"La fabbrica dei reati si chiama carcere" di Errico Novi Il Dubbio, 17 novembre 2016 La denuncia del Senatore Pd Manconi. Orlando: "Riforma dopo il referendum". "Ritrovata attenzione sul carcere? Non direi". Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato, pronuncia un durissimo atto d’accusa sulla condizione dei detenuti proprio mentre il governo decide di lasciare in freezer la riforma penitenziaria. "Il sovraffollamento resta", ricorda Manconi, "e resta quindi la promiscuità coatta: carcerati costretti a condividere spazi infimi, in cui si mescolano odori, umori, liquidi, in cui tutte le funzioni fisiologiche primarie si espletano nello stesso angolo di una cella, a vista". Tutto questo, dice il senatore dem al convegno sull’architettura penitenziaria organizzato dal socialista Enrico Buemi, "porta i detenuti a parlare solo di carcere, e di crimini. È un sistema penitenziario che fabbrica nuovi reati". Tre convegni in un giorno. "Sì, arrivo da un incontro sul carcere alla Camera, intervengo a quest’altro organizzato sempre sul carcere al Senato e dovrò lasciarlo precipitosamente per partecipare a un terzo dibattito sullo stesso tema nello stesso giorno". Luigi Manconi riferisce della propria congestione convegnistica per dire in realtà un’altra cosa: che ai dibattiti non seguono le decisioni. "Non condivido l’idea secondo cui saremmo di fronte a una ritrovata attenzione sul tema dei detenuti: c’è un affollarsi di incontri ma assenza di interventi risolutivi in Parlamento". Il presidente della commissione Diritti umani è un senatore del Pd. Parla appunto al secondo dei tre incontri sulla questione carcere organizzati in contemporanea, quello sul "Ruolo dell’architettura penitenziaria nella finalità rieducativa della pena" promosso da un altro raro esempio di parlamentare sinceramente garantista, il senatore socialista Enrico Buemi. Manconi ha ben presente lo sforzo compiuto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha destinato all’esecuzione penale energie mai viste nei suoi predecessori. E nemmeno sarà sfuggita, al presidente della commissione Diritti umani, l’imprevista visita di Matteo Renzi al "Due palazzi" di Padova, prima "ispezione diretta" di un premier in un penitenziario. Tutto questo non basta però, sostiene Manconi. "Non si arriva al cuore del problema, che è il cosiddetto sovraffollamento: non pensate a una spiaggia riminese la mattina di ferragosto", dice il senatore dem al convegno organizzato da Buemi, "pensate piuttosto alla promiscuità coatta. A detenuti costretti a condividere spazi infimi, in cui si mescolano odori, umori, liquidi, in cui si è condannati a espletare tutte le funzioni fisiologiche primarie nello stesso angolo di una cella, a vista". L’uditorio si paralizza, Manconi continua: "Poco fa l’autore del libro che offre lo spunto per questo dibattito, l’architetto Domenico Dè Rossi, ci ha detto che la pietra scolpisce la mente. Ebbene è così: se lo spazio produce una costrizione così penosa, non ci si può meravigliare dell’effetto sulla psiche di chi è recluso. Che è quello per cui in carcere l’oppressione fisica porta i detenuti a parlare solo di carcere, e di crimini. Di altri crimini. Potete ben comprendere come una simile condizione sia l’opposto del principio costituzionale della rieducazione e del reinserimento. E come appunto questo tipo di carcere sia una fabbrica di nuovi crimini. Oggi il sistema penitenziario è di fatto un’istituzione patogena". Manconi prende meritati applausi, corre al terzo convegno. Nel primo aveva incrociato il ministro Orlando. Che non manca di salutare con favore le iniziative sul tema e, nel messaggio inviato a Buemi, di auspicare "fortemente" la "approvazione della riforma penale in discussione al Senato" che contiene "una delega dell’ordinamento penitenziario che considero molto incisiva". L’auspicio di Orlando è legato a un concetto semplice e appunto decisivo: il tasso di recidiva. Le statistiche del ministero confermano da anni come tra i reclusi messi in condizione di svolgere attività lavorative o di studio la percentuale di coloro che, tornati liberi, commettono nuovi reati sia assai più bassa: il 10% contro il 65% di chi non lavora o studia. Nella delega "imprigionata", è il caso di dirlo, nell’ampio ddl penale si dà molto peso all’ulteriore rafforzamento delle misure alternative, al lavoro nei penitenziari, all’affettività dietro le sbarre. E in altri articoli del provvedimento si definiscono nuovi strumenti per la giustizia riparatoria. "Non è il massimo quanto a modernità delle misure", fa notare un altro senatore dem, Felice Casson, che pure interviene al dibattito sull’architettura penitenziaria. "Sul piano generale, non si riesce a limitare il ricorso alla pena detentiva e a dare ordine al diritto penale", è l’aggravante richiamata da Nico D’Ascola, presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama e anche lui relatore al convegno. Aspetti che corroborano il pessimismo di Manconi. E che inducono a considerare lontano dal risolversi il circolo vizioso del forte tasso di recidiva tra gli ex carcerati. Certo la svolta è a maggior ragione lontana se la delega penitenziaria e la riforma penale che la racchiude resteranno prigioniere delle esitazioni del governo, divenute ormai oggetto di serrata discussione fra il guardasigilli Orlando e il premier Renzi. Ieri il ministro della Giustizia ha ammesso come sia "più probabile che il ddl riprenda l’esame in Parlamento dopo il referendum". Resta lontana la possibilità di attenuare l’affollamento degli istituti, ora attestato al 109% ma con polarità in eccesso mostruose in regioni come la Puglia (dove si arriva al 137%) e l’alterazione dovuta a circa 5.000 posti in realtà inutilizzati. Resta ben presente invece l’affermazione di Domenico De Rossi, autore di Non solo carcere, il ponderoso e ricchissimo volume che ieri ha trascinato Buemi e gli altri relatori a Palazzo Giustiniani: "Siamo abituati a credere che la mente scolpisce la pietra. In carcere è il contrario: è la pietra a scolpire la mente di chi vi è ristretto". E lo fa in modo devastante, come spiega Manconi. Il Ministro Orlando: "carceri, al Papa si risponde con la riforma" di Stefania Careddu Avvenire, 17 novembre 2016 "La riforma dell’ordinamento penitenziario, in discussione al Senato, rappresenta "un primo importantissimo passo avanti per dare una risposta alla domanda che ci viene posta da papa Francesco e dalla Costituzione". A pochi giorni dalla richiesta del Pontefice di "un atto di clemenza" per i detenuti ritenuti idonei, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ribadisce la linea del governo italiano intervenendo ad un incontro del "Cortile dei gentili" su "Pena e speranza". "Il Papa ha fatto una richiesta più articolata, cioè tenere conto della condotta dei detenuti e un modo per riconoscere la buona condotta è nella riforma", ha sottolineato il Guardasigilli per il quale la strada da seguire non è dunque quella dell’amnistia o dell’indulto. Occorre lavorare invece per "costruire un sistema di misure alternative, oggi quadruplicate rispetto al passato" e per "recuperare una dimensione individualizzata della pena che tenga conto della condotta del soggetto". Questo, ha ammesso, "implica un cambio profondo della capacità di riorganizzare il sistema penitenziario". "Non si può pensare di impartire pene uguali a soggetti diversi perché questo porta a una infantilizzazione e a una deresponsabilizzazione della popolazione carceraria", ha spiegato Orlando che ha auspicato "un’attenzione da parte dell’opinione pubblica sul tema della magistratura di sorveglianza, un soggetto che non sempre funziona come dovrebbe". Appare fondamentale "approvare con urgenza la delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario", ha rimarcato Mario Marazziti (Demos-Cd), presidente della commissione Affari Sociali della Camera e promotore dell’Intergruppo parlamentare della Camera sul carcere, secondo il quale serve "un impegno operativo per umanizzare la vita nel carcere e fare dell’esecuzione della pena non la parentesi prima della recidiva, ma l’avvio di una guarigione". In quest’ottica, "bisogna far crescere l’ambito del lavoro in carcere" senza dimenticare la situazione di immigrati e stranieri, la cui detenzione è "aumentata dalla scarsa conoscenza dell’italiano e dalla carenza di relazioni familiari", oltre che "promuovere di più il diritto alla pratica religiosa che è un antidoto al reclutamento fondamentalista e non l’inizio della radicalizzazione". Se poi "molto da fare" resta sul fronte della salute per i detenuti, per Marazziti (che insieme a quello per l’amnistia e l’indulto ha presentato un disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo e dell’ergastolo ostativo) sarebbe opportuno "rivedere le modalità di esecuzione della pena" perché "scompaia una ostatività ermetica che nega la possibilità al cambiamento" e annulla la speranza. La parola "pena", ha osservato infatti il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, "dovrebbe sempre avere due versanti: quello della giustizia, con un’applicazione seria e severa della pena, e quello luminoso della conversione". Non è un caso, ha ricordato, che "in ebraico giustizia e salvezza abbiano la stessa radice: dobbiamo quindi stare dalla parte di Abele, affermando la giustizia, ma anche dalla parte di Caino, affermando la redenzione". Del resto, gli ha fatto eco Luigi Manconi, presidente della commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani del Senato e promotore dell’Intergruppo del Senato sul carcere, è importante garantire "l’intangibilità del reo o presunto reo". "La pena - ha concluso - rimanda sempre al corpo, è una sanzione che interviene sul fisico. E ogni pena che lede quel corpo, sia esso scrigno che custodisce la traccia divina o la sede della dignità e dei diritti, è una pena ingiusta". D’Ascola (Ap): "carceri affollate? Il problema è la povertà dell’arsenale sanzionatorio" strill.it, 17 novembre 2016 "Si pone il problema di rieducazione, sta nell’art 27 della nostra Costituzione. Per la prima volta parliamo dei diritti dei detenuti. Si afferma che i detenuti devono essere titolari di diritti alla salute, all’affettività. Nella pratica quotidiana della carcerazione il diritto alla salute è negato". Lo dichiara Nico D’Ascola presidente della commissione Giustizia del Senato nel corso del convegno "Ruolo dell’architettura penitenziaria nell’attuazione del principio costituzionale della finalità rieducativa della pena" alla Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani. "Al di là della rieducazione che costituisce una soluzione inevitabile per un diritto penale che ruota esclusivamente sul carcere, che non conosce sanzioni non carcerarie, il problema che è fondamentale e che chiamerei quello della povertà dell’arsenale sanzionatorio. Il vero problema dell’affollamento del carcere - prosegue il presidente - lo potremmo definire con un’unica denominazione, povertà dell’arsenale sanzionatorio ed elefantiadi del diritto penale. Il diritto penale è una soluzione che interviene quando il reato è già commesso, quindi è un intervento soltanto punitivo e deve valutarsi in collegamento con gli altri ordinamenti sezionali di tipo punitivo. Fin tanto che ci intestardiremo nel ritenere che il diritto penale sia l’unica soluzione, il problema del carcere non si risolverà, soprattutto alla luce di un sistema punitivo che è a senso unico. Il nostro arsenale sanzionatorio sostanzialmente è quello del 1930, non esistevano soluzioni concettualmente accettate, scientificamente collaudate di sanzioni punitive, magari privative della libertà personale, ma non detentive. Non risolveremo il problema del carcere se non avremo affrontato il problema del diritto penale nelle sue elefantiadi e della estrema povertà dell’arsenale sanzionatorio. È necessario passare dalle riforme di settore alle riforme di sistema. Il sistema punitivo - conclude D’Ascola - va costruito e prima ancora pensato come caratterizzato dal diritto penale che ne occupi soltanto una sezione" Un altro agente suicida. È il terzo caso del 2016 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2016 Ancora un altro suicidio da parte di un agente di Polizia penitenziaria. A dare la triste notizia è Fabrizio Bonino, segretario nazionale per l’Umbria del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria (Sappe). Aveva 40 anni e si è ucciso all’interno del carcere perugino di "Capanne". Gli accertamenti sono in corso e sarà chiesta anche l’autopsia, ma dai primi rilievi pare quasi certo che sia stato il poliziotto a rivolgere la pistola contro se stesso. Sia il sindacato che i colleghi non sanno spiegare i motivi del drammatico gesto. Qualora la dinamica fosse confermata, si tratterebbe del terzo suicidio di una guardia carceraria avvenuto dall’inizio di quest’anno, oltre al presunto tentato suicidio dell’agente di polizia penitenziaria Maria Teresa Trovato Mazza, 28 anni, detta Sissy. La ragazza da due settimane è ricoverata in fin di vita all’ospedale di Venezia dopo un colpo di pistola alla testa. All’inizio del mese Teresa è stata ferita da un colpo di arma da fuoco nell’ascensore dell’ospedale Santi Giovanni e Paolo, a Venezia, dove era andata a controllare una detenuta partoriente. È stata trovata riversa sul pavimento in condizioni disperate. Nessuno ha visto cosa sia accaduto, ma dopo i primi accertamenti le autorità si sono affrettate a classificare il caso come tentato suicidio. Il padre della ragazza - interpellato dal Dubbio - sospetta che non sia stato un suicidio. Soprattutto non crede alle prime ipotesi vagliate dalla polizia locale, secondo cui la ragazza soffrirebbe di depressione cronica. In realtà Teresa "è piena di vita e ha ancora tanti progetti da realizzare", dice il genitore. Soprattutto è una sportiva, giocava come portiere in una squadra di calcio a cinque. Inoltre il padre racconta che amava molto il lavoro di agente penitenziaria. "Rispettava la dignità delle detenute - racconta - per lei non era importante quali reati avessero commesso". Altro particolare da chiarire è l’utilizzo dell’ascensore: c’erano solo pochi scalini da fare e appare strano che una ragazza, per giunta sportiva, potesse ricorrere a quel mezzo. C’è dunque l’ipotesi che possa essere stata attirata da qualcuno. Altra cosa che non torna: Sissy presenta due evidenti ferite alla testa, uno di entrata e uno di uscita. Quello d’entrata è sul lato sinistro del cranio, quello d’uscita sul lato destro: ma lei non è mancina e portava la fondina della pistola sul fianco destro. Del caso si è occupata anche la trasmissione "Chi l’ha visto", che ha rilanciato l’appello dei genitori. Migliucci (Unione Camere penali): "la mia battaglia per una Giustizia giusta" di Maurizio Tortorella Panorama, 17 novembre 2016 Parla Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle camere penali italiane: "Ecco tutti gli errori dell’Anm sulla riforma ferma al Senato". Il presidente pro-tempore dell’Associazione Nazionale Magistrati, Piercamillo Davigo, manifesta una visione manichea della realtà. Attorno a sé pare avere esclusivamente politici corrotti; la giustizia non funziona soltanto per colpa degli avvocati; e gli imputati assolti sono, in realtà, dei diversamente colpevoli". Confermato ai primi d’ottobre alla presidenza dell’Unione delle camere penali italiane, Beniamino Migliucci (nato a Bolzano 60 anni fa) mostra di non voler lasciare cadere la difficile battaglia liberale per la giustizia che ha ingaggiato fin dai primissimi giorni del suo primo mandato, nel settembre 2014. "Con le sue battute e con le sue posizioni di populismo giudiziario" attacca il penalista "il dottor Davigo cerca un consenso facile, ma io continuo a credere che la magistratura non dovrebbe cercare consenso. E le posizioni di Davigo sarebbero meno banali e più credibili se soltanto ammettesse quel che non funziona nella sua stessa categoria". Migliucci parte dal cuore del contendere: le indagini preliminari. Da mesi l’Anm ha alzato uno sbarramento di fuoco contro la riforma del Codice di procedura penale, che è bloccata al Senato. In quella riforma, all’articolo 18, si prevede che alla fine delle indagini preliminari il pubblico ministero abbia un periodo massimo di tre mesi per decidere se chiedere il rinvio a giudizio oppure l’archiviazione. "È un provvedimento che rende ragionevole la lunghezza del processo penale" dice Migliucci "e invece l’Anm è contrarissima". Perché? "I magistrati si lamentano che i processi sono interminabili" risponde Migliucci "e che troppo spesso finiscono con la prescrizione, ma poi rifiutano una riforma logica ed efficace. Viene quindi un doppio sospetto: o che ai pm piaccia la possibilità di tenere sotto scacco l’indagato per un tempo insindacabile, o, a voler seguire la stessa logica del dottor Davigo, che non gradiscano un invito a lavorare". Per restare alla riforma del Codice, Migliucci rintuzza altre prese di posizione di Davigo. Il presidente dell’Anm ha dichiarato la sua perplessità davanti alle lungaggini della procedura e si è chiesto: che bisogno c’è di ripetere in udienza gli interrogatori già svolti davanti ai carabinieri? Ma qui il presidente dell’Unione delle camere penali alza il tono della sua critica: "Parte della magistratura da alcuni mesi sta ingaggiando una dura battaglia affermando che, per ridurre i tempi del processo, basterebbe affidarsi agli interrogatori effettuati nelle caserme in assenza del difensore al di fuori di ogni contradditorio che, pertanto, non dovrebbero avere alcun valore probatorio. Il punto è un altro, e cioè che la maggior parte dei processi si prescrive invece nella fase delle indagini preliminari dove l’unico responsabile delle lungaggini è il pm. Per questo è inutile allungare i termini della prescrizione dilatando i tempi del processo, senza considerare che dal 60 al 70% del totale dei processi si prescrive prima della richiesta di rinvio a giudizio". Migliucci ricorda anche gli eccessi della custodia cautelare in carcere, costati 640 milioni di euro dal 1992 a oggi tra risarcimenti per errori giudiziari e ingiuste detenzioni. "In questo Paese" dice "non piace l’idea che la custodia cautelare sia l’estrema ratio. Ma il 35% di chi è in cella, oggi, è in attesa di giudizio, e non è così in nessun Paese europeo. Non siamo mai usciti dall’ombra del vecchio Codice, che parlava di libertà provvisoria: come nel film di Manlio Scarpelli, del 1971, siamo tutti sottoposti all’alea di un provvedimento restrittivo". Anche le carceri, dove i detenuti sono oltre 54 mila, tornano a essere un problema: "Stiamo tornando a condizioni insostenibili" commenta Migliucci. Anche perché nelle nostre prigioni non si lavora, e proprio per questo la recidiva è altissima, al 65-70%. "È una situazione che lede anche il principio di uguaglianza, conclude Migliucci: "Se sono recluso nel carcere modello di Bollate, vicino a Milano, studio e lavoro; ma altrove non è così. E questo non è giusto". Resta infine la riforma del Consiglio superiore della magistratura, che era al centro della più ampia "grande riforma della giustizia" in 12 punti, presentata dal governo Renzi alla fine del giugno 2014. In quella riforma, si prevedeva che nel Csm si decidessero promozioni "più per merito e non grazie all’appartenenza" e soprattutto si voleva introdurre una severa divisione tra sezioni disciplinari e sezioni che si occupano di promozioni: lo slogan era "chi giudica non nomina, chi nomina non giudica". Mille giorni dopo, nulla è ancora accaduto di tutto questo: lo stesso Csm, forse per evitare il pur minimo rischio d’interferenza da parte della politica, lo scorso settembre ha varato un nuovo regolamento che di fatto non cambia nulla. Quanto alla riforma governativa, a sua volta finita nel nulla, Migliucci critica la stessa composizione della commissione che se n’era occupata: "Era sbilanciata, su 27 componenti, 12 erano magistrati". Pochi e senza diritti. Ai giudici di pace resta solo lo sciopero di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 novembre 2016 Anche loro sono sotto organico: scoperto il 62% dei posti. Ma la riforma ne allarga le competenze. La figura del giudice di pace venne istituita con la legge 374 del 1991. L’organico di questi magistrati onorari era inizialmente fissato in oltre 4500 unità (4690 per l’esattezza), distribuite sul territorio nazionale in 845 sedi. Nel corso degli anni molte di queste sedi sono state accorpate o soppresse. Di fatto, i giudici di pace, sono un unicum in Europa. Erano presenti in Francia ma sono stati aboliti. In Italia sono ora oggetto di una lenta "eutanasia". Pur gestendo attualmente almeno il 30 per cento del contenzioso civile e penale. Al 31 ottobre, l’organico nazionale degli onorari risulta essere di 3556 unità, ma i posti effettivamente coperti sono solo 1344. È superiore dunque il numero dei "vacanti", 2212 in tutto. Con una scopertura, quindi, del 62,20 per cento. Sono questi i numeri che per certi aspetti aggravano un quadro già allarmante. Le organizzazioni che rappresentano i giudici di pace infatti hanno proclamato lo sciopero per tutta la prossima settimana, dal 21 al 25 novembre. Contestano le previsioni inserite nella legge delega approvata nello scorso mese di aprile, e di cui sono attesi ancora i decreti delegati. A fronte delle nuove ulteriori competenze che le riforme in materia processuale riconoscono loro, i magistrati onorari lamentano "l’assenza di tutele della maternità, della salute e da infortuni sul lavoro" e "il disconoscimento del diritto alla pensione". Recriminazioni che le sigle "sindacali" hanno esposto, due giorni fa, anche in un incontro con l’ottava commissione del Csm. Il problema ha origini lontane. Nasce dal criterio con cui gli "onorari" sono selezionati. Li si sceglie tra i laureati in Giurisprudenza che abbiano conseguito l’abilitazione forense o abbiano svolto funzioni giudiziarie per almeno due anni, oppure funzioni notarili, o che abbiano insegnato materie giuridiche nelle università. O ancora, possono diventare giudici di pace coloro che abbiano svolto funzioni dirigenziali nelle cancellerie giudiziarie. Devono avere un’età non inferiore a 30 anni e non superiore ai 68 (dapprima erano previsti limiti di età più elevati, rispettivamente 45 e 72 anni). Infine, devono aver cessato l’esercizio di qualsiasi attività lavorativa e, se avvocati, non devono esercitare la professione forense nel circondario del tribunale dove ha sede l’ufficio al quale appartengono. La nomina avviene con decreto del ministro della Giustizia a seguito di una selezione per titoli, bandita, a livello distrettuale, dal presidente della Corte d’Appello, su indicazione del Csm. La legge istitutiva prevede che la nomina debba comunque cadere su persone capaci di assolvere degnamente, per indipendenza e prestigio acquisito e per esperienza giuridica e culturale maturata, le funzioni di magistrato onorario. È previsto un periodo di tirocinio di tre mesi in materia civile e tre mesi in materia penale. Durano in carica quattro anni, e tale periodo può essere rinnovato per una sola volta. Si tratta di giudici (e viceprocuratori) onorari con numerose competenze sia nel settore civile che nel penale. Trattando ricorsi in materia di immigrazione, codice della strada, cause di volontaria giurisdizione. Il trattamento economico è, in media, di circa 48mila euro lordi l’anno. Molto meno rispetto ad un magistrato ordinario, certo. Che però, va detto, ha vinto un concorso pubblico. Il giudice di pace oltre che con un fisso, viene retribuito con un compenso che tiene conto delle udienze tenute e dei provvedimenti definitivi emessi, ma appunto senza tutela previdenziale ed assistenziale, senza un minimo di ferie garantite o il diritto alla maternità. Di fatto è un cottimista della sentenze: 5 ore valgono 98 euro. L’Unione europea da tempo ha deciso di vederci chiaro. Vuole capire come sia possibile che nel 2016 esistano magistrati di serie A, i togati, e magistrati di serie B, i giudici di pace. Bancarotta, concorso per il consulente di Bernardo Bruno Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 7 ottobre 2016 n. 42572. Il cessionario della società fallita, unitamente al consulente che sovrintende alla conclusione dei relativi contratti, risponde di concorso esterno in bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, laddove sia provato il contributo apportato all’operazione fittizia. Il principio è stato oggetto di recente richiamo ad opera della sentenza n. 42572, pubblicata il 7 ottobre scorso, con cui la Suprema corte ha evidenziato la rilevanza illecita degli atti di cessione e di affitto dell’azienda in stato di insolvenza, concretamente idonei a determinare il depauperamento del patrimonio e delle attività produttive, in pregiudizio ai creditori. In tema di reati fallimentari è oggi pacifico il concorso di terzi, estranei alla compagine della società fallita, che assumano un contegno idoneo a pregiudicare gli interessi del ceto creditorio (si veda tar tante, Cassazione, sezione 5°, 26/4/2011, n. 27367, rv. 250409). Con precipua attinenza alla fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione, cui l’articolo 216 della legge fallimentare commina la grave sanzione della reclusione fino a 10 anni, la Corte di cassazione ha chiarito che "il soggetto esterno alla società può concorrere nel reato proprio, mediante condotta agevolativa di quella del cd. intraneus, nella consapevolezza della funzione di supporto alla "distrazione", intesa quest’ultima come sottrazione dal patrimonio sociale e suo depauperamento ai danni della classe creditoria, in caso di fallimento", valorizzando la mera "incidenza causale dell’azione dello stesso extraneus ai fini distrattivi (cfr. Cassazione, sezione 5°, 26/06/1990; Cassazione, sezione 5°, 19/3/199, n. 6470, rv. 213811; Cassazione, sezione 5°, 27/6/2012, n. 39387, rv. 254319)". Limitatamente al concorso, rileva la dimostrazione della volontarietà dell’apporto e della consapevolezza che esso incida in modo determinante sul complessivo depauperamento del patrimonio sociale, su cui la legge pone un preciso vincolo di disponibilità, finalizzandone l’impiego all’adempimento delle obbligazioni contratte nel corso dell’attività di impresa. La giurisprudenza precisa che il dolo può desumersi, anche implicitamente, dall’esame delle circostanze concrete o dal mero contegno omissivo serbato dal fallito in violazione agli obblighi di verità sanciti ai sensi dell’articolo 87 della Lf (Cassazione 41429 del 03/10/2016). Per l’effetto, l’amministratore di una società con cui l’azienda in stato di insolvenza concluda un contratto di cessione o locazione a un prezzo sensibilmente inferiore a quello di mercato o da cui non percepisca il pagamento del corrispettivo pattuito, concorre nel delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione unitamente al consulente che, consapevole dei propositi illeciti perseguiti dalle parti, predisponga la stipulazione dei relativi atti. I giudici di legittimità, nella specie, hanno valorizzato la vicinanza temporale delle operazioni, i vincoli di conoscenza con il fallito, il mancato pagamento di un prezzo congruo e la distrazione di rilevanti commesse trasferite a una costituita newco, rilevando l’attuazione di un’operazione sostanzialmente fittizia. Facendo proprio un orientamento oggi consolidato e predominate, la Corte di Cassazione ha ribadito che "integra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di un ramo di azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale (Cassazione, sezione 5°, 22/1/2013, n. 17965, rv. 255501; sezione 5°, 10/1/2012, n. 10778, rv. 252008), specificazione del consolidato principio per cui costituisce attività distrattiva anche l’operazione con la quale si estrometta un bene dal patrimonio dell’impresa senza che l’equivalente entri nel patrimonio acquisito al fallimento", estendendo la censura mossa anche al "contratto di locazione connotato da un canone sensibilmente inferiore a quelli di mercato" stipulato "al fine di mantenere la disponibilità materiale dell’immobile locato alla famiglia del titolare della società fallenda". Il militare deceduto per tumore contratto in missione risarcito come "vittima del dovere" di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezioni unite civili - Sentenza 16 novembre 2016 n. 23300. Rientra nella categoria delle "vittime del dovere" il militare che - in ferma prolungata e in missione - abbia contratto una patologia letale per essere venuto a contatto con uranio impoverito. Lo precisano le Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 23300/2016. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con un militare che nell’ottobre del 2000, all’età di 27 anni, dopo essere stato impiegato in operazioni in zone di guerra (Somalia e Bosnia), era deceduto per una rara forma tumorale. Gli eredi avevano chiesto il riconoscimento dei benefici previsti dalla legge 266/2005. I giudici di secondo grado hanno riconosciuto il risarcimento. Contro la decisione ha proposto ricorso il ministero della Difesa secondo cui nella fattispecie andava esclusa la sussistenza di un diritto soggettivo con riferimento alle valutazioni del comitato di verifica per le cause di servizio, il che avrebbe escluso il diritto soggettivo. I Supremi giudici, invece, hanno precisato che in questo caso la normativa di riferimento è dettata dai commi 562-565 dell’articolo 1 della legge 266/2005 che hanno esteso i benefici previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo a tutte quelle che vengono definite "vittime del dovere". Chi sono le vittime del dovere - Si legge nella decisione che è proprio il comma 563 a precisare che per "vittime del dovere" devono intendersi i soggetti ex articolo 3 della legge 466/1980 e più precisamente "gli altri dipendenti pubblici deceduti o che abbiano subito un’invalidità permanente in attività di servizio o nell’espletamento delle funzioni di istituto per effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza di eventi verificatisi : a) nel contrasto a ogni tipo di criminalità; b) nello svolgimento di servizi di ordine pubblico; c) nella vigilanza a infrastrutture civili e militari; d) in operazioni di soccorso; e) in attività di tutela della pubblica incolumità; f) a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale non aventi, necessariamente, caratteri di ostilità". Il successivo comma 564, inoltre, amplia ulteriormente l’area dei beneficiari disponendo che sono equiparati ai soggetti di cui al comma 563 coloro che abbiano contratto infermità permanete invalidanti o alle quali sia conseguito il decesso in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali e che siano riconosciute dipendenti da causa di servizio per le particolari condizioni ambientali od operative. Il nesso di causalità - Nella vicenda era stato dimostrato il nesso di causalità tra gli agenti cancerogeni e l’insorgere della malattia. Il militare, infatti, nel corso delle operazioni militari era stato più volte a contatto con particelle di uranio impoverito che per l’appunto avevano provocato l’insorgere della malattia e il successivo decesso. Respinto, quindi, il ricorso della Difesa, condannata peraltro al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti. Lettere: una mattina in via Burla 59, a Parma di Federica Graziani huffingtonpost.it, 17 novembre 2016 "Se ti fosse data la possibilità di imbarcarti sul Narrenschiff (la Nave dei folli) parmense, in piena estate, com’è successo a me, ti ritroveresti ad attraversare corridoi con poche finestre da un lato e penzolanti braccia tra le sbarre dei cancelli dall’altro. Dove ombre di uomini annaspanti boccheggiano silenti all’interno delle loro celle, nelle quali l’unica finestra è chiusa e oscurata per impedire l’entrata del calore sprigionato da un sole cocente che batte il versante dalle 13.00 alle 21.00 di ogni santo giorno. Accorgimento suggerito dalla direzione sanitaria, quello di oscurare e chiudere le finestre, leggeresti su uno dei cartelli esposti in bacheca; per sopperire a uno dei più illustri "capolavori" d’ingegneria architettonica. Così, con la mente ottenebrata dal caldo, anche tu ti ritroveresti a riflettere sul modo per sopravvivere. Inclusa la possibilità di bere l’acqua dal comune pozzo delle follie, in specie dopo aver ripensato all’avviso pubblicato dalla direzione sanitaria che, anziché prescrivere la sosta in luoghi areati o dichiarare inagibile la struttura, ha suggerito di chiudere e oscurare l’unica finestra. E con essa magari tutti i problemi, le sofferenze di quell’umanità disperata, abbrutita che si trascina in questo carcere. Per sopperire questa volta all’indifferenza di quelle figure istituzionali deputate a vigilare e a garantire il diritto alla salute e al reinserimento sociale, un altro di quei capolavori di ingegneria costituzionale rimasto alla fase di progetto". È la mattina di venerdì 21 ottobre scorso quando questa lettera, insieme a molte altre, mi viene recapitata fra le mani da uno della settantina di detenuti che hanno avuto il permesso di scendere dalle proprie celle verso la sala che ha appena finito di ospitare l’incontro fra Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, e le diverse persone che trascorrono le loro giornate dentro il carcere di Parma. Operatori sanitari, addetti dell’area formazione, polizia penitenziaria, dirigenti. E detenuti. Tutti con un posto riservato nella sala teatrale i cui severi tendaggi porpora, per lo spazio di due ore scarse, si sono aperti per inscenare la prima riflessione corale sulla casa di reclusione di Parma, uno dei 12 istituti carcerari italiani che contengono sezioni di alta sicurezza (per chi voglia conoscere i dettagli dell’istituto, e avere un’idea, in forma di tabella, della vita che vi si svolge, qui il prezioso rapporto dell’associazione Antigone). L’incontro è stato tenacemente voluto da due dottoresse: Carmen Cimmino, dirigente psichiatra, e Maria Inglese, responsabile dell’Unità operativa che si occupa di salute mentale e dipendenze patologiche all’interno del penitenziario di Parma. Entrambe, nell’introdurre alla platea di tute e divise - condotti e conducenti - il tema del ritrovo, sottolineano la necessità che tutte le voci presenti all’interno della struttura carceraria ragionino insieme. Si è tutti detenuti in carcere. E si deve quindi essere tutti coinvolti nell’ascolto e nel dialogo che ha a materia la domanda che dentro tutti si fanno: come migliorare la condizione carceraria? Il primo a prendere parola è il direttore degli Istituti penitenziari di Parma, Carlo Berdini, che dopo aver sottolineato la difformità dei singoli casi, spiega come a Parma non sia stato ancora attivato il regolamento d’istituto - che dovrebbe sovrintendere alla vita interna del carcere - e il lavoro quindi proceda secondo i dettami di un ordine di servizio datato, che attende da anni di essere sostituito. "Gli interventi vanno calibrati sulle persone, non sulle normative", aggiunge concludendo Berdini. Il silenzio è acuto quando la parola passa a Luigi Manconi, al cui buongiorno rispondono tutti, obbedendo a un riflesso unanime che sembra ospitare un’invocazione più che un protocollo. "I detenuti hanno bisogno di tutti, in assenza di tutto. I detenuti hanno la volontà e la speranza di comunicare all’esterno del carcere. Cosa si spera in galera più di questo?". Ed è al di fuori del perimetro dei massicci penitenziari che i dati di cui si sostanzia l’intervento di Manconi - due su tutti, il primo: i suicidi fra i detenuti sono fra le 15 e le 17 volte più frequenti che nel resto della popolazione nazionale; il secondo: negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita quasi 100 poliziotti penitenziari, a fronte di un numero sensibilmente inferiore negli altri corpi di polizia - devono trovare ascolto, perché la prigione ammala tutte le componenti della comunità carceraria. Ma il carcere, continua Manconi, non è solo dannoso, è anche inutile. Con un altro dato: la recidiva tra chi sconta interamente una pena nella propria cella si attesta fra il 60 e il 70 per cento, per chi sconta la propria pena fuori cella è meno del 20 per cento. La condivisione coatta di uno stesso destino, fra detenuti, operatori e poliziotti, è afflittiva e mortificante della dignità e dei diritti di tutti coloro che finiscono dentro: deve e può esserlo meno se tutte le persone che abitano il carcere contribuiscono a renderlo vivibile, capace di accogliere al proprio interno percorsi di formazione, e relazioni. Perché è così difficile che questo avvenga? E perché è così facile, al contrario, che all’interno della società cosiddetta civile ci s’interessi al carcere nei termini di un giustizialismo che dell’invito a "buttare le chiavi", e con le chiavi i destini dei reclusi, fa il suo canone e ritornello? Manconi insiste sull’urgenza di affrontare il rapporto tra carcere e società, su cui pesa stabilmente la radicata distanza della classe politica, cronicamente disinteressata a un materia, quella della vita dei reclusi, che porta a chi gli si accosta una netta perdita in termini di voti, inconveniente non marginale per la carriera di chi aspiri a incarichi di governo. Rivolgendosi ai detenuti, Manconi conclude così il suo intervento: "Dentro il carcere ci sono persone, non crimini. Omicidio, furto, ricettazione, estorsione, contro nomi e cognomi. I vostri nomi e cognomi. Dovete liberare voi stessi attraverso il riconoscimento altrui della vostra persona, non dovete accettare la riduzione all’etichetta criminale". Riecheggiano le parole scritte in un lungo racconto straordinario, "Il giardino delle arance amare" (contenuto in una raccolta che s’intitola "Dentro", scritta da Sandro Bonvissuto nel 2012), in cui un io narrante che vive solo del fiato necessario a passare in rassegna i suoi giorni incarcerati - dalle impronte rubategli dalle mani, il primo dei diversi furti che subirà in prigione, all’uscita dal complesso carcerario, una porticina su un muro glabro che lo spingerà fuori senza alcun commiato - fissa il momento in cui il detenuto diventa unicamente il ricovero del proprio delitto: "Una delle cose più assurde che succede a chi sta in carcere è che il detenuto comincia piano piano ad assomigliare al suo reato. Ed è strano che accada, perché detenuto e reato non sono certo la stessa cosa; uno è un uomo, l’altro è la sua colpa. (...) Così lei diventa più importante di te. Ti sovrasta. Ti domina. Attira consenso e favore, o disprezzo, o viceversa rispetto. E alla fine tu non conti più niente, conta solo lei. (...) Un delinquente comincia ad assomigliare al suo reato solo dopo averlo commesso. Quando inizia a conviverci. Dopo che il reato diventa l’unica cosa che è stato capace di essere". Dappertutto si alzano mani dalla platea. I detenuti, sbracciandosi, si contendono silenziosamente il primo intervento. La dottoressa Inglese, che modera l’incontro, dà la parola a Raffaele, in seconda fila. Formidabile il silenzio che lo precede. "Siamo impotenti. Stiamo oziando. Parliamo, parliamo, ma le parole che diciamo noi vanno in vento. Nessuno ci ascolta. Devo dare spazio agli altri, lo so, ora taccio". È la volta di Alvaro, quarta fila. "Sono entrato in carcere a 21 anni per scontare una pena a 15 anni. Tra cinque mesi esco, non ho mai lavorato, cosa faccio? Cosa devo fare quando esco, con una società che va a tremila? Vorrei una risposta, è un vuoto che va colmato. Anche fosse un no, lo voglio. Almeno voglio un no motivato da una ragione". Ritorna fatale, insistente, in tutti i discorsi dei reclusi a Parma, lo spettro della latitanza della magistratura di sorveglianza, preposta a vigilare sull’esecuzione delle condanne, con un ruolo che quindi si estende dalle questioni relative ai diritti dei detenuti durante l’esecuzione della pena alla gestione delle misure alternative alla detenzione. Anche Faissal Choroma, direttore sanitario della struttura e Roberto Cavalieri, garante dei detenuti, denunciano l’assenza di risposte da parte dell’ufficio di sorveglianza competente per l’istituto di Parma, quello di Reggio Emilia, che ha problemi di organico sottodimensionato e addirittura per mesi ha sofferto di posizioni vacanti. Il commissario di polizia penitenziaria, Claudio Ronci, cui la Inglese porge il microfono subito dopo, esordisce invece professando l’intenzione di riportare il livello del discorso a quote meno alte e appunta il suo intervento sulle difficoltà incontrate dal suo organico nel lavoro quotidiano in carcere. Il poliziotto, dice Ronci, deve ricoprire un po’ tutti i ruoli: deve essere un po’ psicologo, un po’ sociologo, un po’ garante, un po’ medico, un po’ attore dei trattamenti. Per poterlo fare, ha bisogno di condizioni che non può essere l’unica figura a creare. L’ultimo a parlare sarà Rocco Caccavari, presidente dell’associazione Marino Savini, da anni impegnato ad animare iniziative per la promozione della salute fisica, psichica e sociale negli istituti penitenziari, all’interno di un progetto - Pianeta carcere - il cui nome onora con incontri a cadenza mensile l’impegno di scandire e scandagliare l’inventario di tutti i segmenti della nebulosa penitenziaria. "Il carcere, tradizionalmente, era al centro della collettività, al centro delle città, il che indicava anche geograficamente la responsabilità della comunità verso il detenuto che, quando esce, deve sapere dove andare. Il carcere di Parma è invece un parallelepipedo in un orizzonte lontano, che contiene 5-6000 persone che non fanno altro che consumare il loro tempo". Sbarchiamo dalla nave carceraria in quell’orizzonte lontano dalle mura di Parma, e dalle sue catene di domande in attesa di destinatari. Possiamo accontentarci di essere dalla parte del giusto per scagionare l’assenza di risposte a quelle domande? Possiamo accontentarci di giustificare il disinteresse verso i destini dei reclusi con la scusa delle loro colpe? Possiamo accontentarci di vivere fuori facendo manutenzione della nostra indifferenza? Trento: Mattia Civico (Pd): Garante dei detenuti, da otto anni attendiamo che sia istituito di Donatello Baldo ildolomiti.it, 17 novembre 2016 La Giunta ha inserito la norma dell’istituzione del Garante nella legge di stabilità ma il presidente Dorigatti è perplesso e valuta se dichiararla inammissibile. Civico: "In Aula non si riesce mai a discutere di diritti civili, c’è un problema di agibilità democratica". Il presidente del Consiglio Bruno Dorigatti mette le mani avanti. Sull’inserimento nella legge di stabilità della norma che istituisce il Garante dei minori e il Garante dei detenuti si riserva di deciderne l’ammissibilità. "Vi sono forti perplessità sul nesso che collega questa norma con la natura finanziaria della manovra". Le perplessità sono anche altre, il tema del garante "ha un forte rilievo consiliare". Significa che Dorigatti vorrebbe che su questo ci fosse una discussione approfondita, che fosse l’Aula a trattare l’argomento in maniera esaustiva con un punto ad hoc dell’ordine del giorno e non attraverso un articolo inserito tra i tanti del bilancio provinciale. Ricordiamo però che la legge sull’istituzione del Garante dei detenuti è stata presentata all’attenzione del Consiglio provinciale ben otto anni fa, e che a più riprese la minoranza ha fatto muro. Il solito muro di emendamenti, l’ostruzionismo, la strategia dei tempi non contingentati che portano allo sfinimento e impediscono di fatto di arrivare al voto. Insomma, l’intenzione di discutere c’è stata. E si è discusso. Ma tutti ormai sanno che se si porta in Aula un tema che riguardi i diritti civili questo non vedrà mai la luce: la legge sull’omofobia è stata ridotta a semplice mozione, la legge sulla doppia preferenza di genere è ancora lì che aspetta, ormai senza speranza. Mattia Civico è il consigliere dem che ci ha provato, c’è la sua firma sul disegno di legge che istituisce il garante dei detenuti. "Il tema vero è quello dell’agibilità dell’Aula", afferma subito. "Se desta perplessità che una norma di questo tipo sia inserita in finanziaria - osserva il consigliere - dovrebbe destarne ancora di più il fatto che il Consiglio provinciale non sia messo nelle condizioni di arrivare al voto e di prendere delle decisioni su una questione importante". "La legge di stabilità e in generale la manovra di bilancio - afferma Civico - non può essere vista soltanto come una questione finanziaria. Ha un valore politico e connota la cifra della coalizione che guida la nostra Provincia, esplica la posizione della maggioranza e - ammette - se all’interno c’è l’istituzione dei Garanti non posso che essere contento di trovare questa sensibilità espressa dalla Giunta che io sostengo". Ma la questione dell’agibilità dell’Aula rimane, come rimane il fatto che il presidente del Consiglio potrebbe espungere dall’articolato questo articolo perché ritenuto inammissibile. "Se non verrà ammesso ne prenderò atto - chiarisce Mattia Civico - gli atti del presidente sono insindacabili e devono essere rispettati. Ma prenderò atto anche della impossibilità di arrivare ad una decisione su un tema che aspetta da troppo tempo di diventare legge provinciale - afferma - e forse tutti dovremmo interrogarci su questo, sul fatto che l’incapacità di affrontare in Aula questi temi attraverso un uso ostruzionistico del regolamento pone un problema di democrazia". "Quando otto anni fa abbiamo presentato la proposta dell’istituzione del Garante dei detenuti eravamo i primi in Italia - racconta Civico - ma ora siamo gli ultimi. In tutte le altre Regioni è stato istituito, il presidente della Repubblica ha istituito quello nazionale che quando convoca a Roma i garanti dei territori la sedia del Trentino rimane tristemente vuota". Sul carcere di Trento, che da via Pilati è stato trasferito a Spini di Gardolo, Mattia Civico afferma che "non possiamo essere felici e contenti di aver costruito una nuova struttura e non preoccuparci di quello che la struttura contiene". Si riferisce ai detenuti, "ma anche alle loro famiglie, anche agli operatori che in quel luogo ci lavorano e prestano servizi di volontariato, agli agenti di polizia". Una comunità di persone: "Che fa parte della nostra stessa comunità - spiega Civico - non un qualcosa di estraneo, di lontano. Ma per prendere atto di questo, per costruire un rapporto e per assicurare le giuste tutele a questa parte della nostra stessa comunità serve uno strumento, la figura del Garante di cui si parla da otto anni ma che ancora non è stata istituita nella nostra Provincia". Se non sarà inserita nella legge di stabilità, votata all’interno delle sedute sulla manovra finanziaria in cui non può essere esercitato l’ostruzionismo, la norma dovrà essere portata in Aula attraverso lo strumento del disegno di legge contro il quale si aprirebbe il fuoco degli emendamenti, i tempi non contingentati impedirebbero ancora una volta il voto e l’ostruzionismo vincerebbe ancora una volta. "Se come maggioranza non siamo mai disponibili a mettere un punto fermo su questi temi - osserva il consigliere - al Consiglio non rimarrà altro da affrontare se non la normale amministrazione. Se la colazione di governo non riesce a far passare la propria visione allora la stessa coalizione ne esce con i contorni sfumati, perde la propria identità e il problema diventa politico". Ma cosa si può fare? "Forse è tempo di provare a fare un passo in avanti, nel rispetto della minoranza ma anche nel rispetto di chi è stato chiamato a prendere delle decisioni, perché - afferma Civico - è giusto garantire il diritto delle minoranze di fare opposizioni ma è altrettanto giusto garantire alla maggioranza di promuovere l’iniziativa legislativa che esprime la propria visione". "L’autorevolezza di un’Aula consiliare - aggiunge Civico - non si misura soltanto dall’osservanza del regolamento e dal rispetto stringente delle sue regole. La sua autorevolezza si esprime anche e soprattutto dalla sua capacità di saper affrontare temi alti, a volte difficili, ma che affrontano la realtà e trovano soluzioni. Come questo tema, che vorrei fosse risolto una volta per tutte". Trento: è morto padre Fabrizio Forti, il cappellano del carcere "frate degli ultimi" Il Trentino, 17 novembre 2016 Fondatore della mensa dei poveri e cappellano del carcere, avrebbe compiuto a giorni 67 anni. È morto all’improvviso, la scorsa notte nella sua stanza al convento di Trento, padre Fabrizio Forti, frate cappuccino, cappellano del carcere di Trento e fondatore e anima della mensa dei cappuccini che dal 2000 offre ogni giorno centinaia di pasti ai poveri e che si fonda su una macchina di 400 volontari. Avrebbe compiuto 67 anni il 20 ottobre. Padre Fabrizio era molto noto in Trentino per il suo impegno di cappellano della casa circondariale di Lamar, a pochi passi dal sobborgo di Gardolo dove era nato nel 1949 e dove probabilmente si terranno i funerali. Dal percorso ventennale al convento di Segonzano, che anche grazie a lui era diventato punto di riferimento in val di Cembra, all’esperienza di Valle Aperta a metà degli anni 80 per i malati psichici, Fabrizio Forti era molto conosciuto e apprezzato anche in valle di Cembra, esponente di una Chiesa che si occupa degli ultimi e che apre le porte, colonna di un volontariato trentino con cui ha condiviso la sua vita. Lo ricorda con affetto il vescovo Lauro Tisi: "La scomparsa di padre Fabrizio Forti ci addolora molto. Con lui se ne va prematuramente una colonna di quella Chiesa capace di incarnare il Vangelo dei poveri e il volto misericordioso di Dio". "Padre Fabrizio - aggiunge monsignor Tisi - si è speso per restituire dignità alle persone, fossero piegate dall’indigenza o condannate al carcere. Ha narrato un Dio che non emette giudizi, ma si prende cura di chi fa più fatica. Dio lo ha chiamato durante il Giubileo della misericordia, quella che lui ha esercitato per tutta la vita con fede tenace. Prego perché le opere e le idee dell’amico Fabrizio possano continuare a portare frutto". L’ex governatore, oggi deputato Lorenzo Dellai: "La testimonianza coerente ed esemplare di Padre Fabrizio - come quella di don Dante, suo maestro - ci interroga tutti con durezza e ci toglie ogni alibi, come cittadini e come classe dirigente. Ripartire dagli ultimi non è uno slogan ma una condizione per vivere i valori della fede - per chi ne ha il dono - e per servire il bene comune. Abbiamo tutti un grande debito verso Padre Fabrizio e verso quanti come lui tengono vivi e realizzano i principi di umanità e di solidarietà in questo tempo di grandi smarrimenti". Gorizia: la Sezione per detenuti gay al centro delle polemiche, "venga chiusa subito" gay.it, 17 novembre 2016 "Nonostante le stanze fossero all’interno di una sezione di per sé chiusa, le loro porte continuavano a essere chiuse dalle ore 16 di ogni giorno". Avevamo parlato ad aprile della decisione del carcere di Gorizia di aprire una sezione interamente riservata ai detenuti omosessuali: mesi fa la questione fece discutere perché i sindacati misero in luce la mancanza di risorse umane e materiali e l’inadeguatezza di un’idea simile, che non fa altro che rendere la detenzione ancora più isolante e traumatica: la sezione inoltre si trova nell’area ristrutturata del carcere, senza dare la possibilità ai detenuti di partecipare alle attività di recupero comuni. Se l’intento apparentemente sembra nobile, il risultato è quello di provocare un isolamento forzato, non lasciando spazio ad un degno recupero. Ora però è intervenuto anche il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: se egli aveva già segnalato l’anti-economicità del progetto, l’eccessiva ampiezza degli spazi e l’inaccettabile situazione di separazione senza ricevere alcuna risposta, ora torna a chiedere che la situazione venga risolta. "Nel giorno della visita", si legge nel rapporto, "la sezione ospitava due persone detenute già presenti nel maggio scorso, indicate come Detenuto 3 e Detenuto 6 (rispettivamente M. D. e S. I.). Erano in due stanze distinte, totalmente separate e chiuse rispetto al resto dell’Istituto e l’unica attività loro concessa era la possibilità di andare in biblioteca una volta a settimana. Nonostante le stanze fossero all’interno di una sezione di per sé chiusa, le loro porte continuavano a essere chiuse dalle ore 16 di ogni giorno. Inoltre la sezione continuava a essere munita per attività in comune (tra i due) soltanto di un calcio-balilla e tenuto conto che uno dei due detenuti (Detenuto 6) aveva avuto e continuava ad avere frequenti e prolungate assenze dal reparto sia per ricoveri ospedalieri sia per trasferimenti ad altre sedi per ragioni di giustizia, la proposta di tale unica attività ludica per un detenuto frequentemente solo suscita soltanto amara ironia". La richiesta quindi è quella di porre fine all’esperienza della sezione protetti omosessuali e di trasferire le persone attualmente detenute in quegli spazi. Brescia: Fp-Cgil "le carceri cittadine rischiano il collasso per la mancanza di personale" bsnews.it, 17 novembre 2016 La Cgil di Brescia lancia l’allarme sull’emergenza nelle due carceri cittadine dovuta alla carenza di personale di Polizia Penitenziaria e del Comparto Ministeri, in particolar modo dei funzionari contabili prossimi al trasferimento in altri Istituti. Secondo il sindacato i dati sono allarmanti ed emblematici: nella Casa Circondariale di Brescia (Canton Mombello) sono previste 52 presenze fra polizia penitenziaria e sottufficiali, ma sono presenti appena 13 (11 Ispettori e 2 Sovrintendenti), su un organico di 195 tra agenti e assistenti ne mancano oltre 50 unità (tra distaccati in altri Istituti Penitenziari fuori regione e personale in carico alla Commissione Medica Ospedaliera). È presente un solo funzionario contabile prossimo al trasferimento. Nella Casa Reclusione Verziano sono previste 16 presenze fra polizia penitenziaria e sottufficiali, ma sono realmente presenti appena 4 (3 Ispettori e 1 Sovrintendente). Su un organico 69 tra agenti e assistenti ne sono in servizio 40 tra personale maschile e femminile. Anche qui è presente un solo funzionario contabile prossimo al trasferimento in altra amministrazione. "Ormai la situazione è divenuta critica ed insostenibile - fa sapere il sindacato - in cui ci sono poliziotti penitenziari ad assicurare il mandato istituzionale, come l’ordine, la disciplina e la sicurezza oltre a garantire le varie e tante attività trattamentali in essere nei due Istituti di pena, ma con grande affanno e forti carichi di lavoro e responsabilità. L’Amministrazione Penitenziaria Centrale, ormai, è inerte e priva di iniziative rispetto alle denunce sindacali. La gravissima carenza di personale di Polizia Penitenziaria obbliga le Direzioni a impiegare i poliziotti in turni di otto ore e oltre. La mancanza di fondi non permette di pagare il lavoro straordinario ai poliziotti ormai dal mese di luglio, siamo dinanzi ad una forma di "sfruttamento" dei lavoratori da parte di un’Amministrazione dello Stato". "Il rischio concreto - continua la Cgil - è che si comprimano i diritti fondamentali dei lavoratori come la fruizione dei riposi settimanali, le ferie etc. Per quanto riguarda i funzionari contabili rivestono particolare importanza all’interno delle carceri che, come ovvio, si occupano di tutti quegli aspetti contabili sia per il personale, per i detenuti ma curano anche il pagamento delle ditte esterne che potrebbe subire dei forti ritardi. Non può essere tollerata la paralisi di una Amministrazione Pubblica che mette in serio rischio la propria efficienza ed efficacia da un punto di vista amministrativo-contabile impiegando, proprio in quei delicati compiti, personale della Polizia Penitenziaria professionalmente non preparato ne formato costituendo una forma di ulteriore depauperamento degli addetti alla sorveglianza e custodia, peraltro già in gravissima sofferenza di organico. Non può essere accettabile il comportamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che se da un lato asseconda le legittime aspettative di questi lavoratori, con la mobilità, dall’altro non asseconda le medesime esigenze degli Istituti Penitenziari bresciani che a questo punto rimarrebbero, praticamente, senza alcun contabile. Da evidenziare che gli unici due contabili non erano sufficienti a soddisfare le esigenze contabili degli istituti, figuriamo adesso con la totale assenza. La Fp Cgil manifesterà nella giornata del 29 novembre dinanzi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma per le gravissime problematiche che attanagliano le carceri italiane, quindi anche bresciane. Fossombrone (Ap): Borgo contro la Rems, piovono le diffide e le richieste danni Corriere Adriatico, 17 novembre 2016 Cresce la tensione a Borgo Sant’Antonio, quartiere aldilà del ponte a Fossombrone per la presenza della Rems, la struttura per detenuti affetti da malattie mentali. Lo si é toccato con mano in occasione del nuovo incontro indetto dal Comitato di Quartiere. Per raccogliere le adesioni, sempre più numerose perché finiranno con il coinvolgere anche i residenti di qualsiasi altro angolo cittadino, con tanto di diffida all’Asur e alle altre autorità preposte per preannunciare la vertenza di rimborso se la struttura in corso d’opera verrà completata e resa funzionale. Chi abita al Borgo ed é proprietario di un appartamento o di una casa vedrà notevolmente ridotti i valori dei proprio beni. Sono pronte le prime diffide. Sono diverse decine. Il numero è destinato ad aumentare. Gli esposti finiranno alle Procure competenti dopo l’avvio dell’azione risarcitoria da parte dei cittadini. La realizzazione della residenza per detenuti psichiatrici pericolosi prosegue a ritmo accelerato. Nonostante le denunce sottoscritte anche dai Comitati stante la difformità del primo progetto rispetto a quello realizzativo in un’area non edificabile. Quella che in prima istanza era stata di fatto evitata. Roma: al carcere di Rebibbia le attività di volontariato si interrompono alle 15,30 Ansa, 17 novembre 2016 Il carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso sempre più nell’occhio del ciclone. Dopo l’evasione di ottobre di tre detenuti albanesi, che si sono calati con le funi dal muro di cinta, e la perquisizione dei giorni scorsi nel corso della quale all’interno delle celle sono state rinvenuti seghetti, punteruoli e droga, la direzione del carcere ha emesso un ordine di servizio per cui, da ieri, le attività di volontariato si interrompono alle 15,30. Il motivo è la carenza di polizia penitenziaria. "La direttrice Rosella Santoro, che sostituisce il direttore in questo periodo in malattia - spiega il Garante per i detenuti del Lazio, Stefano Anastasia - assicura che si tratta di un provvedimento a tempo determinato, che potrebbe rientrare appena il Dap invierà i 20 nuovi agenti promessi". "Aspettiamo che l’emergenza rientri - aggiunge - perché questo ordine di servizio danneggia i detenuti. I volontari sono persone che di mattina lavorano e svolgono il loro servizio di volontariato appunto di pomeriggio". Salerno: il Sappe denuncia "tensione nel carcere di Fuorni, violenta rissa tra detenuti" Il Velino, 17 novembre 2016 Resta alta la tensione nel carcere di Salerno, dove ieri è avvenuto l’ennesimo evento critico, con un regolamento di conti tra detenuti italiani e stranieri che ha determinato una spedizione punitiva a seguito della quale due ristretti di nazionalità marocchina sono finiti all’Ospedale. La denuncia è arrivata da Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, oggi in visita nell’Istituto di pena di Fuorni. "Ieri pomeriggio, verso le 13.30, al secondo piano della Prima Sezione detentiva del carcere, c’è stata una violenta rissa tra alcuni detenuti italiani e un gruppo di ristretti stranieri, di nazionalità marocchina, che si sono fronteggiati con calci, pugni e lancio di oggetti - spiega il segretario generale - Forse il pretesto del furioso pestaggio tra i detenuti è tra i più futili, ossia l’incapacità di convivere, seppur tra le sbarre, con persone diverse. O forse le ragioni sono da ricercare in screzi di vita penitenziaria o in sgarbi avvenuti fuori dal carcere. Fatto sta che ieri pomeriggio i detenuti, una decina gli italiani, 5 gli altri, si sono picchiati. E se non fosse stato per il tempestivo interno dei poliziotti penitenziari le conseguenze della rissa potevano essere peggiori. I Baschi Azzurri della Polizia Penitenziaria di Salerno - ha continuato Capece - sono stati dunque bravi a evitare gravi conseguenze. A loro va l’apprezzamento e la solidarietà del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, che pure denuncia su Salerno una assenza di interlocuzione con la Direzione sulle criticità che da tempo il primo Sindacato del Corpo segnala". "La situazione nelle carceri campane resta allarmante, nonostante l’ingiustificato ottimismo di una Amministrazione penitenziaria evidentemente distante dalla realtà. Quello di Salerno - ha poi concluso - è l’ennesimo grave e intollerabile evento critico che accade in un penitenziario campano. La tensione tra le sbarre delle celle resta palpabile. È necessario intervenire con urgenza per fronteggiare le costanti criticità penitenziari, a cominciare dal ripianamento delle carenze organiche dei Reparti di Polizia Penitenziaria della Campania". Roma: "Non solo carcere", convegno sulla finalità rieducativa della pena di Daniele Unfer avantionline.it, 17 novembre 2016 "Non solo carcere", un convegno, quello promosso dal Senatore socialista Enrico Buemi, che si ispira all’ultimo lavoro dell’architetto Domenico Alessandro De Rossi sulle "norme, storie e architettura dei modelli penitenziari". Il convegno ha come titolo: "Ruolo dell’architettura penitenziaria nell’attuazione del principio costituzionale della finalità rieducativa della pena" e vi hanno partecipato, oltre all’autore del libro Domenico De Rossi e il senatore Enrico Buemi, Felice Casson, Luigi Manconi, Nico D’Ascola e Francesco Nitto Palma. A moderare il dibattito Errico Novi, giornalista de "Il Dubbio". Un convegno che ruota attorno a un concetto portante: la funzione rieducativa della pena. In Italia le carceri sono sovraffollate, invivibili non solo per i detenuti ma anche per coloro che per lavoro vivono molte ore della loro vita in quegli ambienti. Il problema giace irrisolto da decenni sui tavoli della politica nonostante svariati e spesso improvvisati tentativi di soluzione. Non si può affronate il problema delle carceri oggi se non "si adotta una visione alta e sistemica" che tenga conto di tutti gli aspetti normativi, architettonici, economici, sociologici e politici. Il Senatore Nico D’Ascola, presidente della commissione giustizia, ha sottolineato che serve una riforma che non sia solo di settore ma di sistema. "Serve una intera legislatura per mettere mano al diritto penale e al suo sistema punitivo tradizionale. Una logica basata sulle sanzioni amministrative punitive potrebbe essere una strada per la semplificazione più rapida e anche efficace. Insomma una riforma da ripensare nel suo complesso. Il diritto penale deve fortemente dimagrire e trovare un’alternativa al carcere con metodi sanzionatori che siano punitivo ma non per forza detentivi". "Una pena esorbitante - continuato D’Ascola - non è rieducativa. Le pene previste dal nostro ordinamento sono mediamente superiori di un terzo rispetto alla media europea. Poi vi è la annosa questione della custodia cautelare. Chi si trova in questa condizione infatti subisce il carcere e le sue condizioni senza che su di sé gravi una sentenza". Il responsabile giustizia del Psi Enrico Buemi ha finalizzato il suo intervento sulla finalità educativa della pena, concetto scritto chiaramente in Costituzione. "Questa finalità - si è chiesto Buemi - è rispettata o no? Io - ha detto - penso assolutamente di no. Perché non c’è solo il principio, ma la sua applicazione, mai concretizzata però. Il carcere sequestra il tempo. Ma di quel tempo cosa di può fare? Come può essere utilizzato? È questo il tema. Quel tempo va utilizzato per preparare il soggetto a una educazione positiva". Buemi ha poi ricordato alcuni dati: "Ogni detenuto costa 180 Euro al giorno. Complessivamente sono due miliardi all’anno. E senza nessuna funzione educativa da parte dello Stato". "La mia esperienza, è quella di una situazione detentiva drammatica. Non si può prevedere il diritto penale senza detenzione, però servono nuovi strumenti. Il carcere deve essere concepito non come luogo che impedisce ma che favorisce - ha concluso - la rieducazione superando il pregiudizio della funzione ritorsiva degli istituti di pena". Il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani, ha disegnato un quadro della vita all’interno dei penitenziari: "Il numero dei detenuti è stato ridotto ma il sovraffollamento esiste ancora in molti istituti. In numerose celle, quasi il 50%, il numero di detenuti presenti impone di stare sdraiati sulle brande per consentire agli altri di stare in piedi e muoversi, lo spazio-giorno e lo spazio-notte si sovrappongono. E dentro questa dimensione di promiscuità coatta la possibilità di conservare la dignità viene costantemente messa alla prova". "In carcere si parla della vita in carcere, i criminali parlano di crimini. Come pensare che tutto ciò non scolpisca la mente? Spazi angusti producono pensieri stretti. La dimensione - ha aggiunto - costituisce una prigione della ragione". Secondo Manconi, "il più volte prospettato trasferimento di Regina Coeli fuori dal centro città corrisponde all’allontanamento dalla vista del carcere, luogo deputato a ospitare il male. Di questa istituzione avvertiamo l’intollerabilità alla vista. Tutta l’ingegneria e l’architettura hanno operato nelle direzione di sottrazione dalle relazioni sociali, dalla comunicazione tra il dentro e il fuori". Nuoro: a Badu e Carros dibattito sul perdono con esperti, educatori e un centinaio di reclusi di Giacomo Mameli La Nuova Sardegna, 17 novembre 2016 Nell’ex supercarcere di Badu e Carros, la sua cappella - quella dove si suole celebrare la Messa e si distribuisce l’ostia della Comunione - è diventata non solo auditorium o aula magna ma un confessionale, a porte aperte questa volta. Ascoltano un centinaio di detenuti, età media 40-45 anni, sette donne (tre africane), suore, educatori ed educatrici, in prima fila e attentissima la direttrice della prigione, Luisa Pesante. I primi hanno i volti chiaramente tristi, si presentano uno per uno con nome e cognome, sembra invochino comprensione. Sono soprattutto loro a voler capire che senso ha questa parola - perdono - di cui si è occupato un Ghandi nuragico contemporaneo, Daniel Lumera che altri non è che un algherese - in anagrafe Giovanni Andrea Pinna, 41 anni. Le testimonianze. È uno psicoterapeuta internazionale, scrittore e docente universitario, per Mondadori ha scritto "La cura del perdono". Lo fa senza tonaca e senza saio perché il vero "perdono" non è un sentimento religioso, ma un momento di libertà, di liberazione. Cita Buddha ribadendo che "l’odio non cessa mai con un altro odio". I detenuti hanno gli occhi lucidi, siano spacciatori o rapitori, assassini o rapinatori. Si alzano e pongono domande all’autore, ripetono nomi e cognomi, sono Alessandro One e Alessandro Two, Nico e un albanese, Bruno e Marcello, Foe e un Soru nostrano dell’Alto oristanese, parla un Deiana, e poi un Daniele, ancora un Ivan. Parla una serena Cristina Berardi che sa quali siano le umane malvagità ma vorrebbe solo "poter incontrare uno dei miei rapitori e scambiare con lui pareri sull’esperienza umana". Parole profonde quelle della Berardi per dire perdono, per capire che ogni giorno, dopo una notte, nasce un nuovo sole. È la Berardi, in questa gelida serata autunnale, a dar corpo e calore al senso reale del perdono, proprio lei rapita quando aveva 26 anni e insegnava in Ogliastra. Parla un magistrato di sorveglianza, Riccardo De Vito, cita Hannah Arendt che delle persecuzioni morali e corporali sapeva qualcosa mettendo insieme "l’irrimediabilità del passato e l’imprevedibilità del presente". De Vito corre a The Sound of Silence di Simon per rimarcare l’importanza dell’ascolto. Don Felice Nuvoli usa il vocabolario da teologo, Gianfranco Oppo quello di educatore, Paqujto Farina fa il lettore, Eva Cannas ricorda la sua via crucis familiare (due fratelli assassinati a Mamoiada). Il passato rimane. È salutata da tanti applausi perché Eva è la testimonianza concreta della parola perdono che - anche in Barbagia - non è dimenticanza, non è cancellazione del passato. Le sue sono frasi da incorniciare, si capisce che è stata a lungo fra i banchi delle aule scolastiche: "Il mondo non migliora se non miglioriamo noi stessi/ la mia vita ha incontrato la vita degli altri/ il perdono non cancella i fatti ma la vendetta li aggrava/ anche chi mi ha ingiuriato è il mio prossimo/ non possiamo dimenticare che gli uomini sono uguali fra loro/ perdona chi è forte". Un volto nero. La cappella del carcere - quel cupolone di granito che svetta su Nuoro nel pianoro di Badu e Carros - è fatta a esagono. I sei lati interni hanno altrettante losanghe di vetro, su una parete un Crocifisso che ricorda quello di Nicodemo di Oristano, l’altare bianco, un tavolo verde per la presentazione del libro, un lungo bouquet di fiori, una Madonna con tunica bianca e manto celeste. I banchi sono tutti occupati, spicca un volto nero, uno solo. E occhi neri e castani di ragazze. All’ingresso, dopo portoni celesti in ferro, un androne con la statua di San Basilide, soldato romano che si rifiutò di eseguire condanne a morte e che è diventato il patrono della polizia penitenziaria "per la sicurezza e la rieducazione del detenuto", sottolinea la direttrice che nel suo volto mette insieme umanità e sofferenza. Quadri di vita bucolica, in un angolo i pacchi postali per i detenuti spediti da Avellino, Ostia, Perugia. E poi alcuni stupendi murales, si intravede lo stile e il messaggio etnografico e antropologico dell’artista di Irgoli-Tinnura Pina Monne. È stata lei a far lezione, per anni, ai detenuti in una prigione nota in tutt’Italia per la massima sicurezza, per quel delitto che avvenne nel Ferragosto di oltre trent’anni fa con un morto ammazzato - Francis Turatello - fra le sbarre. È stata Pina Monne a far usare tavolozza pennello e colori a chi semmai aveva preso in mano una P38, una doppietta o una pattadese. La pittura, il disegno, l’arte per esorcizzare la violenza, per educare, per vivere. La serata del libro sul perdono finisce. I detenuti salutano. E molti chiedono: "Tornate, vogliamo ascoltare, vogliamo capire". Lecce: "Biblioteca Vivente", i detenuti si trasformano in "libri umani" Quotidiano di Puglia, 17 novembre 2016 Libri umani. I detenuti della Casa circondariale di borgo San Nicola si trasformeranno in racconti da consegnare agli spettatori che prenderanno parte, sabato dalle 16 alle 20 presso il Conservatorio Sant’Anna, alla "Biblioteca Vivente" viene rielaborata dalla cooperativa milanese ABCittà nel 2011, mutuando l’esperienza danese di Human Library. "Il carcere è un’accademia del crimine, chi ci entra ci ritorna sempre, loro, quelli che stanno dentro, sono violenti di natura, escono sempre troppo presto, vivono a nostre spese come se fossero in albergo, e alla fine stanno meglio di noi", fanno sapere gli organizzatori. Sono tra i tanti pregiudizi che Biblioteca Vivente vuole affrontare e spezzare in questa edizione. Il percorso è stato avviato da ABCittà nella Casa Circondariale di Lecce a luglio 2016, all’interno di un progetto finanziato dalla Fondazione Banca Nazionale delle Comunicazioni e vede un percorso parallelo con il Carcere di Roma Rebibbia femminile. Quattordici detenuti e due operatori hanno accettato la sfida di diventare "libri umani" attraverso quattro incontri di formazione all’interno del carcere, accompagnati dai facilitatori di ABCittà. Pisa: "Limitrofia", in mostra gli scatti dei detenuti della Gorgona gonews.it, 17 novembre 2016 Gli scatti in bianco e nero dei detenuti della casa circondariale dell’isola di Gorgona (Li) saranno in mostra dal 19 novembre al 13 dicembre a Pisa, nello spazio espositivo "Sopra le Logge" adiacente al Comune. L’esposizione "Limitrofia" è l’atto conclusivo di un progetto fotografico durato circa due anni, condotto dal fotografo Francesco Sinni assieme ai detenuti della Gorgona, in luoghi dell’isola-penitenziario che normalmente sono a loro interdetti. L’inaugurazione della mostra si terrà sabato 19 novembre, a partire dalle ore 18. L’ingresso è gratuito. In Gorgona, isola destinata a colonia penale all’aperto già dal 1869, i cosiddetti "limiti" sono linee immaginarie che delimitano zone vietate dall’Amministrazione Penitenziaria, inaccessibili sia per i circa 80 detenuti che vi abitano sia per gli ospiti dell’isola. Il superamento di tali "limiti", avvenuto non solo fisicamente grazie al laboratorio di fotografia, ha portato gli autori a vivere una sorta di evasione temporanea, negli stessi luoghi che sono lo specchio della loro vita quotidiana. Racconta Sinni: "Oltrepassare questi limiti e avventurarsi in luoghi tanto vicini fisicamente quanto lontani, in quanto inesplorati e sconosciuti, ha permesso un approccio molto intimo e autoriale, emozionale ancor prima che fotografico. Il laboratorio di fotografia ha fatto emergere un isolamento più mentale che fisico, e l’evasione che ne è scaturita ha messo in luce interessanti contrasti". "Insegnare la fotografia ai detenuti non solo è servito loro a rappresentare la propria dimensione, ma ha fatto sì che ogni allievo acquisisse una competenza tecnica dell’utilizzo del mezzo fotografico, che si spera un domani possa tradursi in un’occasione di lavoro. Inoltre, il laboratorio ha assunto il significato di terapia trattamentale attraverso il racconto fotografico, mentre la scelta della pellicola fotografica in bianco e nero, al posto della moderna tecnica digitale, è stata dettata dal proposito che i detenuti potessero vivere la fotografia come strumento interpretativo delle proprie emozioni mettendosi contemporaneamente alla prova, scattando in maniera ponderata e abbracciando la qualità della parsimonia". "Limitrofia", realizzata con il Patrocinio del Comune di Pisa e grazie alla disponibilità della Casa Circondariale di Livorno Sez. distaccata di Gorgona-Isola, della Navale di Livorno, di tutta la Polizia Penitenziaria e in particolar modo dell’area educativa nei nomi del Dott. Giuseppe Fedele e di Angela Dipersia, è però anche e soprattutto il risultato di un enorme gesto di generosità. Il laboratorio fotografico non sarebbe stato possibile senza la donazione delle apparecchiature fotografiche da parte di alcuni soci della Fiaf Toscana (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) rimasti nell’anonimato, mentre tutte le stampe in mostra sono state realizzate grazie al sostanziale contributo di persone che hanno fortemente creduto nel progetto e dello Studio Pixel di Pisa. Francesco Sinni, nato a Terracina nel 1976, vive e lavora a Pisa. Diplomatosi in fotografia presso la scuola "Ettore Rolli" di Roma, ha svolto numerosi servizi fotografici per il teatro e il cinema e reportage sociali e di ricerca. Turi (Ba): per il Giubileo dei detenuti visita del Vescovo Giuseppe Favale al carcere turiweb.it, 17 novembre 2016 Che fine fanno i detenuti una volta fuori? - Il Giubileo della Misericordia si conclude con il Giubileo dei Carcerati. "Non chiamiamoli così! Questa parola è troppo dura, sono amici, fratelli, sono il nostro prossimo". Queste le parole, tra le altre, che il Vescovo Giuseppe Favale della nostra diocesi di Conversano-Monopoli ha pronunciato durante l’omelia della celebrazione tenutasi sabato 5 Novembre 2016, presso la Casa Circondariale di Turi. Il Giubileo dei Detenuti si è svolto attraverso una serie di attività organizzate dalla Pastorale giovanile della diocesi, l’esperienza al carcere è stata vissuta da 16 giovani accompagnati da don Nicola D’Onghia e don Stefano Mazzarisi, nei giorni 4-5-6 Novembre 2016. Non a caso l’esperienza è stata così intitolata: "Non m’interessa il motivo, ma l’obiettivo". Non si vuole giudicare, processare o rimuginare il passato. La Misericordia di questo Giubileo appena concluso, al contrario, ci lascia gettando uno sguardo sul futuro, oltre queste fredde mura che in questo tempo di redenzione fanno da nastro isolante col mondo verso la propria coscienza. "Vivete questo tempo come occasione di rinascita" - ha esortato Favale, accompagnato da tutti i parroci di Turi, durante la messa celebrata nella cappella in carcere, dopo aver incontrato i detenuti. "Voglio chiamarvi amici - ha concluso - miei cari, scegliamo la luce, abbandoniamo le tenebre, solo Dio ha senso, e così il passato nella Sua luce viene distrutto. Prego il Signore affinché la vostra vita possa rifiorire, una volta fuori da queste mura". L’appello di un detenuto - Sono state numerose le attività organizzate dai volontari in questi tre giorni. Avremo ancora modo, nei prossimi giorni, di riflettere su questo Giubileo dei Detenuti. Questa settimana vogliamo dedicare un plauso ai volontari, grazie ai quali finalmente i riflettori si sono accesi dentro queste possenti e impermeabili pietre antiche di quello che resta di un ex convento. Il carcere è come un cuore che pulsa al centro di Turi, eppure sembra indifferente al restante tessuto sociale e culturale del paese. Se non fosse stato per i volontari, gli educatori e i parroci di Turi, noi giornalisti non avremmo potuto raccogliere il ‘gridò di speranza, nonché l’appello lanciato da un detenuto a fine celebrazione eucaristica: "Caro vescovo, noi le chiediamo di pregare per noi affinché, una volta fuori, la società civile non ci emargini, ma ci accolga". E dopo il carcere? - Di conseguenza un grande punto di domanda incombe e deve interrogare tutta la comunità: cosa accade una volta fuori? Il carcere di Turi accoglie oltre 140 detenuti provenienti da ogni angolo della provincia di Bari ed è la destinazione terminale nello sconto della pena, perciò il clima che si respira all’interno delle celle è relativamente tranquillo. Ma, una volta fuori? I capiclan e sodali son lì che aspettano e cercano manovalanza peraltro già formata! Sono come avvoltoi o pescecane, i cosiddetti "pesci grossi" che spesso approfittano dei "pesci piccoli" che cinicamente, ai loro occhi, non hanno ormai più nulla da perdere. Invece i pesci piccoli possono ancora farcela, possono rinascere a nuova vita. È dovere, oltre che convenienza per tutti (a chi giova una società che favorisce la criminalità?), fare in modo che questi pesci piccoli non affoghino in un "bicchiere" e tornino liberi di nuotare, come delfini nel "mare della vita". La Spezia: "Riki canta Ruiu", la musica per riprendere in mano la propria vita di Elena Voltolini Gazzetta della Spezia, 17 novembre 2016 Il 19 novembre per la prima volta lo spettacolo in scena fuori dalle carceri. Uno spettacolo "raro", anzi, almeno al momento, unico, nato dalla tenacia di chi non si è fermato di fronte alle mille difficoltà imposte dalla situazione, ma ha fatto di tutto perché l’arte vincesse e fosse strumento di riscatto. "Riki canta Ruiu. Quando il dolore crea valore" è infatti uno spettacolo nato tra le sbarre, scritto tutto con carta e penna, fatto di pochi ma intensissimi momenti di confronto tra gli artisti, di tanti spostamenti in treno dalla Spezia a Lucca, di burocrazia, di porte che si chiudono dietro le spalle. Ma è anche uno spettacolo fatto di speranza, di determinazione, di amore per la musica e per la vita, di voglia di riscatto. Riki è Riccardo D’Ambra cantante del gruppo spezzino dei Visibì; Ruiu è Andrea Ruiu, detenuto ora nel carcere spezzino, prima in quello di Lucca. Ad unirli la passione per la musica. A farli conoscere Luciana Consiglio, cugina di Andrea. Una conoscenza, ovviamente, all’inizio indiretta, limitata solo alle poesie scritte da Andrea in carcere. Ma tanto è bastato: Riccardo D’Ambra le ha subito fatte proprie e messe in musica. Comincia a prendere vita così l’idea di un progetto comune che, con il coinvolgimento del regista Francesco Tassara e dell’attore Andrea Bonomi, diventa il progetto di uno spettacolo teatrale. "Se oggi ci dicessero di ricominciare questa avventura lo faremmo senza dubbio - afferma Riccardo D’Ambra - ma le difficoltà sono state tantissime. Ci siamo dovuti confrontare con molteplici e continui ostacoli: non era facile avere i permessi per andare in carcere ad incontrare Andrea, ci potevamo e ci possiamo vedere poco, quando invece, per creare uno spettacolo, la condivisione, il confronto delle idee, il gruppo sono elementi fondamentali. Il nostro sodalizio è nato per caso, ma è stato magico: ci siamo trovati affini nel voler raccontare quelle storie che solitamente non si raccontano. Il titolo dello spettacolo dice tutto e rivela anche il perché abbiamo voluto andare sino in fondo: la sofferenza tira fuori dagli artisti grandi cose". C’è sofferenza in questo spettacolo, ci sono dolore e commozione, ma c’è anche speranza e c’è la dimostrazione che un riscatto è possibile, come ha sottolineato l’Assessore alla Cultura del Comune della Spezia Luca Basile. "Per questo - rivela Luciana Consiglio, cugina di Andrea Ruiu e presidente dell’Associazione "Riki canta Ruiu libera iniziativa" - vogliamo che questo spettacolo non resti un unicum. Lo portiamo in giro per le carceri, vogliamo che sia un esempio per i detenuti, che li faccia credere che un riscatto è possibile, anche attraverso l’arte. Ma non ci bastava. Affinché non resti un progetto bello ma fine a se stesso, abbiamo già avviato un laboratorio teatrale nel carcere della Spezia che porterà, probabilmente già prima dell’estate, a mettere in scena un altro spettacolo". "Riki canta Ruiu" quindi è un progetto dal grande valore sociale che sabato 19 novembre, per la prima volta, si confronterà con il pubblico "vero". Il Dialma Ruggiero, infatti, dalle 21.00, ospiterà la prima messa in scena all’esterno di un carcere. Le prove? Solo il giorno del debutto, come spiega l’attore Andrea Bonomi: "Anche in questo è l’unicità dello spettacolo. Non ci possono essere prove: Ruiu è detenuto e il permesso lo ha solo per il giorno dello spettacolo". Un bambino su tre a rischio povertà. A Nord più che a Sud di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 17 novembre 2016 Save the Children: coinvolti 1,1 milione di minori. Il Papa: dobbiamo difendere i diritti dei piccoli. Non si può dire se fa più effetto esprimerlo in numeri assoluti, in percentuale o in numeri relativi. Di certo è un pugno alle nostre certezze: c’è più di un milione di bambini molto poveri che vive nelle nostre città. Un milione e 131 mila, per la precisione. Ovvero un minore su tre. Atlante dell’infanzia - Sono numeri che ribaltano i luoghi comuni: la maggior parte di questi bambini vivono nelle città del nostro Nord (490 mila), contro i 450 mila del Sud e i 191 mila del Centro. Save the Children ha messo tutti questi numeri in un librone e gli ha dato un nome gentile: "Atlante dell’infanzia (a rischio), Bambini supereroi". Ci sono anche i disegni dei veri supereroi dei bambini in questo Atlante che è una vera e propria radiografia dell’infanzia del nostro Paese e che è arrivato alla sua settima edizione, con una novità, come ha spiegato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children: quest’anno per la prima volta verrà pubblicato da una casa editrice e pure di grande prestigio, la Treccani. Sfogliarlo per credere: l’Atlante è un viaggio nell’Italia in 48 mappe e ci segnala che il nostro Paese è il fanalino di coda in Europa circa i disagi dei minori. Per capire: da noi sono poveri il 32,1 per cento dei bambini contro il 27,7 della media europea. E anche la sofferenza che i bambini vivono per abitare in case non riscaldate ci mette in coda: da noi è il 39 per cento contro la media Ue del 24,4. E questo quando nel nostro Paese il tasso di natalità è crollato a picco con il 2015 che ha fatto registrare il record negativo di nati (-485 mila). È un pugno alle nostre certezze, questo Atlante pubblicato a pochi giorni dalla Giornata per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che si celebra il 20 novembre. Le parole del Papa - Anche papa Francesco ieri ha voluto fare riferimento a questa celebrazione e ha fatto un appello: "Alla coscienza di tutti, istituzioni e famiglie, affinché i bambini siano sempre protetti e il loro benessere venga tutelato, perché non cadano mai in forme di schiavitù, reclutamento in gruppi armati e maltrattamenti". Papa Bergoglio ha voluto dire anche di più: "Auspico che la comunità internazionale possa vigilare sulla loro vita, garantendo ad ogni bambino e bambina il diritto alla scuola e all’educazione, perché la loro crescita sia serena e guardino con fiducia al futuro". Non si ferma alla superficie, l’Atlante di Save the Children: va dentro le cifre. E scopre che i bimbi poveri vivono di più dentro le famiglie italiane, 325 mila famiglie contro 232 mila famiglie di stranieri e 60 mila di famiglie cosiddette miste, ovvero con uno dei due straniero. Ma nell’Atlante scopriamo anche che le favelas non sono soltanto nelle periferie delle nostre città, visto che ben 93 mila famiglie povere vivono all’interno delle grandi metropoli. E anche a guardare nell’Atlante l’evoluzione statistica della povertà nel nostro Paese si scatena una vera e propria raffica di pugni sulle nostre certezze: nel 2005 era il 2,8 per cento delle famiglie con almeno un minore che viveva in povertà assoluta, nel 2015 si è arrivati al record del 9,3 per cento. Nel 2015 meno morti per terrorismo. Ma +650% nei Paesi Ocse di Silvia Morosi Corriere della Sera, 17 novembre 2016 Il rapporto del Global Terrorism Index: Iraq, Afghanistan, Nigeria, Pakistan e Siria i più colpiti, ma sono aumentate le vittime nei paesi europei, soprattutto in Turchia e Francia. Basta un numero. Sono 29.376 le morti causate dal terrorismo nel corso del 2015. Lo rileva il Global Terrorism Index (Gti), il rapporto di 104 pagine pubblicato dall’Institute for Economics and Peace. L’indice, che classifica e confronta 130 paesi secondo l’impatto del terrorismo, se da un lato (grazie agli interventi militari contro Isis in Iraq e contro Boko Haram in Nigeria) registra un 10% di morti in meno rispetto al 2014 (quando furono 32.685), dall’altro rileva che il 2015 è il secondo anno più "letale" di sempre e che i gruppi terroristici hanno rivolto le loro azioni sia contro i paesi limitrofi sia contro paesi sviluppati, come gli Stati Uniti e le Nazioni europee (Ocse). Iraq, Afghanistan, Nigeria, Pakistan e Siria, che contano il 72% dei morti, sono ai primi cinque posti della classifica dei paesi più colpiti. La Francia si trova al 29esimo posto, la Russia al 30esimo, il Regno Unito al 34esimo, gli Stati Uniti al 36esimo, l’Italia al 69esimo, la Svizzera in posizione 108. La Turchia si piazza al 14esimo posto nell’indice. I numeri del terrorismo - Danimarca, Francia, Germania, Svezia e Turchia hanno tutte avuto nel 2015 l’anno peggiore dal 2000 in termini di eventi terroristici. In tutto, 23 paesi hanno registrato l’anno passato i bilanci peggiori di sempre. "Se da un lato la riduzione complessiva delle vittime è un fatto positivo, l’intensificarsi del fenomeno del terrorismo in determinati paesi e la sua diffusione in nuovi paesi è causa di grave preoccupazione e mette in luce la natura fluida delle attività terroristiche odierne", ha dichiarato Steve Killelea, presidente esecutivo del Iep (Institute for Economics and Peace). "Gli attacchi al cuore delle democrazie occidentali dimostrano la necessità di risposte rapide e adeguate all’evoluzione di queste organizzazioni", ha aggiunto Killelea. L’impatto economico globale del terrorismo è di quasi 90 miliardi di dollari, con l’Iraq a pagare il prezzo più alto: ben il 17 per cento del suo Pil. L’Isis è il gruppo più pericoloso, con attacchi compiuti in 252 città e un totale di 6.141 vittime, seguito da Boko Haram. Tuttavia il gruppo estremista nigeriano ha ampliato il suo campo d’azione ai paesi circostanti portando il numero delle vittime in Niger, Camerun e Ciad a crescere del 157 per cento. Migranti. Ottobre da record: mai così tanti sbarchi in Italia di Davide Lessi La Stampa, 17 novembre 2016 27.500 persone sono arrivate sulle coste italiane contro le 8915 dello stesso mese del 2015. Il Viminale: "Accoglienza sotto pressione". E Frontex addestra la guardia costiera libica. Solo a ottobre circa 27.500 migranti hanno raggiunto le coste italiane attraversando il Mediterraneo. È la cifra più alta mai registrata negli ultimi tre anni lungo questa rotta. L’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex) conferma i dati record pubblicati oggi dal ministero degli Interni: 27.383 persone sbarcate a ottobre contro le 8.915 dello stesso mese del 2015. Accoglienza, sistema al collasso - "Da inizio anno i migranti sbarcati in Italia sono aumentati del 16% e nei prossimi giorni il loro numero supererà la cifra record del 2014, quando a fine anno ne arrivarono 170.100", conferma il capo del Dipartimento immigrazione del Viminale Mario Morcone. Anche i numeri dell’accoglienza sono in aumento: se al 31 dicembre dell’anno scorso erano accolte 103.792, a oggi il sistema ospita 176.645 persone. "Viaggiamo verso le 200mila persone - ha detto Morcone - un numero che se fosse supportato dagli 8mila sindaci non creerebbe alcun problema sul territorio". Ma, ha aggiunto, così non è. Cimitero Mediterraneo - Con gli arrivi aumentano anche le vittime. Sono 4.899 i migranti che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. Di questi 3.654 sono morte nel Mar Mediterraneo secondo il Terzo Rapporto sulla protezione internazionale in Italia (realizzato da Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes e dal Servizio centralo dello Sprar, in collaborazione con Unhcr). L’ottobre caldo non ferma gli arrivi - Secondo Frontex la ragione fondamentale per il record di arrivi a ottobre sarebbe il miglioramento delle condizioni atmosferiche. Incoraggiati anche dal meteo i trafficanti di esseri umani hanno stipato ancora più migranti su imbarcazioni sempre più insicure. I corpi recuperati nei naufragi dello scorso mese sono 127, ma decine se non centinaia sarebbero i dispersi. L’addestramento dei libici - Mentre resta al palo il piano dei ricollocamenti dei migranti tra gli Stati membri, l’Europa cerca nuove soluzioni. "Frontex sta lavorando anche per addestrare la guardia costiera libica e contribuire a costruire la capacità di controllo delle frontiere delle autorità nazionali in Libia", dice il direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggeri. Migranti. La strage nel Mediterraneo di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2016 Da gennaio a ottobre 4.899 morti (3.654 in mare) - Morcone: manca una politica condivisa. Da gennaio a ottobre, cercando di raggiungere l’Europa sono morti 4.899 migranti. Nel Mediterraneo, 3.654 disperati hanno perso la vita. Eppure i flussi sono in continuo aumento. Ieri la Guardia costiera ha salvato 580 immigrati al largo della Libia. Fino a oggi in Italia sono sbarcati 167.148 stranieri: +16,41% rispetto all’anno scorso, secondo i dati del ministero dell’Interno guidato da Angelino Alfano. Nei prossimi giorni il loro numero supererà la cifra record del 2014, quando a fine anno ne arrivarono 170.100: lo ha confermato ieri il capo dipartimento Libertà civili del ministero dell’Interno, Mario Morcone, in audizione al Senato. Non c’è fine, insomma, a uno scenario sempre più drammatico. E sempre più problematico. Accoglienza sotto stress - Se al 31 dicembre dell’anno scorso erano state accolte 103.792 persone, a oggi il sistema ne ospita 176.645. "Viaggiamo verso le 200mila persone - ha detto Morcone - un numero che se fosse supportato dagli 8mila sindaci non creerebbe alcun problema sul territorio". Al contrario "c’è un’insofferenza sui territori diffusa, per motivazione più varie. E questo determina difficoltà per i prefetti a trovare soluzioni". I Comuni impegnati oggi sono circa 2.600. Accade persino che diventino "difficili o di scarso successo i tentativi di mediazione per spiegare e ottenere un’accoglienza diffusa, che è la strada vera che intendiamo intraprendere e portare avanti". Ma una questione più ampia rende il quadro insostenibile. "C’è una politica ostile, non al nostro Paese ma più in generale sui migranti - dice Morcone - che tende a scaricare brutalmente e senza alcuna condivisione sui Paesi di sbarco" il peso delle migrazioni "senza alcuna politica di condivisione vera e nonostante i trattati che tutti i Paesi hanno firmato". I dubbi sulla denuncia Amnesty - Il rapporto di Amnesty su presunti pestaggi delle forze di polizia contro i migranti ospitati negli hotspot contiene una serie di "falsi- una media di 24 al minuto. Lo studio ha contato, lo scorso anno, un milione e 393.350 domande di protezione internazionale nell’Ue, che vede la Germania primeggiare con 476.620 istanze presentate (il 36% del totale) seguita da Ungheria, Svezia, Austria e Italia. I cinque Paesi raccolgono tutti insieme il 74,8% delle domande nel Vecchio continente. Ma non tutti, nel frattempo, hanno trovato ospitalità nell’Ue. Nel 2015 il 98% dei rifugiati ha optato per altri Paesi: la Turchia, con 2,5 milioni di persone, seguita dal Pakistan (1,6 milioni) e dal Libano (1,1 milioni). Sempre nel 2015 i principali Paesi di origine dei migranti sono stati la Siria (4,9 milioni), l’Afghanistan (2,7 milioni) e la Somalia (1,1). Il dramma dei minori - Il direttore generale della Fondazione Migrantes, monsignor Giancarlo Perego, ha acceso un faro sulla situazione dei minori non accompagnati: "Un ambito numericamente quasi raddoppiato nel 2016 rispetto al 2015, che vede un’accoglienza fatta ancora in strutture straordinarie (12mila su 14mila)". I minori migranti non accompagnati arrivati in Italia l’anno scorso sono stati 12.360 mentre dal 1° gennaio 2016 fino a oggi ne sono sbarcati 22.8772. Tra le richieste delle organizzazioni che hanno redatto il Rapporto alcune riguardano le tematiche legate alle frontiere. Si sollecitano i Paesi Ue ad "ampliare i canali umanitari in ingresso nell’Ue, anche attraverso il rilascio di visti da richiedere alle ambasciate dei Paesi di transito e origine". Ipotesi caldeggiata dal sottosegretario all’Interno Domenico Manzione: "Questo è un punto centrale per cercare di dare una soluzione strutturale a un fenomeno strutturale". Asilo, stop al regolamento Ue - La commissione Affari costituzionali della Camera ha espresso parere negativo sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sui meccanismi di determinazione dello Stato Ue competente per l’esame delle domande di asilo. Il parere negativo è stato espresso all’unanimità. Migranti. Meno protezione per i rifugiati, crescono i morti di Luca Liverani Avvenire, 17 novembre 2016 Pubblicato il terzo Rapporto sulla protezione internazionale 2016. Nei primi dieci mesi le persone sbarcate in Italia sono state 159.432 (+13%). In calo le domande accolte. Arrivi in aumento, approvazione delle domande di asilo in calo. Sono le due facce del pianeta delle migrazioni forzate. Nei primi dieci mesi del 2016 infatti le persone sbarcate in Italia sono stati 159.432, un dato che fa segnare un incremento del 13% rispetto al 2015. In flessione invece le risposte positive delle commissioni che vagliano le richieste di permesso di soggiorno per motivi umanitari: nel 2014 i "sì" erano il 60%, l’anno scorso sono scesi al 41,5%, un calo confermato nei primi sei mesi del 2016 con un 40,4% di domande accolte. Numeri importanti, ma gestibili, ribadisce il Viminale: alla fine dell’anno si potrebbe arrivare a 200 mila migranti, "un numero che se fosse supportato dagli 8 mila sindaci non creerebbe alcun problema sul territorio", ripete il capo del Dipartimento immigrazione Mario Morcone. Ma i due terzi dei Comuni rifiutano di accogliere anche piccoli numeri. Il terzo Rapporto sulla protezione internazionale 2016 prende con precisione le misure del fenomeno dei migranti che arrivano in Italia rischiando la vita perché in patria rischiano la morte. A metterlo a punto Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes e Servizio centrale dello Sprar in collaborazione con l’Altro commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). "Questo è un punto centrale per cercare di dare una soluzione strutturale a un fenomeno strutturale", sottolinea il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione, intervenuto alla presentazione: "E quando tre regioni italiane chiedono sull’immigrazione lo stato di emergenza - ribadisce - vuol dire che ancora non si è ben compresa la strutturalità della vicenda. Una condizione che si supera solo con un importante cambiamento culturale". I numeri del fenomeno? A livello globale sono 65,3 milioni i migranti forzati, che fuggono dai 35 conflitti in atto attualmente e da 17 scenari di crisi. Se nel 2005 scappavano dalle loro case 6 persone ogni minuto, nel 2014 erano schizzate a 30 al minuto, con una lieve flessione a 24 al minuto nel 2015. Vale la pena di ricordare che la maggior parte dei profughi non arriva nell’Ue: lo scorso anno il 98% dei rifugiati ha infatti optato per altri Paesi, su tutti la Turchia, con 2,5 milioni di persone, seguita dal Pakistan (1,6 milioni) e dal Libano (oltre 1,1 milioni). In Italia dunque a fine ottobre erano 159.432 le persone sbarcate. Ben 19.429 di questi erano minori non accompagnati. Alla stessa data nel nostro Paese erano 171.938 le persone accolte: 133.727 nelle strutture temporanee, 14.015 nei centri di prima accoglienza, 1.225 negli hotspot e 22.971 nel circuito Sprar, il Servizio protezione richiedenti asilo rifugiati. L’Anci definisce "un importante passo avanti" l’attivazione della "clausola di salvaguardia" inserita nella direttiva di ottobre del Viminale, che esenta i comuni entrati nella rete Sprar, quella per l’accoglienza diffusa e capillare, dall’ospitare altre strutture di accoglienza. Quanti sono i migranti forzati cui viene riconosciuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari? Nel 2015 sono state un milione e 393.350 domande di protezione internazionale nell’Ue: primeggia la Germania con 476.620 istanze presentate (il 36% del totale), seguono Ungheria (177.135), Svezia (162.550), Austria (88.180) e Italia (84.085). Questi 5 paesi raccolgono tutti insieme il 74,8% delle domande presentate in Ue. Ancora nel 2015 i principali paesi di origine sono stati Siria (4,9 milioni), Afghanistan (2,7 milioni), Somalia (1,1). E a fronte di una media europea del 43% di domande accolte per una protezione internazionale, gli stati più "generosi" sono Bulgaria (90% di sì), Paesi Bassi (79%) Danimarca (75%). Al contrario i meno propensi sono Lettonia (solo 12,5% sì), Polonia (12,9%) e Ungheria (14%). La Germania, primo paese per numero di domande, ha riconosciuto l’asilo al 43,2% dei casi, mentre l’Italia è leggermente sotto la media europea con un 41,5%. Nel 2015 le Commissioni territoriali hanno esaminato oltre 71 mila istanze: 3.555 sono state riconosciute valide per lo status di rifugiato, 10.225 per la protezione sussidiaria, 15.768 per permessi di soggiorno per motivi umanitari. Nella classifica delle prime dieci nazionalità dei richiedenti asilo ha più possibilità chi fugge da Afghanistan (95,2%), Ucraina (65,5%), Pakistan (44,3%), Costa d’avorio (41,7%). Più rifiuti ai cittadini di Bangladesh (72,7% di no), Senegal (66,4%), Ghana (65,8%), Nigeria (65,6%). Stati Uniti. Muro e nuovo odio anti-ispanico, Trump non ha davvero inventato nulla di Guido Caldiron Il Manifesto, 17 novembre 2016 Proprio in Arizona, nella contea di Maricopa, lo sceriffo repubblicano Joe Arpaio, sconfitto solo l’8 di novembre dopo 24 anni di mandato, ha dato a lungo un’idea di come la destra intendesse trattare la sorte dei migranti arrestati, detenuti in gabbia e tende montate in mezzo al deserto. Forse il muro con il Messico diventerà una "semplice" barriera e i 15 milioni di irregolari da "rispedire" a casa si ridurranno a qualche milione, eppure su questo punto Donald Trump sembra determinato a tenere fede alle proprie promesse. Se agli operai della Rust Belt che hanno votato per il miliardario non verrà nulla di buono dall’arrivo di qualche pezzo grosso di Wall Street alla guida del Dipartimento del Tesoro, si può essere certi che almeno la minaccia dei messicani "criminali, trafficanti e stupratori", come li aveva definiti Trump, troverà un’adeguata risposta. Eppure, malgrado siano stati proprio questi propositi razzisti ad indicare fin dall’inizio la "cifra" della corsa del miliardario, sarebbe ingeneroso nonché antistorico attribuire a lui la genesi di tutto ciò. Piuttosto, come accaduto per altri temi evocati nel corso della sua campagna elettorale, The Donald non ha fatto altro che dare voce, in modo questo si brutale e violento, ad una tendenza già emersa in seno alla società americana e che la politica, in modo sostanzialmente bipartisan, ha contribuito in maniera determinante ad alimentare. L’allarme sociale per i crescenti flussi migratori provenienti dall’America centrale e meridionale, e il conseguente sviluppo di retoriche emergenziali caratterizza il dibattito pubblico statunitense perlomeno dagli anni Novanta. La costruzione di un primo sistema di barriere, una sorta di vero e proprio muro, lungo gli oltre 3.000 chilometri di confine tra Messico e Stati Uniti risale infatti al 1994, durante la presidenza di Bill Clinton, quando si arrivò a delimitare poco meno di un terzo della frontiera. Nel 2006, su iniziativa dei repubblicani californiani e con l’appoggio dell’amministrazione di George W. Bush, si deciderà di incrementarne un tratto con reti metalliche e distese di filo spinato, i lavori di completamento sono proseguiti fino al 2010, due anni dopo che Barack Obama era stato eletto. Del resto, sia lui che Hillary Clinton, insieme ad altri 25 senatori democratici, avevano votato in favore della norma che prevedeva qui lavori. Durante la presidenza Obama, che ha proseguito nell’opera di espulsione degli "irregolari" inaugurata da Bush, oltre 2 milioni e mezzo tra il 2008 e lo scorso anno, la militarizzazione del confine, dove ogni anno trovano la morte migliaia di persone, è inoltre proseguita senza sosta fino a fare di questi luoghi i più controllati del mondo con telecamere, sensori elettronici e perfino droni e tecnologia militare di ritorno dai fronti di Afghanistan e Iraq, messi a disposizione delle pattuglie della Border Patrol. Se i democratici hanno in gran numero sposato questa linea solo in apparenza esclusivamente "pragmatica" della questione, i repubblicani ne hanno fatto dal canto loro un tema identitario centrale nel processo di radicalizzazione che ha scosso il partito nell’ultimo decennio, anche grazie alla nascita dei Tea Party, e che ha ridestato i peggiori fantasmi del nativismo. Già nel 2004 Samuel Huntington, lo studioso conservatore teorico dello "scontro di civiltà" tra Islam e Occidente, pubblicò un libro, Who Are We?, Chi siano noi?, in cui interrogandosi sul destino dell’identità americana metteva in guarda sul fatto che la massiccia immigrazione ispanica avrebbe stravolto per sempre il volto del paese. In molti Stati del sud-ovest proprio questo tipo di preoccupazioni sarebbero diventate centrali per gli esponenti più oltranzisti del Gop come per i gruppi radicali. Epicentro di questa tendenza è stata a lungo l’Arizona la cui governatrice Jan Brewer firmerà nel 2010 una legge, nota come Arizona SB 1070, poi impugnata dalla Corte Suprema che nei fatti concedeva alla forze dell’ordine "libertà di abuso" verso i sospetti "clandestini". Una norma cui si sono poi ispirati, con analoghe proposte, i politici repubblicani di Pennsylvania, Rhode Island, Michigan, Minnesota, South Carolina, Indiana, Georgia e Alabama. Proprio in Arizona, nella contea di Maricopa, lo sceriffo repubblicano Joe Arpaio, sconfitto solo l’8 di novembre dopo 24 anni di mandato, ha dato a lungo un’idea di come la destra intendesse trattare la sorte dei migranti arrestati, detenuti in gabbia e tende montate in mezzo al deserto. Mentre nelle stesse zone agiscono da tempo i gruppi paramilitari dei Minuteman, grandi sostenitori di Trump, un mix tra milizie patriottiche e suprematisti bianchi che pattugliano armati la frontiera. In questo clima, con qualche eccezione, il Partito repubblicano ha boicottato il pur timido piano proposto da Barack Obama per bloccare almeno l’espulsione dei genitori di figli nati negli Stati Uniti. Lo speaker della Camera, Paul Ryan, spesso definito un "moderato" e contrapposto a Trump, il giorno della bocciatura ha parlato di una grande vittoria contro "gli abusi costituzionali di Obama". Albania. La serra europea della droga: scoperte 753mila piante di marijuana di Andrea Galli Corriere della Sera, 17 novembre 2016 Le 42 missioni oltreconfine dei finanzieri italiani, svolte da gennaio di quest’anno, hanno fatto scoprire 753 mila piante di marijuana in un territorio di 213mila ettari. Nell’agosto del 2004, i trafficanti padroni del villaggio di Lazarat videro arrivare un elicottero della polizia italiana pronto a sorvolare, a quattrocento metri, le piantagioni. Appena si avvicinò lo colpirono col kalashnikov. A bordo c’erano due vicequestori, un maresciallo della guardia di finanza e un ufficiale dell’antidroga albanese. Per miracolo nessuno venne ferito e fu bravo il pilota, nonostante la raffica avesse bucato il serbatoio principale, la plancia e il motore posteriore, a tornare in aeroporto. Da allora sono cambiate altezze, geografia, mezzi, uomini e tattica dell’offensiva, tecniche d’ingaggio, "livello" dei trafficanti. Non la sostanza: l’Albania è la serra europea della marijuana. L’accordo Italia-Albania - L’aereo della guardia di finanza, un "vecchio" e affidabile modello Piaggio della linea P166DP1, quota di crociera mille metri che grazie a un accordo con il Governo di Tirana sorvola ogni anno il venti per cento del territorio (escluse città e montagne, ed esclusi i fiumi significa circa la metà del suolo nazionale), da gennaio ha "censito" 213mila ettari ricoperti da piantagioni. L’aereo, che si muove in prevalenza da giugno a settembre, il periodo della maturazione degli arbusti, non passa più per Lazarat, due anni fa liberato dopo venti giorni di assedio e guerra vera. Anche perché la metastasi ha ormai invaso l’intera nazione. Da gennaio in 42 missioni sono state scoperte 753mila piante di marijuana. Ovunque. Tenendo come produzione media di una pianta due chili e mezzo di droga (può essere anche il doppio), e calcolato che con lo smercio in Puglia c’è un guadagno di 1.300 euro al chilo, questo significa che immesse sul mercato quelle piante, poi distrutte dalla polizia di Tirana, avrebbero portato ricavi abbondantemente superiori ai 2 miliardi di euro. Quasi un quarto del Pil dell’Albania. Non si tratta di colpevolizzare un intero popolo. Seppure con una cronica e lacerante contrapposizione che "gioca" parecchio proprio sul tema della droga ma a volte provoca tensioni, i politici albanesi si muovono, ci provano. Ugualmente non si può dimenticare il grande sforzo della guardia di finanza (in raccordo con lo Scip, il Servizio per la cooperazione internazionale di polizia) e in particolare del gruppo-missione in Albania guidato dal colonnello Joselito Minuto: anzi, soltanto negli ultimi tre anni il Piaggio P166DP1 ha "coperto" 600mila ettari di territorio e s’è di continuo "rimodulato" per non perdere il passo dei trafficanti. Che hanno scelto di partire dalle isole greche così da essere "già" dentro l’Unione europea, hanno una poderosa rete di protezione specie in Puglia, sono un’evoluzione degli scafisti dell’esodo degli anni Novanta diventati oggi ancor più tecnologici, sfrontati, avventurieri perfino nell’Adriatico in tempesta. I guadagni del resto valgono il rischio. La domanda di marijuana è incessante e incalzante: i clan non se la fanno ripetere. Eppoi sulle imbarcazioni, mischiate ai carichi, vengono trasportate cocaina e armi, qualcuno dice anche i mujaheddin in andata o ritorno per la "guerra santa" in Medioriente. L’aereo della Guardia di Finanza - L’aereo è munito di sensori che "tracciano" il suolo. I dati acquisiti vengono elaborati nella facoltà di Architettura della II Università degli studi di Napoli. In laboratorio i tecnici dell’ateneo e l’esperto personale della finanza "leggono" i risultati dei sensori. La successiva mossa è legata alla tempistica, entro 48 ore al massimo le piante vanno distrutte per poter aggredire i criminali che gestiscono i campi. Il Piaggio, come detto, viaggia a mille metri, dunque a una "distanza" di sicurezza. Ma ci sono casi di corruzione nell’apparato albanese, ancorché in diminuzione. I salari dei poliziotti sono bassi, una manciata di centinaia di euro, e il senso d’onore per la divisa, un animo integerrimo e il rispetto per se stessi non evitano che ci siano agenti comprati dai trafficanti. Trafficanti potenti, mafiosi, ricchi, con agganci pesanti. Il problema della marijuana - Dice un investigatore che il problema della marijuana non ha avuto un’improvvisa crescita: c’è sempre stato. Semmai è migliorata l’intensità della presa di coscienza. E la consapevolezza che arrestare i contadini che seguono le piantagioni oppure gli autisti che col furgone portano la droga ai gommoni, non basta. Bisogna risalire ai vertici delle organizzazioni. I boss fanno la spola tra Albania e Italia; tornano là e si nascondono quando sentono una brutta aria e temono l’arresto. Per quale ragione? Succede che non si concretizzi un ordine di cattura lanciato dall’Italia (ci sono "talpe" da noi?), che in Albania si lascino incredibilmente sfuggire i latitanti e che questi medesimi latitanti scompaiano. Protetti dai clan. Dall’omertà. Dal terrore. Dalle minacce sulla povera gente costretta a prenderseli in casa e tacere. Pena l’uccisione d’un parente. Gira una stima: con 400mila euro un ricercato riesce a sistemare la pratica e campare sereno. In eterna libertà. Forse non c’è una soluzione, non ci sarà mai. Forse sì ed è (anche e in parte) qua. Il prezzo d’un chilo di marijuana in Puglia è di 1.300 euro; se portato e venduto nel danaroso, "affamato" Nord Italia quel chilo subisce un forte rialzo e raggiunge i 1.800 euro. Cuba. Indulto a 787 detenuti e manovre militari di Roberto Livi Il Manifesto, 17 novembre 2016 Un indulto per 787 detenuti e l’inizio di cinque giorni di manovre militari in tutta l’isola "per preparare le truppe e la popolazione a nuovi attacchi del nemico". Il quotidiano del partito comunista di Cuba, Granma, lunedì ha di nuovo accoppiato due notizie che sembrano dirette a Donald Trump. Da un lato, il presidente Raúl Castro ripete - dopo le congratulazioni - un segnale di disponibilità di dialogo col prossimo presidente Usa, anche sul delicato tema dei diritti umani. Dall’altro, il vertice politico cubano fa sapere che è disposto a ritornare alle barricate ideologiche se il magnate-presidente farà marcia indietro sul processo di normalizzazione iniziato da Obama. Anche le manovre sono politica. Il messaggio subliminale di Granma è chiaro: se finirà il processo di distensione e ricomincerà la linea dello scontro, Trump sarà l’unico colpevole. A una settimana dal colpo di scena delle presidenziali nordamericane nei più importanti mass media si dibatte su quali saranno le misure di Trump verso Cuba. Non solo perché la fine della guerra fredda con l’Avana è tra i pochi "lasciti politici" concreti di Barack Obama. Ma anche perché si capirà l’atteggiamento di Trump verso l’intera l’America latina. Analista e storico ben collegato con i vertici del governo cubano, Jesus Arboleya sostiene che "l’elezione di Donald Trump non sarà né una tragedia, né un disastro per Cuba". Innanzitutto, afferma, "Cuba non sarà una priorità" del magnate una volta insediatosi alla Casa bianca. Ben altre saranno le sue preoccupazioni, da un paese che esce diviso e conflittuale dal processo elettorale, ai rapporti con l’Europa e il Medio Oriente. Con l’Avana - sostiene l’accademico cubano, Trump potrà agire sul terreno che preferisce, quello del business, scegliendo la via delle trattative, anche dure, come nel caso dei diritti umani, rispetto a quella della rottura. Altri analisti, nell’isola e in America latina, pensano e comunque si augurano che il magnate non dia seguito alle promesse fatte in campagna elettorale ai falchi della Florida e, come ironizzavano gli anticastristi, non "rivolti la frittata di Obama" ritornando ai tempi del mano dura con Castro. Con Trump "ci potrà essere una marcia indietro rispetto a Cuba" fino ad arrivare a "un inasprimento dell’embargo e delle sanzioni contro l’isola", controbatte Jorge Duany, direttore del "Cuban researche institute" dell’Università della Florida. Duany si riferisce all’impegno del magnate in campagna elettorale a Miami: "Appoggeremo il popolo cubano nella sua lotta contro l’oppressione comunista". Un messaggio che non è servito a conquistare la potente comunità dei cubano-americani (i quali hanno votato, seppur con stretta maggioranza, a favore di Hillary Clinton), ma che ha procurato i voti della "pancia" della Florida. Una prima conseguenza sono le voci che circolano a Miami che Trump potrebbe mettere fine ai privilegi che i cittadini cubani godono una volta giunti negli Usa: ovvero la carta verde automatica dopo un anno. Vi è un punto, però, sul quale sembra esservi un accordo tra le due linee di pensiero. Che la palla ora è decisamente nel campo nordamericano e dunque che la prima mossa tocca a Trump. Con il partito Repubblicano che controlla le due camere del Congresso, il nuovo presidente godrà di una vasta autonomia per decidere e mettere in pratica la propria linea. Anche il presidente cubano non dovrà affrontare resistenze all’interno del partito-stato. Per il giornalista uruguagio Fernando Ravsberg, autore di uno dei blog indipendenti più seguiti a Cuba, "paradossalmente Trump potrebbe anche aver contribuito all’unità dei rivoluzionari cubani che avevano punti di vista differenti su come affrontare la politica (distensiva) di Obama". In sostanza, il vertice del partito comunista sarebbe compattato sulla linea sempre sostenuta da Fidel, ovvero che degli Usa bisogna diffidare. Per questo Raúl Castro ha dato indicazione al partito e al governo - e alle Forze armate - di mantenersi in guardia in attesa che un messaggero di Trump arrivi con discrezione all’Avana per chiarire le vere intenzioni del presidente statunitense. Argentina. Prete anti-narcos "suicidato", ma nessuno ci crede di Nello Scavo e Lucia Capuzzi Avvenire, 17 novembre 2016 L’hanno trovato impiccato in Chiesa ma nessuno crede a questa versione. Sullo sfondo gli affari sporchi di due ex dirigenti dell’intelligence. Questa sembra la cronaca di una morte annunciata e "comoda" per alcuni. Almeno tanto si potrebbe dedurre da menzogne, smentite, voci di corridoio diffuse "ad arte" e spesso rilanciate dalla stampa, allo scopo di calmare le acque e assicurare che no, padre Juan non lo hanno ammazzato i trafficanti, gli sfruttatori, i latifondisti, i narcos che lui denunciava senza sosta. Al contrario, si è tolto di mezzo da solo. Roba di donne e di una vocazione in crisi. La verità, però, è ben più complessa. "È difficile vivere così". "Non ce l’hanno solo con me, minacciano i miei familiari". "Mi inviano via Facebook messaggi privati. Compare la foto di mio nipotino e sotto la scritta: "Già sai se non stai zitto". "È cominciato dopo la questione della denuncia alla Commissione per i diritti umani contro alcuni tipi "tosti". Gente della "comuna", di Delfín Gallo, della polizia". Il tono è fermo ma addolorato. Juan Viroche parla per oltre tre minuti. E conclude così: "Magari sono io che la faccio troppo grossa. Vedremo...". Poi invia a un amico l’audio registrato su Whatsapp. Qualche giorno dopo, il corpo dell’autore del messaggio viene trovato impiccato al soffitto della chiesa di Nostra Signora del Valle di La Florida, di cui era parroco. È trascorso oltre un mese da quel tragico 5 ottobre e la morte di padre Juan, nel Nord dell’Argentina, resta un mistero. Come quella di molti altri sacerdoti in America Latina, da anni il Continente più pericoloso per gli operatori pastorali. Ben 121 hanno perso la vita tra il 2005 e il 2015. Quest’anno sono già 18, tra cui undici sacerdoti. Molto spesso, i delitti vengono liquidati da autorità corrotte e media compiacenti come il risultato delle "vite disordinate" delle vittime. In genere, spuntano presunte amanti o tormentati triangoli. Una tecnica simile - seppure con i dovuti distinguo data la differenza di contesto - a quella impiegata durante le "guerre sporche" che insanguinarono l’America Latina negli anni Settanta, Ottanta, Novanta. Anche allora tanti fra i cristiani maggiormente impegnati per i diritti umani scomparivano in misteriosi incidenti stradali, tentativi di rapina o improbabili crimini passionali. Ai tempi, però, il movente era politico. Ora è il crimine organizzato la principale minaccia. A Tucumán dopo un’autopsia eseguita in tutta fretta - meno di un’ora -, a porte chiuse e non registrata, la Procura è intenzionata a chiudere il caso di padre Viroche come "suicidio". Familiari, collaboratori, fedeli, però, non demordono: "Il nostro sacerdote è stato ammazzato dalle mafie contro cui si batteva", affermano. Il 2 giugno, padre Juan aveva accompagnato un gruppo di parrocchiani di fronte alla Commissione per i diritti umani. E là aveva descritto La Florida come un villaggio semifeudale, dominato da una ristretta élite di padri-padroni. I quali impongono agli abitanti tasse arbitrarie o turni di lavoro gratuito nelle proprie case e aziende. Oltre a gestire il commercio di droga e un giro di baby prostitute. Il "paco", lo scarto del processo di produzione della cocaina che brucia il cervello in pochi mesi, viene venduto alla luce del giorno a bimbi e adolescenti. Per lo più poveri, dato che una dose costa l’equivalente di 1,5 euro. Spiccioli per i narcos: serve più che altro per assicurarsi un esercito di fedelissimi. I soldi veri li fanno con la polvere bianca, esportata negli Usa o in Europa. "Lo spaccio è diventato cronico negli ultimi tre anni. Segno che ormai Tucumán e l’Argentina non sono più solo un trampolino nel viaggio della droga dal Sud al Nord del Continente ma centro di produzione e snodo strategico", racconta ad Avvenire padre Daniel Clerici, impegnato, come padre Juan, nel recupero dei tossicodipendenti e nella prevenzione. L’emergenza per padre Clerici come per padre Vircoche ha il volto spettrale dei ragazzini vittime del paco. È stato questo dolore a spingere padre Juan, dopo l’incontro del 2 giugno, a chiamare in causa la "coppia d’oro" di La Florida: l’attuale amministratrice della circoscrizione, Inés Gramajo, e il marito, nonché predecessore, Arturo Soria. "L’ha fatto per noi e non noi non lo abbandoniamo", ripete la gente di La Florida: ogni venerdì, in centinaia manifestano a San Miguel de Tucumán - distante una ventina di chilometri dal villaggio - per chiedere giustizia. Li appoggiano attivisti per i diritti umani dall’intera Argentina - tra cui il prete anti-narcos José "Pepe" Di Paola e Gustavo Vera, fondatore dell’associazione anti-tratta La Alameda, intellettuali, giuristi. Tutti sottolineano i dettagli sospetti. Le ecchimosi sul cadavere del prete, il tavolo rovesciato a un’entrata della parrocchia e il grande Cristo in pezzi. Il dossier è incompleto: mancano i filmati di rigore della scena del decesso, gli inquirenti dicono di aver dimenticato di farli. A spuntare, senza alcuna prova o conferma, sono indiscrezioni di numerose "fidanzate" del sacerdote, di cui gli amici più cari ignoravano l’esistenza, tempestivamente rilanciate dai media. La stessa scelta del luogo del "suicidio" è, inoltre, inquietante: in chiesa, di fronte all’altare. Come pure l’abbigliamento della vittima. Al momento della morte, padre Viroche indossava una maglietta con il volto di Che Guevara. "E fin qui niente di strano. Juan ammirava il Che per la sua lotta per la giustizia", dice padre Daniel. Chi lo conosce, però, sa che quella t-shirt non era sua. "Non l’aveva mai messa prima", aggiunge. E poi c’è la scritta sulla parte posteriore della maglietta bianca. Dice: "Sappiano i nati e chi deve nascere che siamo nati per vincere e non per essere vinti". La firma di menti raffinate, "che in questa circostanza sembra un messaggio in codice mafioso", sottolinea padre Clerici. Poi c’è la questione delle minacce. Secondo fonti di Avvenire vicine alle indagini, dallo scorso dicembre, per quattro volte, la casa di Viroche era stata "visitata" da bizzarri ladri che avevano frugato dappertutto senza portar via nulla. Tranne la corona della Vergine Maria. Il sacerdote aveva parlato delle intimidazioni con gli amici e con lo stesso vescovo, monsignor Alfredo Zecca. Quest’ultimo aveva deciso di mandarlo in un’altra parrocchia, al fine di proteggerlo. Non ha, però, fatto in tempo. Padre Viroche avrebbe deciso di "suicidarsi" poco prima del trasferimento. "È assurdo. Non l’avrebbe mai fatto. Era un lottatore. Un cristiano. E amava la vita", racconta ad Avvenire la sorella Myriam. Le brutte sorprese non si fermano qui. Per eseguire un delitto del genere e poter contare su una certa inerzia degli inquirenti, occorrono ottime entrature nei palazzi che contano. A Tucumán non mancano i possibili candidati. Alcuni degli investigatori sono legati a uno degli uomini più misteriosi della storia argentina. Si chiama Antonio Jaime Stiuso, e per anni è stato il capo del controspionaggio. Costretto a lasciare l’intelligence dopo una serie di losche vicende, Stiuso si è messo in affari con il suo ex vice, Raúl Martins. Ragione sociale: sfruttamento del lavoro schiavo, prostituzione, locali a luci rosse, droga. Tutto nella più completa impunità. Secondo alcune denunce depositate a Buenos Aires, Stiuso è l’uomo che a partire dagli anni 90 avrebbe spiato, nell’interesse dell’allora presidente Kirchner, i notabili argentini e alcuni vescovi, compreso Jorge Mario Bergoglio. Stiuso approfittava del suo incarico usando le intercettazioni illecite per ricattare quanti avevano scoperto che lui in realtà era immischiato in una serie di traffici sporchi. La rete di night club dell’accoppiata Martins-Stiuso si estende dal Messico all’Argentina. E nessuno si sarebbe mai lamentato se la figlia di Martins, quando scoprì gli affari del padre, non avesse deciso di denunciare il genitore per tratta di esseri umani. Questi, per tutta risposta, ordinò che la figlia venisse eliminata. Ma non fece i conti con il misterioso "protettore" della ragazza, un uomo che la rassicurò e la nascose fino a quando la denuncia non fu depositata e la sua vita messa al sicuro. Si trattava dell’allora vescovo Jorge Mario Bergoglio. Stiuso e Martins non sono estranei agli affari illeciti di Tucumán. Le reti di sfruttamento denunciate da padre Juan Viroche rimandano proprio a loro. E mentre la polemica arroventa l’Argentina, nella strade di La Florida, il supermarket del paco resta aperto 24 ore su 24. Indonesia. Il governatore cristiano alla sbarra per blasfemia di Valerio Sofia Il Dubbio, 17 novembre 2016 Cristiano e cinese, il governatore di Giacarta, in Indonesia, è formalmente indagato per blasfemia e non può lasciare il paese in attesa del processo. Basuki Tjahaja Purnama è accusato di blasfemia per aver insultato il Corano, accuse che nei giorni scorsi hanno scatenato dei disordini in città. Ben 100 mila persone hanno infatti manifestato il 4 novembre e nei giorni successivi chiedendo l’arresto del governatore, che viene accusato da gruppi islamisti di aver offeso il Corano durante la sua attuale campagna elettorale (lui nel 2014 è succeduto nella carica di governatore di Giacarta al presidente Joko Widodo). La marcia è terminata con scontri tra polizia e manifestanti. L’iniziale protesta pacifica è diventata più violenta col passare delle ore, e la polizia ha usato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti che si erano avvicinati al palazzo presidenziale. Sembra che il bilancio finale abbia contato almeno un morto e sette feriti. A settembre in un comizio il governatore ha contestato che fosse giusta l’interpretazione di alcuni teologi islamici di un versetto del Corano, che vieterebbe di votare per un non musulmano. Esiste un video che è diventato virale, ma lui ha sostenuto che sia stato manipolato. Si è comunque scusato insistendo di non aver voluto insultare né l’Islam né il Corano. "Ahok" Purnama è il primo non musulmano a guidare la città indonesiana, ed è ricandidato per la conferma del mandato nelle elezioni del prossimo febbraio. Popolarissimo, è in testa nei sondaggi e gode dell’appoggio del presidente indonesiano Widodo e del suo Partito Democratico dell’Indonesia per la Lotta. È apprezzato tra i musulmani moderati, e ai suoi comizi partecipano donne musulmane velate che gli esprimono esplicitamente appoggio. Ma Purnama ha anche un temperamento focoso e senza peli sulla lingua, che gli ha attirato molti nemici. Come spesso accade nelle accuse di blasfemia, le proteste degli islamisti sono alimentate dal partito Gerindra, in cui milita il principale avversario nella corsa a governatore della città. La polizia non ha ordinato l’arresto del governatore, ma gli ha vietato di lasciare il Paese ed ha inoltre raccomandato che il processo si svolga a porte aperte. Su questo è d’accordo anche l’imputato che ha detto che non si tirerà indietro né dal processo né dalla candidatura, e che anzi conta di vincere al primo turno come risposta esplicita ai suoi "strumentali" accusatori. L"Indonesia è il più popoloso Paese musulmano al mondo: l’88 per cento dei suoi 250 milioni di abitanti segue i precetti di Maometto; il resto della popolazione è cristiana, buddista o induisti. La Costituzione tutela la libertà di culto e le religioni riconosciute dalla Costituzione sono sei: oltre all’islam, il cattolicesimo, il protestantesimo, l’induismo, il buddhismo e il confucianesimo. L’arcipelago segue perlopiù un islam moderato, ma le minoranze più radicali godono di influenti appoggi nelle istituzioni. Negli ultimi anni si sono registrati numerosi episodi di intolleranza e anche di tensioni etniche. Il Paese è stato scosso più volte da violenze contro la minoranza cinese, che nonostante costituisca solo l’un per cento è molto ben rappresentata nella classe medio-alta. Nell’ultima tornata di violenze, nel 1998, molti negozi e proprietà cinesi furono saccheggiati e dati alle fiamme dai rivoltosi, che provocarono anche alcuni morti. Allo stesso tempo la blasfemia è un reato in Indonesia, e secondo Amnesty International dal 2004 al 2014 ci sono state 106 accuse di blasfemia, e alcune persone sono state imprigionate fino a cinque anni.