Amnistia e indulto: non si ascoltano neanche il Papa, Pannella e Mattarella di Rita Bernardini Il Dubbio, 19 novembre 2016 La soluzione non può essere la riforma dell’Ordinamento penitenziario inserita nel ddl penale. Abbiamo ascoltato anche in queste ore la dichiarazione stereotipata secondo la quale per l’amnistia in Parlamento non ci sono i numeri e che, invece, occorrono misure strutturali che però non si sa mai "se" e "quando" arriveranno. È il leitmotiv del ministro della Giustizia Andrea Orlando e di tutti i guardasigilli che lo hanno preceduto, ad eccezione della ministra Annamaria Cancellieri. Intanto, il provvedimento di amnistia previsto dall’art. 79 della Costituzione, il ministro Orlando lo riferisce esclusivamente alla situazione carceraria quando, invece, incide soprattutto sullo sfoltimento dei procedimenti penali pendenti: è utile pertanto a far ripartire la macchina della giustizia bloccata da milioni di cause. E non sarebbe poca cosa considerato che il nostro Paese è serialmente condannato dalla giustizia europea per violazione dell’art. 6 della Convenzione Edu quanto a "irragionevole durata dei processi", principio previsto anche dalla nostra Costituzione all’art. 111. Sul sovraffollamento carcerario incide invece l’indulto, anch’esso previsto dall’art. 79, provvedimento che, a differenza dell’amnistia che cancella il reato, depenna l’ultimo periodo di pena: può essere di uno, due o tre anni, come avvenuto per l’indulto del 2006 al quale sciaguratamente, ricordiamolo, non è stata abbinata anche l’amnistia. Sapete quanti detenuti devono scontare meno di un anno? Ben 8.051! E da uno a due anni altri 6.616! Considerato che fra due mesi, tre mesi o un anno saranno comunque scarcerati, non è meglio evitare loro il degrado criminogeno delle nostre galere? Nell’anno del Giubileo dei carcerati (che volge al termine) non si può rispondere a Papa Francesco - che chiarissimamente ha chiesto un atto di clemenza da parte degli Stati di tutto il mondo ? che la soluzione stia nella riforma dell’ordinamento penitenziario inserita, nella forma della delega al Governo, in un discutibile ddl che di buono sembra avere solo il titolo "Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi?". Come esponenti del Partito Radicale abbiamo condotto un lungo sciopero della fame sostenuto da oltre 18.500 detenuti per chiedere lo stralcio della riforma dell’Ordinamento penitenziario, ma siamo ben consapevoli che, una volta approvato, i tempi per l’esercizio della delega non saranno brevi. E intanto? Vogliamo lasciare la popolazione detenuta nelle condizioni attuali di sistematica violazione dei diritti fondamentali? Vogliamo lasciare i cittadini italiani a continuare a subire l’irragionevolezza della durata dei processi? Senso di responsabilità e capacità di governo richiederebbero più coraggio e determinazione nell’affrontare la condizione di débâcle della nostra giustizia. Occorre indicare e perseguire, come fa Papa Bergoglio e faceva Marco Pannella, ciò che è giusto e irrinunciabile se non si vuole essere anti-popolari nel timore di essere impopolari. E, magari, ascoltare un po’ di più il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, garante attivo della legalità costituzionale. Carceri ancora troppo piene. Nei penitenziari ci sono 4.300 detenuti in più di Giorgio Velardi La Notizia, 19 novembre 2016 . In alcuni istituti il sovraffollamento è del 200%. Forse la definizione più giusta, per quanto a leggerla possa suonare come un pugno nello stomaco, l’hanno coniata i Radicali: le carceri italiane restano una "discarica sociale". Proprio così. Questo perché, ancora oggi, all’interno delle 193 strutture presenti sul territorio nazionale ci sono oltre 4.300 detenuti in più del consentito. Ben 54.072 (18 mila stranieri, il 33%) contro i 49.701 posti disponibili. Un vero e proprio esercito. L’ultima fotografia l’ha scattata Openpolis in un dossier dal titolo "Dentro o fuori". Il dato di partenza, come detto, è quello del sovraffollamento, pari al 108% (l’Italia è sesta nella classifica europea). Vuol dire che per ogni 100 posti letto ci sono in realtà 108 detenuti, che spesso vivono in condizioni di disagio sociale e mentale. Certo, il calo rispetto agli scorsi anni c’è. Ma è troppo poco per esultare. I numeri - Perché, ad esempio, disaggregando i dati l’associazione fa notare come in alcuni penitenziari il sovraffollamento si avvicini al 200%. Numeri da brivido, se si considera che la nostra Costituzione prevede che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Qui invece di rieducativo non c’è niente. Anzi. I casi limite sono quelli di Brescia (Canton Monbello), Como e Lodi, dove il tasso di affollamento è pari - rispettivamente - a 191,5, 181,4 e 180%. Ma non se la passano meglio nemmeno Taranto, Grosseto e Catania. La maggioranza dei detenuti (30.723) è accusata o condannata per reati contro il patrimonio, tra cui furti, rapine, frodi e danneggiamenti, mentre i reati contro la persona (lesioni e omicidi) sono la seconda fattispecie più frequente. Al terzo posto ci sono le violazioni del testo unico sugli stupefacenti. Leggendo il dossier di Openpolis, un altro degli elementi che balza all’occhio resta quello della carcerazione preventiva. Attualmente infatti il 17,3% dei carcerati è in attesa di primo giudizio, mentre appellanti e ricorrenti sono il 17,2%. Il 25% dei condannati sta invece scontando pene inferiori a tre anni. Cortocircuito - Una situazione frutto anche di scelte politiche sbagliate. Insieme agli interventi normativi per ridurre il numero di detenuti (amnistia e indulto), a partire dal quarto governo Berlusconi sono stati varati dei piani per ristrutturare e allargare le carceri esistenti e costruirne di nuove. Com’è andata a finire? Una relazione della Corte dei Conti del settembre 2015 ha certificato il fallimento di quei progetti, visto che è stato speso appena l’11% del budget 2010-2014 e i posti letto sono aumentati solo di 4.415 unità a fronte dei quasi 12 mila previsti. L’altro aspetto drammatico è quello del lavoro in carcere. Oggi meno del 30% dei detenuti ha un impiego: una minoranza. E anche le misure alternative sono scarsamente sfruttate. Ecco perché chi passa direttamente dal carcere alla vita civile ha ancora oggi molte probabilità di compiere nuovi reati. Un trend assolutamente da invertire. Orlando: la pena deve tener conto della gravità dei reati, ma anche della condotta tenuta di Antonella Gaetani rainews.it, 19 novembre 2016 "La pena deve tener conto della gravità degli errori commessi, ma anche della condotta tenuta": lo ha sottolineato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervenendo all’incontro del "Cortile dei Gentili" organizzato dal cardinale Gianfranco Ravasi, sul tema del carcere, riabilitazione e delle riforme possibili. Al centro del dibattito la riforma del sistema penitenziario, l’abolizione dell’ergastolo, l’amnistia e l’indulto. Gonnella (Antigone): che votino "Si" o "No" l’importante è che i detenuti possano votare Ansa, 19 novembre 2016 Gonnella, che votino sì o no importante possano farlo.. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. "Il voto è un diritto costituzionalmente garantito, per questo, proprio nel momento in cui i cittadini italiani sono chiamati a votare se accettare o meno la riforma della Costituzione, è necessario affermare ancora una volta i diritti in essa contenuti, attivando tutte le misure necessarie affinché i tanti detenuti senza interdizione possano esprimere la propria opinione" dichiara Gonnella. Nelle ultime elezioni politiche del 24 e 25 febbraio del 2013 i votanti furono complessivamente 3.426, pari a circa il 5,2% dei reclusi. La partecipazione alle elezioni precedenti, quelle del 13 e 14 aprile 2008 fu ancora più bassa, attestandosi al 2,4%, pari a 1.368 votanti. Questi dati tuttavia tengono conto dei presenti e non degli aventi effettivamente diritto. "Chiediamo all’Amministrazione Penitenziaria e alle Direzione delle carceri di attivarsi - conclude Gonnella - affinché ci sia informazione sul voto, sulla possibilità di votare e sulle procedure che i detenuti devono attivare per vedere garantito questo loro diritto". "Non un mio crimine ma una mia condanna". Campagna nazionale di Bambinisenzasbarre Ristretti Orizzonti, 19 novembre 2016 I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini. Al via la Campagna nazionale di sensibilizzazione di Bambinisenzasbarre. Bambinisenzasbarre lancia dal 20 novembre al 20 dicembre la Campagna nazionale di sensibilizzazione "Non un mio crimine ma una mia condanna, i diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini", per promuovere la prima "Carta dei figli dei detenuti", rinnovata lo scorso settembre dal ministro Orlando, dalla Garante dell’Infanzia Albano e da Bambinisenzasbarre, per portare all’attenzione il tema dei 100mila bambini che entrano ogni giorno ogni anno in carcere per mantenere il legame con i propri genitori, e che oggi vedono riconosciuti i propri bisogni trasformati in diritti. L’Italia è la prima in Europa ad avere un documento che impegna il sistema istituzionale del nostro Paese e la società civile a confrontarsi con la presenza in visita del bambino in carcere, e con il peso che la detenzione del proprio genitore comporta. Noi diciamo che "I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini". La campagna inizia il 20 novembre, ricorrenza della Giornata Mondiale dei diritti dell’Infanzia. Quest’anno l’Italia festeggia un’occasione speciale: il 25esimo anniversario della ratifica della Convenzione dei diritti dell’infanzia dell’Onu. Il carcere, pur essendo un luogo che i bambini sentono estraneo, minaccioso e potenzialmente traumatico è lo spazio che devono necessariamente frequentare per mantenere il legame con il proprio genitore, un legame fondamentale per la loro crescita. Un rapporto che si fonda sugli aspetti affettivi della relazione che rimangono intatti, e tali devono rimanere, e non sono legati al reato commesso dal genitore ed alla sua colpa. Il figlio continua ad amare il padre in carcere e ad essere amato. "Sono bambini che vivono con un segreto perché hanno il papà in carcere e per questo vengono emarginati. Dobbiamo contrastare questa esclusione e liberarli dal peso della vergogna, è una responsabilità sociale a cui siamo tutti chiamati a rispondere" afferma Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre. L’interruzione dei legami affettivi tra figli e genitori detenuti, come statisticamente provato, può incrementare fenomeni di abbandono scolastico, devianza giovanile, illegalità, disagio sociale e aumentare i casi di detenzione tra i figli di genitori detenuti. La sicurezza sociale passa quindi anche dal mantenimento dei legami affettivi. Sostenere il genitore detenuto a svolgere il proprio ruolo di mamma o papà è anche un intervento di prevenzione sociale a vantaggio non solo della comunità, ma anche della persona reclusa che - una volta terminato il suo percorso - torna più raramente a commettere reati (recidiva) rispetto a chi nel corso della detenzione non ha mantenuto il legame con la propria famiglia. Nel corso della campagna Bambinisenzasbarre organizza, con il sostegno del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, la seconda edizione della "Partita di calcio Bambinisenzasbarre" tra detenuti con o senza figli all’interno delle carceri in tutto il territorio nazionale. L’esperienza della Carta dei figli dei detenuti ha portato l’Italia a essere capofila a livello internazionale. L’Intergruppo del Parlamento Europeo per i diritti dell’infanzia ha deciso di proporre formalmente che la Carta dei figli dei detenuti italiana sia adottata da tutti i Paesi dell’Unione Europea. In queste settimane i deputati del Parlamento Europeo stanno raccogliendo le firme necessarie alla Dichiarazione Scritta n. 84, per avviare l’iter di adozione della Carta italiana. Passaggio cruciale è la presentazione, il prossimo 30 novembre a Bruxelles, della Carta ai deputati europei da parte di Bambinisenzasbarre e dal Ministero di Giustizia del nostro Paese. La deadline per raggiungere il quorum delle adesioni è il 12 dicembre. Anche la rete Cope (Children of Prisoners Europe), costituita da 21 Ong di altrettanti Paesi (Bambinisenzasbarre fa parte del board), ha chiesto, attraverso i suoi membri, che i rispettivi governi adottino una Carta simile a quella italiana. Per sostenere le attività di Bambinisenzasbarre è possibile donare visitando il sito dell’Associazione (bambinisenzasbarre.org) o scaricare l’app Satispay. 130 computer in 10 carceri per la formazione dei detenuti lavoce.it, 19 novembre 2016 Accordo tra Ministero della Giustizia, Fondazione Vodafone Italia, Cisco, Confprofessioni e Cooperativa Universo. I corsi del programma Cisco Networking Academy formeranno in due anni 200 detenuti. Vodafone ha firmato un protocollo di intesa con il Ministero della Giustizia, Cisco, Confprofessioni e Cooperativa Universo per offrire ad almeno 200 detenuti l’opportunità di acquisire nuove competenze, utili per il loro percorso di reinserimento sociale e professionale. Grazie al programma di donazione di dispositivi aziendali ricondizionati ad enti non profit, Vodafone contribuirà all’allestimento tecnologico delle aule didattiche mettendo a disposizione dieci postazioni video per ogni istituto coinvolto, per un totale di 130 personal computer donati. Dal 2002, anno di inizio del programma di donazione, Vodafone Italia ha destinato a istituti scolastici, pubbliche amministrazioni e terzo settore oltre 2500 dispositivi aziendali ricondizionati tra laptop, tablet. Numero che aumenta se si considerano i quasi mille tablet donati con il programma di alfabetizzazione digitale promosso dalla Fondazione Vodafone Italia "Insieme a scuola di Internet" che ha coinvolto, in due anni, oltre 200 mila over 55 su tutto il territorio nazionale. Anche Fondazione Vodafone partecipa al progetto di formazione nelle carceri, sostenendo la retribuzione dei formatori per alcuni moduli formativi attraverso il programma di Fondazione Vodafone "100% Insieme", che dal 2008, da la possibilità a clienti e dipendenti Vodafone di svolgere un’attività lavorativa retribuita presso enti non profit con il sostegno della Fondazione Vodafone. L’iniziativa, della durata complessiva di due anni, si inserisce nel "Programma Cisco Networking Academy" e avrà due fasi di applicazione. In prima battuta verranno coinvolti gli istituti di Bollate (MI), Opera (MI), La Spezia, Rebibbia (RM), e quelli minorili di Firenze e Nisida (NA). Successivamente, a seconda dei risultati ottenuti il primo anno, i corsi verranno estesi anche agli istituti di pena di Palermo, Bologna, Castrovillari (CS) e Cagliari, e mantenuti nelle carceri dove sono già attivi. Non è la prima volta che Fondazione Vodafone sostiene la formazione professionale all’interno delle carceri con l’obiettivo di favorire l’inclusione sociale e il reinserimento nel mercato del lavoro dei detenuti dopo la pena: dal 2002 ad oggi, infatti, la Fondazione ha collaborato con numerosi istituti, tra cui il carcere minorile di Nisida (NA) per la realizzazione di laboratori di pasticceria, fotografia e scrittura, il carcere di massima sicurezza "Le due torri" a Padova per la realizzazione del laboratorio di pasticceria Giotto, e con il carcere femminile della Giudecca di Venezia con il potenziamento dell’attività di lavanderia e stireria e il rafforzamento delle relative competenze in capo alle detenute. "Con la donazione di 130 personal computer in 10 carceri, vogliamo dare un contributo concreto alla formazione digitale dei detenuti - dichiara Maria Cristina Ferradini Sustainability manager di Vodafone e Consigliere Delegato di Fondazione Vodafone. Questa è un’iniziativa che si inserisce in un più ampio progetto di Vodafone che, dal 2002 ad oggi, ha donato ad enti non profit e istituzioni oltre 2500 dispositivi aziendali ricondizionati tra laptop, tablet e monitor. Anche Fondazione Vodafone partecipa al progetto di formazione nelle carceri, sostenendo la retribuzione dei formatori attraverso il programma "100% Insieme" di Fondazione Vodafone, che dal 2008 da la possibilità ai nostri clienti e dipendenti di svolgere un’attività lavorativa retribuita presso enti non profit. Come Fondazione - conclude Ferradini - da oltre 14 anni siamo impegnati nella realizzazione di iniziative di solidarietà sociale e, oggi più che mai, promuoviamo la tecnologia e il digitale quali strumenti di integrazione e innovazione sociale". La Chiesa in carcere di Marcello Matté settimananews.it, 19 novembre 2016 È la prima volta che gli operatori pastorali nel mondo del penale (non solo carcere) vengono convocati per confrontarsi, a partire dal Documento base che vuole dare indirizzo al loro agire ecclesiale. Erano presenti molti dei 209 cappellani delle carceri e una nutrita rappresentanza dei numerosi altri soggetti che, a titolo soprattutto volontario, svolgono servizio in forza di un’appartenenza ecclesiale. Non ci sono dunque confronti con analoghe iniziative precedenti ma sono emersi con evidenza i temi di maggiore interesse. Impossibile, nello spazio di un post, rendere conto degli interventi che si sono addensati nello spazio sfruttato al massimo di una giornata. Hanno avuto voce, dopo la relazione introduttiva di mons. Paolo Lojudice, vescovo ausiliare di Roma, i rappresentanti degli Uffici CEI nonché il suo segretario mons. Nunzio Galantino. La tavola rotonda ha radunato attorno alla moderazione di Claudia Mazzucato alcuni testimoni del percorso verso una giustizia riparativa e già maturato all’interno del "Gruppo" del quale racconta Il libro dell’incontro.[1] Chi opera nel mondo del penale comporta si interroga su come svolgere il servizio assegnato, trovandosi quasi sempre a dover inventare il proprio metodo, in quanto non esistono offerte di formazione specifica. Il Documento base illustra almeno le direttrici portanti. Ma la questione di fondo è di natura ecclesiale, prima ancora che pastorale. La conversione di mentalità richiesta ci domanda di passare dalla Chiesa che va in carcere alla Chiesa che è in carcere. Quanti operano nel mondo del penale non servono degli estranei alla Chiesa, ma incontrano e si uniscono a quella porzione di Chiesa già presente e impossibilitata alla reciprocità. Anche la dimensione missionaria ed evangelizzatrice coinvolge tutti come soggetti; non è riservata agli operatori. La questione ecclesiale va oltre il mondo del penale e riguarda la Chiesa tutta intera. Siamo ancora centrati sulla sacramentalizzazione, sulla dispensa dei sacramenti, lasciando in secondo piano, almeno nella consapevolezza e nell’agire, che la Chiesa è essa stessa sacramento; la celebrazione esprime e alimenta questa sua identità. Una Chiesa che non disgiunge l’eucaristia dalla lavanda dei piedi, perché sono unite già nell’azione e nel mandato di Gesù. Una Chiesa che spezza il pane condividendolo, più che donarlo, perché a tutti è donato. Quando cade un frammento del pane eucaristico ci chiniamo a raccoglierlo con rispetto - diceva con una metafora mons. P. Lojudice -; perché non dovremmo chinarci con altrettanto rispetto sul fratello che è caduto? Quale forma di "adorazione eucaristica" possiamo trovare per esprimere l’identificazione del povero con Gesù? L’annuncio del Vangelo nel mondo del penale - ma non solo - è questione di contenuti, ma soprattutto di relazioni, perché sono queste a costituirci in persone. È un mondo nel quale c’è più domanda di spiritualità di quanto si creda, diceva mons. Nunzio Galantino nel suo intervento; affermazione ribadita da molti dei numerosi altri interventi. E c’è anche più sensibilità alle questioni dei diritti, della dignità di tutti, della solidarietà di quanto se ne abbia notizia. Dove c’è il massimo di fragilità, c’è anche il massimo potenziale di cambio di vita, direbbe papa Francesco. Spiritualità significa dare ragioni di vita, di vita nuova dopo percorsi che hanno portato all’esclusione e alla reclusione. E per questo c’è sì bisogno di celebrare, ma soprattutto c’è bisogno di tessere incontri, relazioni, dalle quali nasca l’aiuto e poi anche la celebrazione. La funzione rieducativa della pena è sostanzialmente fallimentare nel sistema penale italiano. Non solo per carenza di personale, destinato in grandissima parte alla custodia. Soprattutto perché vi è una robusta e radicata coincidenza fra pena e retribuzione: chi ha sbagliato deve pagare, pensando di fare giustizia rispondendo al male con un altro male. Non si capisce per quale magia il carcere - con il quale sostanzialmente la pena coincide - possa educare alla ricostruzione di relazioni positive attraverso l’isolamento. Del resto, il compito "rieducativo" non è affidato all’istituzione, ma all’intera comunità civile. Le comunità cristiane operano nel mondo penale offrendo anzitutto relazioni segnate da condivisione, gratuità, com-passione. Non per supplire all’insufficienza del carcere ma perché quella è la loro missione: costruire relazioni convertite, dall’una e dall’altra parte; tessere trame di comunione. Con le famiglie di origine e nelle famiglie di origine, che sono coinvolte nella pena del detenuto anche se innocenti. Con le comunità di provenienza. Con la società più ampia, nella quale sono presenti pregiudizi radicati, che non giustificano la commissione del reato o la recidiva, ma certo non aiutano a superare la necessità del carcere. La risposta che viene dalla Chiesa alle domande di aiuto per necessità primarie (come il vestito) ha sempre lo scopo di restituire dignità alla persona. Ad essa è strettamente connesso il diritto al lavoro che, in quanto sancito dalla Costituzione, non privilegia né incensurati né colpevoli. Condivisi, in proposito, i timori sul futuro della tutela dei diritti nel futuro del nostro paese e dell’Europa intera. I percorsi intrapresi verso una giustizia riparativa portano di nuovo in primo piano la relazione, a riprova della sua centralità. La giustizia riparativa non è la giustizia della riparazione. È "la giustizia dell’incontro libero e volontario" tra le vittime, i colpevoli e la comunità per costruire un futuro diverso. Nell’incontro fra persone, le diverse parti si aiutano a superare la dittatura del passato. La giustizia penale "fischia un fallo", che è importante, ma può significare anche niente per la vittima. La condanna pesante non porta conforto alla vittima, che domanda invece di essere riconosciuta, di poter dire a "qualcuno" (non a una "parte") quelle parole che nella giustizia penale non trovano spazio per essere dette: "Come hai potuto?". L’incontro è faticoso per tutti, perché non si sa quale significato viene attribuito dall’altro alle proprie parole, le ferite rischiano di riaprirsi, si deve attingere a un credito ingente di umanità. Le esperienze raccontate - ad un ascolto riverente - testimoniano il patrimonio di futuro guadagnato da quanti si sono lasciati coinvolgere dall’incontro. "Incontrare", "insieme", "comunione" sono le cifre interpretative del convegno e non meno dell’azione dei soggetti ecclesiali nel mondo del penale. "Non sciupiamo la voglia di lavorare insieme", ha concluso in estrema sintesi don Virgilio Balducchi, che terminerà a breve il suo mandato e passa il testimone di Ispettore generale a don Raffaele Grimaldi, cappellano a Secondigliano (NA). [1] G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato (a cura), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata confronto, Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 466. Disponibile anche in versione ebook con alcuni contenuti extra. Il governo: riforma della giustizia in Aula dopo il voto. I dubbi dei magistrati di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 novembre 2016 L’ultima promessa di Matteo Renzi è un "orientamento", manifestato al ministro della Giustizia Andrea Orlando, per mettere in calendario al Senato la riforma del processo penale il prossimo 7 dicembre. Con tanto di maxi-emendamento sul quale porre la fiducia. Ma è, appunto, solo una promessa. Buona per i magistrati, in quanto fissa una scadenza per eventuali proteste ("di estrema energia") nel caso non venga mantenuta. A loro della riforma non interessa granché, su diversi punti sono contrari (il presidente dell’Anm Davigo l’aveva definita "inutile e dannosa"), mentre contano molto sulle modifiche in materia di proroga dell’età pensionabile e possibilità di cambiare ufficio prima del nuovo termine imposto dal governo. Il ministro vuole inserirle nel maxiemendamento per incassare l’approvazione della riforma con il sostegno delle toghe. Ma sarà molto difficile. Perché il 7 dicembre è una data scritta sull’acqua; politicamente non si sa che situazione ci sarà dopo il referendum, e praticamente i senatori dovranno avviare proprio in quei giorni la sessione finanziaria per approvare la legge di Stabilità. Pretesti ottimi per rinviare ulteriormente, e forse affossare definitivamente una legge che continua a dividere il Pd dagli alleati di centrodestra, Ncd e verdiniani, per le nuove regole sulla prescrizione e altri aspetti. Orlando avrebbe voluto chiudere la partita prima del referendum, ma Renzi e la ministra Boschi (stando a voci di corridoio piuttosto attendibili) hanno detto no. Troppo rischioso. Più di quello che ha fatto il Guardasigilli non può fare, ma per ottenere i cambiamenti auspicati i magistrati ormai sperano più nel decreto mille-proroghe che in una riforma che rischia di rimanere lettera morta. Giustizia. Orlando: "Ritardi europei colmati, carceri meno intasate" di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 19 novembre 2016 Ridotti i termini per risolvere le liti, meno cause pendenti nel commerciale, processi penali più celeri. Per il personale, 1,6 miliardi di euro aggiuntivi rispetto al 2013. Processi ancora lenti, ma in netto miglioramento e arretrato in calo. A due anni dall’avvio delle riforme volute dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, lo stato di salute della giustizia civile - seppur ancora precario - è migliorato. Oggi, infatti, servono in media 367 giorni per chiudere una lite in primo grado contro i 547 del 2013. È il primo dato che emerge dalle slide pubblicate su Facebook dal ministro in occasione dei mille giorni del governo Renzi. "Dopo un lungo abbandono" - "Sono stati mille giorni di lavoro intenso in cui abbiamo dedicato tutte le nostre energie a ridare forza, prestigio e funzionalità a un sistema giustizia per lungo tempo lasciato in abbandono". Lo ha scritto su Facebook in un post Orlando, illustrando numeri e risultati raggiunti. "Ringrazio per questo lavoro - ha aggiunto - tutti gli uomini e le donne che fanno parte del sistema giustizia, non solo i dipendenti e i magistrati, ma anche tutti i professionisti italiani". Carceri - Sulle carceri, evidenzia Orlando, "abbiamo superato tutti i rilievi mossi" dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e "attualmente il tasso di sovraffollamento italiano è in media con gli altri Paesi europei e più basso di due grandi Paesi come Francia e Regno Unito". Il tasso è passato dal 141% del 2013, quando c’erano 62.536 detenuti per 47.400 posti, al 109% del 2016 (54.912 detenuti per 50.062 posti). E 800 nuovi posti detentivi saranno pronti entro la fine dell’anno. Civile - Sulla giustizia civile, prosegue il ministro, "l’Italia ha scalato, dal 2013 ad oggi, 49 posizioni nel rapporto "Doing business" redatto dalla World Bank - nel parametro che misura la risoluzione delle controversie commerciali. Nel 2013 erano 5 milioni le cause pendenti, oggi sono scese a 3,8 milioni. E l’Italia, aggiunge, "è il primo Paese d’Europa ad avere informatizzato integralmente il processo civile". Penale - Fiducia il 7 dicembre prossimo per il ddl sulla riforma del processo penale. È l’indicazione che il ministro della Giustizia ha dato ieri in un incontro con i vertici dell’Anm. Orlando ha anche parlato di un maxi-emendamento per cambiare non solo alcune parti della riforma, ma anche per intervenire per modificare il decreto sulle pensioni e sui trasferimenti dei magistrati. Ma l’Associazione nazionale dei magistrati chiede che queste ultime modifiche siano sganciate dalla riforma del processo penale e procedano per una strada autonoma più rapida. Orlando, in ogni caso, nel suo bilancio dei mille giorni sottolinea i passi in avanti fatti finora. Secondo il ministro della Giustizia, anche in questo campo si registrano significativi progressi. Dalle 1.655.000 cause pendenti del 2013 si è scesi alle 1.584.000 di oggi. Inoltre, la durata media del rito collegiale è passata da 672 a 644 giorni e quella del rito monocratico da 610 a 591 giorni. Risorse umane e finanziarie - Mercoledì prossimo, 23 novembre, Orlando parteciperà al plenum del Csm che ha all’ordine del giorno il parere sulla riforma delle piante organiche degli uffici giudiziari. A proposito, lo stato dell’arte attuale presentato dal ministro è il seguente: sono stati investiti 1,6 miliardi di euro di risorse aggiuntive nella giustizia rispetto al 2013, con 4mila nuove unità di personale amministrativo. C’è stato inoltre il rinnovo del parco tecnologico con 30mila nuovi pc, 5mila laptop e 7mila stampanti e scanner. Leggi - La giustizia, nota ancora Orlando, "è il settore che di più ha occupato l’attività del Parlamento in questi mille giorni. Oltre il 35% dell’attività parlamentare ha visto come protagonista il ministero della Giustizia" e "sono stati colmati molti ritardi nel recepire normative, raccomandazioni, decisioni quadro, convenzioni, sia dell’Unione europea che del Consiglio d’Europa". Giustizia. Finalmente processi più veloci e anticorruzione seria di Carlo Nordio Il Messaggero, 19 novembre 2016 Il bilancio dell’attività di governo sulla giustizia può essere diviso in tre voci: negative, inutili e positive. Per la prima volta, dopo molto tempo, le ultime prevalgono sulle prime. L’esordio era stato traumatico, e lasciava presagire le conseguenze più funeste. Con un decreto legge, per definizione necessario e urgente, erano stati rottamati i magistrati ultrasettantenni, decapitando e paralizzando gli uffici giudiziari. Il decreto non solo non era necessario, visto che non portava nessun beneficio né occupazionale né economico, ma nemmeno urgente, tant’è vero che ha avuto un’efficacia differita ed è stato prorogato più volte. Ora sembra che Renzi abbia compreso l’errore e stia procedendo ad un ravvedimento operoso. Speriamo bene. Ma le conseguenze negative rimangono. Le attività inutili sono rappresentate da quella serie di leggi, istitutive di nuovi reati e aggravanti le pene, che servono solo a manifestare una teorica buona volontà. Valga per tutti l’omicidio stradale: non è servito a diminuire il numero degli incidenti, e ha introdotto una sproporzione sanzionatoria di dubbia ragionevolezza. Questo difetto ha radici profonde: si dà al popolo la libbra di carne che il popolo richiede, nella contingenza di un evento a forte impatto emotivo. Le intenzioni saranno anche buone, ma le armi sono spuntate. Tuttavia in politica non contano le intenzioni, mai risultati. E quelli positivi non sono affatto pochi: la riduzione dei tempi dei processi civili e penali e delle relative pendenze: un miracolo in cui non credeva quasi nessuno; la diminuzione del numero dei detenuti, senza pregiudizio della sicurezza; la razionalizzazione delle risorse, e compatibilmente con la crisi finanziaria anche un lieve aumento; radicali riforme dei codici penali, interrotte purtroppo dalla fibrillazione referendaria; e infine un coraggioso, ancorché insufficiente, nuovo approccio alle intercettazioni e alla loro divulgazione. Ma soprattutto è cambiato l’atteggiamento culturale su due problemi cruciali: il carcere, che non è più visto come strumento elettivo di sanzione, e la corruzione, che si mira a prevenire prima ancora che reprimere. La semplificazione delle procedure con il nuovo codice degli appalti e l’eccellente lavoro dell’Anac di Cantone sono l’espressione dell’unica strategia vincente: che il corrotto, prima ancora che punito, va disarmato e reso inoffensivo. No all’oscuramento preventivo del pezzo nella testata web. Diffamazione verificata dal giudice di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2016 Per le sezioni Unite civili la tutela dell’articolo 21 della Costituzione va assicurata se la testata telematica ha gli stessi requisiti di quella su carta. Le testate on line godono, a parità di requisiti, della stessa tutela riservata alla stampa. Così, per garantire la libertà di stampa, non si può preventivamente impedire che resti su internet un articolo per il solo dubbio che sia diffamante: per le Sezioni unite civili della Cassazione (sentenza 23469) l’articolo 21 della Costituzione va applicato anche al giornale o al periodico pubblicato, in esclusiva o meno, in forma telematica. La garanzia scatta solo se il giornale o il periodico on line hanno gli stessi tratti che caratterizzano il giornale o il periodico su carta. Perché il diritto all’onore faccia un passo indietro rispetto alla libertà di stampa, riguardo all’applicazione di misure cautelari urgenti, occorre che il giornale telematico abbia una testata, sia diffuso e aggiornato con regolarità e organizzato in una struttura con un direttore responsabile. La testata web deve avere una redazione e un editore iscritto nel registro degli operatori della comunicazione, "finalizzata all’attività professionale di informazione diretta al pubblico, cioè di raccolta, commento e divulgazione di notizie di attualità e di informazioni da parte di soggetti professionalmente qualificati". Se questi requisiti ci sono, il giornale telematico - nel caso si contesti un contenuto diffamatorio - non può essere "oggetto in tutto o in parte di un provvedimento cautelare preventivo o inibitorio, di contenuto equivalente al sequestro o che ne impedisca o limiti la diffusione". Ciò vale solo nel caso in cui si invochi una misura cautelare preventiva, non in casi diversi regolati da norme specifiche, come quella sulla protezione dei dati personali. Per la lesione all’onore, però, la tutela piena e il risarcimento sono subordinati alla pronuncia del giudice che dovrà essere "almeno esecutiva, se non definitiva ed irretrattabile". La priorità tra i due diritti fondamentali, libertà di stampa e reputazione, può essere ribaltata solo dal magistrato che avrà conosciuto in modo non sommario la vicenda. La par condicio tra testate web e carta è già stata affermata dalle Sezioni unite penali (sentenza 31022 del 2015) e in molte pronunce sia della Corte dell’unione europea sia della Corte dei diritti dell’Uomo. Proprio i giudici di Strasburgo hanno valorizzato il grande contributo dato da Internet migliorare l’accesso del pubblico alle notizie. Le Sezioni unite sono consapevoli che il rove- scio della medaglia della diffusione globale è un rischio amplificato di attentare a diritti e a libertà fondamentali, come quello alla vita privata. Ma proprio nella capacità di diffusione del mezzo sta la sua forza rivoluzionaria e limitarlo in via cautelare equivarrebbe a sterilizzarlo o svuotarlo dei suoi contenuti e delle sue potenzialità. I giudici escludono che si possa trattare in via interpretativa la libertà di stampa in mo- do peggiore rispetto al passato solo perché ora è tecnicamente più facile avvalersene. Le Sezioni unite affermano il principio nell’interesse della legge (articolo 363 del Codice di procedura civile). Una funzione di nomofilachia esercitata su input del procuratore generale, dopo che un Tribunale aveva deciso in senso opposto su due richieste di rimuovere un articolo dal web, con provvedimento d’urgenza. Diffamazione. La Cassazione: no al sequestro dei giornali online Il Dubbio, 19 novembre 2016 La libertà di stampa sancita dalla Costituzione vale anche per i giornali diffusi sul web e, dunque, non possono essere sequestrati nel caso di notizie diffamatorie. Lo ha sancito la Cassazione, con una sentenza delle Sezioni unite civili: "La tutela costituzionale assicurata del terzo comma dell’art. 21 della Costituzione alla stampa si applica al giornale o al periodico pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico - scrive la Suprema Corte - quando possieda i medesimi tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo e quindi sia caratterizzato da una testata, diffuso o aggiornato con regolarità, organizzato in una struttura con un direttore responsabile, una redazione e un editore registrato presso il Registro degli operatori della comunicazione, finalizzata all’attività professionale di informazione diretta al pubblico, cioè di raccolta, commento e divulgazione di notizie di attualità e di informazioni da parte di soggetti professionalmente qualificati. Pertanto nel caso in cui sia dedotto il contenuto diffamatorio di notizie ivi pubblicate, il giornale pubblicato, in via esclusivo o meno, con mezzo telematico non può essere oggetto, in tutto o in parte, di provvedimento cautelare preventivo o inibitorio, di contenuto equivalente al sequestro o che ne impedisca o limiti la diffusione, ferma restando la tutela eventualmente concorrente prevista in tema di protezione dei dati personali". Un ricordo di Pannella e le sue lotte di Matteo Angioli L’Unità, 19 novembre 2016 Esattamente sei mesi fa, il 19 maggio, Marco Pannella ci lasciava. Ci lasciava un progetto "folle", quello della transizione verso la sempre più piena affermazione dello Stato di Diritto, attraverso il riconoscimento del diritto alla conoscenza, a partire dalle Nazioni Unite. È un progetto sviluppatosi con il tentativo di evitare l’attacco all’Iraq nel 2003 e portato avanti analizzando e interagendo per anni innanzitutto con il mondo politico e accademico britannico. Nel 2013 da questa iniziativa è partito un allarme sulle condizioni dello stato di diritto sempre più preda di interessi dettati da una ragion di stato vincente, che ha come conseguenza l’emergere di leader politici genericamente etichettati come "populisti", ma portatori in realtà di legittimi messaggi, proposte e valori che devono essere compresi e superati con proposte migliori. In Italia, il capitolo giustizia è emblematico dell’erosione dello Stato di Diritto che osserviamo in molte aree del mondo. Marco Pannella ha da anni posto al centro la questione giustizia con i problemi e le condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che colpiscono in particolare la situazione penitenziaria. Oggi è innegabile che una maggior attenzione per questo tema è stata conquistata grazie a Marco in primis. Che dire allora della Gran Bretagna di oggi, patria non solo del diritto, ma anche della Brexit e di un Ministro della Giustizia, Elizabeth Truss, che nel settembre 2011, allora deputata Tory scriveva nel suo libro After the Coalition: "Non mi vergogno a dire che le prigioni devono essere luoghi duri, sgradevoli e disagevoli". Sembra davvero lontana quella Gran Bretagna in cui c’era una sorta di competizione tra chi faceva politiche più liberali. Penso, richiamando ancora Marco Pannella, al Primo ministro conservatore Disraeli che con la Riforma elettorale de11867 estese il suffragio a una base più larga di quella prevista dal liberale Gladstone. Oppure come possono non destare allarme le parole di Andrzej Rzepliaki, Presidente del Tribunale Costituzionale della Polonia, che in un’intervista a Le Monde il 27 Ottobre 2016 ha espresso la sua profonda preoccupazione per l’attacco dello Stato di diritto da parte del governo? Il giudice Rzepliaki, il cui mandato scade il 19 dicembre 2016, teme che dopo la sua partenza, "nessuno sa cosa succederà". A complicare la situazione ancora di più, 1127 ottobre il governo polacco ha respinto le raccomandazioni da parte della Commissione europea per far fronte alla crisi costituzionale. E anche laddove vi sono segnali incoraggianti, sorgono comunque interrogativi sconcertanti. I125 ottobre 2016 infatti il Parlamento europeo adottato una risoluzione presentata da un’eurodeputata liberale olandese Sophie Veld che dispone la creazione un meccanismo europeo per monitorare la democrazia, lo Stato di diritto e dei diritti fondamentali nell’Unione Europea. Il testo è stato approvato con 405 voti a favore, 171 contrari e 39 astensioni. Bene, quanti sanno che tra gli astenuti vi sono alcuni deputati liberali, tra cui Johannes Van Baalen, Presidente del Partito liberale europeo (Alde)? Di questa situazione generale, a cui si aggiungono da un lato l’ultimo rapporto di Reporters sans frontières sulla libertà di stampa nel mondo che segnala un arretramento complessivo e dall’altro l’abbandono della Corte Penale Internazionale da parte di tre Stati membri africani, ci occupiamo e ci occuperemo già il 29 novembre prossimo con un Convegno al Senato intitolato "Sos Stato di Diritto: verso il diritto alla conoscenza", che sarà aperto dal Presidente Grasso, per continuare costruttivamente a percorrere il cammino che avevamo intrapreso con la forza e la speranza di Marco Pannella. Emilia Romagna: la Garante "oltre 3mila i detenuti in regione, la metà sono stranieri" romagnaoggi.it, 19 novembre 2016 "Sono 3.273 i detenuti presenti negli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna (54.912 in Italia), il 48,4% stranieri e il 95,9% uomini. La capienza regolamentare delle carceri della regione corrisponde a 2.797 unità". La Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha presentato, in conferenza stampa, i dati aggiornati sulla situazione carceraria in Emilia-Romagna. "Dal 2010 al 2015 - ha specificato la Garante - la percentuale relativa al dato del sovraffollamento carcerario è diminuita sensibilmente, passando dal 200% al 103%, per effetto di provvedimenti normativi che hanno favorito l’aumento delle misure alternative alla pena carceraria. Nel 2016 si è invece assistito a un nuovo aumento, siamo arrivati al 117%". I detenuti stranieri sono 1.583 di 78 nazionalità: i marocchini (340) sono i più numerosi, seguiti da tunisini (295), albanesi (245), romeni (159), nigeriani (82), algerini (46), pakistani (41), moldavi (31), senegalesi (26), georgiani (20) e bosniaci (20). Le espulsioni di stranieri a titolo di sanzione alternativa, tra gennaio e ottobre, sono state 49. Sono invece 86 i detenuti beneficiari del lavoro all’esterno: 55 sono impegnati in servizi extra-murari e 31 lavorano fuori. E 30 i semiliberi: 28 per datori di lavoro esterni e 2 in proprio. La casa circondariale di Bologna, nel quartiere Dozza, con una capienza regolamentare di 501 posti, ospita 442 condannati e 325 imputati. I detenuti uomini sono 701 e gli stranieri 391 (12 con provvedimento di espulsione). Con il blocco del piano carceri è sospesa l’ipotesi di realizzare nuovi padiglioni. L’istituto penale per minorenni, in via del Pratello a Bologna, ospita invece 21 persone, attualmente anche i ragazzi dell’istituto penale di Firenze (in ristrutturazione). Sono presenti anche maggiorenni (fino a 25 anni) che hanno commesso reati in età minorile. Il carcere è in fase di ristrutturazione da oltre dieci anni. A Bologna le persone con misure alternative al carcere sono 583. La casa circondariale "Costantino Satta" di Ferrara, con una capienza regolamentare di 252 posti, ospita 269 condannati e 80 imputati. I detenuti uomini sono 349 e gli stranieri 138 (uno con provvedimento di espulsione). Con il blocco del piano carceri è sospesa l’ipotesi di realizzare nuovi padiglioni. A Ferrara le persone con misure alternative al carcere sono 189. La casa circondariale di Forlì, con una capienza regolamentare di 144 posti, ospita 69 condannati e 55 imputati. I detenuti uomini sono 108 e gli stranieri 50 (uno con provvedimento di espulsione). È in costruzione una nuova struttura. A Forlì (comprendendo anche il bacino di Cesena) le persone con misure alternative al carcere sono 254. La casa circondariale di Modena, con una capienza regolamentare di 372 posti, ospita 291 condannati e 156 imputati. I detenuti uomini sono 417 e gli stranieri 295 (10 con provvedimento di espulsione). Sempre nel modenese, la casa di reclusione di Castelfranco Emilia, con una capienza regolamentare di 182 posti, ospita 9 condannati e 2 imputati, oltre a 66 internati. I detenuti uomini sono 77 e gli stranieri 13. A Modena sono 222 le persone con misure alternative al carcere. La casa di reclusione di Parma, con una capienza regolamentare di 468 posti, ospita 461 condannati e 126 imputati. I detenuti uomini sono 587 e gli stranieri 194 (due con provvedimento di espulsione). Quella di Parma è una struttura carceraria particolarmente complessa, con una sezione del 41 bis (condanne per criminalità mafiosa), nella quale sono circa 80 gli ergastolani ostativi e altri 70 in alta sicurezza. Nella struttura è presente anche un centro diagnostico terapeutico con 20 posti. È in fase di realizzazione un nuovo padiglione che ospiterà 200 detenuti. A Parma le persone con misure alternative al carcere sono 150. La casa circondariale "San Lazzaro" di Piacenza, con una capienza regolamentare di 399 posti, ospita 291 condannati e 128 imputati. I detenuti uomini sono 403 e gli stranieri 267 (cinque con provvedimento di espulsione). A Piacenza le persone con misure alternative al carcere sono 143. La casa circondariale "San Lazzaro" di Ravenna, con una capienza regolamentare di 49 posti, ospita 19 condannati e 45 imputati. I detenuti uomini sono 64 e gli stranieri 26 (uno con provvedimento di espulsione). A Ravenna le persone con misure alternative al carcere sono 331. La casa circondariale di Reggio Emilia, con una capienza regolamentare di 222 posti, ospita 159 condannati e 96 imputati. I detenuti uomini sono 251 e gli stranieri 132 (11 con provvedimento di espulsione). Mentre l’ex Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) ospita 38 condannati e 9 imputati, tutti uomini, di cui 14 stranieri (2 con provvedimento di espulsione). A Reggio Emilia le persone con misure alternative al carcere sono 180. La casa circondariale di Rimini, con una capienza regolamentare di 126 posti, ospita 54 condannati, 80 imputati e un internato. I detenuti uomini sono 135 e gli stranieri 63 (quattro con provvedimento di espulsione). A Rimini le persone con misure alternative al carcere sono 288. Salerno: detenuto di 43 anni ha un malore in cella e muore, c’è un indagato puntoagronews.it, 19 novembre 2016 C’è un’indagata per morte di Ivan Gentile, il detenuto 43enne che giovedì mattina è stato trovato senza vita sul letto della sua cella nel carcere di Fuorni. Il referto del medico legale parla di un decesso per cause naturali, in seguito a un infarto, ma il sospetto è che i sintomi del malore cardiaco fossero emersi già da alcuni giorni, sottovalutati nonostante le richieste di aiuto. Per questo chi lo ha visitato è stata iscritta sul registro degli indagati con l’ipotesi di omicidio colposo e sul corpo di Gentile è stata disposta l’autopsia, che sarà eseguita lunedì dal medico Giovanni Zotti. È stata la suocera a presentare denuncia, dopo aver saputo da altri detenuti che il genero lamentava da tre giorni fitte al petto. Arrestato per furti e scippi, a settembre aveva chiesto di poter scontare la pena in una comunità di recupero per tossicodipendenti, ma il Sert di Caserta aveva già finito il budget per pagare le rette e la sua domanda (come quella di molti altri) è stata respinta. Salerno: 43enne muore in cella, avviata un’inchiesta. I familiari: vogliamo verità ottopagine.it, 19 novembre 2016 Si indaga sulla morte di Ivan Gentile, stroncato da un infarto a Fuorni. Nel mirino il servizio medico. Sequestrata la cartella clinica. L’uomo si trovava in cella ma doveva essere curato al Sert. Un primo esame del corpo all’ospedale Ruggi lo conferma. Ivan Gentile, il 43enne morto in una cella del carcere di Fuorni dove era recluso, è deceduto per un infarto. Ma sarà ora la magistratura di Salerno a chiarire se quella morte poteva essere evitata e se l’uomo non è stato adeguatamente curato. Questo è quanto sostengono i familiari del detenuto, originario di Caserta. Ivan, hanno dichiarato ai magistrati, lamentava da tre giorni fitte lancinanti al torace. Secondo l’esposto presentato alla Procura non sarebbe stato visitato dal medico di turno in carcere o forse non sarebbe stato assistito nel modo giusto, magari è stata sottovalutata la sua condizione clinica: un fatto è certo, vogliono vederci chiaro, chiedono verità e giustizia per Ivan. Per questo i legali hanno chiesto anche copia della cartella clinica e non è escluso che nelle prossime ore si vadano ad acquisire ulteriori documentazioni. Ma sono anche altri gli aspetti da approfondire in questa vicenda. Da chiarire anche le circostanze per cui il 43enne, che doveva scontare una pena definitiva per droga, si trovava recluso a Fuorni invece di essere preso in carico dal Sert di Caserta dove era stato assegnato dal tribunale di sorveglianza il 28 settembre scorso per continuare il percorso di recupero dalla tossicodipendenza, percorso iniziato presso l’Icatt di Eboli. Ma, stando a quanto si è appreso, il Sert di Caserta non avrebbe dato il consenso ad ospitare il 43enne per mancanza di fondi. E dunque l’uomo è stato trasferito in carcere. Per il direttore Stefano Martone un’altra tegola che cade sulla Casa circondariale di Fuorni. Per i sanitari in servizio presso il carcere non è sempre facile assicurare assistenza per il gran numero di detenuti. Gli addetti all’infermeria a Fuorni sono in tutto 14, 6 medici e 8 infermieri, che devono garantire i turni di copertura per assistere più 500 detenuti attualmente reclusi a Fuorni, di cui 80 arrivati solo negli ultimi due mesi. Il carcere di Salerno era già finito nel mirino dopo la recente sentenza del Tribunale che ha condannato il Ministero della Giustizia a risarcire un detenuto per il trattamento subito in cella. Qualche anno fa un altro decesso per infarto ha scosso la comunità carceraria. Si trattava di un 58enne di Montecorvino: il medico di turno in carcere quella sera non c’era. Rimini: nel carcere la capienza regolamentare è di 126 posti, i detenuti sono 135 riminitoday.it, 19 novembre 2016 La Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha presentato i dati aggiornati sulla situazione carceraria in Emilia-Romagna. La casa circondariale di Rimini, con una capienza regolamentare di 126 posti, ospita 54 condannati, 80 imputati e un internato. I detenuti uomini sono 135 e gli stranieri 63 (quattro con provvedimento di espulsione). A Rimini le persone con misure alternative al carcere sono 288. La Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha presentato i dati aggiornati sulla situazione carceraria in Emilia-Romagna. "Sono 3.273 i detenuti presenti negli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna (54.912 in Italia), il 48,4% stranieri e il 95,9% uomini. La capienza regolamentare delle carceri della regione corrisponde a 2.797 unità. Dal 2010 al 2015 - ha specificato la Garante - la percentuale relativa al dato del sovraffollamento carcerario è diminuita sensibilmente, passando dal 200% al 103%, per effetto di provvedimenti normativi che hanno favorito l’aumento delle misure alternative alla pena carceraria. Nel 2016 si è invece assistito a un nuovo aumento, siamo arrivati al 117%". Bologna: "Il carcere minorile del Pratello potrebbe essere chiuso" La Repubblica, 19 novembre 2016 L’annuncio di Desi Bruno, garante dei detenuti. La struttura ci sono da anni lavori di ristrutturazione. "È possibile che, considerato il numero di detenuti, uno tra i carceri minorili di Firenze e Bologna sia chiuso. Questa è una cosa che è stata ventilata". L’ha detto, incontrando la stampa a pochi giorni dalla fine del suo mandato la Garante emiliano-romagnola delle persone private della libertà personale, Desi Bruno. Al momento, nel carcere bolognese del Pratello, sono detenute 25 persone. Un numero più alto del solito proprio per la chiusura dell’istituto di Firenze nel quale è in corso una ristrutturazione. In realtà i minorenni presenti sono pochissimi. La maggior parte sono detenuti tra i 18 e i 25 anni condannati per fatti commessi prima della maggiore età (situazione, questa, che per la Garante non sta dando i risultati sperati per la commistione tra giovanissimi e persone che in alcuni casi hanno già vissuto il carcere per adulti con il rischio che si inneschino meccanismi di violenze e sopraffazioni). Il carcere di Bologna è oggetto di ristrutturazione da oltre 10 anni. Un lavoro mai concluso. Attualmente sono in corso i lavori di ristrutturazione del secondo piano che è ancora inagibile dopo una nevicata e il cui recupero libererebbe posti risolvendo il problema di sovraffollamento che si è posto. Brescia: Cgil, le carceri rischiano il collasso per la mancanza di personale bsnews.it, 19 novembre 2016 La Cgil di Brescia lancia l’allarme sull’emergenza nelle due carceri cittadine dovuta alla carenza di personale di Polizia Penitenziaria e del Comparto Ministeri, in particolar modo dei funzionari contabili prossimi al trasferimento in altri Istituti. Secondo il sindacato i dati sono allarmanti ed emblematici: nella Casa Circondariale di Brescia (Canton Mombello) sono previste 52 presenze fra polizia penitenziaria e sottufficiali, ma sono presenti appena 13 (11 Ispettori e 2 Sovrintendenti), su un organico di 195 tra agenti e assistenti ne mancano oltre 50 unità (tra distaccati in altri Istituti Penitenziari fuori regione e personale in carico alla Commissione Medica Ospedaliera). È presente un solo funzionario contabile prossimo al trasferimento. Nella Casa Reclusione Verziano sono previste 16 presenze fra polizia penitenziaria e sottufficiali, ma sono realmente presenti appena 4 (3 Ispettori e 1 Sovrintendente). Su un organico 69 tra agenti e assistenti ne sono in servizio 40 tra personale maschile e femminile. Anche qui è presente un solo funzionario contabile prossimo al trasferimento in altra amministrazione. "Ormai la situazione è divenuta critica ed insostenibile - fa sapere il sindacato - in cui ci sono poliziotti penitenziari ad assicurare il mandato istituzionale, come l’ordine, la disciplina e la sicurezza oltre a garantire le varie e tante attività trattamentali in essere nei due Istituti di pena, ma con grande affanno e forti carichi di lavoro e responsabilità. L’Amministrazione Penitenziaria Centrale, ormai, è inerte e priva di iniziative rispetto alle denunce sindacali. La gravissima carenza di personale di Polizia Penitenziaria obbliga le Direzioni a impiegare i poliziotti in turni di otto ore e oltre. La mancanza di fondi non permette di pagare il lavoro straordinario ai poliziotti ormai dal mese di luglio, siamo dinanzi ad una forma di "sfruttamento" dei lavoratori da parte di un’Amministrazione dello Stato". "Il rischio concreto - continua la Cgil - è che si comprimano i diritti fondamentali dei lavoratori come la fruizione dei riposi settimanali, le ferie etc. Per quanto riguarda i funzionari contabili rivestono particolare importanza all’interno delle carceri che, come ovvio, si occupano di tutti quegli aspetti contabili sia per il personale, per i detenuti ma curano anche il pagamento delle ditte esterne che potrebbe subire dei forti ritardi. Non può essere tollerata la paralisi di una Amministrazione Pubblica che mette in serio rischio la propria efficienza ed efficacia da un punto di vista amministrativo-contabile impiegando, proprio in quei delicati compiti, personale della Polizia Penitenziaria professionalmente non preparato ne formato costituendo una forma di ulteriore depauperamento degli addetti alla sorveglianza e custodia, peraltro già in gravissima sofferenza di organico. Non può essere accettabile il comportamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che se da un lato asseconda le legittime aspettative di questi lavoratori, con la mobilità, dall’altro non asseconda le medesime esigenze degli Istituti Penitenziari bresciani che a questo punto rimarrebbero, praticamente, senza alcun contabile. Da evidenziare che gli unici due contabili non erano sufficienti a soddisfare le esigenze contabili degli istituti, figuriamo adesso con la totale assenza. La Fp Cgil manifesterà nella giornata del 29 novembre dinanzi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma per le gravissime problematiche che attanagliano le carceri italiane, quindi anche bresciane. Enna: riciclare in carcere; il progetto NoBuri, sostenuto dalla Fondazione Con il Sud fondazioneconilsud.it, 19 novembre 2016 Un laboratorio per dare nuova vita a tessuti riciclati, che altrimenti verrebbero gettati. Siamo nel carcere Luigi Bodenza di Enna e, grazie al progetto NoBuri, alcuni detenuti hanno avuto la possibilità di impegnarsi nell’arte del riuso per realizzare delle borse, imparando così anche a tutelare l’ambiente. Il percorso è iniziato a dicembre scorso, con l’ingresso delle macchine da cucire nella casa circondariale. Un fatto insolito, che però ha dato i suoi buoni frutti, unendo il rispetto per la natura con la possibilità di impiegare il tempo - un’unità di misura lunghissima in carcere - insieme agli altri, condividendo il lavoro per costruire insieme qualcosa di utile. Non solo tessuti, allora, ma anche momenti di vita rigenerati. I vecchi sacchi della farina diventano capolavori nella mani di Franco, quelli della torrefazione prendono forma tra le dita di Mekhaui, le stoffe delle tende da sole rifioriscono al tocco di Giuseppe. Dopo la cucitura, le borse vengono decorate con lo stencil e personalizzate con il logo NoBuri. L’obiettivo generale del progetto è sensibilizzare i cittadini a non buttare il rifiuto riciclabile, ma a differenziarlo e a riutilizzarlo e prevede anche altre iniziative che vanno in questa direzione, come i laboratori per imparare le modalità di riuso della carta, di materiale elettronico e elettrico. L’iniziativa è sostenuta nella provincia di Enna dalla Fondazione Con il Sud ed è promossa da Anpas Sicilia in collaborazione con associazioni, organizzazioni, istituzioni del territorio. Terni: "I Nostri Ragazzi. Storia di un Festival indoor", i detenuti in un libro umbriaon.it, 19 novembre 2016 La storia del Festival della cultura dedicato a Giuseppe Solinas raccontata da carcerati e volontari in un volume. La presentazione a Palazzo Spada. Una rottura degli schemi troppo rigidi e spesso grigi della detenzione, questo l’obiettivo del "Festival della cultura in memoria di Giovanni Solinas", organizzato da Francesca Capitani con i detenuti del carcere di Terni. Da questa esperienza, conclusasi il 29 luglio, è nato il libro "I Nostri Ragazzi. Storia di un Festival indoor", presentato dall’associazione Toto corde, venerdì pomeriggio nella sala consiliare di Palazzo Spada. All’incontro, moderato dalla giornalista Vanna Ugolini hanno Capitani, curatrice del libro e il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi. I saluti sono di Francesca Malafoglia, vice-sindaco del Comune di Terni e di Chiara Pellegrini, direttore della casa circondariale di Terni, hanno aperto l’evento. Il volume Pubblicato dal Cesvol di Terni nella collana del non profit, il libro racconta la storia del Festival della Cultura che si è svolto all’interno e all’esterno del carcere di Terni ed ha coinvolto per circa 9 mesi, volontari, detenuti, operatori del carcere e cittadini, in una serie di laboratori e iniziative che hanno riguardato molteplici attività. Gli scritti sono il riassunto di questo lavoro e rappresentano una testimonianza importante per chiunque voglia approfondire la vita del carcere. I protagonisti del libro sono i "condannati al volontariato", ovvero gli stessi detenuti che si sono così voluti chiamare e gli operatori del carcere. "Abbiamo deciso di scrivere un libro - dice Capitani - per mantenere il ricordo di quell’esperienza. Ci abbiamo lavorato per tanto tempo, un anno, e in molti. Inoltre per realizzarlo abbiamo anche speso dei soldi perché quello che volevamo noi era fare un volontariato professionale e quindi pur non essendo pagati abbiamo scelto di "investire" noi e tre o quattro dei formatori che abbiamo scelto venivano da Roma, proprio per questa volontà di professionalità". "Questa storia - dice Capitani - poteva esser conservata nelle nostre menti di romantici filantropici e sarebbe comunque stato bello richiamarla ogni tanto. È invece diventata raccontabile ad altri, che potranno vivere le nostre emozioni, conoscere le buone pratiche e quel mondo estraneo, eppure dentro la città. Dovevamo raccontarla questa storia, per forza, perché troppo bella per rimanere confinata in qualche ricordo passeggero. Il libro, inoltre è un modo per trasmettere il senso di comunità che con l’esperienza abbiamo cercato di riportare in città. Un tempo i volontari erano molti di più, c’era un senso di appartenenza alla comunità molto più forte. Oggi la comunità ternana lo sta perdendo e le istituzioni da sole non ce la fanno. Per questo noi cerchiamo di dare una mano. Organizzare questo evento è stato significativo perché in molti si sono avvicinati e hanno cercato di fare di più. Era un gruppo eterogeneo: dalla casalinga ai precari, dai 20 ai 70 anni". Il rapporto con i ragazzi "Sono nate bellissime amicizie. Con i ragazzi del carcere si è instaurato un rapporto bellissimo. Una volta, a teatro - racconta Capitani - abbiamo sperimentato la "fiducia". Io dovevo lasciarmi cadere sul palco e loro dovevano prendermi. Più volte mi hanno chiesto "Ti fidi" e ho sempre risposto di si e loro sono rimasti molto sorpresi da queste mie aspettative nei loro confronti. Questo loro stupore mi ha dimostrato che il festival è riuscito. Quando l’idea è nata Giovanni Solinas lo conoscevo solo io, gli altri detenuti no. Ho deciso di dedicarlo a lui non perché era "famoso", ma perché il numero dei morti in carcere è altissimo: uno ogni tre giorni, quindi Giovanni è diventato il simbolo di questa continua tragedia, è uno per rappresentare tutti gli altri". La volontaria continua a raccontare e dalle sue parole si capisce quanta dedizione e passione c’è in quello che ha fatto. "Bisogna intervenire. Se nessuno fa nulla per recuperare questi ragazzi finiti in prigione, quando usciranno si comporteranno allo stesso modo, continueranno a fare quello che facevano prima. Devono invece capire che possono e devono fare una scelta. In questo modo noi facciamo capire loro che delle alternative ci sono. Ci sono moltissimi ragazzi venuti dall’estero sperando di trovare un paese migliore rispetto al loro, ma una volta arrivati si sono trovati a dover spacciare per sopravvivere. Significativo è il caso di Aziz. Stando qua ha scoperto di amare la corsa, ma non ha spazio. Tutti i giorni corre in una stanzetta di 20 metri quadri, sembra un topo in gabbia. Ora che ha ottenuto i permessi premio lo portiamo al Campo scuola e a fare le gare. Ha scoperto un mondo nuovo". Voci e punti di vista "Negli interventi che costituiscono questo testo - dice Gianfilippi - può leggersi il racconto dell’esperienza del Festival della Cultura attraverso voci e punti di vista anche molto distanti tra loro. Ed è proprio in questa pluralità la ricchezza dell’esperienza narrata. Ciò che resta, invisibile lascito, è la memoria dell’incontro, in cui è accaduto a ciascuno di essere riconosciuto nella propria umanità e perciò con la propria imperdibile dignità". Il progetto L’idea (presentata ad aprile) è nata il 29 luglio 2015 dopo che Giovanni Solinas, detenuto nel carcere di Sabbione ha deciso di porre fine alla sua vita, impiccandosi nella sua cella. Così ai temi della pena, della sofferenza, delle debolezze umane, Capitani ha deciso di rispondere con la cultura, organizzando dieci laboratori che coinvolgessero non solo i detenuti, ma anche nuovi volontari. Tra questi anche quelli di pedagogia teatrale dai quali sono nati due spettacoli: "Il latte di gallina", realizzato con il circuito di alta sicurezza e messo in scena 4 volte e "C’è del marcio a Roma" per il quale sono state previste solo due date, con un pubblico tutto interno. La Spezia: delegati del Consiglio comunale in carcere, per scoprire un mondo di speranza di Fabio Lugarini cittadellaspezia.com, 19 novembre 2016 La visita-incontro con i detenuti di una delegazione del consiglio comunale. Parla la direttrice Bigi: "Serve lavoro dentro e fuori, il modello è Bollate". "Questo è il momento di dire qualcosa". Lo sprone ad aprirsi, a trasferire emozioni, a riassaporare il senso di un colloquio che regali una speranza concreta, per una vita nuova o quanto meno presa al volo prima di un precipizio ineluttabile. Maria Cristina Bigi, una donna alla direzione del carcere Villa Andreino della Spezia dove lei stessa vive in una delle palazzine che compongono il penitenziario di Via Fontevivo. L’occasione di incontrarla e di conoscere una buona quantità dei detenuti che in questo momento si trovano ospiti della struttura, grazie alla visita organizzata dal consiglio comunale della Spezia in un pomeriggio plumbeo, che rende ancor più impegnativo l’ingresso. Così, guidati dal presidente Paolo Manfredini, i consiglieri Ariodante, De Luca, Ferraioli, Liguori, Manfredini, Montefiori, Cimino e Bucchioni, accompagnati dal personale amministrativo guidato dall’instancabile Roberta Bini, hanno toccato con mano l’atmosfera del carcere seppur appena accarezzata nelle due ore di permanenza. "Tossicodipendenza patologia più diffusa". La dottoressa Bigi ha accompagnato personalmente i visitatori alla scoperta della struttura nata come ospedale e trasformata in carcere politico negli anni ‘30 dal regime fascista. Dalle prime stanze, dedicate all’accettazione, identificazione e schedatura conseguente all’arresto, inserimento nella banca dati ministeriale, passando per la gestione delle uscite per appuntamenti processuali o licenze nei casi di semilibertà. La visita vera e propria comincia subito dopo: la delegazione raggiunge dapprima l’area infermeria e l’odore del carcere si trasforma in un profumo d’ospedale. Qui vengono portati i detenuti che hanno problemi di salute anche se è soprattutto la tossicodipendenza a sfiancarli. "Per il resto normali casistiche e la depressione non più accentuata di quanto si possa credere" - asseriscono i medici. "Un carcere umano". Centocinquanta detenuti come capienza massima, 180 quella tollerata, oggi siamo a 220. Non c’è una cella di massima sicurezza ma di isolamento: "Per non più di quindici giorni consecutivi ed eventualmente su richiesta del detenuto. I colletti bianchi? Rispondono in modo completamente diverso dai detenuti classici, un po’ quello che accade tra chi entra per la prima volta e chi è recidivo. Ma rimanere da soli in cella può non essere producente: i detenuti si controllano l’un l’altro". Ma è un carcere umano, per quanto umano possa essere una struttura penitenziaria. C’è la scuola, divisa fra primaria, secondaria e superiore, ma i banchi avrebbero bisogno di una sistemata o magari di nuovi arredi. I detenuti si impegnano, i professori sono i primi a chiedere di venire ad insegnare in carcere: "Non c’è contrapposizione fra l’istituzione e loro" - conferma la direttrice che esorta al dialogo. Molti sono extracomunitari, quasi tutti si fanno capire in italiano e comprendono benissimo la nostra lingua. Con loro non puoi che parlare di casa, famiglia e del lavoro che non c’è: "È fondamentale che abbiano un dopo-carcere, confidiamo nell’aiuto del Comune: potrebbero venir selezionati per progetti normalmente riservati alle cosiddette fasce deboli con contratti a tempo determinato. Potrebbero aiutare nella manutenzione delle scuole se si sconfigge il pregiudizio dei genitori. "Vorrei ricominciar da zero ma il lavoro non c’è, né dentro né fuori" - racconta uno di loro. "Ventuno posti di lavoro non bastano". Eppure tanti progetti sono stati fatti: dalla pulizia dei sentieri ai muretti a secco, idee belle ma di passaggio. E invece un carcere abbisogna di progettualità di lungo corso, che funzionino indipendentemente dalle persone e dalle loro sensibilità: "Il modello Bollate è quello a cui aspiriamo - continua la direttrice -. Abbiamo costruito una ludoteca per i figli minori perché possano avere colloqui più belli coi loro congiunti, perché si parla tanto di genitorialità, poi bisogna farle le cose. E con il detenuto Ruiu (domani sera impegnato nella serata della Dialma Ruggiero con Riccardo D’Ambra, i Visibì e gli artisti che girano intorno al progetto RCR) che farà in carcere un laboratorio di piccolo teatro". Il lavoro, problema dentro e fuori, anche se non tutti sanno che dentro il perimetro del carcere, da tempo ha aperto un’officina di saldo-carpenteria grazie all’idea di Giorgio Manfroni, titolare della Metallica Srl: "Dopo il corso di formazione, sono state scelte due professionalità, assunte con un normale stipendio, detratto del costo della permanenza in carcere. Un modo per evitare il tunnel assistenziale che oltretutto lo Stato non riesce a coprire. Al di là di questo, abbiamo 21 posti di lavoro e per interessare tutti andiamo a rotazione". Dentro al carcere una moschea: una stanza dedicata alla preghiera con tappeti per terra. Tra poco più di un mese invece è Natale e il carcere si animerà: "A Natale i detenuti fanno la spesa, cucinano e mangiano insieme. Una convivialità che funziona sempre, al di là di tutto" - conclude la Bigi. E chissà che gli agognati banchi e le sedie che mancano alla piccola scuola interna non arrivano già come presente del consiglio comunale che pensa a borse lavoro per la manutenzione degli istituti e altre iniziative possibili. Pisa: "Gabbie", un’antologia di racconti scritti dai detenuti ed edita da Mds La Nazione, 19 novembre 2016 Anche il Sottosegretario Ferri alla presentazione (sold out) del libro realizzato con i detenuti. Grande successo per "Gabbie", l’antologia di racconti edita Mds e presentata al Pisa Book Festival. Portato a termine dopo un anno di lezioni tenute nel carcere Don Bosco di Pisa, il progetto è stato sin dall’inizio una sfida per la casa editrice che ha voluto comunque affrontare combattendo le convenzioni e le chiusure mentali che spesso circondano realtà come quella delle carceri. Il volume "Gabbie" è il secondo nato da questa esperienza, e ha preso consistenza sulle orme di "Favolare", il primo progetto sociale giunto all’attenzione del ministro della Giustizia. Questa conferma è la prova di come la cultura, l’empatia verso il prossimo e l’amore per ciò che facciamo, liberi realmente l’anima dalle convenzioni e da tutte quelle gabbie che, nell’esperienza umana, rappresentano una parte di ognuno di noi. Tutti i racconti dei detenuti, che hanno partecipato al corso di scrittura tenuto da Antonia Casini, Michele Bulzomi e Giovanni Vannozzi, e quelli degli autori esterni che hanno concesso la loro disponibilità al progetto - tra cui Stefano Benni, Alfonso Iacono, Ermanno Bencivenga e molti altri -, hanno realizzato un volume a più voci, eterogenee ma unite dalla stessa volontà: portare oltre le mura la voce dei detenuti. Il libro trova la sua unità nelle parole e nelle immagini (illustrate da Michele Bulzomì) che raccontano le gabbie, siano esse reali o immaginarie, anche quando esse non sono cosi estreme come quelle riportate da chi vive un distacco pressoché totale dalla società. Alla presentazione sono intervenuti il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, il sindaco di Pisa Marco Filippeschi, il direttore della casa circondariale Don Bosco Fabio Prestopino, il professore Alfonso Maurizio Iacono, il garante dei detenuti della città di Pisa Alberto Di Martino, coordinati dal responsabile del quotidiano La Nazione di Pisa, Tommaso Strambi, insieme ai curatori del volume. Il mondo carcerario è estremamente complesso e contraddittorio, ma come la stessa Sara Ferraioli (presidente di Mds) ha più volte sottolineato, varcare quella serie di cancelli ha svelato un mondo distante da tutti coloro che sono "fuori" ma che allo stesso tempo è ricco di umanità e generosità. E di parole belle potremmo continuare a scriverne molte, se non fosse che…certi progetti vadano sostenuti con forza e partecipazione, auspicando che ognuno dei presenti, a livello istituzionale o no, possa dare il proprio contributo affinché la voce dei detenuti possa continuare a viaggiare nell’etere, e non rimanga confinata oltre quei cancelli di cui spesso neppure conosciamo l’esistenza. Gabbie, i cui diritti d’autore andranno per progetti di reinserimento dei detenuti nel mondo lavorativo e non, è ora acquistabile nelle librerie di Pisa e ordinabile online su www.mdseditore.it Un grazie da parte dei curatori e della casa editrice - alla psichiatra Simona Elmi che firma la postfazione e a tutti gli autori che hanno partecipato regalando il loro tempo e i loro racconti: Veronica Manghesi, Cristina Barsantini, Paolo Bartalini, Fabrizio Bartelloni, Silvia Belli, Ermanno Bencivenga, Stefano Benni, Federico Berlioz, Athos Bigongiali, Antonio Bova, Renzo Castelli, Giulia Cecchi, Barbara Cerri, Chiara Cini, Cinzia Colosimo, Marco Corbi, Valerio Cotronei, David Giuntoli, Simone Giusti, Silvia Granchi, Davide Guadagni, Alfonso Maurizio Iacono, Maria Cristina Impagnatiello, Giovanni Magnani, Francesco Mati, Claudia Menichini, Alessandro Monaco, Tiziana Morrone, Giuseppe Musumeci, Daniele Petraroli, Francesco Sabatino, Marina Sacchelli, Alessandro Scarpellini, Jimmy Spina, Tommaso Strambi, Mihail Turcu, Marco Ursano, Glay Ghammouri, Pierantonio Pardi. Science for Peace: "I migranti vanno accolti e integrati" di Stefano Natoli Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2016 "Affrontare le cause alla base dei flussi migratori, creare canali sicuri di accesso all’Europa, accogliere i migranti e gestire le procedure di asilo, integrarli nelle nostre società". È l’appello finale che arriva dall’ottava conferenza mondiale di Science for Peace, l’iniziativa di mobilitazione organizzata dalla Fondazione Umberto Veronesi in collaborazione con l’Università Bocconi che si è tenuta ieri nell’aula magna dell’ateneo milanese e che quest’anno ha acceso i riflettori sul tema più che mai attuale delle migrazioni e del futuro dell’Europa. Guest star dell’evento che si è aperto con un omaggio alla memoria di Umberto Veronesi - l’oncologo, padre dell’iniziativa, scomparso lo scorso 8 novembre - è stata Emma Bonino. "Il superamento della Legge Bossi-Fini è la cosa più urgente che dobbiamo fare per garantire una gestione più ordinata di un fenomeno destinato a durare a lungo", ha detto l’ex Commissario europeo e ministro degli Affari esteri e delle Politiche europee. L’esponente del Partito Radicale ha sottolineato la necessità di colmare "il divario di percezione" che caratterizza il fenomeno dell’immigrazione vissuta da una parte dell’opinione pubblica "come un’invasione" mentre i dati reali dicono che il numero di immigrati è pari a circa l’8% della popolazione. "Aiutarli a casa loro non è così semplice e prenderà tanto tempo", ha detto ancora la "pasionaria" radicale sottolineando il fatto che "l’Italia è in declino demografico e a poche centinaia di chilometri da noi c’è l’esplosione delle nascite". Ecco allora la necessità di organizzare il fenomeno dell’immigrazione "in maniera più umana". In questo senso "il metodo scientifico che abbiamo ereditato da scienziati come Umberto Veronesi ci può aiutare a resistere a chi fa leva sulle paure delle persone e offre ricette placebo che non funzioneranno mai". Il primo dei quattro panel previsti dalla Conferenza si è concentrato sulle cause politiche, economiche e ambientali dei fenomeni migratori. "Cause molteplici e interconnesse" secondo Elisabetta Belloni (segretario generale del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale) e soprattutto "in continua evoluzione". Letizia Mencarini (professore di demografia all’Università Bocconi) ha sottolinea come le migrazioni siano "le strategie più antiche di contrasto alla povertà", mentre Ferruccio Pastore, direttore del Fieri (Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione) ha affermato che "l’Europa continua a lavorare molto sulle conseguenze e molto poco sulle cause del fenomeno" e che, dunque, il suo fallimento "oltre che politico è anche scientifico". Su questo tasto ha insistito anche Alberto Martinelli, presidente dell’International Social Science Council:?"Solo una conoscenza scientifica ci consente di affrontare il fenomeno nel migliore dei modi, permettendoci di sconfiggere l’internazionale del populismo, dell’ignoranza e delle scorciatoie semplicistiche" che minacciano l’Europa. Un’Europa che per l’europarlamentare Elly Schlein (fra i protagonisti del secondo Panel dedicato, appunto, all’Europa) "manca della volontà politica di suddividere in modo equo gli sforzi dell’accoglienza dei migranti" e che ora secondo Massimo Livi Bacci (docente di demografia all’Università di Firenze) ha un problema in più:?l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Un’elezione che "renderà più difficile l’accoglienza" e "peggiorerà la situazione di un’Unione già in difficoltà per colpa della Brexit". Sulla necessità di perfezionare il sistema di accoglienza si è soffermato il primo dei due panel pomeridiani dove Carlotta Sami (portavoce Unhcr per l’Europa del sud) ha insistito sulla necessità di "lavorare da subito su integrazione e inclusione" e Fosca Nomis (Save The Children) ha parlato della drammatica realtà dei 20mila minori non accompagnati (6mila dei quali irreperibili) "privi di reti di protezione e punti di riferimento". Il panel si è avvalso della testimonianza di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, secondo la quale "il modello su cui puntare è quello diffuso che prevede una rapida redistribuzione dei migranti sul territorio nazionale". Moda criminale, gli stilisti che rubano le idee ai carcerati di Francesco Floris linkiesta.it, 19 novembre 2016 I vestiti oversized della cultura hip-hop vengono dalle carceri americane, dove i detenuti non hanno lacci e cinture e i pantaloni abbassati significano disponibilità sessuale. Ma il rapporto fra moda, criminalità e sottoculture è profondo e va indietro nei decenni. Renato Vallanzasca aveva gusto e indossava velluti e abiti di pregio, fatti cucire su misura da sarti milanesi che all’epoca spopolavano nel capoluogo lombardo. La "Banda Cavallero" colpiva i propri obiettivi con addosso una tuta blu da metalmeccanico di Mirafiori. Era un simbolo di rivendicazione politica all’insegna del motto: "Andiamo a prendere alla fonte ciò che la società del benessere non distribuisce". I terroristi della destra eversiva dei Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari) usavano per le loro spedizioni punitive degli impermeabili beige, sotto cui nascondere armi semiautomatiche. I punk milanesi si rifornivano a basso costo alla fiera di Senigallia, in una Darsena che non aveva nulla a che spartire con quella di oggi, dove al sabato, durante il mercato, era facile reperire borchie, dischi, anfibi, cerniere, alcol o droghe. Trent’anni dopo, quegli stessi oggetti-simbolo che erano sinonimo di rifiuto della società e dei canoni estetici tradizionali, si troveranno esposti in una mostra a New York dal titolo "Punk: Chaos to Couture". Perché il rapporto fra moda, criminalità e sottoculture è più stretto di quanto si possa pensare. Un rapporto quasi di saccheggio e plagio da parte della prima nei confronti delle altre due. Basti pensare che tutta la moda overseized, che prende piede in Italia negli anni ‘90 con l’esplosione della cultura hip-hop e delle "posse", è d’importazione. Non solo dagli Usa ma da un particolare microcosmo degli Usa: quello delle strutture carcerarie americane dove i vestiti erano larghi perché ai detenuti venivano tolti lacci dalle scarpe, cinture dai pantaloni e, a volte, elastici dalla biancheria. Per impedire i suicidi attraverso impiccagione o che venissero usati come armi nei confronti degli altri carcerati. Col tempo questa prassi "di sicurezza" si era evoluta fino ad assumere altri significati. Il pantalone col cavallo particolarmente basso era divenuto sinonimo di disponibilità sessuale nei confronti dei propri compagni di cella, per esempio. Il rapporto moda-criminalità-sottoculture è pieno di questa aneddotica: dagli abiti indossati tra i rapinatori di banche, passando per kefiah, eskimo o passamontagna tipici dei movimenti politici nei ‘70, dalla sottocultura punk a quella "ricca" dei paninari - i figli della borghesia di Milano chiamati "paninari" proprio per i loro luogo fisso di ritrovo: lo storico "Burghy" di piazza San Babila. Fino al recente fenomeno delle gang di latinos - proprio in questi giorni al centro delle cronache d’Italia dopo l’aggressione-omicidio di piazzale Loreto. Un mondo fatto di atti criminali ma anche di crocifissi, rosari a perline, tatuaggi, giuramenti in codice, soprannomi. Vestiti riconoscibili oramai quasi nessuno. Un retaggio che le gang usavano per difendersi nei propri paesi d’origine dalla cosiddetta "politica del fracasso" o "Mano Dura", quando le autorità centro americane nel tentativo di estirpare il fenomeno criminale, sulla fine degli anni ‘90, concessero alle forze dell’ordine poteri speciali, anche la licenza di uccidere, senza processo. Centinaia furono le persone arrestate e giustiziate a cielo aperto solo per il sospetto che appartenessero a una gang. Per questo non indossano abiti o tenute di ordinanza, che ne permettano il riconoscimento. E c’è chi ha studiato queste relazioni fra moda e cultura criminale. Il Politecnico e l’Università di Torino hanno organizzato un convegno-focus dal nome "Narrative Gang" - all’interno del più amplio progetto "Gang City", esposto anche in Biennale a Venezia - con lo scopo dichiarato di "svelare" i linguaggi, i simboli, l’abbigliamento, i contesti sociali e territoriali in cui questi fenomeni prendono forma, con un occhio di riguardo sulla città di Milano. E si sono rivolti a un addetto ai lavori: Paolo Coppolella, designer e fondatore della coppolella.com, un marchio specializzato in streatwear. Nella sua ricerca Coppolella si è imbattuto in due tipologie di ricorsi storici: aneddoti quasi folkloristici sul mondo criminale, come ad esempio i nomi delle prime bande di rapinatori negli anni ‘60 : la "Banda dovunque" perché colpiva indiscriminatamente banche, cinema, macellai, tabaccai, senza dare punti di riferimento; la "Banda del Lunedì", il giorno in cui i commercianti depositavano l’incasso settimanale in banca garantendo elevati profitti ai rapinatori; o ancora la "Banda Cavallero", i torinesi che, come detto in apertura, arrivavano a Milano vestiti da operai della Fiat. Ufficialmente per ragioni "di classe" - alla Robin Hood - salvo poi tenersi il maltolto e non certo redistribuirlo o donarlo a partito e sindacato. In realtà perché la tuta blu da metalmeccanico era facile da far sparire in caso di inseguimento o per nasconderci oggetti e armi all’interno. La "Banda Cavallero" aveva anche inventato la "tripletta": tre colpi, tre rapine, quasi in simultanea, in zone diverse della città, in modo tale da mandare in tilt le forze dell’ordine e gli scadenti apparati di sicurezza dell’epoca. Non deve stupire: basti pensare che anche Vallanzasca, qualche anno più tardi, amava prendersi gioco delle forze dell’ordine. Come quando durante un inseguimento ai suoi danni organizzò un posto di blocco "al contrario" in zona piazzale Corvetto. I suoi uomini fermarono le gazzelle della polizia e costrinsero gli agenti a tornare al commissariato a piedi e completamente nudi. Ma Coppolella non ha scoperto solo dati "di colore". Ha anche trovato veri e propri furti - "furti di strada" come li chiama lui - da parte dei grandi marchi della moda che hanno saccheggiato le culture di strada, presenti e passate. Celebri alcuni casi: per esempio la collezione autunno-inverno 2014/2015 di Moschino, quando il direttore creativo Jeremy Scott decise di usare interamente i graffiti dello street artist Joseph Tierney. È partita anche una denuncia ma i legali dell’azienda e di Scott si difendono con la tesi che il murales, in quanto opera di vandalismo, non è tutelato dalla legge, dal diritto di proprietà intellettuale o altro. O ancora le collezioni di Marc Jacobs totalmente ispirate alla cultura rave degli anni 90; l’ultima "Resort 2017" di Gucci che riprende anfibi e jeans slim passati in candeggina che riportano alla memoria il look skin di fine anni ‘70. E infine veri e propri casi di contraffazione all’italiana. E infatti c’entra un’azienda di Barletta che per anni ha venduto dei falsi, nemmeno di grande fattura, del brand "Supreme", dal 1994 marchio di culto nel mondo skate a livello internazionale e i cui capi in Italia sono acquistabili solo dal sito ufficiale o nei due empori più vicini: Londra o Parigi. Eppure la società di Barletta di è registrata come "Supreme Italia" e ha venduto ad ignari fan del marchio newyorkese dei capi semplicemente falsi. Da ultimo sono emerse alcune curiosità sul mondo delle maras, le gang latine di origine quasi sempre salvadoregna (anche se nate in California e poi rientrate nella madre patria per via della politica statunitense dei rimpatri), che secondo alcune stime sulla città di Milano e hinterland contano quasi 2000 affiliati. La Mara Salvatrucha - MS13 - è la più grande al mondo per numero di affiliati e fino alle fine degli anni 90, negli Stati Uniti, era considerata la seconda minaccia nazionale dopo Al Qaeda. Si combatte il territorio con i Barrio18, in una guerra sotterranea che in Salvador riesce a fare fino a 11 morti per omicidio ogni giorno. Un confitto talmente aspro che le squadre di calcio del Paese hanno dovuto prendere dei rimedi: ritirare tutte le magliette con i numeri "13" e "18" e toglierle anche dal mercato. In primo luogo perché nessun calciatore vorrebbe indossarle durante una partita per la sua incolumità e in secondo luogo perché allo stadio si scatenerebbero risse potenzialmente mortali fra i tifosi, in nome del numero sacro della propria gang. Turchia. Primo sì alla depenalizzazione dell’abuso sulle bambine di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 19 novembre 2016 Il partner dell’Unione europea. Passa per un voto in seduta notturna l’articolo della riforma penale voluta dall’Akp di Erdogan. Il primo passaggio della contestata riforma del codice penale turco che depenalizza lo stupro sulle minori di 16 anni se dopo c’è un matrimonio riparatore è stato di notte. L’articolo 49 della nuova legge proposta dal partito Akp (in turco è la sigla di Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) del presidente Erdogan è passato per un voto al termine della seduta notturna tra giovedì e venerdì. Il testo integrale della legge andrà in discussione martedì prossimo, 22 novembre. Contraria l’opposizione: i socialdemocratici del Chp e i nazionalisti del Mhp (i curdi dell’Hdp non vanno ai lavori d’aula per protesta contro l’arresto dei loro deputati). L’articolo 49 prevede che l’abuso sessuale su minore, nel caso avvenga "senza forza o la minaccia" e venga poi "sanato" con un matrimonio precoce, non venga sanzionato da una sentenza di condanna. Già i casi di questo tipo in attesa di essere giudicati e commessi prima del 16 novembre godrebbero di una sospensione. Attualmente il matrimonio al di sotto dell’età di 17 anni è vietato dalla legge turca e i procedimenti si aprono d’ufficio, anche senza denuncia della vittima o del suo tutore ma ad esempio dopo un referto di pronto soccorso, per i reati sessuali contro i minori di 15 anni. Il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha detto che "a causa" dell’attuale normativa che sanziona i matrimoni precoci al momento "sono circa 3 mila gli uomini detenuti negli istituti di pena". Durante il dibattimento parlamentare la vice presidente del partito socialdemocratico, Mugla Ömer Süha Aldan, ha fatto un esempio: "Se un 50enne o 60enne si unisce con una 11enne dopo averla violentata, e poi la sposa anche solo un anno più tardi, lei soffrirà le conseguenze di questo matrimonio per tutta la vita, vivrà come in una prigione". Secondo Aldan la riforma voluta dal partito di governo non fa che "incoraggiare i matrimoni forzati e legalizzare gli stupratori". E l’approvazione dell’articolo 49, a suo dire, "danneggia la reputazione del parlamento turco". Turchia. Giudice Onu tra gli arresti post golpe. La figlia: "Il governo italiano ci aiuti" di Stefano Scacchi La Repubblica, 19 novembre 2016 Ventinove anni, Meric Akay vive a Milano. Suo padre, Aydin Sefa Akay, 76 anni e protetto da immunità diplomatica, è tra le migliaia di persone che il governo di Erdogan ha messo in carcere per presunti legami con Gulen: "I tentativi delle Nazioni Unite sono falliti. Mi appello alla comunità internazionale e al vostro Paese". Sembra impossibile che uno degli eventi più drammatici del 2016 abbia toccato così da vicino la vita di questa ragazza 29enne di Istanbul, da tre anni a Milano per studiare design. Meric Akay ha un sorriso sereno che rimanda al suo lavoro di insegnante di yoga, attività che intervalla a un corso di pittura a Brera. Dietro questa espressione dolce - in compagnia del marito Guido e del cane Lulù - si nasconde una vicenda di politica internazionale che intreccia Ankara, L’Aja e New York. La trama è scandita dal golpe del 15 luglio in Turchia. Da allora la repressione del presidente Erdogan ha totalizzato 105mila funzionari pubblici licenziati, 76mila fermi, 35mila arresti per sospetti legami con il movimento di Fethullah Gulen considerato responsabile del tentato colpo di Stato. Tra queste migliaia di persone, dal 21 settembre c’è anche il padre di Meric: Aydin Sefa Akay, 76 anni, giudice Onu, protetto da immunità diplomatica. Il magistrato turco fa parte della Corte internazionale dell’Aja che si sta occupando di processare gli ultimi crimini di guerra commessi in Ruanda ed ex Jugoslavia. Dieci giorni fa, il presidente di questo organismo, Theodor Meron, ha chiesto la liberazione di Akay di fronte all’Assemblea generale del Palazzo di vetro: "È indispensabile ripristinare la legalità internazionale dello Statuto Onu. Senza Akay non possiamo andare avanti. Le udienze sono bloccate". Non era mai stata violata l’immunità di un giudice Onu. Il governo di Ankara non ha mai risposto alla richiesta formale inviata. "Non volevamo uscire allo scoperto nel timore che la situazione potesse peggiorare - dice Meric - ma abbiamo deciso di muoverci dopo aver visto che nemmeno le Nazioni Unite hanno ottenuto qualcosa. Mio padre è in prigione, in una camerata con altre 20-30 persone. Non può leggere. Lo va a visitare mio fratello avvocato, dieci minuti a settimana. Ma nei primi cinque giorni non ha potuto parlare con nessuno". L’accusa è quella comune a tanti detenuti: aver scaricato l’applicazione ByLock che secondo il governo turco è un canale di comunicazione dei gulenisti, invece secondo gli accusati è perfettamente legale e viene usata da migliaia di persone in tutto il mondo. "Quando sono venuti a prenderlo, i poliziotti hanno perquisito tutta la casa. In una libreria con duemila volumi hanno trovato due libri di Gulen. Ma che cosa prova questo? Due libri su duemila. Una persona di cultura, come mio padre, legge di tutto perché vuole informarsi. Mio papà non è mai stato contro Erdogan, ha svolto l’incarico di ambasciatore in Burkina Faso e ha sempre servito fedelmente il suo Paese". Adesso tutto è cambiato: la paura spinge molti turchi a non parlare liberamente al telefono. Vengono arrestate anche persone anziane, parenti dei ricercati non trovati nelle loro abitazioni. Meric è l’unica della sua famiglia all’estero: la mamma e il fratello sono a Istanbul. Per questo chiede aiuto alla comunità internazionale e al nostro Paese: "Spero che il governo italiano possa fare qualcosa". È stato un italiano il primo presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia: Antonio Cassese. Il giudice Akay stava portando a termine proprio quel lavoro. Meric, la sua famiglia e l’Onu sperano che possa completarlo presto. Stati Uniti. Giustizia, sicurezza e Cia. Trump cala un tris da paura di Marina Catucci Il Manifesto, 19 novembre 2016 Il senatore razzista Jeff Sessions con i falchi Flynn e Pompeo nel team presidenziale. E poi via con il "Victory Tour". Intanto il prossimo inquilino della Casa bianca patteggia un risarcimento da 25 milioni di dollari per non andare a processo per frode. La squadra di Trump prende forma concreta al di lá delle voci di corridoio. I nuovi tre nomi ufficiali sono quelli del generale Michael T. Flynn, alla Sicurezza nazionale, del membro del congresso Mike Pompeo come capo della Cia e di Jeff Sessions come ministro della Giustizia. Flynn inizia subito con un problema da risolvere in quanto nessuno può assumere quell’incarico se non è fuori dall’esercito da almeno sette anni, a meno di non ottenere un permesso speciale che, presumibilmente avrà. Trump e il nuovo advisor per la sicurezza nazionale hanno molto in comune: entrambi si percepiscono come degli outsider che hanno fatto strada rompendo le convenzioni sociali, entrambi postano spesso su Twitter i propri successi e hanno entrambi superato spesso il limite dell’islamofobia. Un altro punto in comune è quello di avere entrambi un rapporto disinvolto con la veritá e i fatti: il generale Flynn, ad esempio, ha affermato più volte che la Sharia, o legge islamica, si sta diffondendo a macchia d’olio negli Stati Uniti sostituendosi alla legge del codice anglosassone, ed evidentemente così non è; il numero di affermazioni personali presentate come fatti è così imponente che quando lavorava alla Defense Intelligence Agency i suoi collaboratori parlavano dei "fatti di Flynn" per distinguerli dai fatti reali. In qualità di consulente, il generale Flynn ha già dimostrato di avere una potente influenza su Trump, ad esempio convincendo il presidente eletto che gli Stati Uniti si trovano di fatto in una "guerra mondiale" con i militanti islamici. Da qui la necessità di lavorare con alleati disposti a sostenerlo nella lotta, principalmente il presidente russo, Putin. Non è più rassicurante il nuovo capo della Cia, che invece concentra i propri sforzi più nel distruggere l’Irandeal. Il 52 enne Mike Pompeo è stato eletto alla Camera nel 2010 come parte della prima ondata dei cosiddetti legislatori Tea Party, ha un background che affonda le radici nell’ Accademia Militare e nella Harvard Law School, è stato un ufficiale di cavalleria dell’esercito americano prima di fondare una società aerospaziale, è stato poi anche il presidente di una società di attrezzature per l’estrazione del petrolio. Attualmente fa parte della Camera permanente del Select Committee on Intelligence ed è uno stretto alleato di Pence. "Ha servito il nostro paese con onore e ha trascorso la sua vita combattendo per la sicurezza dei nostri cittadini", ha detto Trump annunciando la nomina di Pompeo in un comunicato. Tra i due, però, non è stato amore a prima vista; Pompeo durante le primarie aveva sostenuto il senatore della Florida Marco Rubio e solo a maggio un portavoce di Pompeo aveva dato un tiepido appoggio a Trump dicendo che il deputato avrebbe "sostenuto il candidato del partito repubblicano perché Hillary Clinton non può diventare il presidente degli Stati Uniti". Durante gli anni passati Pompeo è stato sempre molto critico riguardo l’accordo sul nucleare del Presidente Obama con l’Iran: "Non vedo l’ora di rovesciare questo accordo disastroso con il più grande sponsor di stato al mondo del terrorismo", ha twittato Pompeo giovedì, poco prima che la sua nomina a direttore della Cia diventasse pubblica. Terza e ultima nomina è quella di Jeff Sessions come ministro della giustizia, il cui tratto distintivo è una profonda avversione verso immigrati ed afro-americani. Senatore dell’Alabama, Sessions si è sempre schierato contro le nozze per persone dello stesso sesso, in passato ha più volte definito la National Association for the Advancement of Colored People (Naacp), cosí come la American Civil Liberties Union (Aclu), organizzazioni anti americane, e negli anni ‘80 non è diventato giudice federale in quanto giudicato troppo razzista. Le sue posizioni su ispanici e immigrati in genere includono il carcere preventivo in quanto, per lui, sono gruppi naturalmente portati a delinquere. Queste nomine arrivano in concomitanza con l’annuncio che il nuovo presidente Usa ha patteggiato un risarcimento da 25 milioni di dollari per l’affaire della Trump university, nel quale era indagato per frode e che minacciava di ostacolare la sua ascesa alla Casa bianca. Sempre ieri Trump ha annunciato un imminente Victory Tour che vuole intraprendere già nelle prossime due settimane, e che lo porterà in tutti i 30 Stati che l’hanno votato. È tradizione che il presidente eletto faccia un viaggio per il Paese prima del proprio insediamento, Obama scelse di rifare il percorso di Lincoln dopo la sua prima elezione, ad esempio. L’idea di Trump di tornare dai "suoi" non è stata accolta bene da chi si augurerebbe una riunificazione tea gli americani. Le manifestazioni anti Trump intanto non smettono, e tornare a rivolgersi solo alla propria base sembra un segno di come in realtà Trump voglia un Paese diviso e un esercito di sostenitori infiammato e pronto a sostenete il "loro" presidente. Iran. Pena di morte, condannati costretti a "confessare" in tv di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 novembre 2016 Il 2 agosto, 25 prigionieri accusati di appartenenza a un gruppo armato, sono stati messi a morte uno dopo l’altro per il reato di "inimicizia contro Dio". I 25 uomini, tutti sunniti, facevano parte di un più ampio gruppo di prigionieri arrestati tra il 2009 e il 2011 nella provincia del Kurdistan, all’epoca teatro di scontri armati e di omicidi. Molti di loro, tra cui Barzan Nasrollahzadeh, minorenne al momento dell’arresto (nella foto), si trovano ancora nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione. Subito dopo le esecuzioni, secondo un rapporto di Amnesty International, le autorità iraniane hanno avviato una massiccia campagna di comunicazione facendo trasmettere dai mezzi d’informazione sotto il loro controllo tutta una serie di video contenenti "confessioni" forzate degli imputati, allo scopo di giustificarne la messa a morte. Nei video compaiono Kaveh Sharifi, Kaveh Veysee, Shahram Ahmadi ed Edris Nemati (messi a morte il 2 agosto) e Loghman Amini, Bashir Shahnazari, Saman Mohammadi e Shouresh Alimoradi, attualmente in un centro di detenzione del ministero dell’Intelligence a Sanandaj, nella provincia del Kurdistan. I video hanno titoli sensazionalistici come "Nelle mani del diavolo" o "Nel profondo dell’oscurità", sono accompagnati da colonne sonore melodrammatiche e in alcuni casi preceduti o seguiti da scritte cinematografiche come "prossimamente" o "continua". Nelle immagini, i condannati si descrivono in modo denigratorio come "terroristi" che meritano di essere puniti; "confessano" di far parte di un gruppo denominato Towhid va Jahad, che ha compiuto attentati e pianificato l’uccisione di "infedeli". In alcuni video, si paragonano allo Stato islamico e affermano che avrebbero commesso "atrocità peggiori dello Stato islamico" se non li avessero fermati in tempo. Le loro "confessioni" sono intervallate da immagini di azioni atroci dello Stato islamico in Iraq e in Siria, per sfruttare la paura dei cittadini iraniani e giustificare in questo modo le esecuzioni. In conversazioni fatte con un telefono cellulare entrato in carcere di nascosto e poi pubblicate online, molti dei 25 prigionieri raccontano di essere stati costretti a rilasciare "confessioni" di fronte alle telecamere dopo aver subito mesi di tortura nelle celle d’isolamento dei centri di detenzione del ministero dell’Intelligence. I prigionieri parlano di calci, pugni, bastonate, frustate, privazione del sonno e diniego di cibo e cure mediche. "Non avevo alternativa, non ce la facevo più a sopportare altre torture. [I funzionari dell’intelligence] mi hanno messo davanti a una telecamera promettendomi che, se avessi detto quello che loro volevano, il caso sarebbe stato chiuso e sarei stato rilasciato" - sono le parole di Mokhtar Rahimi, uno dei 25 prigionieri poi messi a morte, le cui dichiarazioni sono state usate contro di lui durante il processo. Un altro prigioniero, Kaveh Sharifi, racconta che ha dovuto imparare a memoria un testo di sei pagine preparato dal ministero dell’Intelligence: "Ho ripetuto quasi due ore al giorno fino a quando non ho imparato tutto a memoria. Mi hanno persino indicato come muovere le mani e mi hanno detto di mostrare un aspetto sorridente, per non far capire che mi avevano tenuto in isolamento e trattato male". I 25 uomini sono stati condannati per il vago reato di "inimicizia contro Dio", mediante l’"appartenenza a un gruppo salafita sunnita" e la partecipazione ad attentati e omicidi. Nel corso degli anni trascorsi nei bracci della morte, molti di loro hanno ripetutamente negato ogni coinvolgimento. Amnesty International non è in grado di confermare o smentire le opposte versioni, anche perché i procedimenti giudiziari si sono svolti in segreto. Dalle ricerche dell’organizzazione è emerso comunque che i processi sono stati profondamente iniqui: nel corso delle indagini, gli imputati non hanno avuto diritto a un avvocato e sono stati sottoposti a torture per estorcere "confessioni" poi usate contro di loro. I video sono stati prodotti e trasmessi da vari mezzi d’informazione controllati dallo stato, tra cui la Islamic Republic of Iran Broadcasting (Irib), Press Tv e un organismo denominato Associazione Habilian. Su questi mezzi d’informazione ricade, dunque, una parte delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani inflitte alle persone rappresentate nelle loro produzioni e ai loro familiari. A oltre tre mesi di distanza dalle esecuzioni, le autorità iraniane ancora non sono in grado di fornire informazioni sui reati specifici per i quali ciascuna delle 25 persone è stata messa a morte. Pakistan. Per la chiusura del Giubileo, il governo libera 69 detenuti fides.org, 19 novembre 2016 Un gesto di clemenza, come richiesto da Papa Francesco, in occasione del Giubileo della misericordia: in occasione della chiusura del Giubileo della misericordia, 69 detenuti del carcere centrale di Faisalabad sono stati liberati e molti altri saranno rilasciati, nei prossimi giorni, in altri istituti di detenzione pakistani Il gesto è avvenuto in occasione della recente visita al carcere compiuta dal Ministro federale per i diritti umani, il senator cristiano Kamran Michael, insieme con il vescovo di Faisalabad, Joseph Arshad, altri rappresentanti cristiani e rappresentanti del governo del Punjab e della magistratura. Per l’occasione il giudice del tribunale di primo grado Abid Hussain Qureshi ha disposto il rilascio di 69 prigionieri coinvolti in reati minori, che erano ancora in carcere perché, pur avendo scontato la pena, non erano in grado di pagare le sanzioni in denaro previste dalle condanne. In una nota inviata a Fides, il Ministro Kamran Michael ha confermato che "nel quadro del programma del Ministero federale dei diritti umani, si è deciso di rilasciare i prigionieri coinvolti in reati minori che sono ancora nelle carceri solo perché non in grado di pagare le sanzioni. Tali sanzioni saranno pagare grazie a uno speciale fondo governativo, ha aggiunto. Il ministro h riferito che il Governo ha avviato il processo di liberare questi detenuti in tutto il paese, aggiungendo che questo processo è partito nel carcere centrale di Faisalabad e che sarà esteso ad altri istituti di detenzione. Nell’ottica di un percorso di rieducazione, "il governo ha avviato speciali corsi speciali di formazione al fine di rendere gli ex detenuti cittadini responsabili e aiutarli a reinserirsi nel tessuto sociale". L’iniziativa, ha spiegato, recepisce lo spirito "annunciato da Papa Francesco in questo anno chiamato come Anno della Misericordia, per assegnare il fondamentale diritto alla libertà di questi prigionieri". "Questa politica mira anche a ridurre il numero dei detenuti nelle carceri pakistane, per garantire loro una migliore sistemazione nelle strutture". ha concluso. Il ministro Michael ha ispezionato diverse sezioni del carcere e si è incontrato con alcuni detenuti per informarsi sulle loro condizioni, assicurando di adottare i necessari provvedimenti per risolvere i loro problemi. In Pakistan vi sono 88 strutture di detenzione che ospitano una la popolazione carceraria totale che supera 80mila detenuti, dei quali il 70% sono in attesa di giudizio. La capacità ufficiale del sistema carcerario è di circa 46mila unità, e il problema del sovraffollamento delle carceri si avverte dappertutto. Nel suo Rapporto del 2015, la "Commissione per i diritti umani del Pakistan", Ong diffusa in tutta la nazione, ricorda che "maltrattamenti e torture sono diffuse", mentre "le carceri ospitano il doppio delle persone rispetto alla loro capacità e in alcune celle, i detenuti non hanno nemmeno un giaciglio". Il sovraffollamento, si nota, non permette la separazione dei detenuti in base alle categorie (sotto processo o già condannati), nè tra minorenni e adulti. Nel sistema penale pakistano esistono pene alternative come come sanzioni e multe, disposte a volte dai tribunali per la condanna di delinquenti ritenuti non violenti.