liberalizzazioni ma protezionismo e dosi ancor più massicce di statalismo). L’antipolitica oggi di moda è un ossimoro: è un’antipolitica statalista. Cosa risponde la politica a questa antipolitica, cosa risponde quando l’antipolitica ripropone il mito del cittadino comune (o dell’Uomo qualunque) che sarebbe in grado di governare la cosa pubblica meglio - con più efficacia e con meno costi - dei politici di professione? La politica non sa cosa rispondere, balbetta frasi sconnesse. Non è capace per lo più di rintuzzare la sfida con argomenti seri in difesa di se stessa e delle proprie virtù. Certamente l’antipolitica non nasce sotto un cavolo né senza ragioni. La ragione principale del suo successo è che, sfiancati da una lunga crisi economica, i cittadini non possono più tollerare le cattive abitudini, lo spreco di denaro pubblico, molti chiedono (e hanno ragione) una politica più sobria, meno disinvolta nell’impiego dei soldi dei contribuenti. Ma il lecito slitta nell’illecito quando, estremizzando, si abbracciano i peggiori argomenti affioranti dal passato, da un’antica tradizione antidemocratica e antiparlamentare. Si passa all’illecito quando si sostengono tre tesi, diverse ma collegate. La prima dice che i politici sono "cittadini come tutti gli altri". La seconda afferma che qualunque cittadino (come la "cuoca" di Lenin) è in grado di amministrare la cosa pubblica. La terza (ma qui gioca, oltre all’ideologia antidemocratica anche quella antiscientifica) sostiene che non solo una "competenza politica" specifica ma anche le altre competenze (si tratti di competenze amministrative o di saperi tecnico-scientifici), quelle che, in principio, servono a coadiuvare l’azione dei politici, non hanno valore: conta solo il volere del popolo, e il volere è potere, non esistono vincoli od ostacoli (finanziari, tecnici) che rendano indispensabile il ricorso alle competenze. Basta volerlo e, ad esempio, si può dare il salario minimo a tutti riducendo contemporaneamente le tasse o distribuire benessere e fare a meno della libera circolazione delle merci. Quanto alla prima tesi, chiunque affermi che i politici, anche quelli eletti, siano "cittadini come tutti gli altri" ha urgente bisogno di qualche lezione di educazione civica. I politici eletti non lo sono affatto. I cittadini comuni rappresentano solo se stessi. Quei politici rappresentano i loro elettori. C’è in gioco il delicatissimo rapporto di rappresentanza (l’essenza della democrazia moderna) il quale rende il politico eletto diverso dal cittadino comune. La tesi "il politico è un cittadino come tutti gli altri" nega valore alla democrazia rappresentativa. Deve essere rintuzzata da chiunque la apprezzi pensando che essa, pur con i suoi limiti, sia l’unica possibile democrazia. È il rapporto di rappresentanza che rende necessarie quelle guarentigie (inaccettabili "privilegi" per gli esponenti dell’antipolitica), che vanno dall’immunità parlamentare (del tempo che fu) alla disponibilità di risorse economiche necessarie a svolgere i compiti di rappresentanza. Anche la seconda tesi non sta in piedi. Non è vero che chiunque possa improvvisarsi politico e magari amministrare la cosa pubblica ai massimi livelli. Fatta eccezione per pochissimi particolarmente dotati, ai più alti livelli conviene arrivare dopo una lunga gavetta politica. In Italia, un tempo erano i partiti ad addestrare le persone. Oggi non più. Ma partiti come quelli di allora non sono indispensabili. Negli Stati Uniti, ad esempio, partiti di tipo italiano non ce ne sono mai stati ma sono comunque sempre esistiti percorsi alternativi in cui i politici tuttora si formano e acquistano competenze. I Trump non sono la regola. Le assemblee rappresentative, locali e nazionali, sono tipicamente le migliori palestre per la formazione di politici competenti, in grado poi di governare. Governare significa organizzare il consenso, formare coalizioni fra interessi anche divergenti e mantenerle unite mentre si affrontano i vari problemi pubblici. Chi crede che ciò sia alla portata di chiunque prende fischi per fiaschi. Se l’antiparlamentarismo e l’ostilità per la democrazia rappresentativa sono alla base delle suddette tesi, si deve soprattutto al pregiudizio antiscientifico (le scie chimiche, la polemica sulle vaccinazioni) la svalorizzazione delle competenze altre, di quelle competenze non politiche che tuttavia servono alla politica per affrontare i vari temi dell’agenda pubblica. Nonostante la loro inconsistenza, le tesi antipolitiche hanno successo, si diffondono e si radicano. Possono farlo impunemente perché la politica non sa ribattere colpo su colpo, non sa contrapporre argomenti seri, forti e duri in difesa di se stessa, della propria indispensabilità, delle proprie virtù. Non è stata fin qui capace di farlo a causa della cattiva coscienza, della consapevolezza degli errori accumulati. Emendarsene è necessario. Ma abbracciare i cattivi argomenti dell’antipolitica, non difendere con fierezza le virtù della democrazia rappresentativa, significa lasciare il campo senza combattere, significa suicidarsi. Guerra. L’Italia deve dire "no" alle armi nucleari di Manlio Dinucci Il Manifesto, 1 novembre 2016 Si deve esigere che l’Italia cessi di violare il Tnp e chieda agli Stati uniti di rimuovere subito tutte le loro armi nucleari dal nostro territorio e di non installarvi le nuove bombe B61-12, punta di lancia della escalation nucleare Usa/Nato contro la Russia. "Grazie, presidente Obama. L’Italia proseguirà con grande determinazione l’impegno per la sicurezza nucleare": così scriveva il premier Renzi in uno storico messaggio twitter. Sei mesi dopo, alle Nazioni Unite, Renzi ha votato Sì alle armi nucleari. Accodandosi agli Usa, il governo italiano si è schierato contro la Risoluzione, approvata a grande maggioranza nel primo comitato dell’Assemblea generale, che chiede la convocazione nel 2017 di una conferenza delle Nazioni Unite al fine di "negoziare uno strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari, che porti verso la loro totale eliminazione". Il governo italiano si è così rimangiato quanto promesso alla Conferenza di Vienna, due anni fa, ai movimenti antinucleari "esigenti", assicurandoli sulla sua volontà di operare per il disarmo nucleare svolgendo un "ruolo di mediazione con pazienza e diplomazia". Cade così nel vuoto l’appello "Esigiamo il disarmo nucleare totale", in cui si chiede al governo "la prosecuzione coerente dell’impegno e della lotta per la messa al bando delle armi nucleari", in un percorso "umanitario e giuridico verso il disarmo nucleare", nel quale l’Italia potrebbe svolgere "un ruolo più che attivo, possibilmente trainante". Cadono di conseguenza nel vuoto anche le mozioni parlamentari dello stesso tenore. Gli appelli generici al disarmo nucleare sono facilmente strumentalizzabili: basti pensare che il presidente Usa, artefice di un riarmo nucleare da 1000 miliardi di dollari, è stato insignito del Premio Nobel per la Pace per "la sua visione di un mondo libero dalle armi nucleari". Il modo concreto attraverso cui in Italia possiamo contribuire all’obiettivo del disarmo nucleare, enunciato nella Risoluzione delle Nazioni Unite, è quello di liberare il nostro paese dalle armi nucleari statunitensi. A tal fine occorre non appellarsi al governo, ma esigere che esso rispetti il Trattato di non-proliferazione (Tnp), firmato e ratificato dall’Italia, che all’Art. 2 stabilisce: "Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, che sia Parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente". Si deve esigere che l’Italia cessi di violare il Tnp e chieda agli Stati uniti di rimuovere subito tutte le loro armi nucleari dal nostro territorio e di non installarvi le nuove bombe B61-12, punta di lancia della escalation nucleare Usa/Nato contro la Russia, né altre armi nucleari. Si deve esigere che piloti italiani non vengano più addestrati all’uso di armi nucleari sotto comando Usa. È questo l’obiettivo della campagna lanciata dal Comitato No Guerra No Nato e altri soggetti (per documentarsi digitare su Google "Change Nato"). La campagna ha ottenuto un primo importante risultato: il 26 ottobre, al Consiglio Regionale della Toscana, è stata approvata a maggioranza una mozione del gruppo Sì Toscana a Sinistra che "impegna la Giunta a richiedere al Governo di rispettare il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari e far sì che gli Stati uniti rimuovano immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinuncino a installarvi le nuove bombe B61-12 e altre armi nucleari". Attraverso queste e altre iniziative si può creare un vasto fronte che, con una forte mobilitazione, imponga al governo il rispetto del Trattato di non-proliferazione. Sei mesi fa chiedevamo dalle pagine del manifesto se ci fosse qualcuno in Parlamento disposto a esigere, in base al Tnp, l’immediata rimozione dall’Italia delle armi nucleari statunitensi. Siamo ancora in attesa di risposta. Migranti. Fico (M5S) si schiera con Orban "Renzi sappia che le quote Ue sono morte" di Andrea Tarquini La Repubblica, 1 novembre 2016 Va avanti lo scontro tra i paesi che ricevono migranti, come l’Italia, e i quattro del gruppo di Visegrad. Il premier slovacco: "Ognuno scelga il contributo da dare". Dopo il leader ungherese Viktor Orbàn, un secondo premier dell’est attacca il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, sul tema dei profughi. È il capo del governo slovacco Robert Fico, il cui partito (Smer) appartiene al gruppo dei socialisti europei, nonostante le posizioni spesso nazionalpopuliste di Bratislava. La Slovacchia oltre tutto è presidente di turno semestrale dell’Unione europea. E come gli altri tre paesi del gruppo di Viségrad (Cèchia, Polonia e Ungheria) cui appartiene, esprime una linea dura di assoluto rifiuto delle quote di ripartizione di migranti tra Stati membri della Ue, quote volute dalla Commissione europea per alleggerire il peso dell’emergenza sui paesi come Germania Svezia Italia Grecia Austria che hanno accolto il grosso dell’ondata migratoria. Ha detto Fico, in una risposta indiretta all’ipotesi avanzata da Renzi di bocciare il bilancio europeo sulle quote di redistribuzione dei migranti: "Le quote obbligatorie proposte dalla Ue sono di fatto morte. È necessario ricordarlo a tutti, anche al premier italiano Renzi. Dei 160mila migranti da ricollocare, solo alcune migliaia sono stati realmente ripartiti, e non è possibile scaricare la responsabilità di questa situazione su Slovacchia, Cèchia, Ungheria, e alcuni altri Stati". Molto più semplicemente, egli ha aggiunto, "tutto ciò dimostra che il progetto delle quote obbligatorie è fallito". Fico ha poi anticipato che la Slovacchia, appunto quale presidente di turno semestrale della Ue, presenterà una proposta di compromesso sul tema migranti al vertice europeo di dicembre. "È giusto che tutti diano un contributo, ma ogni paese deve essere lasciato libero di scegliere il contributo che ritiene più opportuno, siamo contrari a qualsiasi ipotesi di ripartizione di quote di migranti su base obbligatoria". La Slovacchia, come gli altri tre paesi del gruppo di Viségrad (trasformatosi ormai in una specie di Patto d’acciaio dei falchi anti-migranti ed euroscettici dell’Est della Ue) ha accolto un numero irrisorio, quasi inesistente di migranti. Mentre Germania, Italia, Svezia, Austria, e persino la povera Grecia, affrontano un grave sovraffollamento. Al tempo stesso tutti i quattro di Viségrad sono Paesi riceventi netti, cioè ricevono dalla Ue molti più aiuti, fondi di coesione, sovvenzioni di quanto non versino al bilancio dell’Unione. Ciò ha un ruolo determinante nella loro solida crescita economica e nei loro conti sovrani in ordine. E insieme, non va dimenticato che ingenti investimenti industriali e finanziari dei paesi pagatori netti della Ue (come appunto Germania, Francia, Olanda, Italia, Svezia e Austria tra gli altri) hanno contribuito in modo determinante alla crescita economica dei membri orientali dell’Unione dopo la fine dell’Impero del Male sovietico-bolscevico e il ritorno là della democrazia. In alcuni di quei Paesi, proprio l’Italia è seconda solo alla Germania per volume e qualità d’eccellenza d’investimenti, e ha così creato in quei paesi molti posti di lavoro e diffuso benessere. Turchia. La mano pesante di Erdogan contro il dissenso di Sandra Zampa L’Unità, 1 novembre 2016 La ferita della lunga notte tra il 14 e il 15 luglio non si è mai rimarginata. La notte del tentativo di golpe militare in Turchia, su cui Erdogan ha avuto la meglio, suffragato dalle piazze in festa di Istanbul e Ankara, vive a distanza di tre mesi e mezzo un pesante e preoccupante prosieguo, che tutto ha tranne il sapore dell’epilogo, ma che assume invece i contorni di una ritorsione continua. Il redde rationem del presidente turco contro i golpisti e la rete che fa riferimento all’ex imam Gulen, ritenuto la mente del tentativo di colpo di Stato, non conosce battute d’arresto e assume sempre di più i contorni di un alibi per mettere in campo una rappresaglia contro chi vive da anni in una condizione di subalternità nel proprio Paese, come la popolazione curda. Non solo. La mano pesante di Erdogan tende a configurarsi sempre di più come un tentativo di reprimere le voci critiche e di dissenso. L’ultimo episodio ieri: la polizia turca ha arrestato il direttore del quotidiano d’opposizione Cumhuriyet, Murat Sabuncu, e condotto raid nelle abitazioni dei dirigenti e dei giornalisti dipendenti o collaboratori del giornale. Sono stati emanati 13 mandati d’arresto per dirigenti e professionisti che scrivono sul giornale, compreso appunto Sabuncu, direttore della testata. Nomi e volti che in Turchia sono sinonimo di libertà d’espressione. La lunga scia del golpe è viva più che mai. Non possiamo voltare lo sguardo altrove e ignorare la questione curda. Il Parlamento Europeo ha fatto un passo importante con la risoluzione approvata ad aprile, con la quale si esprime preoccupazione nei confronti dell’irrisolta questione curda, della violazione dei diritti umani e della libertà di stampa. Occorre sostenere questo sforzo. Anche noi siamo chiamati a farci portavoce di un’istanza volta a tutelare chi oggi, in Turchia, vive da "prigioniero" in casa propria. Nel Sud-Est del Paese siamo al limite della guerra civile. A rendere ancora più evidente la posizione in cui si trova la popolazione curda sono gli arresti dei due co-sindaci della metropoli curda di Diyarbakir. L’arresto di Kranak e Anli sarebbe stato avviato dalla procura generale in base a un’indagine sul Pkk, ma i contorni di questa vicenda sono tutt’altro che chiari. Quando si arresta chi amministra una comunità è evidente che si vuole colpire la comunità stessa, delegittimando i suoi amministratori agli occhi del mondo. Il presidente turco ha di fatto sospeso ogni misura democratica: ad oggi, sono oltre 100.000 i dipendenti pubblici licenziati o sospesi dall’incarico e 32.000 le persone arrestate. Anche la modifica della Costituzione ha tolto l’immunità parlamentare ai deputati della Grande Assemblea nazionale della Turchia e decine di rappresentanti, ad esempio 55 su 59 membri del gruppo HDP, il partito curdo guidato da Selahattin Demirtas, rischiano di essere perseguiti per procedimenti pendenti a loro carico, molti relativi a reati di opinione. La reazione del Governo turco al tentativo di colpo di Stato non può passare per azioni che mettano a rischio la democrazia e lo stato di diritto nel Paese. Lo abbiamo scritto chiaramente nella risoluzione che abbiamo presentato e con la quale chiediamo al Governo di porre in essere ogni iniziativa sul piano internazionale al fine di persuadere il Governo turco a ripristinare lo stato di diritto, la libertà di stampa e di opinione, il rispetto dei diritti umani ed, in particolare, dei diritti delle donne e dei minori, oltre alle condizioni minime di agibilità politica per le opposizioni. Dobbiamo sostenere con forza, nelle opportune sedi internazionali, ogni iniziativa affinché da parte del Governo turco venga garantito lo svolgimento di un processo giusto, democratico ed equo per le persone coinvolte nel tentato golpe. Il nostro contributo per il rispetto della democrazia è doveroso. Turchia. Nuova mannaia sui media, arrestati 11 giornalisti di Cumhuriyet di Chiara Cruciati Il Manifesto, 1 novembre 2016 In carcere 11 dipendenti, tra cui il direttore. Mandato d’arresto per Dundar, all’estero. L’accusa è di aver commesso crimini a favore di Gulen e Pkk. Superano i 160 i media chiusi dal governo. Le purghe post-golpe in Turchia non sono mai finite. La campagna lanciata dal presidente Erdogan dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio ha fatto ieri altre vittime, ancora una volta tra la stampa indipendente: all’alba la polizia ha arrestato undici giornalisti del quotidiano Cumhuriyet, tra cui il direttore Murad Sabuncu, e ha poi vietato al resto dei media turchi di parlare dell’operazione. Il giornale era stato già colpito l’anno scorso quando l’allora direttore Dundar e il caporedattore Gul finirono in prigione per 90 giorni per aver pubblicato reportage sui legami tra servizi segreti turchi e gruppi islamisti in Siria. Gli arresti di ieri, però, sono usciti da un altro cappello: i 15 mandati d’arresto, dice il procuratore capo di Istanbul, sono stati spiccati per "crimini a favore delle organizzazioni terroristiche di Gulen e del Pkk". Due soggetti ben diversi tra loro, radicalmente distanti, ma da mesi ormai usati per fare piazza pulita delle voci critiche. Tra i quattro giornalisti scampati al carcere perché all’estero c’è lo stesso Dundar, la cui casa di Istanbul è stata però perquisita. "Pubblicheremo domani e continueremo a farlo nonostante i tentativi di metterci sotto silenzio - dice a Middle East Eye uno dei giornalisti di più lungo corso del quotidiano, Ayse Yildirim. Ci sono rimasti solo tre giornali liberi in Turchia e una o due televisioni. Non possiamo avere paura". Il governo, al contrario, definisce gli arresti parte di un’indagine giudiziaria e non un attentato alla libertà di stampa. Difficile crederlo visti i regolari abusi contro i media che fanno della Turchia il secondo paese al mondo dopo la Cina per giornalisti in carcere, ben 99. Sono oltre 160 i canali tv, le stazioni radio, i quotidiani, le riviste e le agenzie stampa chiusi dopo la dichiarazione dello stato di emergenza lo scorso luglio. Solo ieri è toccato ad altri 15 media kurdi. Per questo ieri un gruppo di giornalisti licenziati ha lanciato un nuovo social media per evitare la censura di Stato: #HaberSIZsiniz lavorerà da Ankara via Facebook e Periscope. Irak. Mosul, ultimatum delle forze irachene all’Isis: "arrendetevi o morirete" di Giordano Stabile La Stampa, 1 novembre 2016 Il premier Haider al-Abadi: "Ci avviciniamo da tutti gli angoli, non avete vie di fuga". Il premier iracheno Haider al-Abadi ha lanciato questa mattina l’ultimatum ai combattenti dell’Isis a Mosul: "Non avete scelta, o la resa o la morte. Ci avviciniamo da tutti gli angoli e - a Dio piacendo - mozzeremo la testa del serpente. Non avete via di scampo né via di fuga". L’ultimatum arriva dopo che le truppe irachene hanno messo piede, dopo due settimane di offensiva, per la prima volta nell’area urbana della città. Violenti combattimenti sono in corso a Gogjali, a circa 10 chilometri dal centro, mentre il comandante delle forze congiunte sul fronte Est, il general Abdul al-Assadi, ha detto che le sue forze sono penetrate nel distretto di Karama. Ieri le forze speciali irachene avevano preso il controllo definitivo del villaggio di Bazwaia, l’ultimo sulla strada Erbil-Mosul, l’accesso più diretto alla capitale dello Stato islamico, e il punto in cui le truppe più si sono avvicinate in modo stabile. Secondo l’Intelligence dei Peshmerga curdi l’Isis ha cercato di contrattaccare con autobombe suicide ma è stato bloccato da missili anti-tank. Secondo i Peshmerga a karama c’è stato anche un tentativo di sollevazione da parte della popolazione locale. Nell’area di Mosul a Est del fiume Tigri vive ancora una importante minoranza curda. I curdi e il governo di Baghdad annunciano da giorni la sollevazione della popolazione di Mosul, uno sviluppo che renderebbe molto più agevole l’assalto al centro urbano, densamente popolato e fortificato, difeso da 6-7 mila jihadisti: un ostacolo molto più ostico rispetto ai villaggi in gran parte cristiani e curdi, quasi del tutto spopolati, che sono stati riconquistati finora. All’assalto di Mosul partecipano circa 50 mila uomini fra esercito, Peshmerga curdi, e forze sciiti, i cosiddetti comitati di difesa popolare, Hashd al Shàabi. Il comandante della Badr, la milizia più potente e filo-iraniana, Hadi al-Amiri, ha annunciato la partecipazione dei suoi uomini all’offensiva. Secondo i piani dovrebbero avanzare verso Ovest, su Tall Afar, per completare l’accerchiamento. Ma gli sciiti potrebbero anche essere coinvolti nei combattimenti in città, al 90 per cento sunnita. L’idea di un lungo e sanguinoso assedio è stata paventata dallo stesso Al-Amiri: "Temiamo che Mosul possa diventare un’altra Aleppo, anche se speriamo che non succeda".