Carceri, i problemi e le risposte dell’Italia dopo l’appello del Papa di Simone Santi lifegate.it, 18 novembre 2016 Bergoglio ha chiesto "un atto di clemenza", in Italia la legge per le pene alternative è bloccata: le carceri non esplodono ma le criticità ci sono. Non passa mai di moda in Italia l’emergenza legata alla situazione delle carceri italiane. Ma a rilanciare la questione in questi giorni è stato non un politico, ma Papa Francesco in persona, che ha chiesto un vero e proprio "atto di clemenza". Un messaggio che, arrivando da un pulpito tanto importante, ha subito smosso anche la politica, che sta in effetti pensando a un provvedimento su un settore, quello carcerario, in cui i disagi non mancano certo, anche se i numeri dell’affollamento sono in lieve miglioramento. In occasione del Giubileo dei carcerati, Bergoglio ha detto chiaro e tondo, rivolgendosi proprio "alle autorità civili di ogni paese" ha sottoposto "la possibilità di compiere, in questo Anno santo della misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". Naturalmente non certo per una questione di sovraffollamento delle carceri, per cui l’Italia è stata più volte sanzionata negli anni dall’Unione Europea, ma per una questione di pietà religiosa: "A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere - ha aggiunto infatti il pontefice rivolgendosi direttamente ai condannati presenti- Non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori". Una legge bloccata da settembre - Basteranno le parole del Papa a riaprire lo spazio per la discussione politica sul tema? Il 26 settembre scorso era arrivato in aula al Senato un disegno di legge sulla riforma del sistema penitenziario, che insisteva molto sull’utilizzo delle pene alternative, come gli arresti domiciliari o la messa in prova (ad esclusione dei reati più gravi, di mafia e terrorismo) ma tutto si è bloccato per la mancata intesa sull’allungamento dei tempi di prescrizione. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ora cerca di rilanciarla: "Per noi la risposta è la riforma del sistema penitenziario. È in discussione al Senato e spero che venga approvata al più presto", ha detto in una intervista a Porta a Porta. "Papa Francesco ha chiesto di tenere conto della condotta dei detenuti, e una forma per riconoscere la buona condotta è nella riforma del sistema penitenziario". Detenuti in calo, ma i problemi restano - In realtà gli attuali numeri delle carceri italiane sono migliori rispetto a qualche tempo: siamo passati dai 67mila detenuti, il tetto massimo mai raggiunto, agli attuali 54mila. Non basta però: secondo Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato "in numerose celle, quasi il 50%, il numero di detenuti presenti impone di stare sdraiati sulle brande per consentire agli altri di stare in piedi e muoversi, lo spazio-giorno e lo spazio-notte si sovrappongono. E dentro questa dimensione di promiscuità coatta la possibilità di conservare la dignità viene costantemente messa alla prova". A confermarlo sono anche i rapporti del neonato garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che da marzo a oggi ha visitato 14 istituti di pena per adulti, 17 camere di sicurezza delle Forze di Polizia, 2 istituti di pena per minorenni, una comunità di accoglienza per minori in custodia cautelare, 2 hotspot e 2 Cie per migranti, monitorato 4 voli charter di rimpatrio forzato di migranti. Riscontrando forti criticità in diversi punti, dalla gestione della salute mentale dei detenuti alla mancanza di chiarezza normativa sulla privazione della libertà esercitata negli hotspot, dalla necessità di rafforzare il controllo della magistratura di sorveglianza, al diritto non sempre pienamente garantito a comprendere dove si è e quali sono i propri diritti sia nei centri per i migranti che negli istituti di detenzione. Carceri e giustizia, l’Aiga traccia la rotta di Tania Rizzo* L’Opinione, 18 novembre 2016 Dopo l’adesione e partecipazione come membri permanenti al Congresso Mondiale contro la pena di morte, i giovani avvocati dell’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) hanno partecipato alla "Marcia per l’amnistia, la libertà e la giustizia" dedicata a Marco Pannella ed a Papa Francesco. Pur apprezzando buona parte dell’operato del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, soprattutto per quanto concerne la volontà di confrontarsi con tecnici e operatori del diritto per individuare soluzioni celeri, si è ancora troppo inermi dinanzi alla realtà carceraria italiana, intra o extra muraria. Strutture troppo spesso fatiscenti, sanità di serie b, disaffezione al proprio ruolo da parte degli operatori dell’area psico-pedagogica e di quelli della polizia penitenziaria, scolarità bassissima e incapacità di guardare al futuro: questa è la fotografia drammatica che si può ricavare leggendo i dati statistici che Antigone propone annualmente, al netto, si badi, delle gravissime patologie concernenti gli abusi, le torture, i decessi e/o i suicidi, l’utilizzo oltre ogni soglia di ammissibilità di psicofarmaci. A fronte dell’immagine interna del carcere, inoltre, si deve sommare ciò che avviene al suo esterno: una giustizia penale a tratti elefantiaca, con una magistratura troppo spesso lontana, impegnata per lo più a combattere con numeri e statistiche di risultati; famiglie dei detenuti prive di un sostegno culturale che possa evidenziare la radice dell’errore e promuovere una diversa progettazione di vita; enti pubblici e aziende che rifiutano le disponibilità di lavoro offerta da detenuti o da ex detenuti; cultura del sospetto e dell’emarginazione sociale. Partendo da questi dati, come Aiga avvertiamo da tempo la necessità che, anzitutto, si lavori per mutare la cultura giuridica e sociale sui concetti di giustizia, di sanzioni penali e di carcere; quindi, cultura e dialogo sulle regole, anzitutto. Nel terzo millennio non è ammissibile che si venda, ancora, la tesi della giustizia come vendetta, esaltando, da un canto, il senso d’impotenza e paura e il conseguente richiamo a facili populismi e rendendo, dall’altro canto, la giustizia debole se non, a tratti, inutile. Si deve agire affinché si insegni ai giovani, e si ricordi ai meno giovani, che la giustizia, intesa come un insieme di leggi scritte da cittadini per i cittadini, è il mezzo e il fine per far accertare i propri diritti e sanzionare coloro che li hanno violati. Occorre insegnare l’essenzialità del rispetto delle regole, anche e soprattutto nei confronti di coloro che le hanno violate perché possano acquisirne esempi positivi e forti e non esempi di elusioni di norme e regole. Sono numerosi gli studi scientifico-statistici, infatti, con i quali si è appurato che ottime attività di rieducazione sociale hanno evitato, molto spesso, che i soggetti che le avevano seguite potessero successivamente commettere nuovi illeciti; mentre, si è verificato che l’assenza di tale attività, ha sollecitato e spinto ad incancrenire culture delinquenziali dentro e fuori dalle mura carcerarie. In secondo luogo, formazione comune sul processo penale e sui diritti. Riteniamo oramai improcrastinabile imporre a tutti gli operatori di giustizia il medesimo percorso formativo: avvocati, magistrati e operatori di polizia giudiziaria, che quotidianamente si ritrovano nelle aule di giustizia, devono condividere anche il percorso di formazione pratico-teorica, sia negli studi legali sia nelle aule di tribunale, per avere comuni esperienze e comuni sensibilità anche in tema di diritti. Infine, si può e deve attuare il concetto costituzionale di rieducazione sociale tramite l’educazione al lavoro. Esistono, oramai, molte attività di recupero sociale tramite il lavoro svolto, in forma cooperativa, dentro gli istituti penitenziari: attività di sartoria, di cucina, di impaginazione, di agricoltura finalizzate a creare dei beni materiali messi, poi, in vendita tramite store on-line (organizzati da associazioni e/o imprenditori non detenuti): i proventi, detratte le spese e i costi, servono per pagare stipendi e rendere qualificato il lavoro delle detenute e dei detenuti che, in tal modo, acquisiscono una competenza lavorativa e, al contempo, si confrontano con la realtà educativa del rispetto delle regole e della dignità propria e altrui. Percorsi straordinari basati sugli esempi positivi e virtuosi che partono dall’implementazione e sostegno delle attività di scuola e lavoro dentro il carcere. Anche su questi aspetti di cultura sociale e giuridica, oltre che ad effettive riforme organiche del processo penale e dell’ordinamento penitenziario, crediamo che si debba partire per vincere la partita della legalizzazione degli istituti carcerari italiani. *Segretario nazionale Aiga Carcere, il senso della pena: la testimonianza di un detenuto a Rebibbia di Chiara Formica 2duerighe.com, 18 novembre 2016 "Quale pretesa più assurda, e che parole al vento, se poi tu Stato mi fai dormire per terra perché le celle sono stracolme; mi dai un vitto che non lo mangerebbe neppure un cane; mi allontani dalla residenza della mia famiglia; mi trasporti da un carcere all’altro ammanettato (come un tempo si faceva con le bestie da soma) e mi rinchiudi nelle cellette dei tuoi furgoni il cui spazio è insufficiente anche per un piccolo pennuto; mi fai soffrire il freddo e il caldo, perché le "case" (come tanto ti è piaciuto chiamarle "Casa Circondariale" di…) sono fatte di ferro e cemento e le stanze, ovvero questi angusti posti chiamati celle, nelle quali il condannato deve trascorrere la sua esistenza, si arroventano se ci batte il sole estivo e si raggelano col venir dell’inverno, considerato che i riscaldamenti funzionano per poche ore al giorno; ti dimentichi di fare la disinfestazione generale e particolare delle "case", come ad esempio dei locali delle docce, posto in cui ci laviamo in sessanta e spesso anche con l’acqua fredda; mi neghi l’acqua calda corrente in cella; concepisci gli spazi delle celle in uno stile davvero originale: water e cucina a un metro dal letto dove dormo. Ah! Che sbadato, sono io appunto che devo dormire tra tanta decenza, ti chiedo scusa… Come? Ah! Si, è vero, in alcune "case" hai saputo fare di meglio dividendo lo spazio del letto da quello del water e della cucina: che consolazione! Sei contento? Se sei contento tu sono contento anche io!". Questo passo è tratto dall’intervento ad un seminario, ospitato dalla Casa Circondariale di Rebibbia, il 28 maggio 2014, di G.P., detenuto nel reparto A.S. di Rebibbia. Sta scontando la pena dell’ergastolo da quasi 22 anni consecutivamente e racconta di essersi diplomato in carcere, dove si è anche laureato due volte, e nel 2014 era distante dalla terza laurea da soli due esami. G.P. dichiara che "in questo continuo sfaldarsi del mondo carcerario a cui nessuno pone un limite, parlare di Costituzione è come dire al condannato che tra pochi minuti verrà fatto sedere sulla sedia elettrica, che la vita è bella e che fuori c’è un sole splendido". Ma perché questo acuto scetticismo nei confronti della Costituzione? L’articolo 27, comma 3, della Costituzione Italiana sancisce che: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"; e ancora l’articolo 13, comma 4, recita: "È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". È palpabile la contraddizione esistente tra ciò che è previsto dalla Costituzione e dalle leggi, e ciò che invece avviene nella realtà effettiva delle carceri italiane, nelle quali, troppo spesso, la Costituzione è percepita esclusivamente come presenza utopica e quindi irrealizzabile. Essa si riduce quindi a mera tradizione, spoglia di ogni veridicità e corrispondenza concreta. Gli istituti detentivi devono fronteggiare dei problemi che mettono in seria difficoltà l’attuazione dei diritti riconosciuti dalla Carta Costituzionale ai carcerati: la forte carenza di organico, la mancanza di luoghi adeguati all’accoglimento di centinaia, a volte migliaia di persone nella stessa struttura, la promiscuità delle celle, nelle quali vengono raccolti detenuti che hanno commesso reati diversi, provenienti da Paesi, tradizioni culturali e credo religiosi differenti, il sovraffollamento inaspriscono le difficoltà. Radicalizzano la spaccatura tra gli articoli costituzionali che riconoscono diritti e doveri ai detenuti, in quanto persone, e il malfunzionamento reale e quotidiano delle prigioni, che, dal canto suo, li nega. A questo punto dovremmo chiederci che senso ha una pena scontata in queste condizioni, che tipo di obiettivo si prefigge, quale esperienza vuole imprimere nella memoria e nel vissuto del detenuto. Dovremmo chiederci, semplicemente, se questo "modello" di pena abbia assunto una funzione teleologica, oppure se sia condannata a morire in se stessa. Dovremmo domandarci quale insegnamento ha tratto il detenuto dalla sua reclusione, e immaginare cosa sia in grado di proporre alla società una volta libero, una volta uscito dalla sua galera. E a questo punto domandarci se varcare i cancelli del carcere, terminata la detenzione, significhi veramente per il detenuto essere uscito dalla sua galera. Che cos’è la galera? Subito la nostra mente si ricollega all’immagine delle sbarre, e quindi alle grate alle finestre, ai grandi cancelli. Tutti simboli della reclusione, della privazione obbligata della libertà. Quotidianamente tutti noi apriamo e chiudiamo porte, ci passiamo attraverso: un gesto banale, spontaneo, per il quale non serve ragionare, viene fatto autonomamente. Al detenuto è tolta la possibilità di aprire una porta, di oltrepassarla, solo perché ha deciso di farlo. Non si entra in una prigione di spontanea volontà, così come non se ne esce. Invito a riflettere sul significato di questo gesto: aprire e chiudere una porta. Un gesto banale lo ripeto, ma che non tutti hanno il diritto di compiere. E invito a chiederci cosa resta ad un uomo privato della possibilità di questo gesto. Resta la sua dignità di persona, che lo caratterizza in quanto essere pensante e parlante, resta il diritto alla vita, e non alla mera sopravvivenza. È ora che lo Stato, e l’opinione pubblica, decida qual è il senso della pena e cosa voglia dire punire, infliggendo una pena: il principio retributivo che prevede, per il detenuto, una pena proporzionale e commisurata al reato commesso, deve essere affiancata dal principio del reinserimento sociale, in vista della dignità del reo e dell’utilità pubblica, oppure dal principio dell’umiliazione, che declassa la categoria umana a quella bestiale dell’inciviltà? I diritti restano sulla carta se non diventano cultura viva: la "Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati", del 2012, afferma che gli istituti penitenziari devono essere dotati di spazi idonei alle esigenze della vita individuale e di spazi addetti alla vita di comunità. Riconosce al detenuto i diritti alla salute, alle cure mediche, all’igiene personale, ad una alimentazione adeguata e il diritto di avere contatti con l’esterno. "Il di più di pena configura un’eccedenza sanzionatoria e afflittiva priva di titolo esecutivo e di base normativa. Dunque illegittima. In uno Stato costituzionale di diritto, infatti, si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti" (Andrea Pugiotto). No Tav: la Corte d’Appello conferma 38 condanne, nessuna attenuante "sociale" di Massimiliano Peggio La Stampa, 18 novembre 2016 Il procuratore: "La costruzione accusatoria ha tenuto, e soprattutto non è stata accolta l’attenuante per aver agito per motivi di particolari valori morali e sociali". La corte d’Appello di Torino ha confermato 38 condanne su 47 imputati, ritoccato alcune pene e concesso attenuanti generiche. Così hanno deciso i giuridici di secondo grado riesaminando gli scontri con le forze dell’ordine del 3 giugno e il 27 luglio 2011, quando le ruspe "sfrattarono la libera repubblica della Maddalena" per prendere possesso dei terrena da destinare ad area di cantiere. "Nel complesso la costruzione accusatoria ha tenuto, e soprattutto non è stata accolta l’attenuante per aver agito per motivi di particolari valori morali e sociali, elemento di discrimine tra chi ha agito con violenza e chi si è limitato a protestare democraticamente contro l’opera". Così ha detto il Procuratore Generale Francesco Saluzzo lasciando l’aula, dopo la lettura della sentenza, tra i cori dei No Tav presenti in aula. "Parzialmente soddisfatti per la sentenza, leggeremo le motivazioni. Ci soddisfa perché è incanalata in un percorso corretto rispetto alla sproporzione della sentenza di primo grado. Positivo che i giudici abbiano accolto le nostre richieste sul riconoscimento delle attenuanti generiche" ha detto Claudio Novaro, uno degli avvocati del legal team. Ampia la discussione finale del procuratore Saluzzo, in fase di repliche, sulle motivazioni ideologiche del movimento, con cui ha invitato i giudici a non giustificare comportamenti del genere: "Violenti, antidemocratici e anti-libertari" col rischio di "avvicinarsi pericolosamente ai livelli delle Farc". Il magistrato, dopo avere affermato che "la lotta del movimento contro il Tav può avere valenza sociale ma deve svolgersi nel perimetro della legge", ha parlato dell’esistenza di "frange e gruppuscoli che hanno fatto della violenza un sistema che gira per l’Italia e l’Europa ma non ha nulla a che vedere con le legittime manifestazioni di protesta". L’ex sottosegretario Cosentino condannato a 9 anni. Gli avvocati: "Impugneremo" di Titti Beneduce e Giorgio Santamaria Corriere della Sera, 18 novembre 2016 L’ex sottosegretario del governo Berlusconi riconosciuto colpevole di concorso esterno in associazione camorristica. "Nick ‘o mericano" era in aula coi due figli ma è andato via prima della pronuncia. Il pm aveva chiesto 16 anni. Caduta l’accusa di riciclaggio. Condannato a 9 anni di carcere l’ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi e coordinatore campano di Forza Italia. La Procura ne aveva chiesti sedici; è caduta infatti l’accusa di riciclaggio. Cosentino è stato dunque riconosciuto colpevole di concorso esterno in associazione camorristica: ha costruito, attraverso la società dei rifiuti Eco4, un sistema di potere e di consenso elettorale fondato sull’appoggio della camorra di Casal di Principe. "Nick ‘o mericano" era in aula coi due figli ma è andato via prima della pronuncia dei giudici. Dopo 4 ore di camera di consiglio si è concluso dunque un processo lungo, nel corso del quale sono stati ascoltati moltissimi testi. Ad accusare l’ex sottosegretario sono stati, in particolare, numerosi pentiti, a verbale e in aula. "Non ci sono in Italia - aveva detto Milita il 13 ottobre scorso, al termine della requisitoria - processi più gravi di questo. Spero che dopo la sentenza la storia non si ripeta". Mercoledì accusa e difesa (gli avvocati Stefano Montone e Agostino De Caro) hanno fatto i loro ultimi interventi. La difesa, in particolare, ha chiesto l’acquisizione di alcuni verbali del boss Giuseppe Misso, depositati da pochissimo in un altro processo, che scagionerebbero l’imputato. Ma i tempi non lo consentivano. Anche la requisitoria, come il resto del processo, era stata lunga. Per circa sei ore, infatti, un mese fa il rappresentante della pubblica accusa aveva ricostruito carriera politica e rapporti personali di Cosentino, arrivando addirittura a parlare del padre: "Ci sono fatti risalenti negli anni che coinvolgono il padre dell’imputato, già punto di riferimento del clan. E lui, Nicola, ne è diventato l’erede. Ne ha ricevuto l’investitura come accadeva nel Medio Evo. Spero che non ci siano emulatori, perché è facile fare carriera politica e soldi così, ma è anche probabile finire in galera". Grazie ai suoi stretti rapporti con il clan dei casalesi, insomma, Cosentino avrebbe avuto un consenso popolare vastissimo e un enorme potere politico, prima locale, poi nazionale. Quella relativa alla vicenda Eco4 fu la prima ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di Nicola Cosentino: era il 2009, ma non gli fu notificata perché all’epoca l’indagato era parlamentare in carica. La misura venne eseguita solo quattro anni dopo, quando, nonostante tutti i suoi sforzi, Berlusconi decise di non ricandidarlo e lui perse lo scudo dell’immunità garantitagli dal voto della Camera. Si costituì nel carcere di Secondigliano. Successivamente l’ex parlamentare fu coinvolto in altre inchieste giudiziarie: la cosiddetta P3 per il presunto dossieraggio contro Stefano Caldoro, che gli aveva soffiato la candidatura a presidente della Regione per il centrodestra (pochi giorni fa, la Procura di Roma ne ha chiesto la condanna a un anno e mezzo per diffamazione e violenza privata); "Il Principe e la scheda ballerina", per la costruzione di un centro commerciale in cambio di sostegno elettorale; quella sulla illecita concorrenza nel settore dei carburanti, attività cui la famiglia dell’ex politico si dedica da molti anni; e quella per la corruzione di un agente della polizia penitenziaria, che gli aveva consentito di ricevere in carcere beni non consentiti. Per quest’ultima vicenda, Cosentino ha incassato lo scorso giugno la prima condanna: quattro anni e otto mesi di reclusione; il pm ne aveva chiesti sei. La Cassazione: linea dura contro sculacciate delle maestre ai bimbi di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 18 novembre 2016 La decisione dei giudici che hanno accolto il ricorso della Procura: non si può parlare di abuso di correzione, perché l’educazione e lo sviluppo della personalità non possono mai passare attraverso l’uso di mezzi violenti. Vanno punite con severità le maestre accusate di sculacciate ai propri alunni: si tratta di condotte che "travalicano i limiti dell’uso dei mezzi di correzione" e che possono configurare il reato di maltrattamenti, per cui può anche essere prevista una misura cautelare. Lo sostiene la Cassazione, che, accogliendo il ricorso presentato dal capo della Procura di Rimini, ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il tribunale del Riesame di Bologna aveva detto "no" agli arresti domiciliari per una maestra di una scuola dell’infanzia, che, secondo l’accusa, aveva colpito ripetutamente un bimbo di tre anni "con forti sculaccioni". Il Riesame aveva rilevato che da parte dell’educatrice non c’erano state, come osservato anche attraverso filmati di centinaia di ore, "condotte violente o denotanti una particolare aggressività", ma piuttosto un "fare brusco", senza che "venisse in luce una volontà persecutoria nei confronti dei minori". La sesta sezione penale della Suprema Corte ha invece ritenuto fondato il ricorso della Procura, sottolineando che "in tema di rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, deve escludersi che l’intento educativo e correttivo dell’agente costituisca un elemento dirimente per far rientrare il sistematico ricorso ad atti di violenza commessi nei confronti di minori nella meno grave previsione" contenuta nell’articolo 571 del codice penale, ossia l’abuso dei mezzi di correzione: infatti, "l’esercizio del potere di correzione al di fuori dei casi consentiti o con mezzi di per sé illeciti o contrari allo scopo, deve ritenersi escluso dalla predetta ipotesi di abuso e va inquadrato nell’ambito di diverse fattispecie incriminatrici". Non si può parlare di abuso di correzione ma di maltrattamenti - L’abuso dei mezzi di correzione da parte di un insegnante, osservano ancora i giudici della Cassazione nella sentenza depositata oggi, "è sicuramente integrato non solo dall’uso di sanzioni corporali, ma anche da qualunque condotta di coartazione fisica o morale che renda dolorose e mortificanti le relazioni tra l’insegnante e la classe o i singoli discenti attuata consapevolmente anche laddove le "finalità educative" sono teoricamente "accettabili". Il termine "correzione", si legge ancora nella sentenza, va infatti "assunto come sinonimo di educazione" e dunque "non può ritenersi tale l’uso abituale della violenza a scopi educativi", sia perché l’ordinamento giudiziario attribuisce un valore alla dignità delle persone, anche del minore, sia perché si può pensare di cercare di raggiungere "lo sviluppo armonico della personalità" usando un mezzo violento". L’eccesso dei mezzi di correzione violenti, quindi, conclude la Corte, "concretizza il reato di maltrattamenti" e non quello di abuso dei mezzi di correzione "poiché l’intenzione soggettiva non è idonea a far rientrare nella fattispecie meno grave una condotta oggettiva di abituali maltrattamenti, consistenti in rimproveri anche per futili motivi, offese e minacce, violenze fisiche". Il succhiotto è una violenza sessuale: fino a 6 anni e 2 mesi di pena di Pino Nicotri Italia Oggi, 18 novembre 2016 Non solo la sua sentenza lascia assai perplessi, ma la Cassazione l’ha anche tolta dal proprio sito online eliminando così il diritto dovere dei giornalisti di informare e il diritto di critica di tutti i cittadini italiani. Depositato la scorsa settimana, il verdetto dei supremi giudici del Palazzaccio di Piazza Cavour stabilisce che il "succhiotto" lasciato da una persona sul collo di un partner costituisce il reato di violenza sessuale tanto quanto i palpeggiamenti, la "mano morta" nelle zone erogene e i baci sulla bocca strappati con la forza. Lasciare sul collo il segno non voluto pur se nel corso di baci e amplessi consenzienti può perciò costare fi no a sei anni e due mesi di carcere. La sentenza della Cassazione si occupava della denuncia di una donna contro il suo amante, reo di averle lasciato quel marchio indesiderato come dimostrazione di possesso. Per i supremi giudici se si lascia quel timbro sul collo della donna solo per far sapere anche a occhi estranei che è tua si commette una violenza sessuale. È infatti come marcare il territorio, atto incompatibile con la libertà sessuale delle persone, che non sono territorio di nessuno se non di se stesse. Si tratta per giunta - sempre a detta dei supremi giudici - di un gesto che se non voluto da chi lo riceve può indicare la volontà di costringerlo a mostrare a tutti la firma di un amore segreto, occasionale o no che esso sia. Invano l’uomo ha sostenuto che il suo bacio a ventosa non riguardava zone erogene e non poteva quindi essere considerato alla stregua di un atto a carattere sessuale. Le toghe della Cassazione hanno invece deciso che il succhiotto "deve poter essere definito sessuale sul piano obiettivo, senza attingere alle intenzioni dell’agente" e che è sbagliato ritenere che gli atti sessuali per essere tali devono riguardare solo "toccamenti delle zone (immediatamente) erogene del corpo, con esclusione di tutte le altre". I giudici hanno voluto specificare che il bacio a risucchio non comporta un "mero toccamento delle labbra", bensì esige invece "intensità" e attività "prolungata". E, come se ne fossero tecnici esperti, hanno voluto chiosare che il succhiotto "esprime esattamente quella carica erotica che il concedersi con piacere alla bocca altrui comporta; una carica pienamente colta dall’imputato che ne fa strumento di una riaffermata (e malintesa) signoria sulla donna con un simbolo (il livido lasciato sul collo) che vuoi significare un’intimità sessuale esattamente percepibile e percepita come tale dai consociati senza necessità di ulteriori specificazioni". Alcune osservazioni sono obbligatorie: 1) - Cosa dimostra che nel caso in questione non ci sia stato consenso e che non si tratti quindi di un ripensamento ex post, magari per ripicca o vendetta? 2) Per lasciare quel tipo di livido sul collo ci vogliono vari secondi, durante i quali il partner può agevolmente sottrarsi evitando così di restare marchiato. Certo, se il marchiatore impedisce al partner di divincolarsi e sottrarsi all’annesso livido, allora il reato di violenza privata è evidente e innegabile. Ma non era questo il caso giudicato in Cassazione. 3) - Come si fa a sostenere che quel marchio sia la prova di possesso da parte del Tale anziché del Talaltro o di un anonimo? Forse il succhiotto reca il nome e cognome di chi lo ha stampato? 4) - Cosa dimostra che il succhiotto sul collo di una persona sposata o single sia del proprio consorte o partner anziché di eventuali amanti e fi danzate/i o viceversa? 5) - Se un simbolo di possesso è un reato sessuale, allora dovrebbero esserlo anche, e a maggior motivo, l’anello di fidanzamento e ancor più la fede nuziale perché indubbiamente indicano la proprietà sessuale, per giunta da parte di persone ben precise e non anonime. 6) Non sarebbe più civile evitare di considerare le persone come possibili possessi sessuali altrui? Chiunque abbia una relazione amoroso sessuale - occasionale o prolungata o stabile, con o senza succhiotti - deve essere considerato proprietà sessuale altrui? Territorio e pascolo altrui? Per proteggere la privacy della denunciante e del denunciato, la sentenza - n. 47265, emessa dalla Terza Sezione Penale - dal sito Internet della Cassazione (italgiure.giustizia.it/sncass/) è stata fatta sparire tramite oscuramento. Eppure i principi giuridici stabiliti dalla Cassazione devono poter essere conosciuti in ogni tempo da chiunque. Non possono certo essere nascosti ad libitum. E sul diritto dei cittadini italiani non può certo prevalere la pruderie dei magistrati del Palazzaccio, supremi interpreti delle leggi italiane. La madre che registra il figlio avuto dove l’utero in affitto è lecito può dichiarare che è suo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2016 Corte di cassazione, sentenza 17 novembre 2016, n. 48696. Non commette reato di falsa certificazione la donna che dichiara di essere la madre di bambini nati con la maternità surrogata, con fecondazione eterologa, in Ucraina, se in quel Paese la pratica è lecita. La Cassazione, con la sentenza 48696, respinge il ricorso del procuratore generale contro l’assoluzione e ricorda che la legge ucraina, subordina la possibilità di ricorrere al cosiddetto utero in affitto, al fatto che uno dei due committenti sia anche il genitore biologico, circostanza che ricorreva nella causa esaminata, nella quale il marito della signora era il padre del bambino. In tal caso è la stessa legge del luogo ad imporre al genitore "sociale" di mettere il suo nome sull’atto di nascita. I giudici della sesta sezione penale, escludono dunque il dolo del delitto, previsto dall’articolo 567 secondo comma del codice penale. Per i giudici manca anche l’elemento oggettivo del reato. Una conclusione raggiunta in considerazione dell’evolversi nel tempo del concetto di stato di filiazione, non più legato ad una relazione necessariamente biologica, ma sempre più considerato legame giuridico. I giudici fanno l’esempio dei figli avuti con la fecondazione eterologa. Nel dichiarare l’incostituzionalità del divieto di ricorrere a tale pratica la Consulta ha rilevato come la Carta non presupponga una nozione di famiglia inscindibilmente legata alla presenza di figli o come questi possano essere presenti indipendentemente dal dato genetico. La Cassazione esclude quindi che ci sia materia per ravvisare il delitto di alterazione di stato nella richiesta di registrazione dell’atto di nascita di un figlio avuto da una coppia di coniugi che ha fatto ricorso a tali pratiche, anche in assenza di un rapporto di discendenza strettamente genetico con il minore. Sul fronte della trascrizione in Italia dell’atto straniero, la Suprema Corte fa riferimento alle sentenze "gemelle" (65192/11 e 65941/11) con le quali la Cedu ha riconosciuto un’ampia discrezionalità agli stati in tema di maternità surrogata. Un margine che però, su indicazione di Strasburgo, deve essere superato quando il mancato riconoscimento giuridico riguarda un rapporto di filiazione nel quale c’è un genitore biologico. Questo referendum non darà risposte all’Italia dei "Robinù" di Michele Santoro Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2016 Trump ha vinto e tutti credono di sapere il perché. Grillo in particolare, che addirittura si esalta per la vittoria del miliardario americano, parla di una Apocalisse che si è abbattuta sulle élite, sui giornali, sulle televisioni, sui sondaggi e sugli intellettuali. Non avrebbero capito niente dell’America profonda, quella più lontana dalle stanze del potere politico, economico e culturale. Sempre Grillo profetizza che la stessa Apocalisse si abbatterà sull’Italia (non si capisce se con l’aiuto di Salvini e la Meloni, come a Roma) a opera degli eroi del Movimento 5 Stelle dei quali si conoscono, al momento, una diligente attività parlamentare e barricate solo virtuali, oltre che la tendenza alla parsimonia e gli inni all’onestà. Uno tsunami proveniente dalle periferie si preparerebbe a spazzar via la cocuzza Hillary Renzi, tutto il cocuzzaro delle lobby annesse e connesse, e praticamente ciò che resta di una democrazia in crisi, conquistando i palazzi della politica. Al momento non si capisce se il mondo che verrebbe alla luce sarebbe una versione rinnovata della democrazia occidentale o qualcos’altro. Pur non pretendendo di salire sull’Arca di Noè dei sopravvissuti, vorrei ricordare che la mia squadra ha raccontato la rivolta dei forconi in Sicilia e la sommossa di Nichelino in Piemonte ben prima che il Movimento divenisse così forte. Inoltre il 6 e il 7 dicembre porteremo con una certa emozione nei cinema Robinù, ovvero la descrizione spietata di un vero e proprio stato sociale criminale che a Napoli impiega nello spaccio della droga decine e decine di migliaia di persone. Una realtà sulla quale, nonostante i nostri precedenti lavori e i ripetuti appelli di Roberto Saviano che dedica a essa il suo ultimo libro, si preferisce chiudere gli occhi. La scuola pubblica continua a espellere vergognosamente, nell’indifferenza generale, ragazzini nell’età dell’obbligo scolastico, violando impunemente la legge e facendo in modo che le classi, ripulite dagli indisciplinati ribelli insofferenti alla didattica, guadagnino tranquillità ed efficienza. Le donne, che la mattina preparano come tutte le altre mamme con amore i loro bambini per andare all’asilo, vendono cocaina diciotto ore al giorno, operaie di una immensa fabbrica illegale, e finiscono in carcere, separandosi drammaticamente dai loro piccoli, per mille euro al mese o poco più; mentre la ricchezza prodotta finisce nel Pil, a beneficio di tutti noi "perbene" e contribuisce al buon andamento della società. Bambini di otto anni sfilano in una via centrale a Napoli, impugnando pistole vere, per fare un’altra "stesa", come chiamano le scorribande con gli scooteroni; e muoiono a decine ventenni, diciottenni, sedicenni, nella lotta senza fine per contendersi il territorio e le piazze di spaccio dopo che i vecchi boss sono andati in galera o si sono pentiti. Tutte le forze politiche girano la faccia dall’altra parte; e solo qualche uomo di Chiesa fa sentire la sua voce per rompere il silenzio. Il dibattito s’accende e l’azione repressiva s’intensi - fica quando per errore cade una vittima innocente. Poi si torna a parlare de "l’altra Napoli", delle meraviglie turistiche della città, che vengono usate come lapidi sui morti dimenticati e su una grande questione sociale lasciata nelle mani della criminalità organizzata. Eppure nelle storie della guerra delle "paranze dei bambini" non c’è soltanto la corsa all’oro, che ci racconta Gomorra, o il non volersi rassegnare a un destino di sotto-precariato pagato spiccioli. Un popolo giovane, il più giovane d’Italia, conduce la sua esistenza tra il quartiere e il carcere come fosse un unicum abitativo, sognando soldi facili, sesso, potere, come tutti i ragazzi di oggi. Per realizzarli non ha altro che coraggio e disprezzo della morte. Nelle serie televisive i caratteri dei personaggi tendono ad assomigliare a maschere a volte grottesche; i veri baby boss di Robinù, invece, sono altrettanto spietati e cinici ma, contemporaneamente, esprimono una forza sentimentale straordinaria, passione per la vita, amore infinito per la propria famiglia, voglia di far figli già a diciotto anni, gusto del rischio e dell’avventura. Tutte cose che la nostra società ha perduto da tempo. Nel centro storico di Napoli o a Caivano si diventa nonni all’età in cui nella società normale ancora si esita a concepire il primo figlio. E non certo perché si rompe il preservativo. Dopo che questa infinita campagna referendaria sarà finita e avrà vinto il Sì di Renzi ci si occuperà finalmente di questi bambini che sono stati fino a oggi "dimenticati" dal Partito democratico? Non ne ignoravano certo l’esistenza ma erano incapaci di concepire un piano di vero risanamento sociale che richiederebbe un’idea di come redistribuire la ricchezza e di chi e come debba pagare il prezzo di questa redistribuzione. Ma anche se vincesse il No non ci sarebbe ragione di essere ottimisti. La rivolta che corre nella Rete e travolge il vecchio ordine sociale, di cui Trump o Grillo o Salvini si fanno portavoce, è dominata dall’idea della tolleranza zero, da un’ansia di ordine e sicurezza che prova a tornare alla patria-nazione, qualche volta a una patria ancora più piccola, a chilometro zero, abitata da nostri simili a somiglianza dei social. Una comunità con pochi stranieri, "solo se servono e sono comunque indispensabili" (sicuramente per pulire le case e il culo dei vecchi costretti sulle sedie a rotelle), darebbe vita a una autarchia ecologica, come sognava in Austria il neonazista Haider, con meno scambi, spostamenti, viaggi e molto tempo passato sul proprio computer o nell’orto a produrre lattuga con fertilizzanti naturali. Un mondo talmente noioso da avere sempre bisogno di ricchi da spiare, di potenti corrotti da cacciare, di nemici da inseguire e giustiziare. Per il momento a colpi di clic. Far lavorare i baby boss non avrebbe alcun senso in una società in cui il lavoro sarebbe considerato una ideologia del passato. Solo piccole opere essenziali, senza nuvole, senza archistar, senza inutili ponti e inutili treni che corrono a inutile alta velocità, senza avventure spaziali e altre Olimpiadi. Così come stiamo potremmo star meglio, soltanto risparmiando e riducendo le spese inutili e le macchine blu e gli stipendi dei parlamentari. E se qualcuno non si accontentasse del salario di cittadinanza e si ostinasse a delinquere? In galera! Naturalmente. Ce lo vedete un simil Trump a occuparsi veramente degli abitanti di Quarto Oggiaro, di Secondigliano, di Tor Bella Monaca o dello Zen di Palermo, quelle periferie dove si urla "Prima gli italiani!"? Se si urlasse "Prima le periferie!" sarebbero disponibili quelli che, non essendo zingari, immigrati, clandestini, abitano negli altri quartieri e oggi applaudono entusiasti? Per Renzi e per i suoi avversari è più comodo parlare di tagli, risparmi, riduzione delle tasse e lotta alla corruzione che studiare il modo di indirizzare parte della ricchezza accumulata, senza necessariamente espropriarne i proprietari, verso quelle parti della società a cui è stata sottratta, usandola e investendola nell’interesse di tutti. Oggi a occuparsi delle grandi ingiustizie restano in maniera aberrante quelli dell’Isis e i Robinù, che li imitano a modo loro, sia pure rivolgendo la violenza prevalentemente contro se stessi. Gli arrabbiati si affidano ai miliardari evasori fiscali per scatenare l’Apocalisse. Ma se si spegnessero i giornali e le tv, gli intellettuali smettessero di pensare, e i sondaggisti di sondare, dopo la vittoria di Trump, il mondo sarebbe migliore, la democrazia sarebbe più forte e le periferie conterebbero di più? Non mi entusiasma dover scegliere tra questo sì e questo no al Referendum, come non mi entusiasmava la candidatura di Hillary. Ma, non so voi, io a New York sarei in strada a manifestare. E scusate se è inutile. Caserta: detenuto muore in carcere a 43 anni, disposta l’autopsia Cronache di Caserta, 18 novembre 2016 La vittima si chiamava Ivan Gentile. Era finito in manette nel 2008 per furto. Gli erano rimasti ancora due anni da scontare in carcere. Forse anche di meno, visto che il suo difensore, l’avvocato Antonello Fabrocile, proprio in questi giorni stava attendendo l’esito di un suo ricorso che era stato presentato per ottenere uno sconto di pena: se la richiesta fosse stata accolta avrebbe permesso a Ivan Gentile, di 43 anni, di uscire anticipatamente. Ma quel momento non arriverà mai. Il detenuto non riuscirà a sapere l’esito di quel ricorso perché ieri, per cause ancora in corso di accertamento, è improvvisamente morto. È stato colto da un malore e nessuno è riuscito a salvarlo: inutile l’immediato intervento dei sanitari in servizio nell’istituto penitenziario in cui era detenuto, il carcere di Eboli. Il suo cuore si è fermato ed ora bisognerà stabilire perché. Il magistrato di turno della procura della Repubblica di Salerno, subito informato dei fatti dall’amministrazione penitenziaria ebolitana, ha disposto il blocco della salma e l’effettuazione dell’autopsia. Solo dopo sarà possibile restituire il corpo del 43enne ai familiari, per la celebrazione dei funerali. Il magistrato vuole capire le ragioni che hanno causato la sua morte per escludere la responsabilità di terze persone: dalle prime indiscrezioni sembra che comunque l’uomo non sia rimasto coinvolto in episodi di violenza; sul suo corpo non sarebbero stati trovati segni in questo senso. Del resto il 43enne si era distinto fin da subito, quando tre anni fa fece il suo ingresso in carcere, per la buona condotta. Anche per questo l’avvocato Fabrocile aveva presentato la richiesta di uno sconto della pena ed era fiducioso che sarebbe stata anche accolta. Paola (Cs): quei suicidi in cella arrivano in Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 novembre 2016 Interrogazioni sulle morti di Youssef Mouhcine e di Maurilio Pio Morabito. Gli ultimi due suicidi nel carcere di Paola che avevano sollevato una serie di dubbi sono oggetto di una serie di interrogazioni parlamentari. Dopo la denuncia dell’attivista radicale Emilio Quintieri - riportata anche da Il Dubbio, il senatore Peppe De Cristofaro (Sinistra Italiana), vice presidente della Commissione affari esteri, membro della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani e della commissione bicamerale antimafia, ha presentato un’interrogazione a risposta scritta al ministro della Giustizia Andrea Orlando e a Paolo Gentiloni, ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. L’atto di sindacato ispettivo è stato sottoscritto anche da Loredana De Petris, presidente del gruppo misto e capogruppo di Sinistra Italiana a Palazzo Madama. I senatori, premesso quanto riferitogli dall’esponente radicale Emilio Quintieri circa le strane morti avvenute recentemente nella Casa Circondariale di Paola - una delle quali già oggetto di interrogazione al Ministro della Giustizia da parte dell’onorevole Enza Bruno Bossio, deputata del Partito Democratico - e il comportamento tenuto dalla direzione dell’istituto penitenziario, hanno chiesto di sapere se e di quali informazioni dispongano i ministri interrogati, ognuno per la parte di propria competenza, circa i fatti relativi al decesso di Youssef Mouhcine, il 31enne marocchino, deceduto nella notte tra il 23 ed il 24 ottobre a pochi giorni dalla sua scarcerazione nonché del decesso di Maurilio Pio Morabito, il 46enne calabrese, deceduto nella notte tra il 28 ed il 29 aprile scorso, sempre nell’imminenza del fine pena. Inoltre sono stati posti diversi quesiti a cui il governo dovrà rispondere. Ovvero quali sono le cause che hanno cagionato il decesso del detenuto ed in particolare che cosa sia emerso dagli accertamenti autoptici disposti dall’autorità giudiziaria competente; se risulta con quale modalità, nella notte tra il 23 ed il 24 ottobre 2016, giorno in cui è morto il detenuto Youssef Mouhcine, fosse garantita la sorveglianza all’interno dell’istituto e se al momento del decesso fosse presente il medico penitenziario; per quali motivi i familiari di Mouhcine non sono stati tempestivamente avvisati dell’avvenuto decesso da parte della Direzione dell’Istituto di Paola come prevede la normativa vigente in materia e se, con riferimento a tale omissione, il governo non ritenga opportuno adottare gli opportuni provvedimenti disciplinari nei confronti del direttore; per quali motivi la direzione dell’istituto ha provveduto, a cura e spese dell’amministrazione, alla sepoltura del detenuto straniero presso il cimitero di Paola, pur essendo a conoscenza che la famiglia voleva la salma per il funerale e se, con riferimento a tale abuso, non ritenga opportuno adottare gli opportuni provvedimenti disciplinari nei confronti del direttore. Inoltre, sempre nell’interrogazione, si chiede al governo per quali ragioni la direzione dell’istituto ha inevaso la richiesta del consolato generale del Regno del Marocco di Palermo e se, anche con riferimento a tale omissione, non ritenga opportuno adottare gli opportuni provvedimenti disciplinari nei confronti del direttore. Per ultimo, ma non per ordine di importanza, chiede al governo se nella casa circondariale di Paola, alla data odierna, vengano ancora utilizzate le "celle lisce" così come recentemente accertato da una visita effettuata da una delegazione di Radicali Italiani. Nella casa circondariale di Paola, secondo quanto scrivono i senatori di Sinistra Italiana De Cristofaro e De Petris nella loro interrogazione, alla data del 31 ottobre 2016, a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti, vi erano ristretti 218 detenuti (36 in esubero), 84 dei quali stranieri. Nell’istituto, come più volte denunciato dai Radicali Italiani all’esito di alcune visite effettuate, non vi sono mediatori culturali nonostante la rilevante presenza di stranieri. È stato precisato che la famiglia di Mouhcine, quale parte offesa, ha ritenuto di nominare un difensore di fiducia, avvocato Manuela Gasparri del Foro di Paola, affinché venga fatta piena luce sulla morte del proprio congiunto, non credendo alla versione del suicidio fornita dall’amministrazione penitenziaria. Altra dettagliata interrogazione ai ministri Orlando e Gentiloni è stata presentata dai senatori Francesco Molinari (Italia dei Valori), Ivana Simeoni (Misto), Serenella Fucksia (Misto) e Giuseppe Vacciano (Misto). Anche loro hanno chiesto di apprendere dal governo se i fatti riferiti corrispondano al vero. Inoltre, hanno chiesto - qualora non sia stato già fatto nell’immediatezza dei fatti -, di avviare una indagine interna al fine di chiarire l’esatta dinamica del decesso del detenuto, per appurare se nei confronti dello stesso siano state predisposte tutte le misure di sorveglianza in termini di custodia in carcere e tutela sanitaria e se vi siano responsabilità di tipo penale o disciplinare attribuibili al personale che aveva in cura e custodia il detenuto. Paola (Cs): il governo del Marocco chiede chiarezza sulla morte del detenuto magrebino quicosenza.it, 18 novembre 2016 Il ragazzo si sarebbe suicidato qualche giorno prima del termine della pena quando ormai aveva deciso di rientrare nel proprio paese di origine per sposarsi. "Il Governo Renzi è stato ufficialmente informato con un atto di sindacato ispettivo di quanto incredibilmente accaduto nel Carcere di Paola". Ad affermarlo è Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e capo della delegazione visitante gli Istituti Penitenziari della Calabria. Nella giornata di ieri, durante la seduta del Senato della Repubblica, l’onorevole Peppe De Cristofaro della Sinistra Italiana, membro della Commissione Straordinaria per la tutela dei Diritti Umani e della Commissione Bicamerale Antimafia, ha presentato un’interrogazione a risposta scritta ai Ministri della Giustizia Andrea Orlando e degli Affari Esteri Paolo Gentiloni sul decesso del detenuto avvenuto a Paola nelle scorse settimane. I Senatori, premesso quanto riferitogli dall’esponente radicale Quintieri circa le strane morti avvenute recentemente nella Casa Circondariale di Paola - una delle quali già oggetto di Interrogazione al Ministro della Giustizia da parte dell’onorevole Enza Bruno Bossio - ed il comportamento tenuto dalla Direzione dell’Istituto Penitenziario, hanno chiesto di sapere se e di quali informazioni dispongano i Ministri interrogati, ognuno per la parte di propria competenza, circa i fatti relativi al decesso di Youssef Mouhcine, il 31enne marocchino, deceduto nella notte tra il 23 ed il 24 ottobre a pochi giorni dalla sua scarcerazione nonché del decesso di Maurilio Pio Morabito, il 46enne calabrese, deceduto nella notte tra il 28 ed il 29 aprile scorso, sempre nell’imminenza del fine pena. Le irregolarità denunciate nel penitenziario di Paola - Inoltre sono stati posti i seguenti quesiti a cui il Governo dovrà rispondere: "quali siano le cause che hanno cagionato il decesso del detenuto ed in particolare che cosa sia emerso dagli accertamenti autoptici disposti dall’Autorità Giudiziaria competente; se risulti con quale modalità, nella notte tra il 23 ed il 24 ottobre 2016, giorno in cui è morto il detenuto Youssef Mouhcine, fosse garantita la sorveglianza all’interno dell’Istituto e se al momento del decesso fosse presente il Medico Penitenziario; per quali motivi i familiari di Mouhcine non siano stati tempestivamente avvisati dell’avvenuto decesso da parte della Direzione dell’Istituto di Paola come prevede la normativa vigente in materia e se, con riferimento a tale omissione, non ritenga opportuno adottare gli opportuni provvedimenti disciplinari nei confronti del Direttore; per quali motivi la Direzione dell’Istituto abbia provveduto, a cura e spese dell’Amministrazione, alla sepoltura del detenuto straniero presso il Cimitero di Paola, pur essendo a conoscenza che la famiglia voleva restituita la salma per il funerale e se, con riferimento a tale abuso, non ritenga opportuno adottare gli opportuni provvedimenti disciplinari nei confronti del Direttore; per quali ragioni la Direzione dell’Istituto non abbia evaso con la dovuta tempestività la richiesta del Consolato Generale del Regno del Marocco di Palermo e se, anche con riferimento a tale omissione, non ritenga opportuno adottare gli opportuni provvedimenti disciplinari nei confronti del Direttore; se nella Casa Circondariale di Paola, alla data odierna, vengano ancora utilizzate "celle lisce" così come recentemente accertato da una visita effettuata da una delegazione di Radicali Italiani". La denuncia dei familiari del detenuto marocchino deceduto - Nella Casa Circondariale di Paola, alla data del 31 ottobre 2016, a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti, vi erano ristretti 218 detenuti (36 in esubero), 84 dei quali stranieri. Nell’Istituto, come più volte denunciato dai Radicali Italiani all’esito di alcune visite effettuate, non vi sono mediatori culturali nonostante la rilevante presenza di stranieri. È stato precisato, altresì, che la famiglia di Mouhcine, quale parte offesa, ha ritenuto di nominare un difensore di fiducia, Manuela Gasparri del Foro di Paola, affinché venga fatta piena luce sulla morte del proprio congiunto, non credendo alla versione del suicidio fornita dall’Amministrazione Penitenziaria. Da inizio dell’anno sono 93 le persone detenute che sono decedute negli Istituti Penitenziari della Repubblica, 33 delle quali per suicidio. Altra dettagliata Interrogazione ai Ministri del Governo Renzi Orlando e Gentiloni è stata presentata dai Senatori Francesco Molinari (Italia dei Valori), Ivana Simeoni (Misto), Serenella Fucksia (Misto) e Giuseppe Vacciano (Misto). Entrambi hanno chiesto di conoscere dal Governo se e di quali fatti siano a conoscenza relativi a quanto accaduto nel Carcere di Paola e se i fatti riferiti corrispondano al vero. Inoltre, hanno chiesto, se non ritengano, indipendentemente dall’attività investigativa condotta dall’Autorità Giudiziaria avviare una indagine interna, al fine di chiarire l’esatta dinamica del decesso del detenuto, per appurare se nei confronti dello stesso siano state predisposte tutte le misure di sorveglianza in termini di custodia in carcere e tutela sanitaria e se vi siano responsabilità di tipo penale o disciplinare attribuibili al personale che aveva in cura e custodia il detenuto. Infine, il radicale Quintieri ha reso noto che, nei giorni scorsi, un funzionario del Ministero degli Affari Esteri del Regno del Marocco, ha contattato la famiglia Mouhcine alla quale, oltre a porgergli le condoglianze, ha garantito di essere intervenuto, anche per il tramite del proprio Consolato Generale di Palermo, presso il Governo Italiano per avere esaustive delucidazioni in ordine a quanto accaduto. Sulla questione oltre ai Radicali Italiani sono intervenuti l’Associazione Alone Cosenza Onlus, il Dipartimento Politiche dell’Immigrazione della Cgil di Cosenza, la Comunità Marocchina di Cosenza ed il Movimento Diritti Civili. Avellino: carcere di Bellizzi Irpino, terminata la protesta dei reclusi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 novembre 2016 Scongiurato l’intervento della forza fisica per sedare una rivolta nel carcere di Bellizzi di Avellino. Alcuni detenuti, dal pomeriggio di mercoledì per tutta la notte e fino alla mattinata di ieri hanno inscenato una protesta in segno di solidarietà nei confronti di un altro detenuto che era stato trasferito in una cella "liscia" dopo aver aggredito un agente. Quest’ultimo, insieme a un collega coinvolto nell’aggressione, ha riportato contusioni medicate in ospedale ad Avellino. Il detenuto che resta in cella di isolamento, è un 35enne napoletano che sta scontando una condanna per reati legati alla criminalità organizzata. Il direttore del carcere Paolo Pastena, insieme al comandante della Polizia penitenziaria, Attilio Napolitano, dopo una lunga trattativa è riuscito a convincere i detenuti a fermare la protesta. Fortunatamente si è scongiurato il peggio evitando l’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario, che prevede l’uso della forza da parte delle guardie penitenziarie in caso di grave emergenza. Sulla vicenda è intervenuto Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, che ha annunciato l’invio al ministro della Giustizia Andrea Orlando "una dettagliata nota sulle criticità delle carceri campane". Sottolinea sempre Capece che "la polizia penitenziaria della Campania merita attenzione e rispetto. Ogni giorno fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando suicidi e contendendo i numerosi atti di autolesionismo messi in atto dai detenuti". Gli fa da eco anche il segretario generale autonomo Uilpa, Angelo Urso: "Gli agenti della polizia penitenziaria con grande professionalità sono costretti ad operare in condizioni di scarsissima sicurezza e a costo dell’incolumità personale". La situazione del carcere di Avellino rimane critica. Già nel passato è stato al centro della cronaca per vari episodi di violenza. A maggio di quest’anno scoppiò una rissa tra detenuti. Attualmente ? secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Dap e aggiornati al 31 ottobre ? risultano 544 detenuti su una capienza massima di 500. Ma tra i posti disponibili, soprattutto nel padiglione vecchio, alcune celle risultano inagibili. La Casa Circondariale di Bellizzi Irpino, una struttura di vecchia edificazione. La struttura è formata da più sezioni, un settore maschile di detenuti comuni di media sicurezza, composto di quattro sezioni, una delle quali riservata ai detenuti in attesa di giudizio. Secondo Carlo Mele, il garante dei diritti dei detenuti della provincia di Avellino, quel carcere andrebbe chiuso: chi capita nel nuovo padiglione è fortunato, per quelli che finiscono nel vecchio è un inferno. Altra criticità è la presenza di due bambini di circa due anni, costretti a vivere nel disagio del padiglione femminile. Come se non bastasse le detenute alloggiano nel vecchio padiglione e soffrono l’assenza del magistrato di sorveglianza che, molte di loro, non vedono da tempo. Pisa: al carcere Don Bosco niente fondi, né spazi, né attività, per i detenuti solo la branda di Enzo Brogi* La Repubblica, 18 novembre 2016 Lucilla rulla sigarette con le gambe incrociate dello yoga. Una via l’altra, meccanicamente. Un veloce rullo della cartina col tabacco, precisi tocchi sul piccolo tavolo che le sta davanti, per campattarle sopra e sotto e poi sistemarle in ordine simmetrico in una sbilenca scatola di cartone che prima ospitava dei biscotti. È amara Lucilla con occhi chiari e luminosi ed un volto delicato, angelico. Mi dice di avere da poco superato i vent’anni e oltre al nome mi racconta anche della sua Livorno, del lungo tempo che non la vede e di quanto le manchi, soprattutto il mare. Da due giorni racconta che è sola nella stanza sufficientemente larga da poter ospitare altri tre letti. Nel mezzo il tavolo e gli sgabelli, uno per ogni letto. In un angolo il bagno, o meglio la tazza del cesso, no quella è singola, una per tutti gli ospiti della stanza ed in bella vista, perché la privacy non è cosa per questo albergo "sì, sì, tutto questo spazio solo per me e quando vado in bagno ora non mi vede nessuno!". Naturalmente non chiedo a Lucilla per quale motivi si trovi reclusa, ne quanto dovrà starci, sono domande che non si fanno. Si parla però delle condizioni pessime del carcere, del freddo che entra dalle pareti umide e dei termosifoni che ancora funzionano a singhiozzo, di acqua calda poi neppure a parlarne. Sono entrato al carcere di Pisa assieme alla giovane Consigliera regionale Alessandra Nardini ed a Raffaele Marras, il segretario regionale dei Giovani Democratici. Era un po’ di tempo che non tornavo alla casa circondariale Don Bosco e se possibile l’ho trovato in condizioni ancora peggiori. Alcune sezioni sono aperte solamente nelle ore d’aria e poi le celle restano chiuse per l’intera giornata. E così giovani o anziani, italiani o extraeuropei, cattolici o mussulmani tutti insieme inattivi e abbandonati. Unico spazio esclusivo la propria branda dove alla fine vi trascorrono l’intera giornata, nascosti dalle coperte che permettono solamente ad occhi spenti e fissi di non perdere nulla di quello che propone la piccola televisione sempre accesa. Alle pareti donne nude, campioni dello sport, papi (ancora resiste Wojtyla) e Padre Pio. Neppure il mitico campo di erba sintetica, inaugurato una decina di anni fa, è praticamente più agibile. Eppure non c’è altro spazio di quello per gli oltre 200 detenuti. Ancora più del 40% quelli che attendono di essere giudicati, poca attività nelle ore d’aria ed ancor meno nelle altre ore di reclusione. Anche nelle sezioni ove vi sono spazi collettivi e le celle restano aperte fino al tramonto spesso non accade niente. Mancano i fondi per fare corsi, quasi nessuno ha la possibilità di studiare o fare qualche attività che gli permetterebbe di guadagnare qualche euro, di trascorrere operosamente il tempo e soprattutto di imparare qualcosa. Una condizione inaccettabile per un Paese civile come il nostro. Certo non deve mancare la pena, accertate le responsabilità, ma con essa si devono avviare percorsi di rieducazione, di pene alternative, di lavoro, un mestiere da imparare. Solo così conclusa la detenzione vi saranno possibilità di riscatto, di inserimento. In altro modo ancora terrore e reati e di nuovo galera, un percorso senza fine, fino a perderli per sempre. Lucilla continua a rullare sigarette dietro le sbarre. Le cartine bianche si arrotolano sul tabacco bruciando nelle lunghe ore del giorno salute, sogni, errori e fallimenti. *Consigliere per i Diritti del Presidente della Regione Teramo: i detenuti e la notte del terremoto "tremava tutto, noi come topi in trappola" di Lorenzo Colantonio Il Centro, 18 novembre 2016 Reportage dal carcere del cratere: "Quella notte del sisma chiusi in una cella". Se sei in carcere dove scappi? Come ti salvi se la scossa, di magnitudo 6.5, fa ballare muri e pavimenti e la porta blindata è chiusa? "Vivere l’esperienza del terremoto è un qualcosa di terrificante. Ma per chi, come noi, è in carcere è quasi agghiacciante", scrive un detenuto di Castrogno. "Si ha un senso di impotenza. Il non poter scappare da nessuna parte, a causa dei cancelli chiusi, mi ha fatto capire cosa si intende quando si dice "fare la morte del topo". Il mio unico pensiero era rivolto a chi è fuori, fortuna, che lo stesso giorno ho fatto colloquio con i miei famigliari. Speriamo sia finito perché non si può vivere questa angoscia perenne". Lettera choc. Davide Rosci sta scontando nel carcere di Teramo la sua pena. Con poche righe ci porta nel carcere del cratere. Che cosa è accaduto quel maledetto 24 agosto in quelle stanze dove, tra chi è dentro e il resto del mondo, ci sono porte blindate che tolgono ogni speranza di sopravvivenza? La scossa, che ha raso al suolo Amatrice e gli altri borghi, ha ferito anche l’Abruzzo, ha messo in ginocchio il Teramano. E poi il 30 ottobre, anche Teramo si è risvegliata nel cratere e nel dramma. Quanto ci vuole per una guardia per spalancare il blindo, e aprire tutte le celle? Buon viaggio. "Con questi pensieri sono entrata nel carcere di Teramo. C’ero già stata, conosco gli spazi, i lunghi corridoi, i quattro piani, le scale strette, la pesantezza dei blindi e i cancelli che chiudono i padiglioni", dice Maria Amato, deputato vastese del Partito democratico. Il suo racconto ci aiuta a capire. Diventa una voce di dentro, tra quei muri e quelle sbarre che resistono nonostante tutto. Siamo nel cratere sismico dove la vita di trecento detenuti e duecento agenti e personale sanitario è legata a una questione di secondi. Il tempo è un fattore determinante. La parlamentare entra nel Castrogno alle 10,30 di lunedì. Porte spalancate. "Incontro il direttore del carcere, Stefano Liberatore", racconta Maria Amato, "ci siamo conosciuti nel percorso per la realizzazione dell’area a misura di donna e bambino, fatta con la collaborazione di associazioni di volontariato, con arredi colorati e murales che raccontano La gabbianella e il gatto. Ci tiene all’umanizzazione e alla centralità della persona. Mi raccontano la procedura di evacuazione messa in atto per il terremoto: vengono aperti i blindi e, in successione, le stanze per raggiungere il passeggio. Passato il pericolo i detenuti vengono fatti risalire nella loro sezione". Ma la prima scossa ha preso tutti di sorpresa e la paura è corsa di stanza in stanza. Un mazzo di chiavi e il sangue freddo degli agenti separano la vita dalla morte a Castrogno. Paura al piano. Dal 24 agosto le stanze del carcere di Teramo restano generalmente aperte, dal 30 sono sempre aperte, ventiquattr’ore su ventiquattro. Maria Amato continua: "Mi accompagnano ai padiglioni dei piani più alti, prima il quarto: si è ballato al quarto piano". Che cosa è accaduto alle 7,40 del 30 ottobre nel carcere del cratere? Il primo a parlare è un giovane rom: "Ho avuto paura, stavo col carrello del vitto, facevo lo spiritoso: "vitto gratis, per tutti!". All’improvviso mi sono trovato da un’altra parte. Signò, non ci ho capito niente. Stavolta le porte stavano aperte. Ho guardato alla finestra e ho visto che Teramo non era caduta. Perché se cade qua, significa che a Teramo non ci resta niente". Un attimo di silenzio in quella stanza del quarto piano. Poi il detenuto riprende: "Ho pensato alla mia famiglia, mi hanno fatto telefonare, ci hanno fatto telefonare, ma a casa non mi hanno risposto. Pure loro erano scappati fuori". Il suo compagno di stanza, rom anche lui, racconta la paura: ha dormito fuori anche la seconda notte, con un’altra decina di persone a cui è stato consentito di restare a dormire al passeggio. Notti insonni. "Incontro un artista di Martinsicuro, capello lungo, curato, parla rispettando il famigerato congiuntivo", riprende la parlamentare vastese, "prima di dirmi del terremoto mi racconta di aver partecipato al Giubileo dei carcerati, sminuisce la paura e ci tiene a dire - e faccio in modo di sentirlo solo io - che tutti sono stati assistiti, rassicurati, e che il direttore e la sorveglianza hanno passato con loro tutta la notte. Qualche minuto prima il direttore aveva detto la stessa cosa raccontandola con un’immagine: "Eravamo lì seduti in cerchio, come quegli anziani seduti sull’uscio"...". In fondo al corridoio spunta il volto di un romeno, la sua stanza ha un che di ricercato: ha ricoperto con precisione le testate del letto con un motivo leopardato, passa veloce sulla paura delle scosse anche se ci tiene a dire che in Romania il terremoto non c’è, vuole andare in un carcere dove possa lavorare. Qui il lavoro serve a vivere o meglio a sopravvivere. Il viaggio nel carcere continua. Abbi cura di te. "Rincontro un giovane che avevo conosciuto nel corso di una visita al carcere di Viterbo, è uno impegnato in politica, mi chiama per nome, indossa una maglia rossa con sopra scritto CCCP, mi nasce spontaneo un sorriso, un abbraccio, gli chiedo della famiglia, ricordo che quando ci siamo incontrati il padre stava male, mi dice che nel frattempo è morto. Ha uno sguardo vivace, la barba curata, nella sua stanza, il piatto del pranzo "oggi coniglio", due numeri recenti de Il Manifesto, sulle pareti immagini che mi aspetto, il Che e Marco Pannella, e che non mi aspetto, Padre Pio, una battuta sul referendum, storce il naso di fronte alla mia intenzione di voto, ci avrei giurato. La solita raccomandazione: "non fare guai e abbi cura di te". Sul terremoto anche lui mi dice che la prima notte c’è voluto tempo per aprire le stanze, per quanto hanno voluto correre". Ma non è stata solo dei detenuti la percezione del tempo. Oltre il blindo. "Era notte e sono tante porte", è uno del personale di custodia a dirlo, "basterebbe un pulsante centralizzato per aprire le porte contemporaneamente in caso di emergenza". Giusta riflessione che racconta quanta angoscia c’è nel cuore di chi sa di essere legato a doppio filo a chi sta dentro. A guardarlo da fuori a questo bastione su una collina sembra il castello di Dracula, dove l’isolamento si accentua per un servizio di trasporto urbano da potenziare e tratti di strada sconnessi. Eppure il contatto con le famiglie fa parte del percorso di recupero sociale e per quelli con disturbi psichici, è parte del percorso di cura. Dopo il terremoto un’ala del quarto piano, quella dove si è ballato di più, è stata svuotata e quaranta detenuti trasferiti. Ma la paura per una nuova scossa non la cancelli. Non ci sono crepe. È un Istituto complesso quello di Castrogno, per la eterogeneità degli ospiti, donne, alta sicurezza, protetti e delinquenza comune, tra questi, psichiatrici e tossici che mal si adattano nel sistema carcerario attuale e per cui la parte di medicalizzazione dovrebbe essere rinforzata. La strada che da Colleparco e l’università di Teramo sale fino al carcere sembra, in alcuni tratti, una mulattiera. Lì in cima, il Castrogno sembra la fortezza Bastiani, avvolta dal silenzio e da una solitudine sconfortante. Le verifiche di stabilità e sicurezza sono state fatte: non ci sono crepe, nessun problema ma il terremoto fa paura a tutti. Sono le 13 quando Maria Amato spunta all’uscita della fortezza Castrogno: "A chi oggi mi ha detto "vai al carcere, con tutti i problemi che ci sono?" rispondo che qui, nel cratere sismico, in un posto che continua a tremare, ci sono quasi 200 tra guardie, personale sanitario, educatori e 285 detenuti. Quasi 500 persone. Restiamo umani". Milano: la visita del Papa a marzo, tra periferia e carcere di Andrea Tornielli La Stampa, 18 novembre 2016 Il programma della visita nel capoluogo lombardo prevista per sabato 25 marzo: dopo una tappa dalle famiglie di un quartiere disagiato, l’incontro con i preti e suore in Duomo, il pranzo a San Vittore e la messa nel parco di Monza. Ultimo appuntamento con i ragazzi della cresima a San Siro. Una visita tra la periferia di Milano Est e il carcere di San Vittore, l’incontro con preti e religiose e l’Angelus con i milanesi in piazza Duomo, la grande messa per i fedeli della Lombardia nel parco di Monza e infine, prima di ripartire per Roma, l’appuntamento con i ragazzi della cresima allo stadio di San Siro. È un programma fittissimo quello di Papa Francesco a Milano, il prossimo 25 marzo. I dettagli sono stati resi noti giovedì 17 novembre dal cardinale Angelo Scola nel corso di una conferenza stampa. "Voglio esprimere il grazie profondo al Papa per questa scelta - ha detto l’arcivescovo - erano tante le città europee che l’avrebbero desiderata. È per noi un segno di grande affetto e benevolenza e vogliamo rispondere nel miglior modo di cui siamo capaci. La visita è un dono anche per Milano come metropoli e per tutte le terre ambrosiane". Scola ha spiegato come il modo di testimoniare la fede del Papa coinvolga anche i lontani e gli uomini di altre religioni. "Un’apertura a 360 gradi - ha aggiunto - un magistero che passa molto attraverso i gesti e le immagini, non soltanto attraverso le parole, come invece siamo abituati noi europei eredi di visioni intellettualistiche e dottrinalistiche". Scola ha quindi sottolineato, citando un episodio evangelico, che come Gesù "parla con autorevolezza, non come gli scribi. Se c’è un Papa coinvolto con quello che dice è questo qui". Dopo essere arrivato alle 8 di mattina all’aeroporto di Linate, Papa Francesco mezz’ora dopo giungerà in una vicina zona di periferia, quella delle "Case Bianche", un complesso edilizio costruito negli anni Settanta e oggi piuttosto fatiscente, che sorge là dove prima c’erano le "Case Minime" realizzate alla metà degli anni Trenta per i meno abbienti. Nelle "Case Minime", quasi tutti monolocali dov’erano ospitate 500 famiglie, abitavano persone colpite dalla disoccupazione dilagante seguita al crollo di Wall Street del 1929 e anche qualche oppositore del regime fascista messo in qualche modo al "confino" in quella che era l’estrema periferia cittadina. Oggi diverse abitazioni nel complesso delle "Case Bianche" sono occupate, c’è un campo nomadi nelle vicinanze e una significativa presenza di immigrati musulmani. Francesco entrerà nel quartiere e visiterà due o tre famiglie nei rispettivi appartamenti. "Che bella sorpresa! Per la nostra comunità è una grande gioia poter accogliere Papa Francesco nei suoi primi passi a Milano - commenta don Augusto Bonora, parroco di San Galdino, la chiesa che sorge proprio di fronte alle "Case Bianche" - Due anni fa abbiamo avuto la visita del nostro arcivescovo Angelo Scola, che ha visitato alcune famiglie intrattenendosi con loro. In più occasioni ha ricordato quegli incontri, le situazioni di disagio e di bisogno, come quelle degli anziani bloccati ai piani alti con ascensori che non funzionano, e la catena di solidarietà grazie alla quale vengono aiutati. Gli siamo grati per questa vicinanza e ora per il regalo inatteso dell’incontro con il Papa". A lato delle "Case Bianche" si trova una piccola edicola con una Madonnina di Lourdes, segno di continuità con le vecchie "Case Minime" perché era precedentemente custodita in un cortile delle abitazioni popolari degli anni Trenta. Qui durante il mese di maggio i parrocchiani di San Galdino si riuniscono per recitare il Rosario. Davanti alla Madonnina saluterà alcuni residenti, rappresentanti delle comunità rom e musulmana. Da lì il Pontefice si sposterà in auto verso il Duomo, dove è prevista una visita allo "Scurolo" di San Carlo e a seguire, alle 10, l’incontro con i sacerdoti, i consacrati e le consacrate e dove risponderà ad alcune domande formulate dai preti. Al termine dell’incontro Francesco uscirà sul sagrato del Duomo, per recitare la preghiera dell’Angelus e benedire i milanesi presenti in piazza. In piazza Duomo verranno consegnate le chiavi dei primi di 50 appartamenti che la diocesi e la Caritas hanno rilevato e ristrutturato per essere affittati "a prezzi iper-modici -ha detto Scola - a famiglie in difficoltà". Quindi, attorno alle 11.30, il trasferimento al carcere di San Vittore. Qui il Papa, accompagnato soltanto dal cardinale Scola incontrerà e saluterà personalmente alcuni detenuti, ed entrerà anche in alcune celle. Quindi si fermerà a pranzo con un centinaio di detenuti. "La visita sarà molto articolata e durerà quasi due ore, non incontrerà meno di quattrocento detenuti - ha spiegato Scola - entrerà in celle particolarmente "delicate"". Nel primo pomeriggio è previsto il trasferimento a Monza, dove è stato stabilito di celebrare la messa per i fedeli di Milano e della Lombardia. Nel parco, dove si sono già svolti concerti e grandi manifestazioni, è atteso un milione di persone. La celebrazione è prevista per le 15, un orario che permetterà un agevole afflusso nell’area durante la mattinata e un altrettanto agevole deflusso nel tardo pomeriggio. Infine, Francesco tornerà in città, per raggiungere lo stadio di San Siro, luogo tradizionalmente deputato all’incontro annuale dell’arcivescovo con i ragazzi che quell’anno hanno ricevuto o stanno per ricevere la cresima. Bergoglio risponderà alle domande di un ragazzo, di un catechista e di un genitore. Da lì ripartirà in auto per Linate. Il decollo è previsto per le 18.30. Il Papa rimarrà dunque in città per dieci ore e mezza. Chieti: vetrine addobbate con lavori natalizi dei detenuti della Casa circondariale di Francesco Rapino cityrumors.it, 18 novembre 2016 Stoffe in disuso, bottoni e cartoncini utilizzati per realizzare colorati addobbi natalizi "fai da te" che verranno esposti, nelle prossime settimane, nelle vetrine di venti attività commerciali della città. I protagonisti delle curiose creazioni non saranno, però, artigiani di mestiere bensì i detenuti della Casa Circondariale di Chieti che hanno partecipato al lodevole progetto: "Natale 2016: Vetrina dal carcere", lanciato da Confcommercio Chieti in collaborazione con la Casa Circondariale teatina diretta da Giuseppina Ruggero. "Questo progetto ha una valenza sociale - ha sottolineato la presidente della Camera di Commercio Chieti, Marisa Tiberio - vogliamo che si crei una sinergia tra il mondo del carcere, che vogliamo aiutare, con il mondo nostro. Quindi quello del carcere lo consideriamo come un mondo parallelo che però esiste. I detenuti partecipano a questo progetto con una caparbietà che alla fine è come una voglia di riscatto nei confronti della società. È un po’ come noi commercianti che vediamo questo momento di crisi, anche noi siamo in cerca di riscatto, non nei confronti della società, ma a livello economico., quindi c’è una caparbietà che ci accomuna. C’è stata la disponibilità della direttrice e della dottoressa Pelatti. Confcommercio ha potuto realizzare questa iniziativa grazie alla donazione di materiale di riuso che qualche nostro associato ha fatto". Una ventina di detenuti, nel dettaglio, ha preso parte ad un laboratorio formativo, che terminerà a fine mese, tenuto dalla professoressa Assunta Pelatti coadiuvata, per l’occasione, dalla sociologa Micaela Buffignani, consigliera di Confcommercio nonché delegata a seguire da vicino l’evolversi dell’interessante progetto promosso in accordo con la Casa Circondariale teatina. L’istituto penitenziario, di contro, ha coordinato i lavori del laboratorio formativo attraverso l’impegno profuso da Stefania Basilisco, Capo Area Educativa della Casa Circondariale e da Alessandra Costantini, Commissario Capo, Comandante della polizia penitenziaria. "Questa iniziativa - ha spiegato Stefania Basilico, capo Area Educativa della Casa Circondariale - nasce innanzitutto perché la Confcommercio, nella persona della presidente Marisa Tiberio, ci ha chiesto di lavorare insieme a questo progetto che prevede la realizzazione di addobbi natalizi che vanno davanti alle vetrine dei negozi della città di Chieti. Per cui l’iniziativa è stata abbastanza allettante perché dà la possibilità di realizzare un qualcosa di concreto, non solo perché i detenuti hanno utilizzato il tempo della pena in maniera costruttiva, ma anche perché la cosa dà la possibilità di ristabilire un patto di cittadinanza in termini positivi attraverso un oggetto, come se ricominciasse un rapporto di civiltà. In questo caso il progetto è destinato ai detenuti della sezione maschile, le donne hanno contribuito attraverso il laboratorio di cucito che ha permesso, attraverso l’integrazione di questi due progetti, contribuiscano agli oggetti che andranno consegnati alla Confcommercio". Il progetto "Natale 2016: Vetrina dal carcere" si prefigge di puntare una lente d’ingrandimento sul mondo delle carceri ricordando a tutti che esiste una realtà parallela alla nostra, un altro cuore che batte in città, con i detenuti che rappresentano una risorsa per la comunità in vista di un Natale finalmente di condivisione. La Direzione della Casa Circondariale di Chieti, da parte sua, ha accolto con entusiasmo il progetto perché esso rappresenta la creazione di un "legame" tra il carcere e la città, costruito attraverso gli addobbi natalizi che saranno esposti nei negozi cittadini durante un periodo particolarmente significativo nella vita della maggior parte delle persone. "Sono rimasta colpita non tanto dall’interesse della città, ma mi fa piacere che i detenuti abbiano risposto molto positivamente al progetto - ha detto Alessandra Costantini, commissario capo della Polizia Penitenziaria - che per noi rappresenta tantissimo, rappresenta un braccio che la società esterna allunga verso il carcere, verso la condizione di coloro che hanno infranto delle regole e che in qualche modo si devono rimettere in gioco e devono prepararsi per la riuscita. Da parte dei detenuti c’è stata tanta emozione e tanto coinvolgimento, hanno lavorato tanto anche al di la degli orari che sono previsti. Sono molto colpiti ed entusiasti di questa iniziativa che per loro ha un significato molto importante che è quello di ricominciare in modo diverso". Reggio Emilia: i detenuti ripuliscono i sentieri dell’Appennino di Mattia Caiulo Dire, 18 novembre 2016 Un futuro che fa meno paura per tre giovani detenuti nel carcere di Reggio Emilia, che finiranno di scontare la pena tra circa un anno. Una volta liberi avranno infatti in tasca un attestato professionale di "operatore del verde" per provare a reinserirsi nel mercato del lavoro e nella società. A rilasciarlo la Fondazione Enaip, nell’ambito di un progetto che si concluderà il prossimo 5 dicembre, realizzato insieme all’istituto penitenziario reggiano, il Comune di Castelnovo Monti e la cooperativa "I Briganti di Cerreto", con il cofinanziamento di circa 12.000 euro del Fondo Sociale Europeo e della Regione. In particolare i tre detenuti, un rumeno, un senegalese e un tunisino, sono stati impiegati dopo un’apposita formazione nella pulizia dei sentieri di montagna del Comune di Castelnovo Monti, ripristinandone in questo modo l’agibilità e l’attrattività turistica, dietro un riconoscimento di 450 euro mensili. "Il progetto, commenta il direttore del carcere Paolo Madonna- si è sviluppato attraverso un percorso dove alle collaborazioni per semplici prestazioni d’opera: si è aggiunta la formazione, che è davvero un aspetto fondamentale per insegnare a queste persone le regole del mondo del lavoro e acquisire delle competenze liberamente spendibili quando avranno scontato la pena". Madonna sottolinea inoltre come in totale siano 35 i detenuti oggi coinvolti in progetti che riguardano attività lavorative esterne al penitenziario, alcuni nell’ambito di convenzioni in corso con i Comuni di Reggio Emilia e di Albinea, e con Acer. Tutta l’attività esterna è stata sostenuta poi dall’Apt Emilia-Romagna per dare seguito, come spiega la presidente dell’ente regionale per il turismo Liviana Zanetti, "al recente protocollo di intesa firmato tra il ministro dell’ambiente Galletti ed il ministro della giustizia Orlando per individuare azioni specifiche idonee a favorire la costruzione di una identità professionale e consentire l’occupazione dei detenuti, con particolare riguardo al territorio del sistema nazionale delle aree protette". La Regione, prosegue Zanetti, "ha voluto dare anche seguito ai progetti sulla valorizzazione del sistema dei sentieri italiani che in Emilia Romagna sono un grande patrimonio turistico, per il quale abbiamo cominciato a guardarci intorno per trovare partner a cui affidarne la cura. Qui si è concretizzata una collaborazione con un compagno di viaggio importante, l’istituto penitenziario, che ha dato un ulteriore valore al progetto". Questo progetto "ha rappresentato una esperienza molto significativa - affermano gli assessori castelnovesi Chiara Borghi e Giorgio Severi - vissuto in modo positivo anche dai residenti del paese. È stata certamente un’esperienza molto positiva e speriamo si possa ripetere". Quello condotto a Castelnovo Monti, concludono Alessandro Sacchi e Massimo Guarino di Enaip "è stato un progetto pilota, realizzato per la prima volta nella nostra regione. I risultati sono stati di assoluto interesse, e crediamo sia una esperienza ripetibile ed esportabile anche in altri contesti". Significativa infine la testimonianza di uno dei tre detenuti protagonisti dell’iniziativa: "Avevo un grande desiderio di una occasione di ricominciare - ha detto - ma di certo non mi sarei mai aspettato di trovare questa occasione proprio in carcere". Civitavecchia (Rm): un corso per diventare volontari penitenziari con la Chiesa Battista trcgiornale.it, 18 novembre 2016 Un corso per la formazione di volontari penitenziari e per sensibilizzare la cittadinanza del comprensorio sulle problematiche delle due carceri cittadine. È il progetto messo in piedi dalla Chiesa Battista di Civitavecchia, che prevede diverse attività ed iniziative, tra le quali un giornalino, un laboratorio di scrittura creativa, un corso di disegno, un corso di hobbistica e di taglio e cucito, un coro Gospel, un corso di pittura e incontri per l’assistenza spirituale ai detenuti. "Una volta venuta a conoscenza di un fatto accaduto ad un detenuto nel carcere di Sollicciano, a Firenze, dove il pastore Massimo Aprile e alcune persone della Chiesa Battista di Firenze avevano iniziato ad avere colloqui con i detenuti. Palmiro aveva tentato quattro volte il suicidio, si era dimagrito di oltre 30 kg arrivando a pesare circa 50 kg pur essendo alto oltre 1,80 metri. Quest’uomo, dopo un primo approccio fortemente scettico, ha sperimentato la fede che lo ha aiutato a liberarsi dal vicolo cieco in cui si trovava. Proprio per sensibilizzare la cittadinanza del nostro comprensorio, emotivamente distante dalla realtà delle nostre due carceri, la Chiesa Battista ha organizzato un corso per la formazione di Volontari Penitenziari che ha avuto per docenti le figure di maggior rilievo: i Direttori, i Comandanti, le coordinatrici degli Educatori, un Cappellano, il Dg della Asl, una suora oggi impegnata nelle favelas, un pastore battista, una psicologa in servizio presso il carcere, un avvocato, un’esperta di Giustizia Riparativa. Questa premessa per informare che oggi diverse attività sono iniziate e altre si stanno sviluppando: un giornalino, un laboratorio di scrittura creativa, un corso di disegno, un corso di hobbistica e di taglio e cucito, un coro Gospel, un corso di pittura, incontri per l’assistenza spirituale ai detenuti. L’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia, con i fondi 8x1000, ha finanziato i due progetti: "Vedere per essere liberi di guardare", acquisto di occhiali per detenuti indigenti in collaborazione con la Asl Roma 4 e l’Ottica Di Felice Fabio. Uno dei primi sintomi derivanti dalla reclusione, è la diminuzione della vista a causa dell’illuminazione artificiale e della limitazione allo sguardo che, spaziando entro pochi metri, riduce il campo visivo. Spesso i detenuti sono poverissimi e non possono acquistare occhiali da vista, anche se gli vengono prescritti. "Sapienza antica - Arte Contemporanea" con la partecipazione del maestro Marcello Silvestri, pittore e scultore di fama internazionale. È un corso di pittura per favorire un processo di crescita individuale e collettiva e migliorare la qualità della vita dei detenuti. Attraverso il linguaggio della pittura, mira a far emergere l’elemento spirituale che convive con il corpo di ogni persona al di là dell’appartenenza o meno a un credo religioso. Il risultato consisterà nella creazione di un murales realizzato collettivamente, che rimarrà patrimonio del carcere. Inoltre la Chiesa Battista è partner del progetto "carcere e fedi: un dialogo interreligioso è possibile?" che l’Ucebi ha approvato alla rivista "Confronti", a carattere nazionale. Nelle carceri convivono universi esistenziali diversi e distanti che, se non si conoscono, generano complessità, dimensioni conflittuali, violenza potenziale". Napoli: dal carcere minorile al teatro palcoscenico della legalità Il Mattino, 18 novembre 2016 Giovani dietro le sbarre, le loro necessità, i loro sogni. La consapevolezza di aver commesso un errore e di dover pagare. Visto nel corso dell’ultima edizione del Napoli Teatro Festival, toma in città (Aspettando il tempo che passa - e mentre passa nuje ce facimme viec-chie", spettacolo che è parte integrante del progetto "Palcoscenico della legalità", ideato da Giulia Minoli in programma al cinema La Perla di Agnano questa mattina alle 10.30 per gli studenti e stasera alle 20.30. Il progetto, nato nel 2015 con l’obiettivo di coinvolgere i detenuti dei carceri minorili in un laboratorio di formazione sui mestieri del teatro, dalla scenotecnica alla scrittura drammaturgica, fino all’allestimento suoni e luci, si propone di aiutare i ragazzi a prepararsi al dopo. Insomma, non solo inteso come recitazione, ma la proposta concreta di imparare un lavoro. Emblematica la storia di Daniele, detenuto nel penitenziario di Airola che non solo ha lavorato nello staff del Teatro Festival ma ora è tra gli addetti alla produzione di questa edizione di "Aspettando il tempo che passa". La costruzione drammaturgica - condensata nel laboratorio guidato da Emanuela Giordano - è il risultato del "flusso di coscienza" dei ragazzi che hanno partecipato attivamente alla realizzazione dello spettacolo. In scena gli attori Giuseppe Gaudino, Valentina Minzoni, Adriano Pantaleo e Salvatore Prestino raccontano il tempo che in carcere passa diversamente, sospeso tra incertezze sul futuro e percezione di un presente che resta in attesa di essere vissuto pienamente, liberamente. La realtà è immaginata come un’altalena, che oscilla tra umori e desideri, confusioni e certezze. La speranza è rappresentata da una fata turchina, accompagnata da un grillo parlante. "Il nostro obiettivo", dice la Minoli, "è quello di costruire una collaborazione programmatica tra teatro Nest e i laboratori di Vigliena del teatro di San Darlo". "La prima meta", la squadra di rugby del carcere di Bologna debutta al 57° Festival dei Popoli rbcasting.com, 18 novembre 2016 "La prima meta", il film lungometraggio su Giallo Dozza, la squadra di rugby della Casa Circondariale Dozza di Bologna debutta al 57° Festival dei Popoli giovedì 1° dicembre (ore 17.15). In sala saranno presenti l’autrice Enza Negroni, la produttrice Giovanna Canè, l’allenatore e alcuni giocatori ed ex giocatori, ora in libertà, del Giallo Dozza. Protagonista del film documentario la squadra Giallo Dozza formata da 40 detenuti di nazionalità diverse, con pene da 4 anni all’ergastolo, senza precedenti esperienze rugbistiche. La squadra è iscritta al campionato ufficiale F.I.R. di serie C2 sotto la guida del tenace coach Max Zancuoghi. Con l’arrivo di tre giovani detenuti, il film segue le vicende dei Giallo Dozza nel corso del suo primo campionato, giocato forzatamente sempre in casa. Tra allenamenti estenuanti e i ritmi lenti della quotidianità in cella, il film racconta il difficile cammino dei detenuti per raggiungere la meta non solo in campo ma anche nella vita con una ritrovata dignità sociale: un sofferto inno allo sport, alla condizione umana, in tutte le sue complesse latitudini. Giallo Dozza - chiamata come il colore del cartellino dell’espulsione temporanea di dieci minuti previsto nel rugby - nasce dal progetto educativo "Tornare in Campo", coordinato da tecnici e allenatori del Rugby Bologna 1928. Il progetto è finalizzato all’insegnamento del rugby all’interno del carcere della Dozza di Bologna, e al recupero fisico, sociale ed educativo di detenuti. Due le motivazioni che hanno spinto Enza Negroni a girare La prima meta. Da un lato approfondire il processo di inclusione attraverso il rugby di detenuti di diverse nazionalità, con la formazione di un tessuto sociale multietnico, come solo il carcere riesce a rappresentare. Dall’altro, l’utilizzo della forma documentaristica che permette di raccontare l’esperienza della vita carceraria, senza mediazioni, raccontando il tentativo di emergere da un forte disagio. Al secondo lungometraggio dopo il fortunato "Jack frusciante è uscito dal gruppo" con gli allora esordienti Stefano Accorsi e Violante Placido, Enza Negroni in questi anni ha girato numerosi mediometraggi di genere documentario, passati per importanti festival e per le principali reti televisive italiane. Tra questi, "Viaggio intorno a Thelonius Monk", con Stefano Benni per Feltrinelli; "Le acque dell’anima" con Bjorn Larsson e "Istanbul" con Nedim Gursel per Rai Educational; "Lo chiamavamo Vicky", dedicato a Pier Vittorio Tondelli, presentato in concorso internazionale al Biografilm Festival; e per Rai 150 anni, due documentari storici, "Letture dal Risorgimento" e "Visioni d’Italia". Sul set de "La prima meta" ha lavorato una troupe molto affiatata. Accanto alla regista, la produttrice Giovanna Canè con alle spalle una lunga carriera professionale in Italia e all’estero (tra gli ultimi lavori coordinatrice per "Ispettore Coliandro", "Romanzo Criminale" e "Quo Vadis Baby"), e il direttore della fotografia Roberto Cimatti (a.i.c.) da anni ai più alti livelli della fotografia cinematografica, con registi quali Amir Naderi ("Monte"), Giorgio Diritti ("Il vento fa il suo giro", "L’uomo che verrà", "Un giorno devi andare"), Giuseppe Piccioni ("Il rosso e il blu") e molti altri. "La prima meta" è prodotto da Giovanna Canè per Oltre il Ponte e Enza Negroni per Edenrock in collaborazione con Regione Emilia Romagna e realizzato con il contributo di I.B.C. Movie, Unipol Banca, Illumia; con il supporto tecnico e logistico di Associazione Giallo Dozza, Bologna Rugby 1928, Ministero della Giustizia, Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria Emilia Romagna, Casa Circondariale Dozza di Bologna. Per maggiori informazioni: www.laprimameta.it. Le confessioni di un detenuto per omicidio: la noia quotidiana tra manette, violenza e libri di Elisabetta Pagani La Stampa, 18 novembre 2016 Nessuno sa chi sia Danner Darcleight. Si confonde fra oltre due milioni di americani, la più numerosa popolazione carceraria del mondo. Nella sua storia, che firma con uno pseudonimo evocativo, tutti i nomi sono stati omessi o cambiati "per proteggere gli innocenti, gli innocenti ma fino a un certo punto e i timidi". Perché Darcleight sa di non abitare "nel Paese della libertà" e che "le autorità carcerarie sanno bene come zittire chi scrive ciò che accade dietro il muro". Nella prigione di massima sicurezza in cui sconta una condanna da 25 anni all’ergastolo per un doppio omicidio (che svela solo nell’ultimo capitolo) commesso quando aveva poco più di vent’anni e si imbottiva di droga, compagni e guardie ignorano che scriva di sé e di loro, che, pezzo dopo pezzo, abbia consegnato il suo primo libro, Colpevoli di omicidio, a un editore e che rilasci interviste come questa. "Da un oceano all’altro - appunta nella nota iniziale, in America le carceri sono ovunque. Ci passate davanti in macchina e quasi non vi fermate a pensare a quei muri e al filo spinato all’orizzonte". Ecco, Darcleight racconta cosa succeda là dietro, "cosa significhi essere vivo dentro il sistema penale". Non si sofferma sulle violenze nelle docce o sui soprusi delle guardie riprodotti in tanti film, dipinge i dettagli della vita quotidiana tra ceppi, sbarre e scomode brande. "La mente è il proprio luogo - scrive citando Paradiso perduto di John Milton -, e può in sé fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo". In prigione il rumore è costante e manda in tilt il cervello, soprattutto se obbligato alla nullafacenza: carta sfogliata, bestemmie, acqua dei water che scorre, televisori a tutto volume. "Noiosa. Per il resto, non troppo diversa da com’è fuori - ci racconta - con giorni buoni e giorni cattivi, alti e bassi. Anche noi sperimentiamo il dolore e la perdita. Come tutti, stiamo solo cercando di sopravvivere". "Colpevoli di omicidio" racconta la sua vita, quella di un ragazzo bianco, famiglia colta e benestante, che a 23 anni uccide e finisce di là dal muro. Un detenuto che spera, un giorno, di beneficiare della libertà condizionale e che respira aria fresca solo quando lo trasferiscono. Dal carcere di contea a quelli di passaggio, e poi a quello di massima sicurezza. I primi due mesi li trascorre sotto sorveglianza anti-suicidio, con "un paio d’occhi letteralmente addosso per 24 ore al giorno". Ci sono guardie sadiche, guardie indifferenti, guardie pietose che sanno allungare le dita oltre le sbarre e te le fanno stringere. "La vita - spiega oggi, che ha 40 anni - vale la pena di essere vissuta anche se sei condannato all’ergastolo, sta a te trovare un senso ogni giorno. Ho scritto questo libro proprio perché vorrei che là fuori ci si rendesse conto che anche qui dentro ci costruiamo una vita". Darcleight in carcere ha finito l’università, una laurea in Marketing, frequentato una sfilza di laboratori di scrittura (sta scrivendo il suo secondo libro) e conosciuto quella che in breve è diventata sua moglie. "È stata una benedizione di cui ogni giorno ringrazio Dio. È solo per lei che sopporto i momenti bui". Quando scade il tempo della visita, lui e Lily si salutano scrivendosi in fretta frasi sulle braccia. Ed è grazie alla moglie che Darcleight ha pubblicato un libro o aggiorna il blog e la pagina Facebook. Fra loro tante lettere e parole, nessun contatto, "ma ho imparato che il legame emotivo è il vero banchetto, il sesso è solo uno snack". Come spesso si legge nelle notizie di cronaca, sono molte le donne che scrivono ai carcerati, anche o forse soprattutto a quelli che finiscono in prima pagina per delitti cruenti. "Ma le relazioni che ti aiutano davvero sono quelle profonde". In 17 anni di carcere, mentre aspetta che la commissione decida se la sua pena può risolversi in 25 anni o debba continuare per tutta la vita ("una possibilità che mi terrorizza"), Darcleight tenta di scansare i guai e prova a perdonarsi: "Ci sto lavorando, ma non ci sono ancora riuscito". Gli amici ci sono anche in una prigione di "pezzi grossi" violenti o tossicodipendenti, di pluriomicidi come lui, così come gli attaccabrighe da evitare. E, anche in un carcere di massima sicurezza, non tutti sono uguali: appena finito dietro le sbarre, scopre che il suo è un caso in cui la pena di morte è un’ipotesi praticabile, ma scopre anche che "i bianchi benestanti non vengono quasi mai giustiziati". Per vincere la noia, per passione e per darsi un futuro, legge: Hemingway, Didion, Fitzgerald, Dostoevskij, Kerman. "La biblioteca del carcere è abbastanza fornita anche se alcuni libri sono banditi. Ad esempio in alcune prigioni, ma non nella mia, è vietato Cinquanta sfumature di grigio. Possiamo ascoltare però la radio e, a volte, vedere la televisione. Internet invece non c’è, per cui siamo fuori da un bel pezzo di mondo". Quel mondo in cui spera di rientrare e da cui è uscito una notte di 17 anni fa, con un duplice omicidio. "La morale della favola - scrive - è che tutti sono capaci di tutto, in qualsiasi momento. Ma questo non te lo dice mai nessuno. Fa troppa paura pensare così alle persone a cui vuoi bene, ai tuoi amici, a te stesso". Danner Darcleight, "Colpevoli di omicidio" (traduzione di Ada Arduini), Marsilio, pp. 378, € 18. "Rocco Schiavone". Boom d’ascolti per il poliziotto che si fa le canne in TV di Vittorio Pezzuto Il Dubbio, 18 novembre 2016 Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello e Carlo Giovanardi effetto migliore (peggiore per loro) non lo potevano ottenere. La fiction Rocco Schiavone, contro cui hanno scritto un’interrogazione parlamentare, l’altro ieri è stato il programma più visto della tv, con il 15 per cento di share. Sotto accusa il vicequestore che si fa le canne e che interpreta una "giustizia fai da te". Ma la serie piace. Segno che il proibizionismo non funziona neanche in tv. Un’interrogazione parlamentare non si nega a nessuno, e figuriamoci quindi se qui si vuole conculcare il sacrosanto diritto di Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello e Carlo Giovanardi di rivolgersi al governo per protestare contro la messa in onda sulla Rai di Rocco Schiavone, una fiction (fiction, appunto) in cui appare un vicequestore che inizia la sua giornata in ufficio rollandosi e fumandosi una bella canna. Evidentemente non si sono ancora ripresi dalla vittoria del referendum radicale che nel 1993 ha abolito ogni sanzione penale per i consumatori di sostanze stupefacenti. Una conquista di civiltà per il Paese e anche per chi scrive, avendo promosso negli anni Novanta il movimento antiproibizionista ed essendomi pure fatto arrestare vent’anni or sono a Porta Portese per spaccio di droga insieme ad alcuni loschi figuri come Marco Pannella e l’attuale sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova. L’iniziativa annunciata da questi tre parlamentari, che verrà presto archiviata nello straripante faldone del ridicolo prestato al Parlamento, suggerisce però una riflessione sullo stato del rapporto tra la cultura e la nostra classe politica. La bella serie trasmessa su Rai Due non è altro che la riproposizione didascalica dei romanzi di Antonio Manzini che Sellerio pubblica da anni con grande, meritato successo. Fino a quando è rimasto confinato nelle pagine di un romanzo, al vicequestore Schiavone è stato consentito di fumarsi quel che voleva. È bastato però che facesse capolino sugli schermi per suscitare scandalo. Se ne deduce che per costoro le cose esistono solo se finiscono in televisione. Non dobbiamo stupircene, purtroppo: moltissimi parlamentari sono infatti convinti che le tesi e i dati che sostengono siano veri per il solo fatto che ce li propinano inquadrati da una telecamera. Per molti deputati e senatori lo iato tra verità e conoscenza riguarda peraltro anche la saggistica. Ce ne siamo accorti ad esempio in occasione di un’inchiesta di Report sulla discutibile gestione dei fondi pubblici assegnati all’Italia dei Valori. Le stesse rivelazioni erano da tempo disponibili in una densa, accurata biografia di Antonio Di Pietro scritta da Filippo Facci. Quelle centinaia di pagine non avevano suscitato alcuna reazione, un loro estratto di pochi minuti sulla Rai è stato invece più che sufficiente per stroncare la carriera politica dell’ex campione di Mani Pulite. Ecco perché mi piacerebbe che i nostri politici si rollassero qualche volta un buon libro: per tenersi aggiornati su quel che accade o semplicemente per allenare la loro fantasia. Ne hanno un gran bisogno. Se non altro darebbero il buon esempio a un Paese che legge sempre meno (molto spesso i libri vengono comprati per essere regalati, non per essere letti). Quanto a Gasparri, Quagliariello e Giovanardi immagino già le loro reazioni scomposte quando fra qualche settimana scopriranno che il vicequestore Schiavone, oltre a farsi le canne, ha a suo tempo deciso di regolare in privato i conti con l’omicida di sua moglie, sparandogli in un agguato e seppellendo nottetempo il suo cadavere. Vuoi vedere che presenteranno sdegnati in Procura una denuncia per istigazione a delinquere a mezzo televisivo? Migranti. Nuovo naufragio: 7 morti, 96 dispersi. "Ci hanno tolto i giubbetti salvagente" di Nello Scavo Avvenire, 18 novembre 2016 Ennesimo naufragio nel Canale di Sicilia. Medici senza frontiere ha soccorso un’imbarcazione con a bordo, secondo i superstiti, 130 persone. Ventisette sono i migranti tratti in salvo. Novantasei, dunque, i dispersi. Recuperati anche sette cadaveri. Ora sono su nave Argos. "Sono gli unici sopravvissuti - spiegano dall’organizzazione umanitaria - ogni giorno una tragedia nel Mediterraneo". Dopo aver lasciato la costa, i trafficanti hanno trainato le due imbarcazioni per un paio d’ore. Ma una volta giunti in mare aperto, minacciando i migranti con una pistola, gli scafisti si sono ripresi il motore dei due gommoni e si sono fatti consegnare anche i giubbotti salvagente, nonostante fossero stati pagati. Il gommone è andato così alla deriva per ore fino a quando si è forato ed ha iniziato ad imbarcare acqua. Presi dal panico e senza giubbotto di salvataggio, decine di disperati sono finiti in acqua e solo 27 sono riusciti a rimanere aggrappati al relitto del gommone, fin quando la nave inglese non li ha recuperati. "In quel momento ho pensato che stavamo per morire - ha raccontato agli operatori di Msf Abdoullae Diallo, un senegalese di 18 anni che è tra i 27 sopravvissuti - sapevo che non eravamo vicini all’Italia e senza un motore non potevamo andare lontano. Il trafficante ci ha detto che saremmo stati soccorsi, ma sentivo che saremmo morti". Molti dei sopravvissuti hanno ustioni chimiche su diverse parti del corpo, provocate dal contatto con il combustibile. "Sono tristi, scioccati e traumatizzati - spiega Elisa Compagnone, psicologa che si occupa dei migranti a bordo della nave di Msf - vogliono solo riposarsi e dimenticare". Solo due giorni fa sono stati soccorsi nel Mediterraneo dieci gommoni: quasi mille persone salvate (969), nove cadaveri recuperati, mentre decine di persone sono risultate disperse. Negli ultimi due giorni sono stati 340 i migranti che hanno perso la vita durante la traversata. Il naufragio, secondo quanto ricostruito dalla Guardia Costiera, sarebbe avvenuto ieri in una zona di mare compresa tra le 30 e le 40 miglia al largo della Libia. I migranti erano a bordo di un gommone che, assieme ad altri 3 ed un barchino di legno era stato soccorso dalle navi del dispositivo schierato nel Canale di Sicilia. Quando sono arrivati in zona, i soccorritori hanno trovato il gommone semiaffondato, con a bordo 27 persone, che sono state tutte recuperate dalla nave inglese Enterprise, inserita nel dispositivo Eunavformed. Successivamente sono stati recuperati i corpi di sette persone. Questa mattina i migranti sono stati trasferiti su nave Burbon Argos e agli operatori di Medici senza frontiere hanno raccontato che a bordo del gommone c’erano circa 130 persone. Nella giornata di oggi, intanto, la centrale operativa della Guardia Costiera ha coordinato al momento un unico intervento di soccorso: un gommone con a bordo 120 migranti è stato recuperato da nave Juventa, della ong tedesca Jugend Rettet. Dalla società italiana di pediatria arriva poi un dato preoccupante: i bambini migranti in Italia sono più di un milione, il 91% è arrivato via mare e il 42% di loro ha meno di 5 anni. "In media ogni minuto, 24 persone sono costrette a lasciare la propria casa e diventare migranti - spiega la professoressa Rosalia Maria Da Riol, del Centro coordinamento regionale malattie rare dell’Azienda sanitaria integrata di Udine -. Oggi sono 244 milioni i migranti internazionali nel mondo, dato che registra una crescita del 41% dal 2000. Di questi, 31 milioni sono bambini". Siria. Ancora bombe su Aleppo, una strage senza fine di Luca Miele Avvenire, 18 novembre 2016 Le Ong rivelano: una cinquantina le vittime nella città assediata. "I caccia di Damasco hanno sganciato bombe a grappolo e barili esplosivi". Ad Aleppo si continua a morire. Uno stillicidio quotidiano: bombe sui civili, bombe sugli ospedali. "Il quadro umanitario - ha denunciato la Ong Oxfam - si fa sempre più drammatico con oltre 250mila persone intrappolate nella città, che si apprestano ad affrontare l’inverno con scorte di cibo e acqua in esaurimento e strutture sanitarie ormai al collasso". L’ultimo bilancio testimonia la ferocia dei combattimenti: almeno 52 civili sono stati uccisi durante i bombardamenti dei jet di Damasco sui quartieri orientali della città controllati dai ribelli (25 secondo altre fonti). Secondo un reporter della France Presse sul posto è stato avvertito il rombo tristemente noto dei barili-bomba sganciati di solito dagli elicotteri di Damasco, a corto di altri ordigni. In due giorni di bombardamento - ha riferito Najib al Ansari il responsabile della Difesa Civile della città - i morti sono stati 94, 150 i feriti. "I bombardamenti, nei quali vengono usati bombe a grappolo e barili esplosivi, avvengono mentre negli ospedali da campo manca ogni cosa e gli abitanti vivono una situazione umanitaria difficile e soffrono dalla mancanza di un elemento essenziale come il pane perché i forni si sono fermati dal lavoro in gran parte dei quartieri orientali", ha aggiunto il responsabile. "A ottobre 2.350 gli uccisi" - Ma l’elenco delle violenze che continuano a insanguinare la Siria non finisce qui. Un attentato dinamitardo avvenuto nella località di Azaz, una delle rocche-forti della ribellione sempre nella provincia di Aleppo, ha provocato la morte di almeno 25 persone. La Russia, da parte sua, ha fatto sapere di aver ucciso "nella provincia di Idlib almeno 30 terroristi", tra cui "i comandanti sul campo Mohammad Helal, Abu Jaber Harmuzha e Abùl-Baha al-Asfari", appartenenti al ex fronte Jabhat Fateh al-Sham (l’ex al-Nusra), precedentemente noto come Jabhat al-Nusra. Un massacro quotidiano, che i balbettii della politica internazionale non riescono a fermare. Secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus) sono 1.350 i civili uccisi nel Paese nel solo mese di ottobre. Stati Uniti. Le carceri private sono pronte a fare soldi a palate grazie a Donald Trump di Carlo Allegri ibtimes.com, 18 novembre 2016 Il Presidente eletto Donald Trump è un sostenitore delle privatizzazioni e, in particolare, della privatizzazione delle carceri e dei centri di detenzione. Questa è una buona notizia per le due compagnie che dominano il mercato - la Core Civic del Tennessee e la GEO Group della Florida - ma è anche una potenziale manna dal cielo per le banche di Wall Street, che hanno abbondantemente foraggiato queste aziende, le quali traggono profitto dalla detenzione e dall’incarcerazione delle persone. Secondo un rapporto di The Public Interest pubblicato oggi, 17 novembre, sei grandi società di Wall Street lavorano in tandem con quest’industria: finanziano i debiti, gestiscono le obbligazioni, garantiscono miliardi di dollari di crediti per il pagamento delle spese di gestione e l’espansione in altri mercati correlati, come la vendita del sistema GPS da mettere alle caviglie degli immigrati per monitorarli. Agendo come una carta di credito per le carceri private, queste sei banche - Bank of America, JPMorgan Chase, BNP Paribas, SunTrust, US Bancorps e Wells Fargo - aiutano le aziende carcerarie ad eludere il fisco. Tutto ciò non sta bene al senatore democratico dell’Oregon Ron Wyden: l’uomo ha cercato di promuovere una legislazione atta a rendere più difficile alle aziende private del settore carcerario di registrarsi come società di investimento immobiliare - soggetti che pagano aliquote fiscali ridotte e alle quali è permesso accedere a grossi prestiti bancari mantenendo una liquidità di cassa molto bassa. "È sbagliato che delle imprese private facciano profitti sul carcere e sulla riabilitazione e io sono particolarmente preoccupato di come tutto questo sia alimentato dalle leggi in materia fiscale" ha detto il senatore Wyden a International Business Times. "A mio avviso molti contribuenti sarebbero contrari se sapessero che i loro soldi sovvenzionano i profitti delle imprese che incarcerano minoranze e americani a basso reddito". Diversi attivisti che lavorano per ridurre la popolazione carceraria hanno criticato Wall Street per trarre profitto dall’espansione del sistema carcerario. "Queste banche fanno parte della nostra società" ha detto Amanda Aguilar Shank, vice direttrice di Enlace, una coalizione di attivisti che si oppone al business delle carceri: "Allo stesso tempo infatti finanziano l’espansione del sistema carcerario, un’istituzione che sta facendo a pezzi le nostre comunità. Tutto ciò è nauseante". Le banche ovviamente vedono le cose in modo molto diverso: "Come azienda non prendiamo posizione sulle questioni politiche pubbliche che non influenzano direttamente la capacità della nostra azienda di servire i clienti e sostenere i membri del team" ha dichiarato Ruben Pulido, vice-presidente delle comunicazioni aziendali di Wells Fargo, a IBT: "Abbiamo rapporti bancari con migliaia di aziende in centinaia di settori diversi, facciamo affari solo con compagnie che dimostrano un forte e costante impegno nel rispetto di tutte le norme e i regolamenti federali, statali e locali". Il numero dei detenuti nelle carceri private è quasi raddoppiato dal 1990, da poco meno di 700.000 a oltre 1,2 milioni di persone. Le strutture spesso sono state al centro di scandali pubblici. Nel 2012 un giudice federale ha definito una prigione della GEO Group un "pozzo nero di leggi e condizioni incostituzionali e disumane" e nel 2014 il capo del sistema carcerario del Mississippi è stato accusato di aver accettato tangenti da parte di aziende private (e si è dichiarato colpevole). ACLU ha più volte citato in giudizio la compagnia CoreCivic per le condizioni di povertà nelle strutture da essa gestite e lo scorso mese di agosto l’amministrazione Obama ha annunciato di non voler utilizzare più le strutture private per i prigionieri federali. Tuttavia, questa moratoria non si applica ai detenuti immigrati. Sotto l’amministrazione Obama i servizi privati sono stati sempre più utilizzati da parte dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), che oggi detiene il 73 per cento dei suoi prigionieri in centri di detenzione volti al profitto. La scorsa settimana Trump ha dichiarato che le aziende che traggono profitto dai detenuti immigrati potrebbero presto avere grandi opportunità di business, ricordando che una delle sue priorità riguarda la detenzione o l’espulsione di 2-3 milioni di immigrati clandestini. I critici sostengono che le carceri private basino la propria redditività sull’incarcerazione massiccia e che le lobby del settore esercitino pressioni per mantenere leggi repressive e draconiane così da mantenere piene le proprie strutture. Aguilar Shank ha definito le prigioni private "un parassita in continua crescita" e ha detto che l’industria investe milioni di dollari in attività di lobbyng al Congresso affinché finanzi agenzie per l’immigrazione e sostenendo indirettamente le linee guida per condanne più dure. GEO Group non ha risposto alla richiesta di un commento inviata da IBT, ma lo ha fatto la CoreCivic: "È nella policy di lungo corso di CoreCivic evitare di fare proposte o pressioni per promuovere normative, politiche, regole che possano influire sulla durata o sulla detenzione di un individuo" ha detto a IBT Jonathan Burns, un portavoce della compagnia: "L’obiettivo principale delle attività di lobbying è educare i politici sui benefici del partenariato pubblico-privato e sulle soluzioni proposte da CoreCivic". Ma partenariati a parte, CoreCivic e GEO Group non avrebbero alcun modo per finanziare le proprie operazioni senza il sostegno del settore finanziario: "Hanno bisogno di Wall Street per sopravvivere, dato il loro modello di business" ha detto a IBT Benjamin Davis, ricercatore di The Public Interest. "Sono dipendenti dal debito". Nell’ultimo anno, ad esempio, GEO Group ha acquisito SoberLink Inc - una società di tecnologia che permette alle autorità di monitorare in remoto il consumo di alcol - grazie a una linea di credito da 25 milioni di dollari di Bank of America, JPMorgan Chase, BNP Paribas, SunTrust, US Bancorp e Wells Fargo. GEO Group non fa affidamento a Wall Street per problemi di liquidità - il settore genera più di un miliardo di dollari di fatturato annuo. L’industria finanzia le sue operazioni attraverso il debito in modo da trarne vantaggi grazie alle scappatoie fiscali. Sia CoreCivic che GEO Group si classificano come REIT (fondi di investimento immobiliare, o semplicemente Trust Immobiliare), uno status fiscale originariamente pensato per le aziende che traggono profitti dall’acquisto e dalla locazione di terreni. La classificazione come REIT permette al settore di evitare il pagamento delle imposte sulla società - ma deve trattare i propri investitori come se fossero comproprietari del trust immobiliare. Per questo le società carcerarie versano il 90 per cento dei profitti agli azionisti, lasciando pochissimo denaro in cassa. Ecco come Wall Street entra in gioco. Davis ha scoperto che a giugno 2016 CoreCivic ha accumulato un debito di 1,5 miliardi di dollari con Wall Street, mentre GEO Group ne ha 1,9 miliardi. Il debito è spacchettato in diversi strumenti finanziari, come il credit revolving, prestiti a lungo termine o emissione di obbligazioni. Ad ogni passaggio Wall Street incassa: solo nel 2015 CoreCivic e GEO Group hanno versato 150 milioni di dollari di interessi e pagato oltre 10 milioni di dollari di commissioni per i bond emessi. Oltretutto, le banche di Wall Street fanno operare un consorzio che si occupa di fornire credito rotativo a CoreCivic e GEO Group: entrambi hanno accesso a 900 milioni di dollari accantonati dalle banche ma non è chiaro per quanto resterà aperta la linea di credito. Nel corso della campagna presidenziale l’industria delle carceri private è emersa come un problema: sotto le pressioni degli attivisti, Hillary Clinton ha restituito i contributi elettorali di GEO Group ed ha anche invocato la fine delle detenzioni a scopo di lucro. Trump ha tracciato invece un percorso diverso; il fondo elettorale del Presidente eletto ha ricevuto 100.000 dollari da GEO Group, e lo stesso candidato ha elogiato l’azienda in campagna elettorale: "Penso che possiamo creare un sacco di prigioni private" ha detto Trump a Chris Matthews lo scorso mese di marzo, "Sembrano funzionare molto meglio". "Alla GEO Group si staranno leccando i baffi", ha detto Davis. "Trump usa parole dure quando parladi crimine, deportazioni, perquisizioni - i segnali indicano che ci sarà un cambiamento a favore delle prigioni private". Gli investitori prendono nota. Il giorno seguente alle elezioni, il Wall Street Journal ha segnalato GEO Group tra le "azioni da tenere sott’occhio". Da quando Trump è stato eletto presidente, le azioni dei titoli di CoreCivic e GEO Group hanno avuto grandi rialzi, toccando punte del 40 per cento rispetto ai valori pre-elettorali. Svizzera. Le carceri chiamate a fronteggiare il problema dei droni ticinonews.ch, 18 novembre 2016 Da qualche anno i penitenziari svizzeri si sono trovati confrontati con il problema legato ai droni. Piccoli, rapidi e difficilmente identificabili, sono il veicolo ideale per contrabbandare telefonini o droga all’interno delle mura carcerarie. Nel penitenziario Bonstadel di Menzingen (ZG), ad esempio, nel 2014 c’era stato un tentativo di trasportare un telefono cellulare all’interno della struttura con un drone, mentre in Germania i tentativi di attacco a strutture carcerarie con piccoli apparecchi volanti sono sempre più frequenti. Per questo motivo il penitenziario di Lenzburg (AG), ha deciso di installare un sistema d’allarme contro i droni ed altri apparecchi volanti. L’impianto, del costo di 200.000 franchi, dovrebbe entrare in funzione in primavera. Si tratta di un sistema che utilizza la videosorveglianza e un radar e che è in grado di identificare apparecchi volanti di una lunghezza di almeno 7 centimetri, indica oggi in una nota il Dipartimento cantonale dell’economia e dell’interno. Il Dipartimento ha inoltre deciso di non istallare apparecchiature di disturbo o altri strumenti attivi, ritenuti "troppo costosi". La prigione di Lenzburg conta 300 posti di detenzione ed aveva già installato nel 2007 un impianto che serve ad impedire l’uso di telefoni cellulari. Nel carcere argoviese non si sono finora registrati "incidenti" legati all’impiego di droni od altri oggetti volanti. La problematica è stata discussa anche alle nostre latitudini e, come ci conferma il direttore delle Strutture carcerarie del Cantone Ticino Stefano Laffranchini, anche il Penitenziario cantonale La Stampa sta pensando di dotarsi in futuro di un sistema di rilevamento come quello adottato dal carcere di Lenzburg. "Al momento non abbiamo registrato alcun tentativo di introdurre oggetti tramite un drone - ha spiegato Laffranchini - Per la conformazione del penitenziario e del territorio è molto difficile pilotare un drone all’interno delle mura". Pur non essendoci un pericolo imminente, la autorità non vogliono farsi cogliere impreparate. "Stiamo pensando di dotarci di un sistema di rilevamento - ci spiega - Un radar identifica il drone e la centrale operativa trasmette via radio agli agenti le informazioni necessarie per seguirlo e intercettarlo". Il progetto è ancora in fase di gestazione e vedrà eventualmente la luce non prima di due anni, in concomitanza con la ristrutturazione del Penitenziario, ma "non si tratterà di un sistema offensivo o di disturbo". Un’altra notizia ha che recentemente interessato il mondo carcerario elvetico è stata la vicenda di Carlos, il giovane detenuto balzato agli onori della cronaca per gli alti costi del suo percorso rieducativo, recentemente tornato davanti al giudice. Un caso, il suo, che non avrà eguali in Ticino: "Attorno al progetto di reinserimento del detenuto ruotano diverse attività e lezioni, ma si tratta di attività normalmente previste dal carcere, come il lavoro in falegnameria - spiega ancora il direttore Laffranchini - Non vengono create attività ad hoc".